31/08/17

Economisti e istituzioni di primo piano ora ammettono che la globalizzazione aumenta la disuguaglianza

Il sito Global Research mette in luce l’inversione di rotta delle istituzioni mainstream sulla globalizzazione. Sopraffatte dalle giuste intuizioni dell’opinione pubblica, sono costrette ad ammettere che la globalizzazione più che aumentare la ricchezza, la distribuisce in maniera iniqua, riversandone una quantità maggiore sui già ricchi e mettendo in reale competizione solo i più poveri. È urgente ormai interrogarsi su quando un aumento del libero scambio generi benefici, e a vantaggio di chi, e quando invece gli effetti deleteri siano molto superiori ai vantaggi. Una discussione finora totalmente ignorata dai politici ed economisti che considerano gli accordi di libero scambio sempre “buoni a prescindere”.

 

21 agosto 2017

 

 

Tutti abbiamo sentito dire che la globalizzazione fa crescere l’economia per tutti e aumenta la nostra ricchezza… Ma ora gli economisti e le organizzazioni più importanti iniziano a dire che la globalizzazione aumenta la disuguaglianza.

 

L’Ufficio Nazionale di Ricerca Economica (NBER) - la più grande organizzazione di ricerca economica degli Stati Uniti, che vanta come membri numerosi premi Nobel e dirigenti del Consiglio dei Consulenti Economici – a maggio ha pubblicato un rapporto secondo il quale:

 

“Le recenti tendenze verso la globalizzazione hanno aumentato la disuguaglianza negli Stati Uniti, aumentando in maniera sproporzionata il reddito dei più ricchi.

 

L’aumento della competizione delle importazioni ha avuto un effetto deleterio sui lavori manifatturieri, ha portato le aziende a migliorare la loro produzione e causato una diminuzione dei redditi dei lavoratori.”

 

Il NBER  spiega che la globalizzazione permette ai dirigenti di utilizzare il sistema a proprio vantaggio:

 

Questo articolo esamina il ruolo della globalizzazione nel rapido aumento dei redditi più alti. Grazie all’utilizzo di un’ampia fonte di dati riguardanti migliaia di dirigenti presso aziende degli Stati Uniti tra il 1993 e il 2013, scopriamo che le esportazioni, così come la tecnologia e la dimensione dell’azienda, hanno contribuito all’aumento dei compensi dei dirigenti. Isolando le variazioni nell’export non legate alle azioni e alle qualità dei dirigenti, mostriamo che la globalizzazione ha influenzato il salario dei dirigenti non solo attraverso il mercato, ma anche in altri modi. Inoltre, shock esogeni alle esportazioni hanno aumentato i compensi dei dirigenti per lo più attraverso i bonus anche in casi di cattiva gestione, elemento che conferma l’ipotesi che la globalizzazione ha aumentato le opportunità per i dirigenti di acquisire rendite di posizione. Nel loro insieme, questi risultati indicano che la globalizzazione ha giocato un ruolo più centrale nella rapida crescita dei compensi ai dirigenti e della disuguaglianza americana di quanto si pensasse, e che l’acquisizione di rendite di posizione è una tassello importante del quadro complessivo.”

 

Un documento della Banca Mondiale sostiene che la globalizzazione “potrebbe aver portato a un aumento della disuguaglianza dei salari”. Fa notare che:

 

“Dati USA recenti suggeriscono che i costi dell’aggiustamento per chi lavora in settori esposti alla competizione delle importazioni cinesi sono molto più alti di quanto precedentemente ipotizzato. Il commercio potrebbe aver contribuito ad aumentare la disuguaglianza nelle economie ad alto reddito…”

 

La Banca Mondiale cita inoltre l’economista premio Nobel Eric Maskin, secondo cui la globalizzazione aumenta la disuguaglianza in quanto aumenta la disparità di competenze dei diversi lavoratori.

 

Un rapporto del Fondo Monetario Internazionale nota che:

 

“Un alto livello di commercio e flussi finanziari tra i paesi, in parte reso possibile dalle scoperte tecnologiche, è comunemente ritenuto causa di un aumento della disuguaglianza di reddito… Nelle economie avanzate, la capacità delle aziende di adottare tecnologie per ridurre l’impiego di manodopera e la tendenza a spostare le produzioni all’estero sono state citate come fattori importanti nel declino del settore manifatturiero e nell’aumento del divario di compenso tra le diverse competenze (Feenstra and Hanson 1996, 1999, 2003) …

 

È stato mostrato che i flussi finanziari in aumento, in particolare gli Investimenti Esteri Diretti (IDE), e i flussi di portafoglio, aumentano la disuguaglianza sia nelle economie avanzate, sia nei mercati emergenti (Freeman 2010). Una possibile spiegazione è la concentrazione di attività e passività straniere in settori relativamente caratterizzati da maggiori competenze ed elevato livello di tecnologia, che spinge verso l’alto la richiesta e i salari dei lavoratori più qualificati. Inoltre, gli IDE potrebbero indurre cambiamenti tecnologici specifici per competenze, essere associati a contrattazioni salariali divise per competenze, e risultare in un aumento della formazione dei lavoratori già formati anziché di quelli meno formati (Willem te Velde 2003). Inoltre, Investimenti Diretti in uscita dalle economie avanzate in settori a bassa competenza, potrebbero di fatto risultare relativamente ad alta competenza nei paesi a cui si rivolgono nelle economie emergenti (Figini and Görg 2011), accentuando così la richiesta di lavoratori ad alta formazione in questi ultimi paesi. La deregolamentazione finanziaria e la globalizzazione sono stati inoltre citati come fattori determinanti per l’aumento della ricchezza finanziaria, della relativa intensità di competenze, e dei salari all’interno dell’industria finanziaria, uno dei settori a crescita più rapida delle economie avanzate (Phillipon and Reshef 2012; Furceri and Loungani 2013).”

 

La Banca dei Pagamenti Internazionali – La “Banca Centrale delle Banche Centrali”  - nota inoltre che la globalizzazione non è tutta rose e fiori. Il Financial Times spiega:

 

“Tuttavia tre recenti articoli di esponenti di spicco della Banca dei Pagamenti Internazionali si spingono oltre, sostenendo che la globalizzazione finanziaria stessa rende i cicli di boom e crash molto più frequenti e destabilizzanti di quanto sarebbero altrimenti.”

 

McKinsey & Company nota che:

 

“Anche se la globalizzazione ha ridotto la disuguaglianza tra paesi, l’ha aggravata all’interno dei paesi stessi.”

 

L’Economist sottolinea che:

 

“La maggior parte degli economisti è stata presa alla sprovvista dal rifiuto [della globalizzazione]. Alcuni invece l’avevano previsto. Val la pena studiare come hanno ragionato…

 

Branko Milanovic dell’università di New York crede che tali costi perpetuano un ciclo di globalizzazione. Sostiene che periodi di integrazione globale e progresso tecnologico generano crescenti disuguaglianze…

 

I sostenitori dell’integrazione economica hanno sottovalutato i rischi… che ampi settori della società si sentissero tagliati fuori…”

 

Il New York Times riporta:

 

“Gli esperti si sono sbagliati riguardo ai benefici del commercio per l’economia americana?

 

La rabbia e la frustrazione degli elettori, dovuta in parte ai cambiamenti tecnologici e alla continua globalizzazione, [hanno reso Trump e Sanders molto popolari e] stanno già avendo un impatto rilevante sul futuro dell’America, mettendo in discussione il concetto, in precedenza largamente condiviso, che scambi commerciali più liberi siano necessariamente una cosa positiva.

 

'Il populismo economico della campagna presidenziale ha costretto a riconoscere che l’espansione del commercio è una lama a doppio taglio', ha scritto Jared Bernstein, ex consigliere economico del Vice Presidente Joseph R. Biden Jr.

 

Quello che più colpisce è che la classe lavoratrice arrabbiata – così spesso bollata come miope, incapace di capire i vantaggi economici legati al commercio – sembra aver capito un concetto che gli esperti solo tardivamente stanno ammettendo essere vero: i benefici del commercio per l’economia americana non sempre giustificano i costi ad esso associati.

 

In uno studio recente, tre economisti - David Autor dell’Istituto di Tecnologia del Massachusset, David Dorn dell’Università di Zurigo e Gordon Hanson dell’Università di San Diego, in California – hanno messo profondamente in discussione le convinzioni di quelli come noi, cresciuti nella convinzione che le economie si riprendano velocemente dagli shock del commercio. In teoria, un paese industrialmente sviluppato come gli Stati Uniti si adegua alla competizione delle importazioni spostando i lavoratori verso industrie più avanzate che possono competere con successo sui mercati globali.

 

Gli autori hanno esaminato l’esperienza dei lavoratori americani dopo l’esplosione della Cina sui mercati mondiali circa due decenni fa. Il presunto adeguamento, hanno concluso, non è avvenuto. O quantomeno non lo è ancora. Nei mercati del lavoro locali più colpiti i salari sono rimasti bassi e la disoccupazione alta. A livello nazionale non c’è alcun segno che su altri mercati del lavoro ci siano stati vantaggi in grado di compensare. Inoltre, hanno scoperto che i salari in discesa sui mercati del lavoro locali esposti alla competizione cinese hanno ridotto i redditi di 213 dollari all’anno per ogni adulto.

 

In un ulteriore studio da loro scritto con Daron Acemoglu e Brendan Price dell’MIT, hanno stimato che la crescita delle importazioni dalla Cina tra il 1999 e il 2011 è costata 2,4 milioni di posti di lavoro negli USA.

 

Sostengono che “questi risultati dovrebbero farci cambiare opinione sui vantaggi di breve e medio termine associati al commercio. Dopo che non siamo stati capaci di anticipare le significative dislocazioni causate dal commercio, la letteratura deve ora stimare in maniera più convincente i vantaggi del commercio, in modo che il sostegno al libero scambio non sia basato soltanto sulla teoria più alla moda, ma sulla base di evidenze che mettono in luce chi ci guadagna, chi ci perde, di quanto, e a quali condizioni”.

 

Il sostegno alla globalizzazione basato sul fatto che essa aiuta a espandere la “torta” economica del 3% diventa molto meno forte nel momento in cui essa cambia anche la distribuzione delle “fette” del 50%, sostiene Autor.”

 

E Steve Keen – professore di economia e capo della Suola di Economia, Storia e Politica all’Università di Kingston a Londra – fa notare che:

 

“Molte persone tenteranno di convincervi che la globalizzazione e il libero scambio potrebbero portare benefici a tutti, se solo i vantaggi fossero suddivisi più equamente. L’unico problema di questa bella festa è che i vicini di casa non erano invitati. Ma adesso vi promettiamo che distribuiremo i vantaggi più equamente. Continuiamo con la festa. La globalizzazione e il libero scambio sono ottimi.

 

Questa convinzione è comune tra la maggior parte dei politici di entrambe le fazioni, ed è un dogma di fede per la professione economica.

 

Si tratta di una fallacia basata sul nulla, e lo è stata fin da quando David Ricardo sognava riguardo all’idea del 'Vantaggio Comparato e dei vantaggi del Commercio' due secoli fa.

 

Il gioco delle tre carte [della globalizzazione] è come quello della maggior parte della teoria economica: pulito, plausibile e sbagliato. È il prodotto di un ragionamento a tavolino di persone che non hanno mai messo piede in una delle fabbriche che le loro teorie economiche hanno mandato in rovina.

 

E quindi i vantaggi del commercio per tutti e per tutte le Nazioni, che dovrebbero poter essere divisi in maniera più equa, semplicemente neppure esistono. La specializzazione è una truffa – che ha fatto innamorare le élite di Washington (a loro vantaggio, ovviamente). Anziché far migliorare le condizioni di un Paese, la specializzazione le rende peggiori, con macchinari rottamati che non servono più a nulla, e con meno modi per reinventare nuove industrie dalle quali la crescita arriva davvero.

 

Un’eccellente ricerca a livello globale dell’Università di Harvard “Atlas of Economic Complexity” ha identificato che la diversificazione, non la specializzazione, è l’”ingrediente magico” che genera realmente la crescita. I Paesi più di successo hanno un set di industrie diversificato, e crescono di più rispetto alle economie più specializzate perché possono inventare nuove industrie integrando quelle esistenti.

 

Naturalmente la specializzazione, e il commercio di cui ha bisogno, generano un sacco di servizi finanziari, di spese di assicurazione e di riunioni internazionali per negoziare accordi commerciali. La ricca élite che bazzica i festini di Washington si arricchisce, ma il Paese nel suo complesso ci perde, specialmente la classe lavoratrice.”

 

Alcune grandi società stanno perdendo interesse nella Globalizzazione

 

Ironicamente, il Washington Post faceva notare nel 2015 che le stesse mega multinazionali stavano perdendo interesse nella globalizzazione… e molte iniziano a riportare le fabbriche a casa:

 

“Ma nonostante tutta questa attività ed entusiasmo, quasi nessuno dei vantaggi promessi dalla globalizzazione si è materializzato, e quello che fino a poco tempo fa era un tema tabù nelle multinazionali – ossi, dovremmo rivalutare, o addirittura frenare, la nostra strategia globale di crescita? – è diventata una questione urgente, anche se ancora solo sussurrata.

 

Considerando i fallimenti della globalizzazione, praticamente tutte le più grandi società stanno facendo fatica a trovare il modello di business internazionale più produttivo.

 

Il Reshoring – ossia riportare le operazioni manifatturiere nelle fabbriche occidentali dai mercati emergenti – è una delle opzioni. Mentre il costo del lavoro aumenta in paesi come la Cina, la Thailandia, il Brasile e il Sud Africa, le società stanno scoprendo che produrre le merci, per esempio, negli Stati Uniti quando sono destinate al mercato nord americano è molto più efficiente a livello di costi. I vantaggi sono ancora maggiori se consideriamo la produttività dei paesi in via di sviluppo.

 

Inoltre, le nuove tecnologie distruttive di manifattura – come le stampanti in 3D, che permettono una produzione in situ di componenti e parti presso i siti di assemblaggio – rendono l’idea di riportare le fabbriche dove i prodotti assemblati verranno venduti ancor più praticabile.

 

Società come GE, Whirlpool, Stanley Black & Decker, Peerless e molte altre hanno riaperto fabbriche in precedenza chiuse o ne hanno aperte di nuove negli Stati Uniti.”

 

29/08/17

Counterpunch - Le menzogne sull'Afghanistan

Matthew Hoh distrugge su Counterpunch la fitta coltre di bugie che presenta la guerra in Afghanistan degli Stati Uniti come vittoriosa e carica di benefici per il popolo afghano. La dura realtà è un'altra: i benefìci sono menzogne propagandistiche e tutto quello che hanno visto gli afghani negli ultimi otto anni non è altro che una continua escalation della violenza.

 

 

 

Di Matthew Hoh, 21 agosto 2017

 

 

In Afghanistan le forze armate americane non hanno fatto alcun progresso, a meno che non lo si chieda ai mercenari assoldati dagli Stati Uniti o ai signori afghani della droga, una parte enorme dei quali è nostra alleata nei governi, nell'esercito e nelle forze di sicurezza afghani. Ci sono state solo distruzione e sofferenza. I politici, gli “esperti” e i generali americani parleranno dei "progressi" realizzati dai 70.000 soldati statunitensi impiegati in Afghanistan dal presidente Obama a partire dal 2009, insieme ad altri 30.000 militari europei e a 100.000 combattenti privati. Ma la triste e dura realtà è che dal 2009 la guerra in Afghanistan si è solo ampliata, senza mai né stabilizzarsi né diminuire.

 

Le forze talebane sono aumentate di decine di migliaia, nonostante le decine di migliaia di vittime e di prigionieri. E le vittime sia afghane sia americane hanno continuato a crescere, anno dopo anno di guerra, con i caduti americani che si sono ridotti soltanto quando le forze statunitensi hanno iniziato a ritirarsi massicciamente da alcune zone dell’Afghanistan nel 2011, mentre le forze di sicurezza afghane e i civili hanno subito perdite record ogni anno, da quando le Nazioni Unite hanno incominciato a registrarne il numero.

 

Allo stesso modo, qualsiasi progresso di ricostruzione o sviluppo dell'Afghanistan è risultato inesistente, nonostante i più di 100 miliardi di dollari spesi con queste finalità negli Stati Uniti dallo Special Inspector General for Afghan Reconstruction (SIGAR). La somma di 100 miliardi di dollari, sia detto per inciso, oltrepassa le spese del piano Marshall, se si calcola tenendo conto dell’inflazione quanto fu speso per il piano di ricostruzione che seguì la Seconda guerra mondiale.

 

Le ripetute affermazioni sui milioni di scolare afghane che frequenterebbero le scuole, sui milioni di afghani che avrebbero accesso a una migliore assistenza sanitaria, sul netto aumento dell’aspettativa di vita in Afghanistan e sulla realizzazione nel Paese di un sistema economico che crea posti di lavoro sono state smascherate come nient'altro che menzogne propagandistiche. Esibito spesso come una sorta di villaggio Potëmkin dei nostri tempi ai giornalisti in visita e alle delegazioni del Congresso e  usato per giustificare i continui finanziamenti al Pentagono e all’USAID – e così permettere ulteriori uccisioni – come il programma americano di ricostruzione in Iraq, il programma di ricostruzione dell’Afghanistan è risultato un fallimento e i suoi supposti successi si sono dimostrati virtualmente inesistenti, come è stato documentato da diverse indagini del SIGAR e da investigazioni svolte dalle Nazioni Unite, dall’UE, dal FMI, dalla Banca Mondiale e via dicendo.

 

Stasera, il popolo americano si sentirà ripetere ancora una volta la grande menzogna sui progressi fatti dall'esercito americano in Afghanistan dopo "la rimonta afghana", proprio come spesso sentiamo ripetere la menzogna su come le forze americane avrebbero "vinto" in Iraq. In Iraq c’è stato un compromesso politico che ha comportato una breve cessazione delle ostilità, durata pochi anni; ed è stato il crollo dell'equilibrio politico - che era stato distrutto - a portare al ritorno della violenza negli ultimi anni. In Afghanistan una soluzione politica non è mai stata nemmeno tentata e tutto quello che i popoli afghani hanno visto negli ultimi otto anni, ogni anno, è stato un peggioramento della violenza.

 

Gli americani si sentiranno dire stasera anche che l'esercito americano avrebbe fatto grandi cose per il popolo afghano. Ma al di fuori del governo locale, incredibilmente corrotto e privo di legittimità - una cleptocrazia di cui è difficile trovare un esempio più calzante con la definizione – mantenuto al potere dagli Stati Uniti con i suoi soldati e 35 miliardi di dollari all'anno, sarebbe arduo trovare molti afghani d'accordo con le dichiarazioni dei politici americani, dei generali americani e degli “esperti”, che sono poi finanziati, direttamente o indirettamente, dalle aziende militari. È importante ricordare che per tre elezioni successive in Afghanistan il governo degli Stati Uniti ha sostenuto elezioni spaventosamente viziate da brogli, consentendo ai soldati americani di uccidere e morire mentre le elezioni presidenziali e parlamentari venivano brutalmente sequestrate. È importante anche ricordare che molti membri del governo afghano sono loro stessi signori della guerra e della droga, molti di loro colpevoli di alcuni dei peggiori abusi contro i diritti umani e di crimini di guerra, gli stessi di cui sono colpevoli i Talebani, mentre l’attuale governo Ghani, e il precedente governo Karzai, hanno consentito la prosecuzione di gravi crimini contro le donne, tra cui una legge che consente agli uomini di violentare le proprie mogli.

 

Qualunque cosa il presidente Trump annunci stasera sull'Afghanistan, una decisione che ha preannunciato scherzosamente su Twitter, come se fosse il lancio di un nuovo prodotto o di un nuovo programma televisivo, e non la realtà cupa e dolorosa della guerra, possiamo essere certi che le bugie sui progressi americani in Afghanistan continueranno, che le bugie sull'impegno americano nei confronti dei diritti umani e dei valori democratici continueranno, così come continueranno i profitti delle aziende militari e dei signori della droga e, naturalmente, continuerà di sicuro la sofferenza del popolo afghano.

 

Matthew Hoh è membro dei consigli consultivi di Expose Facts, Veterans for Peace e World Beyond War. Nel 2009 si è dimesso dal Dipartimento di Stato in Afghanistan in segno di protesta per l'escalation della guerra afghana da parte dell'amministrazione Obama. Precedentemente era stato in Iraq con un team del Dipartimento di Stato e con i Marines americani. È Senior Fellow del Center for International Policy.

ZH - Francia e Polonia ai ferri corti: il dibattito Macron vs. Syzdlo

Zero Hedge commenta una notizia trascurata dai nostri media: lo scontro tra Francia e Polonia. Nei giorni scorsi, Macron ha imprudentemente attaccato il governo di Varsavia sostenendo che il popolo polacco "merita di meglio". La dura replica di Varsavia non si è fatta attendere, imputando a Macron il crollo dei consensi e l'inesperienza politica. Lo scontro si aggiunge alle richieste di risarcimento sempre più insistenti del governo polacco alla Germania per i crimini commessi durante la Seconda Guerra Mondiale e alla crisi diplomatica tra Ungheria e Olanda, con la prima che ha richiamato l'ambasciatore da Amsterdam dopo che un diplomatico olandese aveva tacciato il governo ungherese di jihadismo. In tutto questo, prima di preoccuparci di chi abbia ragione, dovremmo riflettere su quanto l'Unione Europea abbia "portato la pace" tra i paesi membri.


 

 

di Tyler Durden, 25 agosto 2017

 

Proprio mentre la Polonia, il recente stato reietto d'Europa, sta avanzando una richiesta di risarcimento alla Germania per i danni subiti nella Seconda Guerra Mondiale, causando una frattura tra Varsavia e Berlino, il governo polacco si è impegnato anche in un'altra faida diplomatica, questa volta con il presidente francese Macron, che, come abbiamo appreso nel frattempo, spende 10.000 dollari al mese in make up.

 

L'ultimo battibecco è iniziato venerdì, quando il presidente francese Emmanuel Macron ha detto che la Polonia si stava isolando dall'Unione europea e che i cittadini polacchi "meritano di meglio" di un governo in conflitto con "i valori democratici e i piani di riforme economiche dell'unione". Macron ha detto che Varsavia, dove è insediato un governo euroscettico dal 2015, si sta muovendo nella direzione opposta rispetto all'Europa su numerosi temi e "non sarà in grado di stabilire il percorso del futuro dell'Europa".

 

"L'Europa è un'area creata sulla base di valori, in relazione con la democrazia e la libertà con le quali la Polonia di oggi è in contrasto", ha detto Macron mentre era in Bulgaria, durante un viaggio nell'Europa centrale e orientale, viaggio nel quale mirava, secondo Reuters, a creare sostegno a favore della propria visione di un'Europa che protegga maggiormente i propri cittadini.

 

In un malevolo attacco destinato certamente a rendere tesi i rapporti tra potenze occidentali e Commissione Europea di Bruxelles da un lato, e il governo polacco del partito Diritto e Giustizia (PiS) dall'altro, Macron ha detto che il popolo polacco merita di meglio: "La Polonia oggi non definisce il futuro dell'Europa, e non definirà l'Europa di domani", ha sparato Macron durante una conferenza stampa congiunta con il presidente bulgaro Rumen Radev nella città di Varna sul Mar Nero.

 

La Polonia - che è ai ferri corti con la Commissione Europea su vari temi, dal suo rifiuto di accettare le quote di redistribuzione dei migranti stabilite dalla UE alla questione sul giro di vite sulla giustizia e sui media da parte del partito conservatore al governo - ha prontamente risposto: poco dopo le dichiarazioni di Macron, il Primo Ministro polacco Beata Syzdlo, durante un'intervista, si è scatenata contro il presidente francese, rinfacciandogli il crollo dei consensi e dicendo che Macron "non deciderà il futuro dell'Europa".

 

Syzdlo ha attaccato Macron per la sua mancanza di esperienza e gli ha suggerito di preoccuparsi dei problemi del suo paese piuttosto che intromettersi negli affari della Polonia: "Suggerisco al presidente di essere più conciliante... Forse i suoi commenti arroganti sono il risultato della sua mancanza di esperienza politica".

 

"Suggerisco al presidente di concentrarsi sui problemi del suo paese, forse in questo modo sarà in grado di raggiungere gli stessi risultati economici e lo stesso livello di sicurezza che viene garantito ai cittadini della Polonia", ha aggiunto.

 

I commenti del primo ministro polacco facevano implicitamente riferimento all'insistenza del suo governo di non accettare migranti dal Medio Oriente, nonostante le pressioni di Bruxelles, perché Varsavia ritiene che essi possano rappresentare una minaccia alla sicurezza nazionale, come mostrato dalla Francia "ultra liberale", che è stata colpita duramente dagli attacchi dei militanti islamisti negli anni recenti.

 

Dopo le dichiarazioni di Macron il ministro degli esteri polacco ha aggiunto di avere prontamente convocato i diplomatici francesi per esprimere "l'indignazione del governo polacco verso le parole arroganti" di Macron.

 

Il ministro degli esteri polacco, Witold Waszczykowski, ha poi proseguito dicendo che il suo paese "non è affatto isolato", e ha invitato Macron a seguire con più attenzione gli sviluppi dell'Europa centrale.

 

"Oggi ospitiamo un meeting importante, il presidente Macron non sta seguendo con attenzione le notizie, non sa quello che avviene in questa parte di Europa. Ma questo succede a volte. L'economia francese in questo momento non può competere con la vivacità delle economie di molti altri paesi europei tra cui la Polonia" ha detto. "Questo perché i lavoratori francesi hanno un'assistenza sociale enorme. La settimana lavorativa per molti francesi è di quattro, cinque giorni".

 

Anche la Bulgaria si è accodata alle lamentele, esortando la Francia a smetterla con le sue controverse richieste di rivedere la regolamentazione del mercato del lavoro nell'Unione. Oggi il primo ministro Boyko Borissov ha detto che "lo scontro aperto" tra paesi membri della UE è "dannoso". Borissov ha aggiunto che piuttosto che minacciare la Polonia la Francia dovrebbe "ascoltare le varie parti e cercare una soluzione".

 

Come aggiunge l'Express, Macron rischia di allontanarsi dai suoi alleati europei dopo le sue affermazioni sensazionaliste secondo cui la UE rischia il crollo se le leggi europee sul lavoro a basso costo non saranno riviste. Secondo l'attuale legislazione le imprese possono inviare temporaneamente lavoratori dai paesi con bassi salari verso quelli più ricchi senza dover pagare le imposte locali per la previdenza sociale. Ma il presidente francese sta chiedendo cambiamenti e invoca timori sul crollo del blocco guidato da Bruxelles per spaventare i paesi membri della UE e spingerli a sostenere le sue proposte.

 

La Polonia e la UE si sono scontrate ripetutamente nei mesi recenti, dopo che Bruxelles se l'è presa con il governo polacco per i suoi piani di revisione della Corte Suprema. Lo scorso mese Jaroslaw Kaczynski, presidente del partito di governo, ha dichiarato che le riforme andranno avanti nonostante il veto del presidente sulla televisione locale.

 

Con un annuncio a sorpresa, il presidente Andrzej Duda ha dichiarato che porrà il veto sul piano cedendo alle pressioni della UE, dopo le grandi proteste sollevate nelle maggiori città polacche.

 

* * *

 

A parte tutto questo, tornando al tema delle recenti richieste da parte della Polonia verso la Germania di risarcire i danni per la Seconda Guerra Mondiale, Szydlo ha chiesto alla Germania di "assumersi la responsabilità" per la Seconda Guerra Mondiale, considerato che la Polonia deve ancora riprendersi del tutto dai danni provocati dall'occupazione nazista, che ha lasciato milioni di morti ed edifici danneggiati o abbattuti.

 



 

Il primo ministro polacco ha detto: "In effetti si può dire che la Polonia stia solo chiedendo giustizia. Siamo vittime della Seconda Guerra Mondiale e i danni non sono mai stati rimborsati - all'opposto". Syzdlo ha aggiunto che "parlare oggi dei risarcimenti è una richiesta di giustizia verso ciò che spetta alla Polonia. Chiunque abbia un'idea diversa ... dovrebbe per prima cosa guardare alla Storia, e imparare con attenzione cos'è successo sul territorio polacco durante la guerra".

 

La leader del partito conservatore di governo si è unita al coro di politici polacchi che stanno chiedendo risarcimenti alla Germania per le enormi perdite inflitte alla Polonia durante la Seconda Guerra Mondiale. Ancora in luglio Szydlo aveva detto che la Polonia doveva ricevere un pagamento dalla Germania per gli ampi danni che aveva subito. Ha detto alla radio: "Stiamo parlando di somme enormi, e anche del fatto che la Germania per molti anni si è rifiutata di assumersi la responsabilità della Seconda Guerra Mondiale".

 

Come già riportato questo mese, Arakadiusz Mularczyk, parlamentare del partito di governo, aveva detto che il parlamento polacco aveva iniziato, dall'inizio di quest'anno, a investigare la possibilità di avanzare delle richieste contro la Germania. La mossa è arrivata dopo che Jaroslaw Kaczynski, il più potente politico polacco, aveva detto in una recente intervista che "il governo polacco si sta preparando per una storica controffensiva". Kaczynski aveva già chiesto risarcimenti alla Germania quando era lui stesso primo ministro, un decennio fa, creando delle tensioni tra la Polonia e la Germania, che sono due importanti partner commerciali e alleati nella NATO e nell'Unione Europea.

 

La Germania ha respinto queste richieste dicendo di avere già effettuato i risarcimenti in passato e di non dover pagare più niente. Ulrike Demmer, portavoce del governo, ha detto che Berlino non intende mutare la propria posizione al riguardo. Demmer ha aggiunto che questa è una "posizione irremovibile" della Germania.

 

La Germania nel corso degli anni ha pagato miliardi di euro come compenso per i crimini nazisti, soprattutto agli ebrei sopravvissuti, e ammette la responsabilità del paese di dover mantenere viva la memoria delle atrocità naziste e di doverle condannare. L'ex governo comunista in Polonia aveva detto di non avanzare altre richieste alla Germania. Tuttavia, oggi che crescono le pretese di risarcimento, Macierewicz ha detto che la Polonia al tempo del governo comunista era "un burattino dei sovietici", le cui decisioni non hanno oggi valore legale.

27/08/17

Jackson Hole: ricercatori sostengono che lo stimolo fiscale in recessione è efficace anche se il debito pubblico è elevato

Come riportato da Reuters, all'annuale incontro dei banchieri centrali a Jackson Hole alcuni ricercatori della Università di Berkeley hanno mostrato a Yellen, Draghi e soci una ricerca secondo la quale la spesa in deficit durante una recessione, anche in presenza di un alto debito pubblico, accelera la ripresa e non comporta molti rischi per la crescita a lungo termine. Al di là della facile ironia sull'acqua calda e le sue infinite riscoperte, la notizia dice molto del sentimento di impotenza dei banchieri centrali di fronte alla prossima crisi economica, e sembra essere sia un invito ai governi a fare qualcosa che un tentativo di prevenire future critiche all'operato delle banche centrali.

 

 

 

Reuters, 26/09/2017

 

Davanti ad un influente gruppo di banchieri centrali a Jackson, Wyoming, alcuni ricercatori hanno affermato che la spesa pubblica in recessione può spingere l'economia di un paese senza aumentare a dismisura e in modo permanente il suo debito pubblico, anche se questo è già abbastanza elevato.  [Il riferimento è all'annuale e importante meeting di banchieri centrali tenuto ogni anno a Jackson Hole dall'americana Fed, ndVdE].

 

"Le politiche fiscali espansive adottate quando l'economia è debole non solo possono stimolare la produzione ma anche ridurre il rapporto debito-PIL", hanno dichiarato i professori Alan Auerbach e Yuriy Gorodnichenko dell'Università della California, Berkeley, in un documento presentato all'annuale simposio economico della Federal Reserve di Kansas City.

 

Il focus del simposio quest'anno è su come promuovere al meglio un'economia globale più forte.

 

Dopo la crisi finanziaria mondiale del 2007-2009, la paura di un debito pubblico in crescita a vista d'occhio ha spinto le autorità fiscali di alcuni paesi a diminuire la spesa pubblica, una tattica che adesso gli economisti ritengono che abbia rallentato la ripresa.

 

Ma con livelli di debito storicamente elevati in molti paesi, inclusi gli Stati Uniti, dove il debito è circa al 76% del PIL nazionale, i responsabili delle politiche economiche si preoccupano per il rallentamento della crescita.

 

La ricerca presentata sabato offre nuovi elementi a dimostrazione del fatto che lo stimolo fiscale durante una recessione è sicuro ed efficace anche nei paesi fortemente indebitati.

 

Ciò può essere particolarmente gradito per i banchieri centrali, tra cui il presidente della Federal Reserve Janet Yellen e il presidente della Banca centrale europea Mario Draghi, che hanno a disposizione opzioni limitate per combattere una futura recessione, tenuto conto dei bassi tassi di interesse e dei bassi tassi di inflazione nelle loro economie.

 

I politici di Washington si stanno preparando per una potenziale resa dei conti sul debito degli Stati Uniti il ​​prossimo mese, mentre il Segretario del Tesoro Stephen Mnuchin ha avvertito che se entro il 29 settembre il Congresso non solleverà il massimale del debito del paese il governo non sarà più in grado di pagare i propri conti. In passato, i repubblicani hanno cercato di utilizzare i dibattiti sul tetto del debito come leva per limitare la spesa pubblica.

 

I ricercatori dell'Università della California hanno avvertito nel loro documento che lo stimolo fiscale in un'economia forte potrebbe effettivamente aumentare gli oneri del debito e rallentare la crescita a lungo termine.

 

"I nostri risultati non dovrebbero essere interpretati come un appello incondizionato ad una spesa pubblica aggressiva in risposta ad un'economia in declino", hanno scritto.

 

Tuttavia, hanno sostenuto, i dati suggeriscono che la spesa fiscale durante una recessione comporta meno rischi di depressione di quanto comunemente si pensi:

 

"Con i vincoli stringenti sulle banche centrali, quando arriverà la prossima recessione sarebbe auspicabile una risposta più attiva da parte della politica fiscale ".

26/08/17

Sapir - Le cattive notizie per l'euro: Karlsruhe vs. BCE, e di nuovo l'Italia...

Jacques Sapir commenta gli avvenimenti recenti che indicano dei mutamenti di atteggiamento verso l'euro: l'accusa della corte di Karlsruhe verso la BCE, che avrebbe agito in modo incompatibile con la Costituzione tedesca (mossa simbolicamente importante che lancia un avvertimento pesante a Draghi), e la proposta insolitamente argomentata fatta da Berlusconi per l'introduzione di una doppia moneta in Italia (proposta inattuabile, ma che ammicca all'uscita dall'euro). Si tratta in entrambi i casi di mosse legate al clima pre-elettorale. Tuttavia, esse mostrano come la politica sia sempre più spinta a prendere posizione sul tema dell'euro e ad assumersene delle responsabilità.

 

 

di Jacques Sapir, 23 agosto 2017

 

Nel giro di una settimana si sono sommate diverse brutte notizie per l'euro. Si tratta essenzialmente di notizie politiche. Non torneremo, in questo articolo, sui problemi economici della moneta unica, che abbiamo già descritto e analizzato in vari post [1].

 

Queste notizie arrivano in parte dall'Italia, il che non sorprenderà nessuno vista la situazione di quel paese, che l'euro sta strangolando. Ma il punto importante è che un'altra notizia viene dalla Germania, fatto più intrigante che merita una spiegazione.

 

L'euro e la Corte Costituzionale tedesca di Karlsruhe

 

Le prime cattive notizie provengono proprio dalla Germania. La corte costituzionale tedesca di Karlsruhe, che in effetti è l'equivalente della Corte Costituzionale, ha riconosciuto che le misure della Banca centrale europea note come PSPP (programma di acquisto titoli del settore pubblico) potrebbero rappresentare una violazione della Costituzione tedesca [2]. La corte di Karlsruhe ha dichiarato, nelle proprie tesi, che "ci sono ragioni significative per ritenere che la BCE sia andata oltre il proprio mandato" [3].

 

Ovviamente non dobbiamo eccitarci troppo per questa decisione. Se il presidente della corte costituzionale di Karlsruhe ha sostenuto che, a suo avviso, le misure della BCE rappresentano una violazione della Costituzione tedesca, ha però anche rimandato tutta la pratica alla Corte europea di giustizia. La sentenza che sarà emessa da quest'ultima verrà poi esaminata dalla corte di Karlsruhe. Come si può capire, si tratterà di una procedura lunga, che durerà almeno fino all'inizio del 2018, se non fino alla tarda primavera. Questa procedura, inoltre, è stata avviata a seguito della denuncia presentata da Alexander Gauland, leader di Alternativa per la Germania (AfD). Questo partito politico, che è noto per le sue posizioni anti-euro, è impegnato come gli altri nella campagna elettorale per le elezioni politiche di settembre. Appare quindi evidente che abbia voluto compiere un'operazione pubblicitaria. Questa operazione, però, sembra aver toccato un punto sensibile, e la reazione della corte di Karlsruhe è stata rapida e positiva.

 

I dirigenti della BCE hanno reagito rapidamente, cercando di rassicurare i leader europei. Hanno affermato che le operazioni della BCE erano perfettamente legali e corrispondevano al suo mandato. Può essere. È probabile che la Corte europea di giustizia non vorrà mettere la BCE in una situazione difficile. Ma questa sentenza potrebbe comunque limitare seriamente i margini di manovra della BCE [4]. Si tratterebbe quindi di uno "stop", o almeno di un colpo di avvertimento. E il fatto che venga dalla Germania è particolarmente significativo.

 

E ora parliamo di nuovo dell'Italia...

 

A tutto questo si somma il fatto che, nel frattempo, c'è stato un evento importante in Italia. Il 19 agosto 2017 sul quotidiano Libero, Silvio Berlusconi ha pubblicato una lettera aperta in cui propone di stabilire per l'Italia un sistema a due valute: l'euro, che sarebbe utilizzato solo per le transazioni internazionali, e la lira, che sarebbe utilizzata per i pagamenti all'interno del paese [la lettera di Berlusconi giunge in risposta alle domande poste da Paolo Becchi e Fabio Dragoni al Cavaliere su Libero, ndVdE]. Non è la prima volta che l'ex primo ministro italiano fa una dichiarazione del genere. Ma è la prima volta che la fa in un modo così politicamente articolato. Questo gli ha procurato aspre critiche, in particolare da Romano Prodi, che gli ha consigliato di "andare a farsi curare", ma anche da Claudio Borghi, responsabile economico della Lega Nord (che come noto ha avanzato da tempo la proposta per certi aspetti simile, ma molto più attuabile concretamente, dei MiniBot, ndVdE).

 

Nonostante ciò, con tutte le sue contraddizioni, la lettera di Silvio Berlusconi è importante. Essa ricorda la necessità, per l'Italia, di ricorrere alle svalutazioni negli anni '80 e '90. Sottolinea il fatto che molti paesi hanno saputo superare fasi di grandi difficoltà economiche – e a questo proposito cita la Russia, la Cina e la Corea del Sud – per il fatto che disponevano della propria moneta. Berlusconi insiste su questo aspetto per accostarsi ad altri partiti come la Lega Nord, ma anche ai delusi del Movimento 5 Stelle, e a questo proposito dobbiamo ricordare che anche l'Italia si trova in un periodo pre-elettorale.

 



 

Silvio Berlusconi, le sue contraddizioni e la sua verità

 

Il progetto di Berlusconi però, contrariamente a quanto afferma, non è compatibile con le norme dell'unione monetaria (si veda l'articolo 128 del Trattato di Lisbona o del TFUE). Claudio Borghi ha ragione a ricordare questo punto. Se anche lo fosse, però, la complessità di un sistema a doppia valuta nel mondo moderno ha sempre fatto sì che esso nella realtà non abbia mai funzionato più di qualche mese o di qualche anno. Forse dobbiamo intedere che dietro la proposta di Berlusconi ci sia semplicemente l'intenzione di uscire dall'euro. Di fronte al disastro nel quale si trova il paese, disastro aggravato dal fatto di trovarsi in prima linea sul fronte dell'onda migratoria, sono sempre di più le voci che si alzano a dire che bisogna fare "qualcos'altro".

 

Questo ha senso per l'Italia, ma ha senso anche per altri paesi, dalla Francia alla Grecia, passando per la Spagna, il Portogallo e il Belgio. Non ci deve sorprendere che Berlusconi avanzi questa proposta, sebbene in modo un po' velato. Sappiamo che molti economisti italiani, in privato, la ritengono indispensabile e inevitabile. Il principale rimprovero che si può fare a Berlusconi è di non andare coerentemente fino in fondo.

 

Dopo che il Movimento 5 Stelle ha fatto retromarcia, Berlusconi spera di prendersi i voti del partito populista di Beppe Grillo, un partito che appare in difficoltà, privo di strategia e coerenza. Ma se riuscirà a farlo anche senza chiarire del tutto la propria posizione, questo resta da vedere.

 

Uno spettro si aggira per l'Europa...

 

Come possiamo notare, sia in Italia che in Germania le considerazioni elettorali sono ben presenti. Questo è ovvio. Ma è anche ovvio che, al di là di queste considerazioni, l'euro resta un problema centrale per diverse forze politiche. Esso incombe su tutti i problemi economici e sociali che i paesi si trovano ad affrontare. È quindi illusorio pensare di affrontare i problemi ignorando che essi sono in gran parte il risultato dell'esistenza stessa dell'euro [5].

 

Questa situazione costringe le forze politiche a schierarsi in relazione ad esso e alle sue conseguenze. Non c'è nessun trucco da prestigiatore che possa farlo sparire dall'orizzonte politico, e l'euro continuerà a restare una questione in campo finché non ce ne saremo liberati.

 

Questa situazione non lascia quindi che tre soluzioni per le forze politiche. La prima è unirsi al campo dei sostenitori dell'euro e assumersi la responsabilità delle conseguenze disastrose della moneta unica, che le si voglia o no. Oppure si possono criticare queste conseguenze, ma senza mettere in discussione l'euro, e alla fine affondare nella propria incoerenza, che allontanerà non pochi elettori. Questo è quanto sta accadendo al Movimento 5 Stelle ed è già accaduto alla "sinistra" in Francia, a quelli che continuavano a parlare di "un altro euro", anche se tutti sanno che un altro euro è e resterà una chimera. Infine, le forze politiche possono assumere delle posizioni che mettano seriamente in discussione l'euro, e quindi assumersene tutte le implicazioni, e in particolare un sistema di alleanze, ma anche un insieme di misure istituzionali, che rendano effettiva l'uscita dall'euro.

 

Ora che in Francia si sta preparando un movimento di protesta contro le misure economiche e sociali inique del governo, è necessario capire che queste misure sono in realtà coerenti con l'esistenza dell'euro. Esse sono la traduzione dell'esistenza dell'euro nella nostra vita quotidiana. Queste misure possono essere contrastate solo opponendosi alla loro ragion d'essere, che è l'euro.

 

 

 

[1] Si vedano il post del 29 luglio 2017 pubblicato su Russeurope [qui tradotto da Voci dall'Estero] sulle differenze nel tasso di cambio reale (calcolato dal Fondo Monetario Internazionale), il post del 30 luglio 2017 sui fondamenti teorici dell'euro, e quello dell'11 agosto sul deficit commerciale della Francia

 

[2] Balazs Koranyi e Francesco Canepa, Reuters, 15 agosto 2017,

 

[3] irishtimes.com – ECB bond-buying activities referred to Europe’s highest court – Mardi, 15 agosto 2017.

 

[4] Balazs Koranyi e Francesco Canepa, Reuters, op.cit.

 

[5] Come mostrato dall'analisi del deficit commerciale della Francia https://russeurope.hypotheses.org/6210

25/08/17

Rapporto Goldman Sachs: Italia paese meno adatto ad assorbire migranti

Nell'ultimo rapporto della Goldman Sachs, riportato da Zero Hedge,  si legge che l'Italia, ormai divenuta meta principale degli sbarchi di immigrati, è il paese peggio posizionato, sotto tutti gli aspetti, per far fronte all'attuale ondata di arrivi. La Goldman non rinuncia a reiterare i presunti vantaggi potenziali apportati dall'immigrazione, ma esprime preoccupazioni riguardo agli effetti della crisi migratoria sul panorama politico italiano, soprattutto in vista delle elezioni del prossimo maggio.

 

 

Zero Hedge, 22 agosto 2017

 

Sebbene lo scorso anno l’economia e i mercati di capitali in Europa siano stati risparmiati da shock degni di nota, e il PIL europeo, sulla spinta dell’inarrestabile motore delle esportazioni tedesche, abbia mostrato una tendenza al rialzo incredibilmente pronunciata (dovuta al marco tedesco eccessivamente basso e al fallimento della Grecia), si riaffaccia all’orizzonte un problema antico e ricorrente, che minaccia la stabilità e coesione della stessa Unione europea: l’ultima ondata di rifugiati, negli ultimi mesi prevalentemente provenienti dal Nord Africa, ha avuto l’Italia come meta principale degli sbarchi, causando così un’impennata di arrivi sulle coste italiane. Ma la maggior parte dei paesi europei ha chiuso le frontiere al flusso di rifugiati, obbligando Roma a gestire da sola queste presenze, sgradite a molti italiani: sembra proprio che aleggi, in giro per l’Europa, una certa indolenza verso gli appelli di Roma ad una maggiore solidarietà da parte dei partner europei, che vengono puntualmente ignorati. Intanto, nel primo semestre di quest’anno l’Italia ha accolto circa 100.000 rifugiati, e questa cifra continua a salire vertiginosamente.

 

 



 

Un nuovo studio appena pubblicato da Goldman Sachs potrebbe adesso aggiungere ancora più benzina al fuoco: in esso si legge che, esattamente come denunciato da Roma, l’Italia è il paese meno adatto ad assorbire i migranti. Ciò si deduce sulla base di tre indici di integrazione: (1) integrazione economica; (2) integrazione sociale; e (3) efficacia delle politiche.

 

Non sarà una novità per i lettori abituali, ma la Goldman espone il problema in questi termini:

 

"I flussi migratori verso l’Europa sono in evoluzione, e i paesi non hanno tutti la stessa capacità di integrare i nuovi arrivati. I migranti che attraversano il Mediterraneo provengono in misura sempre maggiore dall’Africa sub-sahariana piuttosto che dalle zone di guerra del Medio Oriente. I paesi di destinazione sono sempre più l’Italia e la Spagna, mentre i flussi attraverso Grecia e Balcani occidentali verso la Germania si sono ridotti, soprattutto a seguito dell’accordo UE-Turchia e l’imposizione di controlli più stringenti alle frontiere."


 



 

A causa del continuo flusso migratorio, la riuscita dell’integrazione è ovviamente un obiettivo fondamentale per i responsabili politici, che auspicano effetti positivi per la crescita nel lungo periodo, mentre cercano di mitigare gli scompensi causati dallo sconvolgimento nel mercato del lavoro e nella società in senso lato nel breve periodo.

 

Qui l’analisi della Goldman esamina in una prospettiva d’insieme i processi di integrazione, partendo da un primo confronto della capacità di gestire l’immigrazione in ciascun paese: L’attenzione è posta soprattutto sull’Italia, paese divenuto meta principale dei flussi migratori trans-mediterranei e che il prossimo maggio si troverà di fronte alle elezioni politiche. La Goldman ha anche aggiunto che il successo dell’integrazione è importante per le sue previsioni macroeconomiche sotto due punti di vista.

 

"Innanzitutto, la maggioranza dei flussi migratori verso la UE quest’anno si è concentrata al centro del Mediterraneo, in direzione dell’Italia. Il paese è però già sotto forte pressione economica e politica per via delle scarse finanze pubbliche, e per l’ascesa dei populismi a ridosso delle elezioni dell’anno prossimo."


 

Eppure, secondo la Goldman, il paese “designato” per accogliere la maggior parte dei migranti nel 2017 è proprio il meno adatto a farlo. Qui il riepilogo delle conclusioni:

 

- L’integrazione economica, misurata come rapporto tra i corrispondenti tassi di disoccupazione immigrati/nativi, risulta particolarmente bassa in Italia, Grecia, Spagna e Ungheria. Questi paesi hanno un alto tasso di disoccupazione diffuso tra la popolazione, ma il problema grava sugli immigrati in maniera  sproporzionata. Per contro, l’UK ha il gap di disoccupazione immigrati/nativi più basso.

 

- L’integrazione sociale, stimata approssimativamente sulla base di informazioni sull’atteggiamento dei cittadini nei confronti dell’immigrazione, è minore nei paesi più colpiti dalla crisi migratoria. Mentre la crisi sembra alleggerirsi in paesi come la Grecia, in Italia si sta intensificando.

 

- L’efficacia delle politiche adottate, valutata da indagini indipendenti da parte dell’organizzazione MIPEX, è più bassa in Grecia e in Ungheria.

 

Vediamo adesso nel dettaglio, iniziando dall’integrazione economica:

 

 

"L’integrazione economica è qualificabile in termini di assimilazione nel mercato del lavoro. La figura 3 mostra il gap della disoccupazione immigrati/nativi per i migranti di prima e seconda generazione nei diversi paesi dell’UE. La differenza dei tassi di disoccupazione immigrati/nativi fornisce una prima stima generale dell'integrazione economica, ove l’assenza di un gap implica una piena integrazione. L’andamento delle variazioni di tale gap nelle generazioni successive è una misura dinamica del processo di integrazione: se il gap si riduce per i figli degli immigrati rispetto ai genitori, ciò indica che vi è integrazione nel corso delle generazioni. La figura 3 illustra quindi due maniere di comparare l’integrazione economica tra diversi paesi:


Se consideriamo gli istogrammi nel loro livello, possiamo confrontare i livelli di integrazione in ogni paese (per ogni generazione).


Se consideriamo la differenza intergenerazionale, possiamo confrontare il tasso di integrazione tra i paesi.



Spagna e Grecia hanno il livello più basso di integrazione, indicato dal più ampio gap immigrati/nativi. L’Italia e l’Ungheria hanno invece il più basso tasso di integrazione economica, con i migranti di seconda generazioni in condizioni mediamente peggiori dei loro genitori. Questi quattro paesi hanno anche i tassi di disoccupazione più alti tra la popolazione totale. Il punto è che, in questi paesi, la disoccupazione colpisce in modo sproporzionato la popolazione immigrata, e la seconda generazione chiaramente non riesce a recuperare lo svantaggio."


 

Di conseguenza, se si vuole sperare in un’integrazione economica dei rifugiati, l’Italia è l’ultimo paese in cui portarli. E che dire dell’integrazione sociale? La risposta è semplice:

 

"L’integrazione sociale si può stimare sulla base dell’attitudine dei cittadini verso l’immigrazione. È difficile misurare la coesione sociale, ma si può fare una stima approssimativa in base a certi tipi di informazioni ottenute nei sondaggi. Le indagini attuali si concentrano su due indicatori: la discriminazione contro i migranti e il grado di accettazione dei migranti da parte del paese ospitante. Consideriamo quest’ultimo. La figura 4 illustra l’opinione pubblica nella UE verso i nuovi immigrati, basata sull’Eurobarometro 2017.



Appare subito evidente come l’Ungheria sia il paese socialmente più ostile ai migranti, seguita da Italia e Grecia. In tutti questi paesi, l’ostilità dell’opinione pubblica è stata causata dalla crisi migratoria. Ma mentre i flussi di migranti verso Ungheria e Grecia hanno subito un rallentamento, in Italia stanno intensificandosi. Secondo il Ministero dell’Interno italiano, il numero di arrivi in Italia ha quasi superato il record annuale di 181.000 immigrati del 2016, ed i disordini diffusi in Libia hanno causato un incremento del 44% nel numero di richiedenti asilo che attraversano il Mediterraneo rispetto allo stesso periodo l’anno scorso."


 

Attualmente l’Italia - insieme all’Ungheria - sembra quindi la nazione più inospitale dell'Europa in relazione a due delle coordinate principali: economica e sociale. Vediamo adesso il contrario: quali sono i paesi europei con politiche più efficaci, uno degli indicatori della capacità di un governo di promuovere l’integrazione. Questa la risposta della Goldman:

 

"Il Migration Integration Policy Index (MIPEX) è un indicatore misurato dal Migration Policy Group e dal Barcelona Centre for International Affairs. Si ricava dall’analisi di una serie di settori di intervento politico per confrontare le modalità con cui i governi promuovono l’integrazione. La figura 5 mostra il punteggio complessivo attribuito da MIPEX a ciascun paese. Grecia e Ungheria sono le meno politicamente efficaci nell’integrazione dei migranti. Nel 2013 la Grecia ha approvato una legge che impedisce agli immigrati di votare alle elezioni nazionali, mentre l’abrogazione di leggi sulla cittadinanza per i nati sul territorio ha lasciato diversi bambini nati in Grecia in un limbo legislativo. L’Italia si piazza abbastanza bene rispetto a questo indicatore, e il MIPEX conferma che sono stati fatti i primi passi verso un’integrazione legale e l’uguaglianza dei diritti. Tuttavia permangono delle difficoltà su come tutto questo si possa realizzare in pratica; anche se molti immigrati di lunga data hanno trovato lavoro, si tratta spesso di lavori al di sotto del loro livello di qualifica.


 

 



 

Arriviamo così alla conclusione della Goldman su quale sia la nazione europea più adatta per accettare le migliaia di arrivi giornalieri: per farla breve - non è l’Italia, o, come dice la Goldman Complessivamente, l’Italia ha una minore capacità di assorbimento dei migranti rispetto ad altri stati europei.”

 

 



 

"Sulla base degli indicatori presi in considerazione, l’Italia sembra il paese meno integrato economicamente e socialmente, nonostante risultati lievemente migliori rispetto alla media UE secondo il punteggio MIPEX per l’efficacia delle politiche. Le nostre conclusioni sono molto significative alla luce dell’incremento annuale dell’immigrazione verso l’Italia attraverso il Mediterraneo e delle fragili finanze pubbliche del paese. L’attuale gestione della crisi migratoria in Italia sarà inoltre un punto centrale durante le prossime elezioni politiche di maggio, soprattutto per il suo ruolo determinante sul sostegno di cui godono i partiti populisti di opposizione."


 

E nonostante la Goldman ribadisca il classico vecchio dogma per cui “l’arrivo di migranti in Italia potrebbe apportare benefici economici nel lungo periodo ed offre un modo per contrastare il problema demografico del paese (la popolazione italiana si è ridotta per il secondo anno consecutivo nel 2017)”,  tuttavia essa non può esimersi dal riconoscere che “per poter sfruttare tali benefici è necessaria un’efficace integrazione economica e sociale”, precondizione abbastanza improbabile perché “le analisi evidenziano dubbi circa la capacità dell’Italia di raggiungere questo risultato e suggeriscono piuttosto l’approssimarsi di una ‘tempesta perfetta’ all’orizzonte.”

24/08/17

Stiamo viaggiando verso un’altra crisi di debito privato – perché nessuno se n’è accorto?

Dal blog New Statesman un appassionato articolo che denuncia una delle più grosse bugie economiche dei tempi moderni. La crisi del 2008, che ha portato nel mondo una nuova Grande Depressione, non è stata causata dai debiti pubblici di governi spendaccioni, bensì dai debiti privati, saliti a livelli senza precedenti, come nel Regno Unito. Oggi la situazione si sta ripetendo, e i continui richiami al pareggio dei bilanci pubblici non fanno che spingere l’economia mondiale sull’orlo di un nuovo crash finanziario.

 

 

 

Di Anoosh Chakelian, agosto 2017

 

Questa è una richiesta: che si faccia un’inchiesta pubblica sugli attuali livelli di debito privato.

 

Ormai da quasi dieci anni abbiamo vissuto in una menzogna. E questa bugia sta per infliggere enormi danni alla nostra economia. Se non apriamo un dibattito imparziale riguardo a quello che sta davvero accadendo, i risultati potrebbero essere disastrosi.

 

La bugia a cui mi riferisco è l’idea che la crisi finanziaria del 2008 e la seguente “Grande Recessione” siano state causate dalle scriteriate spese dei governi e dal debito pubblico che ne sarebbe derivato. In realtà, la vera causa è l’esatto opposto. La crisi si è verificata a causa di livelli pericolosamente alti di debito privato (in particolare una crisi dei mutui). Inoltre – e questo è quello che non si deve mai dire – il livello del debito pubblico e del debito privato sono inversamente proporzionali.

 

Se il settore pubblico riduce il suo debito, il debito del settore privato complessivamente aumenta. Questo è quello che è accaduto negli anni precedenti il 2008. E ora l’austerità sta ripetendo questo meccanismo. Se non facciamo qualcosa, il risultato sarà inevitabilmente un’altra catastrofe.

 

I vincitori e i perdenti del debito

 

I seguenti grafici illustrano la relazione tra debito pubblico e privato. Sono entrambi previsioni dell’Ufficio per la Responsabilità Fiscale (OBR), prodotti nel 2015 e nel 2017.

 

Ecco quello che sarebbe successo oggi secondo le previsioni fatte dall’OBR nel 2015:

 



(NdVdE: Corporate=aziende, Household=famiglie, Government=pubblico, Rest of World=estero)

 

Quest’anno l’OBR ha completamente cambiato le sue previsioni. Ecco come ora prevede che andranno le cose:

 



 

Anzitutto, notate che entrambi i grafici sono simmetrici. Quello che succede in alto (i settori dell’economia in surplus) riflettono esattamente quello che succede in basso (i settori dell’economia in deficit). Questa è chiamata “identità contabile”.

 

Come in qualsiasi foglio di gestione contabile, i crediti e i debiti devono corrispondere. La maniera più facile per capire questo meccanismo è immaginare che esistano solo due attori: il governo e il settore privato. Se il governo si indebita di 100 sterline, e le spende, allora il debito del governo sale di 100 sterline. Ma spendendole, inietta 100 sterline aggiuntive nell’economia privata. In altre parole: 100 sterline in meno per il governo, 100 sterline in più per tutti gli altri sul grafico.

 

Analogamente, se il governo tassa qualcuno di 100 sterline, allora il governo sarà più ricco di 100 sterline, ma 100 sterline vengono sottratte all’economia privata (100 sterline in più per il governo, 100 sterline in meno per tutti gli altri attori del grafico).

 

Quali sono le implicazioni di questi conti sull’economia nel suo complesso? La morale è che se il governo tende a essere in surplus, allora tutti gli altri dovranno tendere al deficit.

 

Noi siamo abituati a pensare ai soldi come a un pugno di fiches da poker che sono già disposte sul tavolo: ma le cose non stanno così. I soldi possono essere creati. E vengono creati quando le banche concedono prestiti. O il governo si indebita e inietta soldi nell’economia, oppure i privati cittadini si indebitano con le banche. Queste banche non prendono i soldi dai risparmi degli altri cittadini o da qualche altra parte: semplicemente, li creano. Tutti possono firmare un “pagherò”, una cambiale. Ma solo le banche possono emettere “cambiali” che il governo accetta come pagamento delle tasse. (In altre parole, esiste davvero l’albero magico dei soldi! Ma solo le banche possono usarlo).

 

Ci sono altre cose da notare. Il Regno Unito ha un enorme deficit commerciale (colore blu), ciò significa che il settore governativo (giallo) deve andare in deficit (stampare denaro o, più correttamente, farlo stampare alle banche) anche per iniettare soldi nell’economia allo scopo di pagare tutte le importazioni cinesi, americane e tedesche. La somma totale dei soldi può anche cambiare. Ma il punto importante è che meno il governo si indebita, e più devono indebitarsi gli altri. Le misure di austerità porteranno necessariamente a livelli crescenti di debito provato. Ed è esattamente quello che è accaduto.

 

Se tutto questo sembra molto lontano dalla maniera in cui i politici parlano di questa questione, la ragione è semplice: molti politici non ne capiscono nulla. Un recente sondaggio ha mostrato che il 90 percento dei parlamentari non capisce nemmeno da dove vengano i soldi (pensano che questi vengano stampati dal Conio Reale). In realtà, il debito è denaro. Se nessuno dovesse niente agli altri non ci sarebbero soldi e l’economia si arresterebbe.

 

Ma naturalmente il debito è nelle mani di qualcuno. E questi grafici mostrano chi è in debito e chi è in credito.

 

La crisi del debito privato

 

Una volta capito questo, riguardiamo i grafici – con attenzione particolare al blu scuro, che rappresenta il debito delle famiglie. Nella prima versione, quella del 2015, l’OBR prendeva diligentemente nota che il debito delle famiglie andava aumentando negli anni che hanno portato alla crisi del 2008. È una cosa importante, perché si è trattato della prima volta nella storia della Gran Bretagna in cui il debito totale delle famiglie ha superato il risparmio totale delle famiglie, pertanto il settore delle famiglie era complessivamente in deficit. (Le imprese, nel frattempo, stavano accumulando enormi profitti). Ma l’OBR prevedeva che questa situazione non si sarebbe ripetuta.

 

Certo, diceva l'OBR. L’austerità e la riduzione del deficit del governo significavano che i livelli del debito privato dovevano salire. Tuttavia, gli economisti dell’OBR ritenevano che questo non fosse un problema perché l’aggiustamento non sarebbe ricaduto sulle famiglie, ma sulle imprese. Le politiche favorevoli al business dei Tories, dicevano, avrebbero causato un boom nell’espansione delle imprese, il che avrebbe significato che queste si sarebbero indebitate (quell’enorme rigonfiamento rosso sotto lo zero nel primo grafico, che doveva compensare completamente la riduzione del deficit pubblico). Le normali famiglie non avevano nulla di cui preoccuparsi.

 

Ma era una fantasia totale. Non c'è stato alcun boom.

 

Nel secondo grafico, due anni dopo, l’OBR è stato costretto ad ammetterlo. Le imprese stanno solo accumulando profitti e tenendoseli. Le famiglie, dall’altra parte, sono dirette verso la catastrofe. L’austerità ha significato stipendi in calo, meno spese governative per servizi sociali (o altro) e tasse di fatto più alte. Questo ha strizzato il budget delle famiglie e le persone sono state costrette ad indebitarsi. Di conseguenza, non solo le famiglie sono complessivamente tornate in deficit per la seconda volta nella storia della Gran Bretagna, ma la situazione è persino peggiore di quella che avevamo negli anni precedenti il 2008.

 

E ricordate: è stata un crisi dei mutui a far scoppiare la bolla del 2008, che ha quasi distrutto l’economia mondiale e sprofondato milioni di persone nella povertà. Non una crisi del debito pubblico. Una crisi del debito privato.

 

Un’indagine

 

Nel 2015, più o meno quando sono uscite le previsioni originale dell’OBR, ho scritto un articolo per il Guardian, prevedendo che l’austerità e il tentativo di bilanciare il budget avrebbe creato una disastrosa crisi di debito privato. Ora questa sta avvenendo così innegabilmente, così chiaramente che perfino l’OBR non può negarlo.

 

Penso che sia arrivato il momento di avviare un’indagine pubblica – una investigazione formale – per chiarire come ciò sia potuto accadere. Dopo il crash del 2008, gli economisti del Tesoro e della Banca d’Inghilterra potevano quantomeno sostenere plausibilmente di non aver completamente capito la relazione tra il debito privato e l’instabilità finanziaria. Ma adesso non hanno più scuse.

 

A cosa diavolo serve un'istituzione chiamata "Ufficio per la responsabilità fiscale", se si immagina come un credulone un'abbuffata di indebitamenti da parte delle aziende, per suggerire che il pareggio di bilancio statale non avrà alcun effetto negativo? Vi sembra un comportamento responsabile? Perfino il secondo grafico è estremamente strano. Fino al 2017, la parte alta e bassa del grafico sono state l’esatto specchio l’una dell’altra, come è giusto che sia. Tuttavia, nelle previsioni degli anni dopo il 2017, la parte sotto lo zero è molto più piccola di quella sopra, facendo sospettare che si stia seriamente sottostimando il futuro valore sia dell’indebitamento del governo, sia di quello privato. In altre parole, i numeri non tornano.

 

L’OBR ha dichiarato a New Statesman che a loro non risultavano errori nelle loro previsioni del 2015 riguardo all’indebitamento netto del settore delle imprese, e che le previsioni erano basate sui dati disponibili allora. Ha sostenuto che le previsioni per gli investimenti delle imprese sono state riviste al ribasso a causa delle incertezze legate alla Brexit.

 

Tuttavia, se l’”Ufficio per la responsabilità fiscale” facesse fede al proprio nome, dovrebbe suonare un chiaro campanello d’allarme esattamente adesso. Ma finora tutto quello che abbiamo è una menzione del debito privato e un tiepido allarme riguardo all’aumento dei debiti personali da parte della Banca d’Inghilterra - che comunque non ha messo in relazione il problema con l’austerità – e una dichiarazione piuttosto forte da parte di un editorialista coraggioso del Daily Mail. Per il resto, silenzio.

 

L’unica spiegazione possibile è che istituzioni come il Tesoro, l’OBR, e per certi versi anche la Banca d’Inghilterra non possono, per definizione, metterci in guardia rispetto ai pericoli dell’austerità, per quanto allarmante sia la situazione, perché sono stati strutturati come sono proprio per giustificare l’austerità. È importante sottolineare che la maggior parte degli economisti professionisti non hanno mai appoggiato le politiche dei conservatori da questo punto di vista. Queste politiche sono state adottate perché piacevano ai politici; le istituzioni sono state create per sostenerle; alcuni economisti sono stati assunti perché si inventassero argomenti in favore dell’austerità, anziché giudicare se essa sia davvero una buona idea.Oggi questa situazione ci ha portati sull’orlo del baratro.

 

L’ultima volta che c’è stato un crash finanziario, la Regina ha chiesto: perché nessuno è stato in grado di prevederlo? Ora abbiamo gli strumenti per farlo. Forse il più importante compito di un’inchiesta pubblica sarebbe quello di chiedere finalmente: qual è il vero compito delle istituzioni che dovrebbero prevedere queste cose, fino a che punto sono state politicizzate, e che cosa bisognerebbe fare per trasformarle in istituzioni che possano almeno dirci se stiamo guardando in faccia le luci del treno che sta per investirci?

 

23/08/17

FT - Germania: il divario nascosto nel paese più ricco d’Europa

Il Financial Times pubblica un articolo sulla disuguaglianza sociale e la povertà in Germania. Il 40 percento dei tedeschi non possiede praticamente alcuna ricchezza, mentre una piccola élite detiene la stragrande parte dei mezzi di produzione. Non si tratta certo di un tema nuovo per noi, e questo articolo ha dei limiti, tra cui non menzionare quali siano state le conseguenze dell'euro nel rapporto tra compressione dei salari e competitività della Germania. Tuttavia il fatto che una fonte così ortodossa del mainstream come il FT pubblichi un articolo sulla disuguaglianza, infliggendo un ulteriore colpo al mito della Germania come modello economico, è molto indicativo di come i tempi e i paradigmi stiano rapidamente cambiando.

22/08/17

Bill Mitchell - L’UE clona se stessa in Africa Occidentale e si dedica a saccheggiare la regione

Quello che si può dire con certezza dell’EPA – l’accordo di libero scambio tra Unione Europea e Africa Occidentale – è che è straordinariamente poco conosciuto. I mass media non si preoccupano di spiegare che un gruppo di stati tra i più poveri del mondo sono stati - volenti o nolenti - inclusi in un accordo commerciale con l’Unione europea che li costringe a condizioni svantaggiose, riproducendo - in un contesto di povertà ben più drammatico - regole fiscali assurde sul tipo di quelle imposte agli Stati membri dell’Eurozona. L’economista Bill Mitchell espone sul suo blog i risultati dell’analisi dell’EPA realizzata dall’organizzazione indipendente svedese CONCORD: questo trattato non è coerente con gli obiettivi di sviluppo dell’Africa Occidentale, e ha conseguenze addirittura opposte, intrappolando un gruppo di nazioni per la maggior parte già poverissime in una crescita bassa e discontinua e perpetuando le condizioni misere delle popolazioni.   

 

 

 

 

Di Bill Mitchell, 10 luglio 2017

 

In un post recente - Se l'Africa è ricca - perché è così povera? - ho preso in esame la questione del perché le risorse che rendono ricca l'Africa non siano state impiegate per il benessere della popolazione indigena che vive sul posto. Abbiamo visto che la povertà in Africa dilaga, benché sia evidente a chiunque che il continente è abbondantemente ricco di risorse. La risposta a questo paradosso è che la rete di aiuti per lo sviluppo nonché la supervisione messe in atto dalle nazioni più ricche e mediate da enti come FMI e Banca Mondiale possono essere viste più come un gigantesco aspiratore, ideato per risucchiare risorse e ricchezza finanziaria dalle nazioni più povere, con sistemi legali o illegali, a seconda di quali generino i flussi maggiori. Così benché l'Africa sia ricca, la sua interazione con il sistema monetario e di commercio mondiale lascia milioni dei suoi abitanti in condizioni di povertà estrema - non in grado di procurarsi neppure il cibo per vivere. L'accordo di libero scambio (EPA) tra l'UE e gli stati dell'Africa Occidentale è una di queste istituzioni-aspiratore. Gli stati dell'Africa Occidentale, infatti, sono ancora impantanati in una dipendenza di stampo post-coloniale non perché siano privi delle risorse necessarie ad attuare il loro cammino di sviluppo, ma piuttosto a causa delle istituzioni post coloniali, create per mantenere il controllo su queste risorse da parte degli ex colonialisti. Non paga di avere distrutto la prosperità nell'eurozona, l'Unione europea sta esercitando pressioni su alcune delle nazioni più povere del mondo perché adottino lo stesso tipo di accordo monetario e fiscale fallimentare e perché vadano oltre, firmando accordi di "libero scambio" con reciproca apertura dei mercati. Le altre nazioni dell'Africa occidentale dovrebbero seguire l'esempio della Nigeria e abbandonare questi accordi.

Dodici dei 16 Paesi dell'Africa occidentale sono considerati Paesi in via di sviluppo (Least Developed Countries - LDC), o in parole più semplici paesi poveri. I 12 Paesi LDC sono Benin, Burkina Faso, Gambia, Guinea, Guinea-Bissau, Liberia, Mali, Mauritania, Niger, Senegal, Sierra Leone, Togo; mentre i quattro non considerati LDC sono Capo Verde, Costa d'Avorio, Ghana e Nigeria.

Questa è una mappa dell'Africa Occidentale (fonte).



 

La pubblico per i lettori statunitensi, ricordando la vecchia battuta "La guerra è il sistema con cui Dio insegna la geografia agli americani". A proposito delle conoscenze geografiche degli americani, potete vedere questo sketch dell'umorista statunitense Paul Rodriguez al Comic Relief del 1987. E se volete farvi un'altra risata, potete guardare questo video famoso.

 

 

Durante la cosiddetta "corsa all'Africa" del 19° secolo, l'Africa Occidentale fu spartita tra le potenze coloniali, per la maggior parte europee.

Queste erano le relazioni coloniali:

Benin - Francia

Burkina Faso - Francia

Gambia - Gran Bretagna

Guinea - Gran Bretagna

Guinea-Bissau - Portogallo

Liberia - Usa

Mali - Francia

Mauritania - Francia

Niger - Francia

Senegal - Francia

Sierra Leone - Gran Bretagna

Togo - Francia

Capo Verde - Portogallo

Costa d'Avorio - Francia

Ghana - Gran Bretagna

Nigeria - Gran Bretagna

 

Ho letto un rapporto del 2015 - L'EPA tra UE e Africa Occidentale: chi ne trae vantaggio? - pubblicato nella serie dei loro Spotlight Report Policy Paper dall'organizzazione Concord Europe, con sede in Svezia.

CONCORD è la confederazione europea delle ONG di aiuto e sostegno allo sviluppo.

La pagina di informazioni sull'Africa Occidentale della Commissione europea sostiene che l'accordo di "libero scambio" (The Economic Partnership Agreement - EPA) tra Europa e Africa Occidentale ha apportato benefici.

Un altro documento dell'UE (18 settembre, 2015) - Economic Partnership Agreement with West Africa-Facts and figures - fa ulteriore promozione.

Nel marzo 2016, la Direzione generale per il Commercio della Commissione europea ha pubblicato L'impatto economico dell'accordo di collaborazione economica tra Africa Occidentale e UE.

Ma l'analisi di CONCORD è in disaccordo con la linea ufficiale "libero mercato".

L'ho già sottolineato altre volte, ma dovremmo tenerlo sempre in mente: le nazioni avanzate, oggi, non avrebbero potuto diventare ricche, se avessero seguito le strategie che ora stanno imponendo alle nazioni povere.

Per capire questo punto, raccomando la lettura del Report del 2008 di Dieter Frisch - La politica di sviluppo dell'Unione europea - pubblicato come rapporto ECDPM il 15 marzo 2008 (il documento è in francese).

L'ECDPM è il Centro europeo per la gestione delle strategie di sviluppo (European Centre for Development Policy Management) e Dieter Frisch è stato direttore generale per lo Sviluppo alla Commissione europea.

Frisch è un veterano delle strategie di sviluppo. Ecco cosa scrive (p.38):

 

En effet, on ne connaît historiquement aucun cas où un pays au stade précoce de son évolution économique se serait développé via son ouverture à la concurrence internationale. Le développement s’est toujours amorcé au gré d’une certaine protection qu’on a pu diminuer au fur et à mesure que l’économie s’était suffisamment fortifiée pour affronter la concurrence extérieure. Mais un tel processus s’étend sur de longues années …

 

Il che significa che non si conosce nella storia alcun caso in cui un Paese in uno stadio precoce della sua evoluzione economica si sia sviluppato attraverso l'apertura alla concorrenza internazionale. Lo sviluppo si è sempre innescato grazie a un certo grado di protezionismo, che si è potuto ridurre gradualmente mano a mano che l'economia si irrobustiva a sufficienza per affrontare la concorrenza esterna. Ma questo processo si estende per molti anni...

Si potrebbe anche aggiungere che le nazioni non si sono sviluppate costringendo i governi a mantenere il bilancio pubblico in pareggio, se non addirittura generare un surplus.

Tutte le nazioni avanzate hanno beneficiato di importanti spese pubbliche per infrastrutture: strade, trasporti, sanità, istruzione, porti, energia, comunicazioni e tutto il resto.

Inoltre, hanno goduto di importanti investimenti pubblici volti allo sviluppo di competenze.

Quindi, il contesto in cui è stato negoziato questo "accordo di libero commercio" è fin dal principio distorto in modo da ostacolare lo sviluppo.

Cercare di svilupparsi mantenendo costantemente il bilancio statale in surplus avrebbe impedito a qualsiasi nazione avanzata di fare alcun progresso.

Gli stati membri della Unione economica e monetaria dell'Africa Occidentale (West African Economic and Monetary Union - UEMOA) sono Benin, Guinea-Bissau, Burkina Faso, Costa d'Avorio, Mali, Niger, Senegal e Togo; questi stati condividono una moneta comune (franco CFA), agganciata all'euro.

Questo accordo riflette il controllo "post" coloniale da parte dei Francesi, che durante il processo di decolonizzazione tra il 1954 e il 1962 hanno limitato le sovranità nazionali, creando diversi protocolli che prevedevano che gli Stati francofoni dell'Africa Occidentale dal punto di vista finanziario dovessero rispondere in molti modi al Tesoro francese.

Lo scopo di questa restrizione era costringere le nazioni dell'Africa Occidentale appartenenti all'area monetaria a rispettare quella che i Francesi chiamavano "una rigorosa disciplina monetaria". Per esempio, la Banca centrale dell'Africa Occidentale (BCEAO) resta sotto il controllo dei francesi, tanto che non può svalutare il franco CFA senza l'approvazione di questi ultimi.

I primi accordi, in ogni caso, sono falliti.

Arrivando velocemente al 1994, vediamo che allo stesso modo in cui gli europei stessi sono passati dal fallimento del serpente monetario nel tunnel, al fallimento del serpente fuori dal tunnel, al fallimentare SME nel 1978, fino all'addirittura peggiore Unione Monetaria ed Economica (eurozona), così gli Stati francofoni dell'Africa Occidentale sono transitati attraverso una serie di accordi economici e monetari sotto la guida dei francesi, fino che non hanno clonato la UEM nella forma della Unione economica e monetarie dell'Africa Occidentale (WAEMU).

Otto degli Stati membri sono paesi in via di sviluppo (esclusa la Costa d'Avorio).

Così come lo SME si era trovato di fronte a costanti tensioni a causa delle disuguaglianze nella capacità commerciale dei suoi Stati Membri, il che alla fine lo trasformò in una zona del marco e lo trascinò verso recessione e stagnazione, così gli accordi dell'Africa Occidentale si trovarono sottoposti a pressioni simili.

E proprio come l'Eurozona è stata azzoppata dal Patto per la stabilità e la crescita (SGP) e dalle sue più recenti varianti ("Two Pack", "Six Pack", "Fiscal Compact"), così la WAEMU ha introdotto nel 1999 un "Patto regionale di convergenza, stabilità, crescita e solidarietà".

Sia nel linguaggio sia negli intenti questo è clonato dal Patto per la stabilità e la crescita europeo. Così come il SGP impone una camicia di forza fiscale agli Stati membri dell'Eurozona, che spinge le economie alla recessione, così il patto della WAEMU obbliga gli Stati membri ad avere bilanci in pareggio o in surplus.

Se un Paese non rispetta questa regola viene sanzionato (esattamente come avviene per la procedura prevista in eurozona in caso di sforamento del deficit) e può non avere più l'accesso a fondi o la possibilità di effettuare spese.

Ci sono poi altre severe regole che riguardano l'inflazione, il debito pubblico, gli impegni verso i pagamenti esteri, la proporzione tra spesa per salari pubblici e tasse, che pongono ulteriori limiti alla sovranità nazionale.

La WAEMU ha un "Consiglio dei Ministri", che bullizza gli Stati Membri che non riescono a rispettare le regole.

E, esattamente come avviene per l'eurozona, per le nazioni che fanno parte della WAEMU risulta virtualmente impossibile sottomettersi alle regole, visto che i cicli economici impattano sul bilancio pubblico e sulla povertà dilagante che persiste.

Queste nazioni, che vivono soprattutto di esportazione di materie prime ed importano prodotti industriali, devono fronteggiare enormi sbalzi nelle entrate nazionali, legati alla variabilità del clima e alla instabilità delle condizioni commerciali sui mercati internazionali.

Il FMI e la Banca Mondiale fanno pressioni fortissime perché esportino quanto più possibile, ma questo significa che inondano i mercati internazionali dei loro beni, facendone calare i prezzi.

Il guadagno mancato li mette sotto pressione per quanto riguarda il loro debito estero (che in parte non piccola è stato contratto con il FMI) e quindi rende frequenti ulteriori richieste di tagli di bilancio.

Questa strategia di sviluppo incastra le nazioni in una crescita bassa e discontinua e in una povertà persistente.

Per questo non c'è da sorprendersi che la Commissione europea, con i suoi artigli ben piantati nelle nazioni povere dell'Africa Occidentale, abbia deciso di consolidare questa posizione di vantaggio andando oltre, con un "accordo di libero scambio" conosciuto come l'Economic Partnership Agreement (EPA).

La ricerca di CONCORD ha verificato l'attendibilità di diverse affermazioni fatte dalla Commissione Europea che ripete il mantra "il commercio è sviluppo".

Ma se questa è la domanda di partenza:

 

 

...l'EPA, accordo negoziato tra l'Africa Occidentale e l'UE, cioè tra una delle regioni più ricche e una delle regioni più povere del pianeta, è davvero coerente con gli obiettivi di sviluppo dell'Africa Occidentale?

 

 

La risposta è un no.

È importante notare che:

 

 

Fino al 2000... l'UE consentiva alle esportazioni provenienti dall'Africa Occidentale un accesso quasi completamente libero ai mercati europei... Queste concessioni commerciali unilaterali erano però contrarie alle regole della WTO, in vigore dal 1994. La WTO consente di creare zone di libero scambio, per esempio tra UE e Africa Occidentale, e l'UE decise di adottarne una al posto delle condizioni precedenti, anche se in queste zone le concessioni devono essere reciproche, il che significa che l'Africa Occidentale doveva consentire le stesse condizioni all'UE... L'UE avrebbe potuto chiedere alla WTO un'esenzione, come ha fatto per la Moldavia... (ma) ...ha rifiutato di concedere lo stesso trattamento all'Africa Occidentale.

 

 

E oltre:

 

 

Durante le trattative, la UE è andata anche molto oltre le richieste della WTO in tema di liberalizzazioni, includendo servizi, investimenti e acquisizioni oltre ai beni. L'Africa Occidentale si opponeva, dichiarando di voler mantenere la possibilità di proteggere questi settori dalla concorrenza con l'UE.

 

 

Nel 2007, l'UE non riuscì a concludere gli accordi con le nazioni dell'Africa Occidentale, in parte perché

 

 

...l'Unione Europea garantisce ai Paesi in via di sviluppo concessioni commerciali unilaterali nel quadro del regime "Tutto tranne armi", che offre loro accesso libero ai mercati europei senza costringerli a restituire le medesime liberalizzazioni in cambio.

 

 

Cosa fa allora l'Unione europea? Ecco cosa fa:

 

 

...ha minacciato tutte le nazioni ACP non incluse tra i Paesi in via di sviluppo di togliere loro l'accesso libero al mercato europeo... (e)... ha stabilito una nuova deadline per il completamento degli accordi.

 

 

Vi ricorda qualcosa?

 

 

E qui non stiamo parlando della Grecia, che in termini di ricchezza è una nazione avanzata. Queste sono per la maggior parte nazioni poverissime, che lottano per sfamare la loro popolazione.

Il report di CONCORD spiega che molte nazioni dell'Africa Occidentale hanno ceduto di fronte alle minacce e "hanno deciso di firmare... il 30 giugno 2014".

Ma il processo di ratificazione è lento e alla fine del 2016 è entrato provvisoriamente in vigore solo il cosiddetto "accordo base di partenza per la collaborazione economica" (Stepping Stone Economic Partnership Agreements) con la Costa d'Avorio e il Ghana.

Inoltre, mentre 13 Stati dell'Africa Occidentale hanno firmato, Nigeria, Gambia e Mauritania se ne tengono fuori.

In particolare, la Nigeria non vuole cedere la sua sovranità all'Unione europea e "vuole sviluppare la sua industria e le sue vendite nel resto dell'Africa Occidentale, riducendo nel contempo la sua dipendenza dall'esportazione di petrolio".

Il report di CONCORD conclude che la Nigeria non sarebbe in grado di avere questa indipendenza strategica all'interno dell'EPA.

Per illustrare i motivi per cui l'EPA non è coerente con lo sviluppo dell'Africa Occidentale, il report di CONCORD passa al vaglio diverse affermazioni avanzate dall'UE a sostegno dell'EPA.

 

 

1- L'EPA offre libero accesso al mercato europeo ai prodotti dell'Africa Occidentale?

 

Sì, ma l'EPA non comporta per le nazioni dell'Africa Occidentale alcun vantaggio in più, mentre introduce evidenti svantaggi nella concorrenza.

Inoltre perché i Paesi in via di sviluppo "dovrebbero affrontare questi sacrifici", quando "hanno diritto alle concessioni commerciali unilaterali legate al regime "'tutto tranne le armi'"?

 

2 - L'EPA supporterà l'integrazione regionale dell'Africa Occidentale?

"Ampiamente falso".

"Il livello di integrazione regionale in Africa Occidentale è molto debole" quindi sarebbe stato meglio avviare processi per diversificare il commercio all'interno dell'Africa occidentale.

 

3 - "I prodotti agricoli dell'Africa Occidentale sono esclusi dalla liberalizzazione"?

"Vero e falso"

"L'EPA... comporta un grosso rischio per l'agricoltura dell'Africa Occidentale...(che)... è un settore importante... e offre il 60% del lavoro e soddisfa l'80% delle esigenze alimentari della regione".

L'EPA protegge solo "il 18% dei prodotti", ma in linea generale liberalizza l'accesso a tutto il resto. Per esempio, il latte in polvere importato più economico danneggerà "la produzione locale di latte".

È importante capire che in base alla Politica agricola comunitaria, l'UE può "vendere i prodotti della sua agricoltura a un prezzo inferiore al costo, praticando una concorrenza sleale nei confronti dell'agricoltura del'Africa Occidentale".

 

4 - "L'EPA promuoverà aiuti che permetteranno all'Africa Occidentale di trarre beneficio dall'EPA?"

"Vero e falso"

C'è in atto un programma per lo sviluppo dell'Africa Occidentale, che è una strategia del tipo FMI, basata sul taglio delle spese interne e sull'orientamento delle attività verso le esportazioni che portano liquidi.

Sia come sia, la proposta corrente non è garantita e i fondi sono “molto al di sotto i bisogni stimati” per far fronte ai costi dovuti al passaggio al nuovo acordo.

Inoltre, i governi dell’Africa Occidentale utilizzano i dazi per finanziare ospedali e tutto il resto. Ora, i sostenitori della Modern Monetary Theory (MMT) obietteranno subito che questi Stati potrebbero finanziare queste infrastrutture essenziali usando la propria capacità monetaria.

In parte è vero. Ma nel mondo reale della politica dell’Africa Occidentale e con la camicia di forza in cui si sono infilati questi governi sotto lo sguardo inquisitore di grandi bulli internazionali come l’UE e il FMI, le entrate legate ai dazi offrono un non piccolo aiuto per sottostare alle grottesche regole che costringono le loro scelte fiscali.

L’EPA quindi inciderà seriamente sulla loro situazione fiscale (all’interno delle attuali costrizioni) tanto che saranno costretti a tagliare drasticamente la spesa pubblica.

 

Come nota il report di CONCORD, questa spesa è:

 

 

"…indispensabile per consentire il finanziamento stabile degli edifici per scuole e ospedali, per supportare le famiglie di coltivatori e per altri servizi pubblici."

 

 

L’EPA è quindi un altro strumento attraverso il quale viene impedito alle nazioni più povere di utilizzare le loro proprie capacità di spesa per migliorare le condizioni della loro popolazione.

 

5 - L’EPA rispetterà lo spazio politico dell’Africa Occidentale?

“In grande misura è falso”

“L’Africa Occidentale perderà lo spazio politico necessario a sviluppare la sua propria politica commerciale, al servizio delle esigenze dei suoi popoli, e perderà entrate fiscali che potrebbero aiutare a finanziare il suo sviluppo”.

Notando che quest’ultima conclusione si pone nel contesto delle costrizioni politiche e istituzionali che ho menzionato sopra.

 

Di conseguenza, il report di CONCORD conclude che:

 

 

"…l’EU, la maggiore zona economica del mondo, sta cercando di ottenere concessioni commerciali sproporzionate da una delle regioni più povere del mondo. Con l’EPA, l’Africa Occidentale avrà meno spazio politico per usare strumenti importanti per lo sviluppo di alcuni settori economici, al fine di migliorare le condizioni di vita dei suoi popoli. Allo stesso tempo l’UE non ha formalmente assunto alcun impegno per lo stanziamento a lungo termine di fondi aggiuntivi che sarebbero necessari per aiutare l’Africa Occidentale a reggere la concorrenza dei prodotti importati e compensare le entrate fiscali perdute. Come conseguenza, l’EPA non è coerente con lo sviluppo dell’Africa occidentale".

 


E questo per oggi è abbastanza.

Fate girare…

 

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