Abbiamo il piacere di pubblicare la traduzione del paper di approfondimento sulla crisi migratoria che Kelly Greenhill, insegnante di politica internazionale alla Tufts University (Massachussets), ha presentato questo novembre al Goofy5, la 5^ edizione del convegno "Euro, mercati, democrazia - C'è vita fuori dall'euro (!/?)" organizzato dall'associazione a/simmetrie in collaborazione col Dipartimento di economia dell'Università Gabriele D'Annunzio di Chieti-Pescara. Come la professoressa Greenhill dimostra attraverso un'analisi dettagliata e un'ampia raccolta di dati, gli attuali fenomeni migratori di massa, sia pure in origine provocati da guerre ed emergenze umanitarie, sono poi utilizzati senza scrupoli come strumenti di coercizione per difendere degli sporchi interessi.La professoressa Greenhill è l'autrice del libro "Weapons of Mass Migration: Forced Displacement, Coercion, and Foreign Policy", che questa primavera uscirà nell'edizione italiana per la LEG, Libreria Editrice Goriziana. Greenhill, K. M. (2016) Open Arms Behind Barred Doors: Fear, Hypocrisy and Policy Schizophrenia in the European Migration Crisis. European Law Journal, 22: 317–332. doi: 10.1111/eulj.12179
© 2016 John Wiley & Sons Ltd.
Traduzione di Margherita Russo
Abstract: Oltre un milione di profughi e migranti arrivati in Europa nel 2015 hanno messo in evidenza i limiti dei meccanismi di controllo delle frontiere comuni e di ripartizione degli oneri dell'UE. Questo articolo esamina le conseguenze delle reazioni scomposte, paranoiche e spesso ipocrite dell'Unione a quella che è ormai nota come la crisi migratoria europea. Si evidenzierà il modo in cui reazioni unilaterali a livello nazionale hanno reso l'UE nel suo complesso particolarmente vulnerabile ad una pratica ricattatoria unica nel suo genere, basata sulla minaccia (o effettiva causazione) di movimenti massicci di esseri umani come strumento di coercizione non militare verso gli stati. Dopo aver delineato i protagonisti, le motivazioni, e le circostanze di queste modalità di politica internazionale, si offrirà un esempio concreto di tale coercizione nell'analisi dell'accordo del marzo 2016 tra l'UE e la Turchia. L'articolo si conclude con una discussione delle conseguenze più vaste dell'accordo, e delle sue implicazioni per il futuro sia dei rifugiati che dell'UE.
I - Prefazione
Nel 2015 sono arrivati in Europa oltre un milione di profughi e migranti, quasi la metà dei quali in fuga dalla guerra civile in Siria e circa un terzo in cerca di asilo politico. Il problema dell'assunzione di responsabilità per i nuovi arrivati, e di come tale responsabilità dovesse essere condivisa, ha generato risposte politiche molto diverse, talvolta schizofreniche, tra gli stati membri dell'Unione europea (UE), evidenziando la prevalenza dell'interesse nazionale sui princìpi di solidarietà europea. Da queste divergenti risposte nazionali è scaturito un dibattito politico sugli obblighi legali e normativi nei confronti dei rifugiati all'interno di ogni singolo stato e della comunità degli stati membri. In diverse capitali questi dibattiti hanno acuito divisioni interne (spesso pre-esistenti) in modi che hanno finito con l'avvantaggiare notevolmente partiti politici della destra nazionalista.
L'assenza di solidarietà nell'UE, e la mancata risposta collettiva alle sfide umanitarie e politiche che si sono imposte con l'ondata di arrivi, hanno ulteriormente messo a nudo i limiti dei meccanismi di controllo delle frontiere comuni e di ripartizione dei migranti e dei relativi oneri nella UE, meccanismi che non sono mai stati applicati in modo completo e soddisfacente. Alcuni membri della zona Schengen hanno unilateralmente reintrodotto controlli frontalieri interni già per la fine dell'anno, appellandosi all'articolo 26 sulle circostanze eccezionali del codice delle frontiere. Altri stati, come l'Ungheria, hanno eretto barriere fisiche all'ingresso lungo le frontiere con stati extra-Schengen.All'inizio di gennaio del 2016, anche a seguito di queste acute minacce e tensioni all'impresa comune europea, il Presidente del Consiglio europeo Donald Tusk ha dichiarato che l'UE aveva al massimo 2 mesi per salvare l'area di libera circolazione Schengen, e forse la stessa Unione. L'incapacità di pervenire ad una soluzione, avvertiva Tusk, avrebbe condotto al fallimento dell'UE come progetto politico. Se le infauste previsioni di Tusk dovessero realizzarsi, non sarebbe la prima volta che migrazioni di massa avrebbero catalizzato una radicale riconfigurazione del panorama politico internazionale. Nell'estate del 1989, ad esempio, il massiccio esodo di tedeschi dell'est in Austria attraverso la Cecoslovacchia e l'Ungheria spinse la Repubblica Democratica Tedesca ad aprire le frontiere occidentali, determinando la caduta del muro di Berlino e la successiva riunificazione delle due Germanie. Certo, l'esodo da est ad ovest non avveniva in una situazione di vuoto politico, tuttavia si può affermare che fu la migrazione di massa, e non un'invasione militare, a distruggere la Germania Est, a dare il colpo di grazia per il Patto di Varsavia prefigurando la fine della Guerra Fredda e, in ultima analisi, il collasso dell'Unione Sovietica. Resta però aperta la questione se lo stesso destino potrebbe oggi abbattersi sull'UE. Sembra evidente che le reazioni alla recente ondata non regolamentata da parte di più recenti membri dell'UE, o da stati che hanno recentemente presentato la loro candidatura—ovvero arresti ed espulsioni di massa, chiusura unilaterale delle frontiere e richieste di interventi stranieri—esemplifichino ancora una volta la capacità delle migrazioni irregolari di suscitare sentimenti di insicurezza e paura nelle persone ed i governi. Il Primo Ministro britannico David Cameron, con un vocabolario evocatore degli insetti, ha messo in guardia contro gli 'sciami' di ‘immigrati clandestini’ che starebbero invadendo l'Europa, mentre il Primo Ministro ungherese Viktor Orbán ha dichiarato che, ‘a livello europeo, il numero di futuri immigrati potenziali sembra non avere fine, [e per di più gran parte dei nuovi arrivi] non sono cristiani, bensì musulmani’. Orbán ha anche aggiunto che l'ondata di rifugiati in Europa ‘ricorda un esercito’. Da parte sua, Jaroslaw Kaczynski, rappresentante del partito polacco Legge e Giustizia ed ex-primo ministro, ha sostenuto che i rifugiati islamici avrebbero diffuso germi e malattie tra le popolazioni locali, mentre il leader dei Democratici svedesi Jimmie Åkesson ha affermato che ‘l'islam è il nazismo e comunismo dei nostri giorni’.A fronte degli avvenimenti del 1989, questi esempi non troppo originali di retorica infiammatoria, uniti al forte monito di Tusk sui possibili rischi per l'esistenza della UE come entità politica, mettono in evidenza in maniera drammatica la verità, scomoda e quindi spesso ignorata, che gli attacchi militari non sono affatto l'unica maniera per compromettere accordi politici ed assetti di governance già precari (o per pilotare il pubblico verso sentimenti di paura, di insicurezza e di isolamento). I timori riguardo l'immigrazione irregolare possono anche avere lo stesso effetto, con preoccupanti rischi, oltre che per le stesse classi politiche, anche per le norme, i valori e principi umanitari che (almeno apparentemente) sono tenute a difendere.
Per un certo verso potrebbe apparire strano che il sentimento di vivere sotto assedio ed a rischio per via degli attuali flussi dal Medio Oriente ed oltre sia così diffuso all'interno dell'UE. Una tale reazione può sembrare obiettivamente esagerata, se si considerano solo i numeri assoluti. Per quanto sensibilmente più numerosi rispetto ai 280,000 arrivati l'anno precedente, il milione di persone che hanno raggiunto l'Europa nel 2015 non costituiscono che una minima parte degli oltre 60 milioni di rifugiati a livello mondiale. Rispetto alla popolazione dell'UE di circa 509 milioni, l'entità degli ingressi è ancora meno significativa. Tuttavia, la condivisione del carico di oneri finanziari, sociali e politici dei recenti arrivi nell'UE è stata tutt'altro che equa. (Attualmente la Germania ha, ad esempio, assorbito il maggior numero di rifugiati in termini assoluti, mentre la Svezia ne ha accolto la più alta percentuale pro capite. In contrasto, altri stati membri non hanno accettato alcun rifugiato). Dal canto loro, gli stati in prima linea lungo la frontiera meridionale dell'UE, come l'Italia e la Grecia, hanno anche dovuto sostenere oneri notevoli. Questi stati costituiscono la porta di ingresso (ed in base alle regole di Dublino, le aree di detenzione e di controllo) per la maggior parte dei nuovi arrivi. Bruxelles è stata decisamente lenta sia nel fornire l'assistenza di cui gli stati in prima linea hanno disperatamente bisogno, che nel facilitare il promesso reinsediamento dei migranti e dei rifugiati in altre parti dell'UE, creando di fatto delle strettoie e trasformando tali stati, privi di mezzi idonei, in vasti campi di detenzione, definiti da alcuni ministri greci come ‘cimiteri di anime.’ Negli stati di primo approdo, l'incertezza riguardo l'eventualità e la tempistica di un'adeguata assistenza da parte dell'EU e le conseguenze di possibili ulteriori ondate, hanno suscitato considerevoli paure e preoccupazioni relative all'immigrazione. Proprio questi sono i timori che hanno spinto alcuni fra gli stati in prima linea ad ignorare le disposizioni del trattato di Dublino, consentendo a migranti e profughi di transitare sul loro territorio senza essere identificati (e senza restrizioni) verso i paesi del nord, in tal modo incoraggiando, ed in pratica accelerando, una modalità alternativa ed informale di condivisione degli oneri all'interno dell'UE. La cosa ha a sua volta suscitato timori anche negli stati non di prima linea.D'altronde, un'analisi basata esclusivamente sui numeri cela il fatto che ciò che tende a far scattare l'allarme—che sia di sicurezza, economico, sociale o culturale—appartiene tanto all'ambito delle percezioni quanto a quello della realtà oggettiva, e che tali percezioni possono essere, e spesso sono, strumentalizzate da soggetti intraprendenti disposti a far leva su tali sentimenti. In effetti, come ho già spiegato nel mio libro del 2010, Weapons of Mass Migration: Forced Displacement, Coercion and Foreign Policy, l'utilizzo dei rifugiati come strumento di politica estera è una pratica abbastanza comune delle relazioni internazionali. Si tratta di una forma di coercizione non convenzionale, ma promossa già più di 70 volte soltanto a partire dall'introduzione della Convenzione sui rifugiati del 1951, ossia mediamente più di una volta all'anno, ed adottata durante questo periodo da decine di attori distinti contro almeno altrettanti bersagli diversi e, di conseguenza, contro altrettanti gruppi vittime—gli stessi profughi. Questo strumento è stato usato sia in guerra che in pace, da attori sia statali che non statali, al servizio degli obiettivi più disparati, che vanno dal semplice sostegno finanziario fino ad una vera e propria invasione militare e ad un cambiamento di regime. Peraltro, in circa tre quarti dei casi identificati gli estorsori sono riusciti a raggiungere i loro obiettivi, quanto meno in parte; circa il 57% delle volte hanno pienamente realizzato i loro scopi dichiarati. Ma come è possibile, e perché, che l'utilizzo di esseri umani come strumento di politica estera funzioni così bene, e come si situano gli attuali avvenimenti in Europa all'interno del quadro storico?
Le pagine seguenti offrono uno schema della teoria delineata in Weapons of Mass Migration, e un ritratto degli attori che utilizzano questo tipo di coercizioni e delle loro motivazioni. Un esempio pratico di questo genere di coercizione è dato dall'analisi dell'accordo del marzo 2016 tra l'UE e la Turchia, e di cosa ha spinto l'UE ad arrendersi davanti ai numerosi ricatti politici ed economici della Turchia. Per concludere, si analizzeranno le conseguenze più vaste dell'accordo e le sue implicazioni per il futuro sia dei rifugiati che dell'UE.
II La migrazione come strumento di coercizione: attori, motivi, finalità.
La definizione comune di coercizione è la pratica di causare, o di prevenire, cambiamenti di condotta politica mediante il ricorso a minacce, intimidazioni o altre modalità di pressione—più spesso con interventi militari. Per estensione, con migrazione coercitiva programmata (MCP) si intendono quei movimenti di persone transfrontalieri deliberatamente innescati o manipolati da entità statali o non statali, allo scopo di ottenere vantaggi politici, militari e/o economici da uno o più stati destinatari.
La migrazione coercitiva programmata è utilizzata da tre diverse categorie di attori: i promotori, gli agenti provocatori e gli opportunisti. I promotori (come l'ex-leader libico Muammar Gheddafi ed l'attuale presidente siriano Bashar al-Asaad) provocano direttamente, o minacciano di provocare, movimenti transfrontalieri di persone per spingere gli stati destinatari a cedere alla loro richieste. Gli agenti provocatori, per contro, non fanno provocano direttamente tali crisi, ma piuttosto agiscono deliberatamente in maniera tale da istigare altri attori a generare flussi migratori (un tipico esempio è quelli dell'Esercito di Liberazione del Kossovo nell'istigare gli attacchi di contingenti militari serbi contro civili di etnia albanese in Kossovo alla fine degli anni '90). Gli opportunisti (come la Turchia nel 2015 e 2016) non hanno un ruolo diretto nella creazione di crisi migratorie, ma semplicemente sfruttano a loro vantaggio le ondate migratorie pre-esistenti causate o alimentate da altri. Una delle tattiche degli opportunisti è la minaccia di chiudere le frontiere, creando così emergenze umanitarie, in assenza di misure desiderate o compensazioni. Oppure l'offerta di alleviare crisi esistenti in cambio ricompense politiche e/o finanziarie. Il 60% circa dei casi di MCP finora individuati servono obiettivi politici, il 30% obiettivi militari ed il 50% obiettivi economici (il totale supera il 100% perché spesso i ricattatori sono mossi da scopi multipli ed avanzano richieste composite).La MCP rappresenta sul piano operativo ciò che è conosciuto nelle relazioni internazionali come strategia di ‘punizione coercitiva’. I ricattatori mirano a provocare conflitti interni e/o malcontento fra l’opinione pubblica all'interno degli stati presi di mira, allo scopo di convincerne le leadership a cedere alle loro richieste, piuttosto che rischiare i probabili costi politici (interni e/o internazionali) nel caso in cui resistano. Si può influire sulla MCP in due maniere distinte e non esaustive, definibili in senso lato come ‘invasione’ ed 'agitazione’. In estrema sintesi, l'invasione è incentrata sul manipolare la capacità degli stati di accoglienza di accettare/accomodare/assimilare un determinato gruppo di migranti o profughi, mentre l'agitazione consiste nell'influenzare la loro propensione a farlo. Che si tratti di invasione o di agitazione, la coercizione è a tutti gli effetti un gioco di contrattazione dinamico e composito, in cui le risposte sul piano internazionale alle minacce o alle iniziative intraprese dai ricattatori tendono ad essere trainate da contemporanee (o successive) misure prese all'interno degli stati.
Nei paesi in via di sviluppo gli sforzi coercitivi si concentrano principalmente sull'invasione, e consistono nel minacciare di mettere pesantemente alla prova o di travolgere la capacità di un paese di far fronte concretamente ed economicamente ad un'ondata—in tal modo di fatto indebolendolo—a meno che non ceda alle richieste dei ricattatori. Non è difficile prevedere che, laddove esistono tensioni etniche molto elevate e la capacità di controllo del governo centrale è, nella migliore delle ipotesi, già compromessa, in condizioni di scarsità delle risorse essenziali e di instabilità del consenso e della legittimità politica, un afflusso massiccio costituisce una minaccia reale e persuasiva. Ad esempio, all'inizio del 2014, la Russia minacciò di espellere gran parte dei suoi lavoratori stranieri provenienti dall'Asia centrale se i governi di questi stati avessero appoggiato una risoluzione ONU che condannava l'annessione della Crimea (supporto che puntualmente non si verificò).
L'invasione può anche rivelarsi una strategia efficace nei paesi sviluppati, generalmente identificati con l'Occidente. Ciò vale in particolare se la crisi in atto è ampia ed improvvisa, perché persino i paesi molto industrializzati necessitano di tempi di organizzazione per gestire efficacemente ondate esistenti o minacciate, come mostrano gli avvenimenti del 2015 in Europa. Le società industriali avanzate, tuttavia, generalmente dispongono di maggiori risorse da mobilitare in caso di crisi, il che rende più difficile travolgere (o minacciare in modo credibile di farlo) le loro effettive capacità di fronteggiarla.
Nei paesi sviluppati, dunque, è spesso l'agitazione politica a fornire il perno del ricatto mediante migrazione, piuttosto che dall'invasione. I ricattatori internazionali cercano di influenzare i comportamenti dei paesi di destinazione sul piano interno avviando una forma perfettamente legale di ricatto politico, che punta allo sfruttamento ed inasprimento di ciò che Robert Putnam chiama l'‘eterogeneità’ degli interessi politici e sociali all'interno degli stati. Sfruttare questa eterogeneità è possibile, specialmente nelle democrazie liberali occidentali, perché ondate migratorie come quelle causate da crisi belliche tendono a generare risposte diverse ed estremamente controverse all'interno delle società destinate sostenerne il costo delle conseguenze. Come enunciato da Marc Rosenblum: ‘gli sforzi di piegare le politiche migratorie all'interesse nazionale sono in competizione con esigenze strategiche pluralistiche provenienti dai partiti, dagli enti locali, o specifiche per determinati settori o classi sociali’.Analogamente a ciò che già accade generalmente per tutte le questioni relative all'immigrazione, le crisi migratorie, effettive o minacciate, tendono a dividere le società in (come minimo) due gruppi reciprocamente incompatibili ed altamente polarizzati: gli schieramenti pro e contro. In un contesto di entità sopranazionali come l'UE, una tale eterogeneità può dividere gli stati (ed effettivamente li divide) fra quelli più (Germania) o meno (Ungheria) propensi ad accettare rifugiati ed immigrati. Non sorprende quindi che un sondaggio eseguito da Pew nella primavera 2015 rilevava opinioni contrastanti non solo all'interno degli stati membri ma anche attraverso l'intera UE:
‘I greci e gli italiani, i cui paesi confinano con il Mediterraneo e quindi sono in punto d'approdo naturale per i barconi che attraversano il mare, sono anche più propensi a ritenere gli immigrati un peso per la società, poiché questi si appropriano di posti di lavoro e prestazioni previdenziali. Viceversa, i cittadini britannici e tedeschi tendono a ritenere la presenza degli immigrati un vantaggio per il loro paese, grazie all'afflusso di nuovi talenti e forza lavoro. L'opinione pubblica in questi paesi dell'UE è meno preoccupata di un possibile aumento della criminalità dovuta all'immigrazione. Ma il 51% del greci pensano che gli immigrati siano responsabili dei crimini più di altri gruppi, così come il 48% dei tedeschi ed il 45% degli italiani.’‘Per quanto riguarda in particolare i profughi, quattro cittadini dell'UE su dieci ritengono che le politiche del proprio paese dovrebbero essere più restrittive, ed ancora una volta, sulla base del sondaggio sulle tendenze transatlantiche 2014 del German Marshall Fund, questo è un punto di vista particolarmente dominante in Italia (57%) e Grecia (56%). Greci ed italiani sono anche più suscettibili a preoccupazioni riguardo l'immigrazione da paesi extra-UE (84% e 76%, rispettivamente esprimono timori al riguardo).’
Anche cosa significhi essere pro- o anti-immigrazione è un concetto che varia secondo gli stati di destinazione e secondo le crisi. In base alle circostanze, le richieste degli schieramenti a favore dei profughi/migranti vanno da risposte relativamente limitate, come l'assunzione dei costi del reinsediamento della comunità di profughi o migranti in un paese in via di sviluppo, fino ad impegni ben più significativi—o anche permanenti—come concedere l'asilo o la cittadinanza. Viceversa, le posizioni dei gruppi anti-immigrazione spaziano dal richiedere il rigetto delle istanze di assistenza finanziaria o, più radicalmente, l'intercettazione degli immigrati, al rifiuto di concedere loro l'asilo politico, o anche, in casi estremi, all'espulsione. Nella sostanza, poiché i paesi destinatari non possono contemporaneamente ‘accettare’ e ‘respingere’ un determinato gruppo di migranti o profughi, i loro politici, confrontati con interessi altamente mobilitati e polarizzati su entrambe le sponde dello spartiacque, si ritrovano di fronte a un bivio—in cui è impossibile soddisfare le richieste di una fazione senza alienare l'altra. Non è quindi l'eterogeneità in sé a renderli vulnerabili. Le strategie di mobilitazione funzionano piuttosto proprio grazie alla presenza di questi gruppi rivali con interessi tendenzialmente incompatibili che sono risolutamente impegnati a difendere (così come, nel contesto dell'UE, di quelli che si potrebbero definire come paesi rivali), congiuntamente al fatto che i governi dei paesi destinatari possono avere ottime ragioni di natura politica, legale e/o morale per evitare di entrare in contrasto sia con l'uno che con l'altro. A tali condizioni, i leader nazionali sono esposti a forti incentivi interni e, nel caso dell'UE, sopranazionali, per cedere alle richieste di livello internazionale degli estorsori—specialmente se ciò promette di evitare o far cessare una crisi migratoria reale o potenziale, evitando in questo modo ai governi dei paesi destinatari di ritrovarsi tra i proverbiali incudine e martello.
Come si può immaginare, l'esistenza di questa dinamica, e la potenziale vulnerabilità che ne può scaturire, non sono una novità. A dispetto di retoriche affermazioni in senso contrario, le democrazie liberali occidentali hanno generalmente avuto da sempre una relazione paranoica, che non si esiterebbe a definire ipocrita, verso i migranti ed i profughi. Come giustamente affermava nel 2011 Marco Scalvini, in piena crisi libica, dopo l'ennesima minaccia dell'allora leader libico Muhammar Gheddafi di ‘rendere nera l'Europa’ con migranti e profughi: ‘l'inquietudine per un'invasione di profughi dall'Africa rivela le contraddizioni oggi presenti in Europa, dove da una parte si proclama l'obbligo morale all'emancipazione universale, mentre dall'altra, politiche e prassi confermano la tendenza a rifiutare l'asilo agli stessi profughi che le stesse hanno contribuito a creare’.Nonostante il carico sostenuto dall'UE non rappresenti che una parte esigua dei migranti, in molti stati membri i flussi sono chiaramente considerati talmente eccessivi da diventare pericolosi relativamente alle loro dimensioni, come le infiorettature retoriche descritte all'inizio di questo articolo rendono chiaro. Opinionisti, politici e persino alte cariche dello stato si ritrovano ad argomentare che gli immigrati con un retaggio religioso, linguistico ed etnico diverso da quello della maggioranza nei nuovi paesi di appartenenza rappresenterebbero una minaccia alla pubblica sicurezza. Nello scenario che ha seguito l'attentato alle Torri Gemelle, in particolare, una prevalenza di stereotipi negativi su arabi e musulmani si è accentuata nel dibattito pubblico europeo, con un'equiparazione ed una identificazione spesso indiscriminata fra Medio Oriente, Islam e terrorismo. Agli occhi di queste persone, coloro che approdano alle sponde dell'Europa non sono rifugiati in cerca di protezione ed assistenza ma piuttosto un pericolo per la sicurezza nazionale, la stabilità sociale e l'identità culturale. Sono i soldati dell’‘esercito di invasione’ di Orban.
Il dibattito politico diffuso all'interno dell'UE attinge a sentimenti nazionalisti tradizionalisti e ad argomentazioni di stampo xenofobo, secondo cui gli immigrati e i profughi riducono gli standard di vita della nazione, privando delle risorse sociali le popolazioni originarie, sottraendo lavoro a candidati più meritevoli, trapiantando le tensioni dei paesi d'origine e rendendosi responsabili di un numero sproporzionato di reati. Una narrazione confermata dalle centinaia di aggressioni sessuali e furti avvenuti a Colonia in Germania nel capodanno 2015, che videro coinvolti numerosi immigrati provenienti dal Nord Africa e dal Medio Oriente.
In ultima analisi, nonostante in linea di massima i paesi occidentali siano tenuti moralmente, quando non giuridicamente, ad offrire asilo e protezione a chi sfugge da persecuzioni, violenze (ed in qualche caso anche dalla povertà), almeno una parte dei loro cittadini sono generalmente riluttanti a sopportarne i relativi costi, reali o percepiti, ed i rischi per la sicurezza. Analogamente, a livello europeo, nonostante l'UE come unità sopranazionale si vanti di aver posto in primo piano i diritti umani, i singoli stati membri (ed i loro cittadini) sono divisi su come reagire al problema dei profughi, e queste divisioni si vanno approfondendo con il passare del tempo. I nazionalisti europei di estrema destra hanno di conseguenza adottato una linea dura contro l'immigrazione, e le loro reazioni unilaterali a livello nazionale dominano sui proclami sopranazionali di respiro universale. Questa resistenza offre ai ricattatori un potenziale cuneo con il quale infliggere danni, in grado di mettere a rischio la relazione dei leader con la loro base, e addirittura di incitare il malcontento generale all'interno degli stati destinatari. Come ben sintetizzato da Oliver Cromwell Cox, sulla base di un ‘autentico principio democratico’ i popoli ‘non potrebbero essere costretti a fare ciò che non vogliono’ (…) È sufficiente soltanto che il gruppo dominante si convinca della minaccia posta dai valori e dalle pratiche culturali dell'altro gruppo; che siano effettivamente pericolose o meno è irrilevante’. Quindi, a prescindere da se i profughi e gli immigrati rappresentino o no una minaccia reale, il fatto che siano percepiti come un rischio radicale alla loro sicurezza, cultura o esistenza mobilita individui e gruppi tesi e motivati in opposizione al loro accoglimento.
Nelle società caratterizzate da un'eterogeneità di interessi e da uno squilibrio nella distribuzione dei costi e benefici associati con le migrazioni di massa (ed ovviamente questo vale ancor di più nell'UE), che solo una (o l'altra) fazione si mobiliti a fronte di una crisi rappresenta l'eccezione più della norma. Pertanto, a fronte di una crisi imminente o in corso, i paesi destinatari si trovano spesso a fronteggiare fazioni altamente polarizzate con interessi reciprocamente incompatibili, ed a confrontare un dilemma politico sostanziale, la risoluzione del quale diviene particolarmente problematica per l'UE, dove interessi incompatibili si palesano a livello sia interno che internazionale, ed in cui i singoli stati cercano di risolvere tale dilemma impegnandosi in un (almeno apparente) scaricabarile, seppur razionale dal punto di vista individuale, e/o adottando politiche volte a scaricare le difficoltà sugli altri. Ed effettivamente è proprio ciò cui abbiamo assistito nel contesto della crisi europea attuale, con una serie di defezioni scoordinate dagli accordi collettivi da parte di singoli stati.L'esistenza di tali dilemmi politici è ben nota agli estorsori che si cimentano in MCP, che perseguono deliberatamente l'obiettivo di sfruttarli a loro vantaggio. Di fatto, potenziali ricattatori spesso cercano non solo di sfruttare le differenze già esistenti fra queste fazioni, ma anche di aumentare la vulnerabilità dei paesi destinatari nel corso del tempo, attraverso azioni designate a catalizzare, direttamente o indirettamente, una maggiore mobilitazione e ad innalzare il grado di polarizzazione, riducendo così le opzioni politiche disponibili ai governi. Fra i metodi utilizzati dai ricattatori vi sono i tentativi di incrementare la portata, le dimensioni e l'ampiezza di un flusso già esistente, o di modificarne le caratteristiche, ad esempio aggiungendo altri soggetti da gruppi ‘indesiderabili’ o simpatizzanti con la loro causa, di minacciare di alzare le tensioni, o più semplicemente di esercitare pressioni su determinati membri delle fazioni pro e contro.
In breve, queste sfide servono a ricattare i paesi destinatari con le cosiddette cause di forza maggiore, strumento di coercizione per eccellenza, rendendo la scelta obbligata dalle circostanze. A dire il vero, ai paesi destinatari resterebbe comunque una scelta, che però è resa inappetibile dalla convinzione che, in caso di inadempienza, le scelte si esaurirebbero. Semplicemente, quando le opzioni politiche a disposizione sono poche, la capacità di riconciliare i conflitti interni—soddisfacendo contraddittorie richieste interne (e nel caso dell'UE, comunitarie)—diventa molto circoscritta. A queste condizioni, risulta sempre preferibile l'opzione di fare concessioni, che è esattamente il risultato sperato dal ricattatore. Questo non perché tali concessioni non abbiano un costo, ma perché, in confronto all'eventualità o all'avanzata di una crisi, le previsioni di futuri disagi e costi crescenti vanno valutate in funzione dei costi e benefici associati con la fine immediata della crisi, tramite la resa alle pretese del ricattatore, come sembra sia stato il caso per quanto riguarda l'accordo del marzo 2016 tra l'UE e la Turchia.
III - L'accordo sui migranti tra Europa e Turchia
Nel solco di un accordo preliminare raggiunto nel novembre 2015, il 18 marzo 2016 l'UE ha concluso un accordo con la Turchia nel tentativo di mitigare la crisi migratoria in corso, prevenire ulteriori arrivi incontrollati, ed alleviare le tensioni presenti all'interno dell'UE in relazione agli accordi di Schengen ed al progetto politico ed economico comune europeo. A quel punto, l'UE si trovava, per irla con le parole di un osservatore, ‘si può dire con le spalle al muro, e in uno stato di evidente panico (…) Il fatto stesso che un gruppo di 28 paesi, con interessi sempre più divergenti, sia stato in grado di trovare un consenso, la dice lunga sul livello preoccupazione con il quale i leader vedono il loro futuro politico’.
La conclusione dell'accordo arrivava sulla scia di una serie di minacce da parte di funzionari turchi, che nei fatti si traducevano con un: ‘Siamo stanchi di aspettare (gli aiuti per questo problema). O cedete alle nostre varie richieste, o in caso contrario vi ritroverete a fronteggiare le conseguenze in termini migratori’. Fra le minacce spicca la battuta fatta del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan durante un discorso tenuto ad Ankara a metà febbraio: ‘Non abbiamo “idiota” stampato in fronte. Possiamo aver pazienza ma faremo ciò che si deve. Non crediate che i nostri aerei ed autobus stiano lì per nulla’. La brusca dichiarazione di Erdoğan seguiva nello stesso discorso all'ammissione di aver minacciato il presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker, durante un meeting del G20 nel novembre precedente, che la Turchia avrebbe inviato i profughi in Europa, [aggiungendo che sarebbe stato facile] ‘aprire le frontiere con la Grecia e la Bulgaria in qualsiasi momento e stipare i profughi su degli autobus’. Erdoğan avrebbe inoltre aggiunto, ‘Sono orgoglioso di quello che ho detto. Abbiamo difeso i diritti della Turchia e dei profughi. Ed abbiamo detto [agli europei]: “Ci spiace, apriremo le porte e diremo addio ai migranti”’.Per scongiurare l'eventualità che l'UE potesse tirarsi fuori o arretrare da una qualsiasi parte dell'accordo, un mese dopo la sua conclusione ufficiale l'allora Primo Ministro turco Ahmet Davutoglu ha ribadito la posizione della Turchia e confermato la volontà di attuare le sue minacce, annunciando durante una conferenza stampa che ‘Se l'UE non prende le misure convenute, è impensabile che lo faccia la Turchia (…) Arrivati a questo punto, non vedo alcuna possibilità per l'UE di ritornare sui suoi passi. …L'accordo concluso con l'UE è chiarissimo. Vogliamo che questa tragedia umana finisca, che i nostri cittadini possano viaggiare senza visto, e che venga adeguata l'unione doganale. [Ma] se l'UE non dovesse tener fede ai suoi impegni, incluso il patto sui migranti, annulleremo tutti gli accordi ’.
Coerentemente con la teoria MCP, i paesi dell'UE (ed i loro leader) si sono chiaramente ritrovati intrappolati politicamente tra l'incudine e il martello, così come previsto dai turchi. In questo contesto la situazione specifica della Germania è esemplificativa, ma non unica. Nel 2015, la Cancelliera tedesca Angela Merkel ha mutuato dalla campagna presidenziale di Barack Obama del 2008 lo slogan Wir Schaffen das (un gioco di parole ispirato a ‘yes, we can’, ce la possiamo fare) per la sua politica di apertura all'accoglienza di fino ad un milione di rifugiati in Germania nel 2015. Questo segnale unilaterale della Merkel avrebbe dovuto convincere altri paesi a seguire l'esempio della Germania, primo passo, per così dire, di un'iniziativa più vasta volta a catalizzare un effetto a cascata di solidarietà europea e di condivisione degli oneri. Invece, all'interno dell'UE si è assistito (prevalentemente) ad un effetto a cascata di scaricabarile, con defezioni affrettate da Schengen per motivi di sicurezza ed un aumento significativo del numero di richiedenti asilo che cercavano di raggiungere la Germania, incoraggiati dall'invito esteso pubblicamente dalla Merkel. Nel 2015 l'UE ha ricevuto 1 321 560 richieste d'asilo, che equivarrebbero a 47 000 per ogni stato dell'UE se fossero state distribuite equamente, ma delle quali 476 000 erano rivolte alla sola Germania).Un anno più tardi, con un'opinione pubblica tedesca ancora divisa ma progressivamente sempre più ostile all'immigrazione, ed a fronte di avversari temibili alle elezioni per i parlamenti regionali in tre regioni, anche i fautori della linea strategica hanno dovuto riconoscere che il Wir Schaffen das della Merkel era stato un errore. Si trattava di una confessione politica necessaria, per quanto difficile, perché le elezioni erano viste come il banco di prova di questa controversa iniziativa, ed particolare perché l'immigrazione era diventata il nodo politico principale della campagna elettorale, nonostante il fatto che la crisi riguardasse solo indirettamente i Länder. Ma questa ammissione non è stata sufficiente per placare il malcontento. Le elezioni hanno punito il partito dei Cristiani Democratici della Merkel in tutti e tre le regioni—facendogli perdere il controllo in due dei tre—mentre il partito anti-immigrazione Alternativa per la Germania guadagnava significativamente terreno; Alternativa per la Germania, già rappresentata in cinque delle 16 assemblee regionali, ha ottenuto ulteriori seggi in altre tre. Per di più, come evidenziato precedentemente, questo quadro politico non era limitato alla Germania della Merkel delle ‘braccia aperte ai profughi’, ma già verso la fine del 2015 era ormai comune nel panorama politico interno di un buon numero di stati europei. Come spiegato da Martin Schain, mentre a Bruxelles ‘si discutevano direttive su come distribuire il flusso di rifugiati, [i partiti anti-immigrazione] avevano gioco facile nell'attaccare sempre più pesantemente l'Europa [e le loro controparti nazionali pro-immigrazione](…) Questi partiti hanno trovato ampio spazio per influenzare le campagne elettorali, perché i leader europei tendevano invece a girare intorno al problema dei rifugiati’.
Per paura di un complesso di costi politici crescenti (nazionali ed internazionali), gli stati europei sono stati sempre più aperti a negoziare, ed in ultima analisi a cedere, ad un buon numero di richieste turche che erano state precedentemente giudicate pubblicamente come ‘ricatti’ e ‘provocazioni’. In assenza di un orizzonte per la fine delle ondate—e con scarse ed improbabili possibilità realistiche che queste si fermassero spontaneamente—fare concessioni diventava più accettabile delle alternative. Un editoriale della rivista britannica The Spectator spiegava che: ‘L'Europa [aveva] disperatamente bisogno della Turchia come camera d'attesa dei migranti alle sue frontiere…. E, sia chiaro, la Turchia [era] perfettamente cosciente della sua posizione di vantaggio in queste trattative. Secondo i processi verbali trapelati da un meeting fra Erdoğan, Tusk e Juncker, Erdoğan disse chiaro e tondo, ‘Possiamo aprire le frontiere con la Grecia e la Bulgaria in qualsiasi momento… E a quel punto, senza un accordo, come pensate di gestire i rifugiati? Come ve ne sbarazzerete?’ Le concessioni erano certamente una scelta dettata da ‘circostanze eccezionali’.
Nella sostanza, con gli esseri umani al posto delle bombe come strumento di persuasione politica, la minaccia di usare l'arma degli immigrati ha permesso alla Turchia di guadagnare un notevole potere ricattatorio verso l'UE in diversi ambiti, e di estorcere una serie di concessioni legate ad obiettivi già articolati in precedenza. Per quanto la tanto agognata no-fly zone al confine tra Turchia e Syria non sia ancora stata implementata al momento in cui questo articolo è stato scritto, numerosi altri compromessi reciproci sono stati raggiunti. Sul fronte della migrazione, in cambio dell'autorizzazione data alla Grecia di respingere verso la Turchia ‘tutti i nuovi migranti in situazione irregolare’ arrivati dopo il 20 marzo, l'UE si impegnava ad aiutare la Turchia a sostenere l'onere crescente di ospitare circa tre milioni di profughi, erogando più di sei miliardi di Euro di aiuti finanziari (rispetto ai soli tre miliardi di Euro offerti a novembre) ed incrementando il reinsediamento dei rifugiati siriani residenti in Turchia.
Gli stati dell'Unione avrebbero accolto un profugo siriano dalla Turchia per ogni immigrato irregolare respinto, fino ad un massimo di 72 000. Ma le concessioni fatte dall'Unione Europea non si limitavano a questioni riguardanti l'immigrazione. Gli stati si impegnavano anche ad accelerare la liberalizzazione dei visti per i cittadini turchi ed a ‘resuscitare’ le ormai morenti trattative per l'adesione della Turchia all'UE, con la promessa di riaprire i negoziati su uno dei cinque ambiti politici essenziali prima di luglio di quest'anno. Questi mutamenti politici sono particolarmente significativi se si pensa che la Turchia aveva fatto inutilmente pressione per l'avanzamento della sua richiesta di adesione all'UE per oltre un decennio.
Gli accordi di marzo confermavano inoltre nei fatti che l'UE nel suo complesso conveniva nel riconoscere e considerare la Turchia come un paese sicuro per i rimpatri, nonostante le reiterate violazioni dei diritti umani e le repressioni sulla stampa libera turca da parte del governo. Questa decisione è tuttora ferocemente contestata da diverse associazioni di diritti umani. John Dalhuisen di Amnesty International ha così commentato: ‘Invece di far pressione sulla Turchia per migliorare la protezione offerta ai profughi siriani, l'Unione sta nei fatti incentivando il contrario’. In pratica, oltre alle concessioni economiche e politiche, la Turchia ha fatto un salto di qualità nel suo prestigio internazionale —non dissimile, secondo i detrattori, dal pescare la carta ‘esci gratis di prigione’ a Monopoli—proprio nel momento in cui il governo turco era invece oggetto di crescenti controlli e critiche per via di uno strisciante autoritarismo. Un editoriale sullo Spectator all'inizio di marzo affermava che:
‘Sono passati quasi 30 anni da quando la Turchia si è candidata ad aderire all'UE. Le trattative si sono fatte più difficili dal 2005, quando è stato evidente che la Turchia non sarebbe stata ammessa fintanto che non avesse fatto seri passi avanti nel processo di democratizzazione e migliorato la sua aberrante reputazione nel campo dei diritti umani. Da allora, il paese non ha fatto che arretrare in questi campi. Tre giorni prima del summit di questa settimana, la polizia turca ha fatto irruzione negli uffici del quotidiano di Istanbul Zaman. … Questa è solo l'ultima di una serie di misure autoritarie repressive: il governo turco ha arrestato dissidenti, e operato un giro di vite sul separatismo curdo. Adesso, quando Erdoğan infierisce sui curdi, può star tranquillo che l'UE non dirà nulla.’‘Il recente comportamento di Erdoğan’s fa capire che non teme più la censura dell'UE…. L'accordo turco rivela il vuoto morale in seno all'UE: un compromesso perenne fra 28 paesi che vedono il mondo in modo molto diverso. Una burocrazia poco funzionale, spinta più dal panico che dalla dedizione ad una serie di ideali.’
L'accordo UE–Turchia, concluso sotto il torchio dell'MCP, è stato oggetto di pressante attenzione da parte dei mezzi di comunicazione, in parte dovuta alle obiezioni riguardo la sua legalità, e in parte all'ostilità di lunga data in alcuni stati europei verso la Turchia. Eppure, come suggerito all'inizio di questo scritto, la natura dell'accordo, i ricatti che lo hanno accompagnato e le dinamiche politiche interne che hanno portato l'UE a cedere a gran parte delle richieste turche sono tutt'altro che inediti. Non solo non è una novità che i profughi (e le paure nascenti dalla programmazione dei loro movimenti) siano utilizzati come strumento per estorcere concessioni agli stati ricattati, ma non è neanche la prima volta durante l'attuale crisi migratoria europea che queste dinamiche escano allo scoperto. Per motivi meglio chiariti nel prossimo punto, potrebbe anche non essere l'ultima.
IV Ripercussioni e conclusioni
L'utilizzo delle migrazioni a scopo coercitivo è una pratica problematica dal punto di vista normativo e materiale, ed i costi, soprattutto per le vere vittime di questo tipo di coercizione, ossia gli stessi sfollati, sono tragicamente alti. Questa scomoda verità non può essere negata intellettualmente. Risulterebbe dunque quasi spontaneo attribuire alla sola Turchia il ruolo del cattivo ricattatore opportunistico, come lo si è fatto spesso nella narrazione dell'accordo UE–Turchia del 2016. Ma è fin troppo facile addossare esclusivamente alla Turchia tutte le colpe di ciò che è trapelato in questo caso specifico di MCP. Per diverse ragioni di convenienza politica, anche se in ultima analisi poco lungimiranti, la stessa UE ha preparato il terreno, e si è resa bersaglio principale, di quest'ultimo esercizio di MCT—con l'aiuto, a dire il vero alquanto esiguo, della comunità internazionale. L'accordo poi raggiunto rischia di non esaurire la questione.
Con l'infuriare delle guerra in Siria, iniziata nella primavera del 2011, i campi profughi nei paesi limitrofi alla Siria sono diventati via via sempre più sovrappopolati, ed i rifornimenti insufficienti. Secondo l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, circa il 70% dei profughi siriani in Libano vivevano al di sotto della soglia della povertà nel 2015, e, per quanto i numeri assoluti siano minori, oltre l'85% dei profughi siriani in Giordania erano nelle stesse condizioni. Ad aggravare ulteriormente la situazione già disperata di molti sfollati, alla fine dell'agosto 2015, a quattro anni e mezzo dall'inizio della guerra, il Piano Regionale ONU per i Rifugiati e la Resilienza in Siria aveva ricevuto meno del 40% degli oltre 4.5 miliardi di dollari che servivano per coprire i bisogni umanitari di base. A causa dei finanziamenti limitati, l'ONU ha dovuto tagliare le forniture di aiuti in molti settori, provocando una riduzione in servizi essenziali come alloggi, aiuti economici, assistenza sanitaria ed alimentare. Nell'estate del 2015, il Programma Mondiale Alimentare ha inoltre dichiarato di essere costretto dalle carenze di fondi a dimezzare i buoni alimentari rilasciati ai profughi siriani in Libano.
Insomma, il peggioramento delle condizioni in Turchia, Libano e Giordania, oltre alle restrizioni interne poste ai siriani residenti dentro e fuori i campi profughi, hanno contribuito ad accrescere la disperazione fra i rifugiati. Ciò ha a sua volta alimentato un aumento significativo dei migranti che abbandonavano gli stati limitrofi alla Siria per l'Europa attraverso la frontiera tra Grecia e Turchia. Secondo il funzionario dell'UNHCR Andrej Mahecic, ‘con il considerevole deteriorarsi delle condizioni nei paesi limitrofi e la rapida riduzione degli spazi protetti, numerosi siriani [hanno deciso] di proseguire [per l'Europa]’.
Per poter notare un incremento nei numeri di coloro che raggiungevano Europa, ovviamente, bastava che i Turchi lasciassero uscire i siriani (e chiunque altro transitasse per la Turchia diretto verso l'UE) dal loro territorio. Ma fino a che i flussi dalla Turchia verso l'Europa non raggiunsero quelli che furono poi considerati ‘livelli di crisi’, l'UE e la comunità internazionale fornirono ben pochi incentivi alla Turchia o ad altri stati limitrofi per ostacolare la migrazione di transito. Come spesso lamentato dalle organizzazioni umanitarie internazionali, i finanziamenti offerti a copertura degli oneri di ospitare oltre tre milioni di rifugiati (nel caso specifico della Turchia) erano palesemente insufficienti. Nel contempo, ogni talvolta che la Turchia o altri paesi limitrofi chiudevano le loro frontiere ai richiedenti asilo, tali chiusure scatenavano critiche e riprovazione da parte della comunità internazionale. Sembrava quindi che i vicini della Siria dovessero continuare a fornire protezione a tempo indeterminato per un numero sempre crescente di sfollati, ma senza avere in controparte alcun impegno credibile di assistenza nel sostenere i costi di quest'impegno sempre più oneroso. L'entità della componente della carenza di fondi, di quello che era e rimane parte di un problema ben più vasto, è stato riconosciuta dai leader europei soltanto durante il summit europeo del settembre 2015, quando si sono impegnati a versare all'Alto Commissariato ed al Programma Alimentare Mondiale un ulteriore miliardo di euro per alleviare il deficit. Ma a quel punto era probabilmente ormai troppo poco e troppo tardi.In secondo luogo, se l'accordo del marzo 2016 sembra al momento aver significativamente ridotto le ondate di sbarchi sulle coste greche, il risultato finale potrebbe rivelarsi un dirottamento piuttosto che un arresto dei flussi, oltre che l'ingresso di nuovi attori all'interno di un un gioco di trattative allargate di MCP con i membri dell'UE. Chiudendo il valico alla frontiera greca, l'UE ha probabilmente soltanto spostato le rotte migratorie verso oriente attraverso la Bulgaria e verso occidente in Libia. I gruppi in partenza dalla Libia provengono tuttora (un mese dopo la conclusione dell'accordo) in prevalenza dall'Africa sub-Sahariana, ma ciò potrebbe presto cambiare. Secondo Morten Kjaerum del Raoul Wallenberg Institute, i trafficanti stanno già prendendo in considerazione la Libia come rotta alternativa. Inoltre, come riportato dall'UNHCR, dopo l'accordo UE–Turchia ‘gli arrivi [dalla Libia] a marzo erano triplicati rispetto all'anno precedente (…) Con la chiusura del passaggio attraverso l'Egeo, è probabile che i numeri salgano,’ e che i flussi verso l'Italia aumentino bruscamente nelle settimane e nei mesi a seguire.
Per ironia della sorte, uno degli incentivi principali dietro la mossa di intervenire militarmente per deporre Gheddafi nel 2011 era stata la sua minaccia ricorrente di ‘rendere nera l'Europa’ se l'UE non avesse ceduto ai suoi ripetuti tentativi di ricatto collegati all'immigrazione. Nondimeno, la rimozione di Gheddafi non solo non ha significato la fine di simili tentativi di estorsione—le fazioni rivali del governo libico hanno a più riprese minacciato l'UE esplicitamente (o in modo alquanto subdolo)—, ma ha anche causato ulteriore caos ed instabilità politica a livello regionale, spingendo sempre più sfollati a cercare protezione ed accoglienza altrove. Prima delle Primavere Arabe del 2011 e delle rivolte libiche che ne seguirono, la Libia era stata una mèta principale per i lavoratori migranti. La presenza di immigrati in Libia prima delle rivolte del 2011 era stimata intorno ai 2.5 milioni, inclusi molti originari dall'Africa Sub-Sahariana. Molti fra i migranti entrati dopo la caduta di Gheddafi sono poi rimasti intrappolati quando il paese è ricaduto nel caos, e hanno preferito tentare di raggiungere l'Europa allo scopo di sfuggire alla crescente violenza.
Per complicare ulteriormente la situazione, la caduta di Gheddafi ha rimosso anche uno dei meccanismi più efficaci per controllare le migrazioni in Europa. A seguito di una serie di accordi migratori e di controllo alle frontiere conclusi (coercitivamente) negli anni tra il 2004 e il 2010, la Libia di fatto funzionava da guardacoste per l'Europa in cambio di consistenti aiuti economici e in natura. Come partner nella gestione dei flussi migratori Gheddafi sarà anche stato avido e poco affidabile, ma chi pensava che la sua rimozione avrebbe risolto tutti i problemi è rimasto deluso. I concorrenti che lo hanno sostituito non solo hanno ripreso esattamente da dove Gheddafi aveva lasciato, nel senso di minacciare di inondare l'Europa di migranti e profughi ogni qualvolta che le loro richieste non venissero assecondate, ma non sono neanche stati in grado di pattugliare efficacemente le coste libiche né di sanzionare in alcun caso i trafficanti.
Come se non bastasse, l'uccisione di Gheddafi ha anche creato le condizioni favorevoli affinché l'Islamic State in Iraq e Siria (ISIS) potesse infiltrarsi in Libia e anche (come sembra) nel business del traffico di migranti. Già prima della più recente impennata nel numero di profughi e migranti verso l'Europa, il traffico di esseri umani dal Medio Oriente e dal Nord Africa verso l'UE avrebbe presumibilmente generato circa 323 milioni di dollari per l'ISIS ed altri gruppi di jihadisti. Le prove a riguardo rimangono ovviamente molto frammentarie, ma è stata persino avanzata l'ipotesi che la migrazione attraverso il Mediterraneo si sia rivelata un'opportunità di business talmente preziosa per gruppi come l'ISIS che alcuni dei suoi attacchi siano stati appositamente programmati allo scopo di costringere le popolazioni a scappare, per poi trarre profitto dalla loro fuga. Vale inoltre la pena ricordare che nel febbraio 2015 la stessa ISIS in Libia avrebbe minacciato di travolgere l'Europa con 500 000 migranti e rifugiati nel caso fosse stata attaccata militarmente. Nel frattempo, questo è esattamente ciò di cui si inizia a parlare (ancora una volta).In definitiva, nonostante il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk nel marzo 2016 abbia salutato l'accordo come la ‘fine dell'immigrazione illegale in Europa’, questo potrebbe dopo tutto non essere l'ultimo esercizio in MCP a cui assisteremo in Europa prima della fine definitiva dell'attuale crisi migratoria. Di fatto, nel tentativo di salvare Schengen e di eludere un insieme di costi e problemi politici a livello comunitario e nazionale, gli stati membri si sono in realtà resi più vulnerabili a futuri ricatti di matrice migratoria, omettendo al tempo stesso di affrontare sia i problemi strutturali sottostanti, che le cause che scatenano o acuiscono le crisi migratorie. Le sagge osservazioni di Elizabeth Collett risultano oggi profetiche:
‘Le ripercussioni di lungo periodo dell'accordo sono troppo politicamente remote per sembrare reali a dei responsabili politici sotto pressione... L'idea di rimpatri uniti a reinsediamenti su vasta scala è ingannevole e, vista da lontano, perfettamente ingenua. Ma i decisori politici hanno esaminato l'accordo UE-Turchia nella prospettiva dei sei mesi precedenti, esasperati dalle preoccupazioni legate a Schengen, piuttosto che nel quadro più vasto degli ultimi (e dei prossimi) cinque anni. La dinamica sempre più complessa e mutevole dei flussi migratori, otre ai ben documentati limiti della capacità di protezione presente in un'ampia fascia di paesi (non solo Grecia e Turchia) indicano che la prossima crisi dell'Unione Europea non può essere lontana.’
La scelta di privilegiare esigenze politiche interne di breve periodo piuttosto che quelle internazionali si può rivelare politicamente allettante o anche inevitabile, specialmente in periodi ad alto livello di minaccia e preoccupazione dell'opinione pubblica, come all'indomani di attacchi terroristici come quelli di Parigi e Bruxelles. Ciononostante, assumere un tale comportamento, per quanto possa sembrare apparentemente razionale dal punto di vista individuale, potrà tradursi in esiti politici, economici e sociali sub-ottimali sia all'interno che tra i paesi dell'UE, soprattutto se, e nel momento in cui, altri singoli stati faranno altrettanto. Un meccanismo di sovranità accentrata imporrebbe la condivisione dei costi in tempi avversi oltre ad attribuire equamente i benefici in tempi di abbondanza e, per poter funzionare, richiederebbe l'accordo di tutti i membri a sostenerne questi costi collettivi. Si è precedentemente evidenziato come sia troppo facile rimproverare alla Turchia di aver imposto la conclusioni di quello che è stato definito un ‘patto vergognoso.’ Ma, come come ricordato precedentemente, tali accordi sono tutt'altro che inconsueti nella prassi internazionale. A dire il vero la Turchia non è stata la sola a cimentarsi in ricatti opportunistici durante l'attuale crisi migratoria europea. Né è stata, almeno presumibilmente, l'unico stato ad impegnarsi in operazioni di rifacimento della propria immagine politica, o ad infiltrarsi nelle schermaglie politiche interne allo scopo di istigare le contromisure desiderate.
Finché il Medio Oriente e il Nord Africa resteranno coinvolti in guerre e conflitti diffusi, si può solo prevedere che l'immigrazione illegale nei mesi e negli anni avvenire possa aumentare—con conseguenti analoghe crisi umanitarie e politiche, inevitabili se le politiche e gli accordi di condivisione degli oneri dell'UE, e soprattutto la mentalità alla base della prassi decisionale UE in senso ampio, non dovessero cambiare. Come evidenziato nelle anticipazioni dei rischi che attendono l'Unione, le risposte singole e collettive alle ondate attuali sono i sintomi di un insieme più ampio di tensioni politiche, normative ed etiche, sia all'interno che tra stati membri. Malgrado la sua storia di violenze e nazionalismi—caratterizzata da da guerre devastanti, epurazioni etniche e genocidi—l'Europa moderna si considera una ‘zona di pace’, baluardo di standard liberali universali, protettore e divulgatore dei diritti umani e custode di un'identità europea inclusiva e cosmopolita. Ma quando ultimamente si è scatenata l'emergenza, i membri dell'UE si sono scagliati l'uno contro l'altro, di volta in volta attaccando l'Unione, gli altri stati membri e, quando non è stato loro impedito di farlo, scantonando spesso con notevole destrezza al loro impegno comune di ottemperare a standard liberali e doveri umanitari. Benché torni talora in voga affermare il contrario, il nazionalismo europeo non si è mai del tutto spento. Se è vero che l'attuale crisi migratoria ha gettato ulteriore legna al fuoco, questo era già stato attizzato dalla Crisi del '29, dalla crisi dell'Eurozona, e dalla miriade di altre sollecitazioni al progetto comune europeo. Sia che l'EU ne esca più forte e più unita, ipotesi questa plausibile, sia che continui a trascinarsi come di consueto passando da una crisi all'altra, cosa altrettanto possibile, o sia infine che l'attuale crisi migratoria effettivamente presagisca, come alcuni hanno suggerito, il principio della fine, tutto questo dipende dai leader degli stati membri, e da un'opinione pubblica sempre più eterogenea e restia.