31/10/17
Brousseau - L'uscita furtiva dall'euro
di Vincent Brousseau*, 25 ottobre 2017
Un recente articolo del grande giornale tedesco "Die Welt" ci riporta al tema a noi caro della probabile uscita "furtiva" dall'euro.
Riassunto degli episodi precedenti
Ho già affrontato questo argomento in due articoli pubblicati sul sito dell'UPR:
"Perché l'euro è condannato" (qui in italiano), messo online 1 anno e 9 mesi fa, il 16 febbraio 2016
"La disgregazione del pensiero", messo online 10 mesi fa, il 26 dicembre 2016
Nel primo articolo, quello che qui più ci interessa è il paragrafo intitolato "La cautela del signor Weidmann".
Weidmann, presidente di Bundesbank, aveva presentato – ormai quasi cinque anni fa – una proposta estremamente cauta, che avrebbe portato inevitabilmente alla fine dell'unione monetaria, ma sotto l'aspetto rassicurante e innocente di una riforma puramente tecnica.
In poche parole si trattava della questione di rendere obbligatoria una garanzia sui Target, in termini di oro, dollari, titoli di stato (questo poco importa).
Una banca centrale trasferisce dei fondi via Target aumentando il proprio disavanzo? Non c'è problema, risponde in pratica il Presidente della Bundesbank, purché depositi delle garanzie con le quali impegnarsi per questo aumento del debito. Cosa c'è di più normale, all'apparenza?
La trappola nascosta era che con un tale obbligo verrebbe necessariamente il momento in cui la banca centrale interessata, probabilmente una dei paesi del sud dell'Europa, non avrà più alcuna garanzia da depositare. A quel punto i suoi trasferimenti via Target verrebbero... negati.
A questo punto gli euro del paese coinvolto varrebbero meno degli euro degli altri paesi, perché con un euro di questo paese non si potrebbe più ottenere un euro di un altro paese. Il tasso di cambio fisso 1 a 1 terminerebbe immediatamente, e per l'euro sarebbe scacco matto in tre mosse.
Il presidente della BCE, Mario Draghi, che non è meno intelligente di Weidmann, aveva rifiutato questa proposta tedesca. Ma ormai una pietra miliare era stata posata, e lui non poteva fare altro che aspettare che questa proposta riemergesse.
E adesso è tornata.
Nel mio secondo articolo, quel che qui ci interessa è il paragrafo intitolato "La 'piccola frase' del presidente dell'IFO".
Vediamo il presidente dell'IFO pretendere che il governo di Berlino intervenga per esortare la BCE ad adottare le misure per contrastare un "uso illegale ed eccessivo" dei saldi su Target. Si tratta nuovamente dell'idea di vietare o bloccare certi trasferimenti via Target. Non è difficile capire da dove venga questa proposta. Soprattutto perché l'unica misura concreta che avrebbe realmente questo effetto sarebbe proprio... quella proposta da Weidmann.
L'articolo su Die Welt del 23 ottobre 2017
Il 23 ottobre 2017 il giornale Die Welt ha pubblicato un articolo che può segnare un momento storico. Già col titolo "Gli economisti mettono in guardia contro un rischio di mille miliardi di euro per la Germania" ("Ökonomen warnen vor Billionenrisiko für Deutschland") l'articolo mette le carte in tavola.
Die Welt, uno dei maggiori giornali tedeschi, di solito è piuttosto "benpensante". Due degli economisti che si esprimono, Sinn e Gerken, sostengono l'idea di una riduzione dei debiti su Target tramite un piano di rimborso che segua un calendario preciso, da effettuarsi "per esempio in oro", lasciando intendere che non si possano rimborsare dei debiti Target facendo altri debiti Target.
L'economista Sinn, inoltre, richiede... la garanzia sui debiti Target di nuova creazione: si tratta del piano Weidmann che ritorna in superficie.
Va da sé che la proposta di rimborsare i Target in oro è irrealistica.
Da una parte, i debitori non posseggono nemmeno abbastanza oro per farlo.
Il giornale tedesco lo dimostra pubblicamente mostrando una piccola tabella che confronta i debiti Target con le riserve auree:
D'altra parte, la scelta è politicamente impraticabile, come ammette di fatto l'altro economista, Gerken.
Tuttavia, la semplice garanzia sui nuovi debiti Target è, questa sì, realizzabile...
Pertanto questa misura è presentata come l'unica che appare essere un compromesso ragionevole e moderato.
L'idea originale di Weidmann sta quindi guadagnando credibilità. Questo è ciò che intendevo, nel 2012, dicendo che era stata posta una pietra miliare.
Tutto il resto diventa più chiaro
L'articolo di Die Welt dimostra che i confini si stanno spostando, e che ora dobbiamo aspettarci che questa misura si presenti come logica, ragionevole, e che venga adottata senza grandi resistenze.
Di conseguenza abbiamo un'idea più precisa di quale sarà la fine dell'euro.
Non vedremo i capi di stato e di governo andare in televisione, con area funerea, ad annunciare la fine dell'euro. Non ci sarà alcuna ondata di titoli e di commenti indignati, terrorizzati e spettacolari a condanna di un avvenimento storico che ci ributterà indietro di 25 anni (o di 50 anni, o di 100 anni, o all'età della pietra). Non vedremo nessuna esplosione d'indignazione di Bernard-Henri Lévy o di altri Cohn-Bendit. Non ci sarà alcun discorso sobrio e solenne di Macron, dignitoso nel suo dolore. Nessuna grande notte.
No, la fine dell'euro sarà molto più insignificante.
Che forma prenderà?
Un giorno potrete leggere, a pagina 23 del vostro quotidiano, a caratteri piccoli, che i trasferimenti via Target sono stati rifiutati "per ragioni tecniche".
La vostra banca allora vi informerà che dovrete pagare delle tasse aggiuntive se volete trasferire il vostro denaro verso alcuni paesi del Nord. Verrà data una spiegazione ma sarà incomprensibile.
Ma tanto chi riesce mai a capire le loro spiegazioni?
Sentirete dire che sono apparse delle quotazioni euro spagnolo/euro tedesco sul terminali di Bloomberg o Reuters, che EURESPGER = 0.9895/97. Ma dato che non avete davanti i terminali di Bloomberg o di Reuters questo non attirerà la vostra attenzione.
Dalla lingua di legno dei media europeisti o di governo non verrà dichiarato alcun cambiamento: ogni giorno le stesse frasi, gli stessi giri di parole, l'euro, l'Europa che è il nostro avvenire, e noi che progrediamo verso la sua edificazione.
Vi accorgerete che ci sono state delle nuove restrizioni sulla quantità di denaro contante che potrete importare quando attraversate una frontiera, ma vi diranno che è solo per combattere contro il riciclaggio del denaro sporco, la droga, il terrorismo o chissà che altro.
I governi "populisti" dell'Europa dell'Est ironizzeranno con gran piacere sul fallimento dell'euro, ma dato che sono "populisti", i nostra media vi assicureranno che ciò che dicono non ha alcuna importanza.
E allora prenderete l'abitudine, ogni volta che comprerete qualcosa su Internet che viene da un altro paese euro, di applicare una soprattassa o uno sconto, a seconda dei casi, rispetto al prezzo che vedrete pubblicato nel sito. Diventerà un riflesso di cui neanche vi accorgerete.
Poco per volta, però, diventerà inevitabile accorgersi che l'unione monetaria avrà smesso di esistere.
Ma allora vi verrà detto che già si sapeva, che tutti l'avevano detto e pensato.
La presa di coscienza della fine dell'euro sarà un non-evento. Solo qualche storico dell'economia cercherà di ripercorrere la storia di questa uscita furtiva, ma l'opinione pubblica generale si starà già occupando di altro.
E nel momento in cui finalmente riappariranno le banconote nazionali, le lire, i franchi, i marchi, questo verrà percepito come qualcosa che sta nell'ordine delle cose. Non ci sarà nessun terremoto.
Nel frattempo, milioni di disoccupati saranno stati gettati per la strada da questo progetto fumoso, e interi settori delle economie europee, una volta prosperi, saranno distrutti per sempre.
*Vincent Brousseau è responsabile nazionale dell'UPR per l'euro e le questioni monetarie; ex allievo della Ecole Normale Supérieure di Saint-Cloud; Dottorato di ricerca in matematica presso l'Università di Parigi IX; Dottore in Economia presso l'École des hautes études en sciences sociales (EHESS); ha lavorato per 15 anni presso la Banca centrale europea (BCE), in particolare nel campo della politica monetaria che è al cuore del sistema
29/10/17
Ereditare il mondo
di Matt Bruenig e Nathaniel Lewis, 10 ottobre 2017
Utilizzando il Sondaggio sulle Finanze dei Consumatori 2016, abbiamo scomposto i livelli medi delle eredità tra i decili di ricchezza. È importante sottolineare che queste eredità sono state auto-certificate. I partecipanti all'inchiesta sono stati invitati a ripensare a tutta la loro vita e a identificare tutti i trasferimenti di ricchezza che hanno ricevuto e quando li hanno ricevuti. Naturalmente questo metodo è soggetto a dichiarazioni fallaci e, si potrebbe pensare, particolarmente incline a sottostimare questi trasferimenti, perché le persone tendono a dimenticare quali donazioni hanno ricevuto nel corso degli anni.
Tuttavia, come ci si aspetterebbe, è molto più probabile che le famiglie più ricche ereditino ricchezza. Inoltre, più una famiglia è ricca, più in generale ha ereditato.
Decili di ricchezza
Per cominciare, ecco la percentuale di famiglie in ogni decile di ricchezza che ha ricevuto una qualche eredità.
[caption id="attachment_13202" align="aligncenter" width="635"] Percentuale che ha ricevuto delle eredità, per decile di ricchezza - dal decile meno ricco a sinistra (1) a quello più ricco a destra (10)[/caption]
Ad eccezione del primo decile, la tendenza è: più in alto si sta sulla scala della ricchezza, più è probabile che si sia ereditato del denaro. Il 37,8% del 10% più ricco delle famiglie afferma di aver ereditato denaro.
Qua c'è l'eredità media di ogni decile. Si noti che il denominatore per questa media include sia le famiglie che hanno ereditato denaro sia quelle che non lo hanno ereditato. Si noti inoltre che i valori delle eredità vengono convertiti in dollari del 2016 utilizzando il CPI-U-RS (l'indice d'inflazione, ndt).
[caption id="attachment_13203" align="aligncenter" width="625"] Livello medio dell'eredità per decile di ricchezza, in migliaia di dollari del 2016 - dal decile meno ricco a sinistra (1) a quello più ricco a destra (10)[/caption]
Infine, questo è lo stesso grafico sopra, ma questa volta i valori dell'eredità vengono convertiti in dollari del 2016 usando il CPI-U-RS e assumendo una percentuale annuale di rendimento del 5%.
[caption id="attachment_13204" align="alignnone" width="626"] Livello medio dell'eredità per decile di ricchezza, in migliaia di dollari, con dollari convertiti al valore 2016 usando il CPI-U-RS e aggiungendo il 5% di rendimento annuale (2016) - dal decile meno ricco a sinistra (1) a quello più ricco a destra (10)[/caption]
Naturalmente, i grafici tendono a dimostrare che, ad eccezione del primo decile, più si è ricchi, più si ha ereditato. Il 10% più ricco delle famiglie ha ereditato 367.000 dollari aggiustati solo per l'inflazione e oltre 1,2 milioni di dollari aggiustati per l'inflazione e calcolando un tasso di rendimento del 5%.
L'un per cento
Per l'1% più ricco, le tendenze sono esattamente uguali a quelle dei percentili inferiori. Circa il 41,4% dell'1% più ricco dice di aver ereditato qualche soldo. Il grafico seguente mostra il loro livello medio di eredità, con la prima barra aggiustata solo per l'inflazione e la seconda aggiustata per l'inflazione e un tasso di rendimento supposto del 5%.
[caption id="attachment_13205" align="aligncenter" width="627"] Livello medio di eredità per l'1% più ricco, in milioni di dollari (2016) - in rosso a sinistra il valore aggiustato solo per l'inflazione, in nero a destra il valore aggiustato per l'inflazione e con un rendimento annuale supposto del 5% .[/caption]
In media, l'1% più ricco ha ereditato poco meno di 5 milioni di dollari correnti.
La rappresentazione mediatica che viene data dei super-ricchi - per esempio, Forbes 400 - tende a mettere in evidenza gli imprenditori e gli altri rampolli che "si sono fatti da soli". Ma in realtà, l'eredità svolge un ruolo enorme nel determinare chi finisce in cima e in fondo alla nostra società.
28/10/17
FAZ - Germania: una nazione di plurioccupati
In Germania le evidenti falle nel mercato del lavoro causate dalle riforme Hartz IV sono ormai apertamente riconosciute anche dalla stampa più conservatrice. Un articolo pubblicato recentemente sul FAZ, quotidiano vicino alla CDU, prende in esame uno studio dell'Istituto di ricerca per il mercato del lavoro di Norimberga sulla costante crescita del numero di persone costrette a svolgere più professioni per sopravvivere. Un'anomalia che è allo stesso tempo causa e sintomo dei pesanti squilibri nella distribuzione del reddito nel Paese tedesco.
della redazione del FAZ, 17 ottobre 2017
Donna, lavoratrice a tempo parziale, impiegata in ruoli amministrativi, lavori d’ufficio, nei servizi sociali o nella sanità: secondo l'Istituto di ricerca per il mercato del lavoro di Norimberga (IAB) questo è l’identikit del tipico lavoratore tedesco che, oltre all’occupazione principale, svolge un secondo lavoro. Gli individui presi in esame dalla ricerca sono spesso di nazionalità estera, di mezza età e dal loro impiego principale guadagnano in media di meno rispetto a chi può contare su una professione a tempo pieno.
È interessante notare come il numero di persone presenti in questa categoria aumenti di giorno in giorno. Proprio questo venerdì, a seguito di un'interrogazione parlamentare promossa da Die Linke all'Agenzia Federale per il lavoro, è emerso che in Germania la cifra dei lavoratori con più di un'occupazione è aumentata di circa un milione nell'ultimo decennio, fino ad arrivare a 3,2 milioni di persone. Guardando alla dinamica degli ultimi 15 anni, lo IAB restituisce un quadro ancora più preoccupante, con il numero di chi deve far ricorso a due o tre impieghi che si è addirittura raddoppiato dal 2003.
Tendenzialmente, a ritrovarsi in una condizione lavorativa come quella appena descritta sono coloro che percepiscono salari estremamente ridotti dalle loro professioni principali. Secondo lo IAB i pluri-impiegati guadagnerebbero in media 570 euro in meno dalla loro primaria fonte di reddito rispetto a chi ha solo un impiego. In parte, questa differenza può essere spiegata dal fatto che i dipendenti multipli dedicano meno ore lavorative alla professione principale. Ma questa non è l'unica ragione. A detta di Sabrine Klingler e Enzo Weber, i due autori dello studio, si tratta spesso di lavori mal retribuiti.
Secondo l'istituto l'incremento delle persone costrette a cercarsi un secondo mestiere è stato in parte favorito dall'ottima capacità di assorbimento del mercato del lavoro, alla quale vanno però aggiunti fattori come la scarsa crescita salariale che si protrae da molti anni e il forte aumento dei lavori a tempo parziale. Tuttavia non si può tralasciare l'impulso significativo dato da "cambiamenti normativi che introducono l'esenzione da imposte e contributi sociali per i dipendenti con occupazioni marginali".
A detta degli autori dello studio IAB questa esenzione è decisamente critica.
È certamente rimarchevole che l'espansione dell'occupazione venga ricompensata con degli incentivi, se si guarda alla capacità di sostentamento dei lavoratori e all'impasse nelle professioni specializzate questa norma può sembrare in principio efficace. Tuttavia, ad approfittare di questa legge sono anche molti lavoratori ad alto reddito; allo stesso tempo gli autori si mostrano preoccupati per lo "sviluppo professionale sostenibile" di coloro che sono interessati da questa dinamica, oltre che per la loro pensione. La loro proposta alternativa è quindi quella di incentivare gli impieghi principali, per esempio attraverso minori oneri previdenziali per i lavoratori a basso reddito.
27/10/17
La crisi dei migranti in Italia: il grande quadro
Gianandrea Gaiani intervistato da Daniel Moscardi di Gefira, 23 Ottobre 2017
Gianandrea Gaiani è il direttore della autorevole rassegna online analisidifesa.it ed esperto sull'immigrazione. Collabora regolarmente con diversi giornali italiani ed è spesso presente su numerosi canali televisivi a proposito di immigrazione e sicurezza. È anche l'autore (insieme a Giancarlo Blangiardo e Giuseppe Valditara) del libro uscito di recente Immigrazione, tutto quello che dovremmo sapere.
Gefira ha ottenuto da Gianandrea Gaiani un'intervista esclusiva sulle sue opinioni circa gli ultimi sviluppi degli arrivi da Libia e Tunisia e sull'attuale approccio del governo italiano. Esplicito e tutt'altro che politicamente corretto, Gaiani coglie esattamente il punto del recente cambiamento di politica del governo italiano sul codice di condotta delle ONG, nonché sui risultati dell'Italia e sui cosiddetti "partner" in Libia.
GE - Che cosa ha causato la svolta della scorsa estate del governo italiano nel suo approccio verso le ONG e gli arrivi dalla Libia in generale?
GG - La risposta è abbastanza semplice. Il disastro del Partito Democratico, leader dell'attuale governo, alle elezioni amministrative di giugno, ha fatto scattare l'allarme, mostrando chiaramente che quando si tratta di immigrazione, molti elettori di centro-sinistra si orientano chiaramente a destra. Un rapido cambio di direzione era fortemente necessario, con l'ovvio intento di rassicurare gli italiani, sconcertati e allarmati, sul fatto che il governo è in grado di controllare la situazione.
GE - I numeri mostrano che gli arrivi sono diminuiti in misura significativa, ma niente di più. Siamo ancora molto lontani dai numeri pre-2011.
GG - Questo perché il governo, dall'altro lato, deve continuare a mostrarsi compiacente verso l'industria dell'immigrazione. È una rete che guadagna - e prospera - sui nuovi arrivati e questa galassia di organizzazioni NON è felice se gli arrivi si fermano completamente. E anche i loro voti sono fortemente necessari al governo attuale.
GE - Una rete costituita da chi?
GG - ONG, cooperative pro-migranti, tutti gli affari che ruotano intorno ai migranti e ultima, ma certamente non meno importante, l'onnipresente Caritas e le altre organizzazioni della Chiesa cattolica. Stiamo parlando di una torta enorme fatta di miliardi di euro e tutti ne vogliono una fetta.
GE - Qual è la situazione attuale in Libia?
GG - A settembre la città costiera di Sabratha è stata teatro di guerra tra diverse milizie per circa due settimane. Sui media mainstream non se ne è quasi parlato, ma abbiamo segnalazioni che i due gruppi che ora hanno il controllo della città hanno ricevuto "consulenze" da unità dell'esercito francese. Le due milizie sono Ghorfat Amaliyet e la Brigata Wadi, e si oppongono ai gruppi militari che operavano per conto di Al-Sarraj, che aveva attuato una partnership di cooperazione con l'Italia. L'Italia si era impegnata in un aiuto finanziario ai villaggi e ai comuni della zona sotto il controllo di Al-Sarraj, ma non in aiuti militari a gruppi armati di alcun tipo.
Secondo quanto riferito, dopo aver ottenuto il pieno controllo della città, le milizie hanno scoperto circa 7.000 migranti rinchiusi in vari edifici in tutta la città. Non è chiaro se le milizie ora al potere li lasceranno uscire dalla Libia verso l'Italia o li trasferiranno da qualche altra parte. Il problema è, a mio parere, che ci sono di mezzo i francesi e gli inglesi, in operazioni come queste.
GE - Cosa intendi con questo?
GG - Quello che voglio dire è che i francesi e gli inglesi sono ufficialmente i nostri "partner", ma in realtà stanno agendo in modo decisamente contrario agli interessi italiani in Libia. In effetti, lasciatemi dire abbastanza apertamente, Francia e Regno Unito sono attualmente i nostri peggiori nemici in Libia.
GE - Perché?
GG - Semplicemente continueranno ad operare, in modo più o meno segreto, per assicurarsi che l'Italia non abbia un ruolo guida in Libia. E' molto semplice. Dopo tutto, il Regno Unito, la Francia e gli Stati Uniti sapevano benissimo che la rimozione di Qaddafi nel 2011 era un colpo diretto ai numerosi interessi dell'Italia in Libia, dato il rafforzamento del governo italiano sotto Berlusconi.
GE - Quale coincidenza, aggiungeremmo, i recenti articoli tendenziosi di Le Monde e del Financial Times, che mostrano tutta questa "preoccupazione umanitaria" sulle condizioni dei migranti in Libia, ora "tenuti a bada" da (presumibilmente) milizie pagate dagli italiani ...
GG - Siamo pragmatici. In una situazione come quella in Libia adesso, o si inviano truppe, cosa che vedo piuttosto improbabile, o semplicemente si negozia con coloro che sono al comando, indipendentemente da chi siano. Se quelli al comando non sono esattamente i paladini dei diritti umani, così sia. Questo è ciò che dovrebbe fare a qualsiasi paese sovrano preoccupato delle sue frontiere. Non appena l'Italia cerca di riacquistare (un po') il controllo della situazione, nello spazio di una notte critici pieni di zelo - e di ipocrisia - esprimono le loro preoccupazioni per le "vergognose condizioni" dei migranti in Libia, pronti a puntare il dito sul colpevole, l'Italia.
GE - Può dirci qualcosa di più sul recente accordo firmato tra l'Italia e il Niger?
GG - Il Niger - uno dei paesi più poveri al mondo - ha chiesto all'Italia un aiuto logistico per essere più efficace nel pattugliare i propri confini e riuscire a ridurre il flusso dei sub-sahariani verso la Libia. È certamente una mossa positiva, ma difficilmente può fare una differenza sostanziale.
GE - Perché?
GG - Perché l'unica mossa efficace per fare davvero la differenza e ridurre significativamente gli arrivi è riportarli al punto di partenza. Se dovessero pagare ancora di più per rimettersi in mare verso l'Italia, con il rischio di essere deportati di nuovo, comincerebbero a pensare: "ma ne vale veramente la pena"?
GE - Come si fa a fare questo?
GG - Considerato il fatto incontrovertibile che quasi il 100% di quelli che sbarcano in Italia sono stranieri illegali, poiché NON scappano dalle guerre e dalle persecuzioni politiche, la Convenzione di Ginevra afferma chiaramente che NESSUN paese ha il dovere o l'obbligo di accogliere e dare assistenza agli immigrati che pagano delle organizzazioni criminali per attraversare diverse frontiere. Ora, è un dovere e un obbligo salvare gli esseri umani che si trovano in una situazione di pericolo in mare. Questo è il diritto marittimo e la Marina Militare italiana da sola è perfettamente in grado di adempiere a quel compito, senza alcuna farsa di «aiuto umanitario» da parte di queste ONG che sono lì per adempiere all'agenda "di qualcun altro", certamente non in nome del popolo italiano.
Ma, una volta salvate in mare, queste persone devono essere riportate al paese di partenza. Ora, questo può essere fatto nel modo più semplice e sicuro possibile. Se le condizioni dei "migranti" in quel paese di partenza non sono ottimali per i diritti umani o per il loro comfort, in questo caso abbiamo uno strumento efficace per frenare questa tendenza. La gente comincerà a tornare a casa, soprattutto dato che la maggior parte di loro non sono affatto poveri - per gli standard africani - e che nessuno a casa loro li minaccia.
GE - L'ultima domanda - in considerazione del dibattito in corso in Italia - riguarda la legge dello Ius Soli, cioè la legge che concederebbe la cittadinanza breve a molti nuovi immigrati.
GG: Sarà il colpo finale alla nostra società come la conosciamo oggi. Coloro che sono favorevoli a questa legge stanno abbastanza attenti a non menzionare la situazione allarmante dei paesi dell'Europa occidentale. Non dicono al pubblico che dalla Francia alla Svezia, per non parlare di altri paesi, ci sono aree, le cosiddette zone inaccessibili, che sono praticamente off limits per le forze dell'ordine, in quanto le comunità musulmane hanno dichiarato quelle aree sotto il loro controllo. In Italia ancora non ci sono. Ormai tutti sanno che la sinistra in Italia sta spingendo forte per l'approvazione di questa legge, perché pensano che, una volta naturalizzato, un immigrato voterà per quei partiti che gli hanno dato la cittadinanza. Ma con queste speranze si dimostrano ingenui, e anche stupidi.
GE - Perché dice questo?
GG - Perché, non appena diventeranno cittadini, formeranno un partito islamico, con tutte le relative conseguenze. Ora un cittadino straniero sospettato di legami o simpatie per i gruppi terroristici può essere espulso dall'Italia, anche se risiede qui legalmente. Quando diventano cittadini italiani dove saranno espulsi? Il punto centrale del problema sta nel massiccio lavaggio del cervello a cui siamo stati sottoposti in Europa occidentale sulle "società multiculturali". I musulmani non sono affatto interessati al "multiculturalismo". Vogliono il loro modello, i loro valori, in breve che la loro società prevalga e si imponga sulle altre. Quando l'italiano medio se ne renderà conto, sarà troppo tardi.
GE - Qualche messaggio di speranza alla fine di questa intervista?
GG - Spero nei paesi della Mitteleuropa, come l'Ungheria, la Slovacchia, la Repubblica ceca e ora l'Austria. Stanno difendendo le loro società, i loro cittadini e i loro valori da questo lavaggio del cervello indotto che in Europa occidentale ci ha già sopraffatti. In effetti, attualmente essi rappresentano l'ultima difesa della nostra civiltà. Spero solo che loro - in realtà tutti i paesi del gruppo Visegrad - resistano all'incredibile pressione delle forze esterne.
26/10/17
Accadde in Europa: giornalisti contro la libertà di parola
Di Judith Bergman, 24 ottobre 2017
La Federazione Europea dei Giornalisti (EJF), è la “maggiore organizzazione di giornalisti in Europa, che rappresenta più di 320.000 giornalisti di 71 diverse organizzazioni in 42 diversi paesi”, secondo il suo stesso sito web. Inoltre la EJF, un attore potente, conduce in tutta Europa una campagna chiamata “Media contro l’Odio”.
La campagna si propone di:
“combattere l’”hate speech” (incitamento all'odio, ndt) [1] e la discriminazione sui media, sia online che tradizionali… i media e i giornalisti giocano un ruolo cruciale nell'ispirare le politiche… sull’immigrazione e i rifugiati. Mentre l’incitamento all'odio e gli stereotipi rivolti agli immigrati proliferano in tutta Europa... la campagna #MediaAgainstHate (Media contro l'odio, ndt) si propone di: migliorare la copertura dei media su immigrazione, rifugiati, religione e gruppi marginalizzati… combattere l’incitamento all'odio, l’intolleranza, il razzismo o la discriminazione… migliorare l’applicazione delle strutture legali che regolano l’incitamento all'odio e la libertà di parola…”
E’ ormai svanita la pretesa che il giornalismo riguardi la comunicazione dei fatti. Quelli sopra sono gli obiettivi di un attore politico.
Ed in effetti si tratta di un grosso attore politico, coinvolto nella campagna “Media contro l’odio”. La campagna è uno dei tanti programmi sui media sostenuti dalla UE attraverso il suo programma REC (Rights, Equality and Citizen Programme - programma per i diritti, l’uguaglianza e la cittadinanza, ndt). Nel programma REC per il 2017, la Commissione UE, il corpo esecutivo dell’UE, scrive:
“Il dipartimento della giustizia della Commissione UE affronterà il preoccupante aumento dei crimini legati all’odio e all’incitamento all'odio destinando fondi ad azioni volte alla prevenzione e al contrasto del razzismo, della xenofobia e di altre forme di intolleranza… incluso un lavoro dedicato nell’area del contenimento dell’incitamento all'odio online (implementazione del Codice di Condotta per contrastare l’incitamento all'odio online illegale)… il dipartimento inoltre finanzierà le organizzazioni della società civile che combattono il razzismo, la xenofobia e altre forme di intolleranza”.
Il più grande attore politico europeo, l’UE, lavora apertamente per influenzare la “stampa libera” con la sua personale agenda politica. Uno dei punti in agenda è la questione dell’immigrazione dall’Africa e dal Medio Oriente in Europa. Nel suo discorso di settembre sullo stato dell’Unione, il presidente della Commissione Europea, Jean-Cleaude Juncker, ha chiarito che qualunque sia l’opinione degli europei – e i sondaggi hanno mostrato ripetutamente che la maggioranza degli europei non vogliono altri immigrati – l’UE non ha alcuna intenzione di mettere fine all’immigrazione. Juncker ha detto che “L’Europa, al contrario di quel che dicono alcuni, non è una fortezza e non dovrà mai diventarlo. L’Europa è e deve rimanere il continente della solidarietà dove coloro che scappano dalle persecuzioni possono trovare rifugio (ma di certo non a casa sua, NdVdE)”.
Il programma REC dell’Unione Europea ha inoltre recentemente finanziato la pubblicazione di un manuale che fornisce le linee guida per i giornalisti su cosa scrivere quando l’argomento sono gli immigrati e l’immigrazione. Le linee guida sono parte del progetto RESPECT WORDS (Parole di Rispetto, ndt) – anch’esso finanziato dalla UE – che “mira a promuovere la qualità delle notizie sugli immigrati e sulle minoranze etniche e religiose”. Il manuale è stato pubblicato il 12 ottobre dall’Istituto Internazionale della Stampa (IPI) – un’associazione di professionisti dei media che “rappresenta i principali organi di stampa digitali, cartacei e televisivi in più di 120 paesi”. L'IPI sostiene che sta difendendo la “libertà di stampa fin dal 1950” (apparentemente, venire comprati e pagati dalla UE rappresenta una “libertà di stampa” ai giorni nostri). Altri 7 organi di stampa e gruppi civili con base in Europa hanno partecipato al progetto e lo hanno presentato a un evento al Parlamento Europeo a Bruxelles alla presenza dei Parlamentari Europei e di esperti della società civile. Secondo il comunicato stampa, le linee guida sono “complementari alle norme già in vigore per gli organi di stampa”.
Le linee guida dicono che “il giornalismo non può e non dovrebbe “risolvere” il problema dell’incitamento all'odio da solo”, ma che può aiutare a prevenire la sua “normalizzazione”. Tuttavia, “per raggiungere questo obiettivo ci vuole il coinvolgimento di molti attori, in particolare l’Unione Europea, che deve rinforzare i meccanismi esistenti e dare supporto ai nuovi strumenti progettati per combattere l’incitamento all'odio...
Perché i giornalisti, che sostengono di battersi per la libertà di stampa, ora fanno un appello alla UE perché li aiuti a porre fine alla libertà di parola in Europa?
Secondo le linee guida, i giornalisti dovrebbero, tra le altre cose:
“Dare voce a un’appropriata gamma di opinioni, incluse quelle che appartengono agli immigrati e ai membri delle minoranze ma… non… alle prospettive degli estremisti, solo per “far sentire l’altra campana”… Evitare di riprodurre direttamente l’incitamento all'odio; quando riportarlo è degno di nota, mediarlo… opponendosi a tale incitamento all'odio, e spiegando le false premesse su cui si basa. Ricordare che le informazioni sensibili (ad esempio, razza e etnia, religione o credenze filosofiche, affiliazione a partiti o a sindacati, informazioni sulla salute e sul sesso) dovrebbero essere menzionate quando siano necessarie perché il pubblico capisca le notizie”.
Sarà questo il motivo per cui le notizie sui giornali chiamano sempre i colpevoli di violenza sessuale o terrorismo semplicemente “uomini”?
In particolare, riguardo ai musulmani, le linee guida raccomandano di:
“Contrastare gli stereotipi anti-musulmani esistenti, che sono diventati pervasivi nei discorsi pubblici… Aumentare la visibilità di uomini e donne musulmane quando si riportano notizie in genere… Stare attenti a non stigmatizzare ulteriormente termini come “musulmano” o “Islam” associandoli a particolari atti… Non permettere che le dichiarazioni degli estremisti di “agire nel nome dell’Islam” vengano riportate senza essere messe in dubbio. Sottolineare… la diversità delle comunità musulmane… laddove necessario e degno di nota riportare i commenti odiosi contro i musulmani, farlo mediando le informazioni. Contrastare ogni falsa premessa su cui questi commenti si basano”.
Nemmeno Orwell avrebbe potuto inventarsi di meglio.
Judith Bergman è un opinionista, avvocato e analista politico.
[1] In particolare, la campagna "Media contro l'odio" non definisce cosa significhi "incitamento all'odio". Quel che più si avvicina ad una definizione di ciò che la campagna intende con tale termine, viene da un capitolo sull'incitamento all'odio dal rapporto "Ethics in News" (L'Etica nelle Notizie, ndt) della European Journalism Network (EJN) (Rete del Giornalismo Europeo, ndt) - un'organizzazione britannica che afferma di essere "un istituto indipendente, internazionale, senza scopo di lucro, dedicato ai più alti standard del giornalismo - che il programma "Media contro l'odio" ha riprodotto sul proprio sito web. L'EJN ha definito l'incitamento all'odio come "... qualsiasi espressione che colpisca un gruppo identificabile - una razza, una comunità religiosa o una minoranza sessuale, per esempio - e dunque ne danneggia i membri, ad esempio "l'incitamento alla... discriminazione negativa e alla violenza" e "espressioni che offendono la sensibilità di una comunità, anche attraverso credenze offensive". Mentre l'incitamento alla violenza è punibile dalla legge, offendere la sensibilità di una comunità non lo è, ma secondo l'EJN "i limiti legali non dovrebbero determinare i confini del comportamento professionale... i giornalisti devono sviluppare le loro capacità etiche per rispondere al reale rischio che vengano promossi seri danni".
25/10/17
Crescita economica mondiale 2000-2016: Grecia e Italia agli ultimissimi posti
Taps Coogan, 11 agosto 2017
Nel mese di maggio, qui su The Sounding Line, abbiamo sottolineato che l'economia greca si è ridotta del 9% da quando ha adottato l'euro nel 2002, dimostrando che la Grecia non ha tratto sostanzialmente alcun beneficio economico dall'ingresso nell'Euro e ha perso l’equivalente di un’intera generazione di crescita e prosperità.
"L'economia greca oggi è ridotta del 9 % rispetto a quando la Grecia ha adottato l'euro, nel 2002. Solo per questo fatto l'economia greca ha sperimentato una delle peggiori performance di “crescita” economica a lungo termine di tutto il mondo".
L'affermazione che la Grecia ha sperimentato una delle peggiori performance economiche del mondo potrebbe sembrare un’iperbole, ma purtroppo non è così.
Per illustrare ulteriormente questo punto, abbiamo analizzato il prodotto interno lordo reale (PIL) di ogni paese del mondo dal 2000 al 2016 in valuta locale tenuto conto dell'inflazione in base ai dati della Banca mondiale. Gli unici paesi che mancano sono quella manciata di stati per i quali i dati economici pertinenti non erano disponibili per queste cause: conflitti militari (Somalia, Afghanistan, Siria); nel 2000 non esistevano (Sud Sudan); sono microstati (Monaco, Andorra ecc.); oppure, nel caso del Venezuela e della Corea del Nord, hanno un tasso di inflazione che non è più calcolabile o è sconosciuto. In definitiva, i dati sono risultati disponibili per 181 paesi.
Escludendo i paesi di cui sopra, la Grecia ha sperimentato la maggior riduzione assoluta del PIL reale rispetto a qualsiasi paese al mondo nel 21 ° secolo e (insieme con la Repubblica Centrafricana) il terzo peggior tasso di crescita economica di qualsiasi paese.
Gli evidenti effetti negativi dell'appartenenza all'Eurozona non sono limitati alla Grecia.
Subito dopo la Grecia e la Repubblica Centrafricana viene l'Italia, che ha visto la quarta più lenta crescita economica di tutto il mondo nel 21° secolo, una crescita a malapena dell'1% nel corso degli ultimi 16 anni. Non molto lontano, il Portogallo risulta la sesta economia più lenta al mondo, con una crescita negli ultimi 16 anni del 3%.
Da notare che tra i 25 paesi con la crescita economica più lenta del mondo, sette sono paesi dell'eurozona, tra cui la Germania (un po' sorprendente), i Paesi Bassi, la Finlandia e la Francia. La Danimarca, che è nell'UE, ma non nell'area dell'euro (però ha la moneta agganciata all’euro, ndVdE), è anche lei tra i 25 paesi con la crescita più lenta al mondo.
Comunque possiamo congratularci con i leader economici dell'Eurozona per avere ridotto l'economia della Grecia meno (parlando di percentuali) di quanto ha fatto un dittatore di 93 anni come Robert Mugabe nello Zimbabwe e delle varie fazioni che governano lo Yemen lacerato dalla guerra.
In altre parole, negli ultimi 17 anni la crescita economica greca, italiana e portoghese è stata peggiore rispetto a: Iraq (nonostante 15 estenuanti anni di guerra e insurrezione), Iran (nonostante gli anni di schiaccianti sanzioni internazionali), Ucraina (nonostante il suo conflitto con la Russia), Liberia (nonostante la guerra civile e migliaia di persone uccise da Ebola), Sudan (nonostante anni di genocidio, guerra civile e la divisione in due del paese) e di quasi tutti gli altri paesi del mondo.
Naturalmente, mantenere elevati tassi di crescita è più difficile per le grandi economie sviluppate. Tuttavia, questa non è una scusa per la crescita negativa o vicina a zero osservata in Grecia, Italia e Portogallo. Tutte le grandi economie sviluppate al di fuori dell'Eurozona infatti sono cresciute notevolmente nello stesso periodo. Questo è particolarmente vero visto che anche l’economia - famigerata per la sua lentezza - del Giappone è cresciuta di un relativamente veloce 13%, la Svizzera del 31%, il Regno Unito del 32%, gli Stati Uniti del 33%, il Canada del 36%, l'Australia del 59%, la Russia del 71% e la Cina di un incredibile 325%.
Sebbene la crescita economica non sia l'unica misura importante per giudicare un'economia, né garantisca che la ricchezza economica sia distribuita in modo equo, in assenza di crescita, semplicemente, non è possibile avere sostanziali miglioramenti economici per la popolazione di un paese.
Ciò che sta succedendo in diverse economie dell'Eurozona non può essere attribuito a un rallentamento economico ciclico, né a un recupero lento dalla crisi finanziaria del 2008, né è semplicemente una conseguenza inevitabile per un'economia sviluppata. Lo smentiscono le prestazioni migliori di praticamente qualsiasi altro paese sulla Terra, dai più grandi paesi avanzati ai paesi del Terzo mondo che hanno affrontato guerre, genocidi, epidemie, corruzione e rivoluzioni.
Grecia, Italia, Portogallo e alcuni altri paesi dell'Eurozona soffrono di profondi problemi strutturali (per esempio una moneta strutturalmente sopravvalutata, ndVdE) e di una gestione economica tra le più incapaci del mondo. Forse è giunto il momento di iniziare a considerare i leader economici dell'autodichiarata élite che gestisce l’eurozona responsabili dei risultati che hanno ottenuto.
E, dato che la Grecia continua a lottare per sostenere il suo debito sovrano non ripagabile, vale la pena di notare che i sette paesi africani e centroamericani che hanno scelto di fare default sui propri debiti sovrani a partire dal 2000, sono tutti cresciuti più della Grecia (con la probabile eccezione del Venezuela). Forse la Grecia dovrebbe cogliere il suggerimento.
Nome del Paese | Crescita cumulata del PIL dal 2000 (Valuta locale a valore costante – miliardi) | Crescita % del PIL dal 2000 (Valuta locale a valore costante) |
Yemen, Rep. | -20.16 | -8% |
Zimbabwe | -0.65 | -4% |
Grecia | -5.41 | -3% |
Repubblica Centrale Africana | -20.93 | -3% |
Italia | 13.14 | 1% |
Micronesia, Fed. Sts. | 0.01 | 3% |
Portogallo | 7.06 | 4% |
Bahamas | 0.66 | 9% |
Brunei Darussalam | 1.81 | 11% |
Jamaica | 92.80 | 12% |
Giappone | 61180.99 | 13% |
Barbados | 0.14 | 14% |
Danimarca | 265.36 | 16% |
Palau | 0.03 | 17% |
Francia | 350.37 | 20% |
Finlandia | 31.56 | 20% |
Germania | 484.54 | 21% |
Haiti | 2.71 | 21% |
Olanda | 114.89 | 21% |
St. Lucia | 0.53 | 21% |
Austria | 61.35 | 24% |
Belgio | 76.75 | 25% |
Tonga | 0.17 | 27% |
Cipro | 3.39 | 27% |
Spagna | 234.93 | 27% |
Norvegia | 622.26 | 28% |
Croazia | 72.34 | 28% |
Kiribati | 0.04 | 28% |
Tuvalu | 0.01 | 30% |
Svizzera | 157.05 | 31% |
Dominica | 0.29 | 31% |
Regno Unito | 423.70 | 32% |
Stati Uniti | 4152.55 | 33% |
Antigua e Barbuda | 0.81 | 33% |
Isole Marshall | 0.04 | 34% |
Canada | 494.48 | 36% |
El Salvador | 2.69 | 36% |
Slovenia | 10.09 | 36% |
Ungaria | 8130.98 | 37% |
Ucraina | 274.56 | 39% |
Comoros | 33.03 | 40% |
Messico | 4172.03 | 41% |
Svezia | 1161.90 | 41% |
Grenada | 0.65 | 41% |
Liberia | 0.23 | 44% |
St. Vincent e Grenadines | 0.55 | 45% |
Brasile | 552.82 | 46% |
Argentina | 224.37 | 47% |
Fiji | 2.66 | 47% |
Vanuatu | 20.51 | 48% |
St. Kitts e Nevis | 0.69 | 48% |
Guinea | 3173.59 | 51% |
Repubblica Ceca | 1486.43 | 51% |
Nuova Zelanda | 81.87 | 52% |
Gabon | 1865.89 | 52% |
Samoa | 0.63 | 52% |
Madagascar | 245.47 | 53% |
Macedonia | 153.58 | 55% |
Sud Africa | 1116.95 | 57% |
Burundi | 621.10 | 57% |
Guinea-Bissau | 163.02 | 57% |
Islanda | 727.85 | 58% |
Australia | 613.84 | 59% |
Lussemburgo | 18.07 | 59% |
Suriname | 3.32 | 59% |
Montenegro | 0.64 | 60% |
Serbia | 1220.46 | 61% |
Uruguay | 258.85 | 61% |
Iran | 783097.55 | 62% |
Malta | 3.38 | 63% |
Guyana | 173.95 | 65% |
Bosnia Herzegovina | 10.85 | 65% |
Togo | 604.78 | 66% |
Gambia | 9.80 | 66% |
Costa d'Avorio | 6929.64 | 66% |
Seychelles | 3.46 | 66% |
Estonia | 7.08 | 66% |
Tunisia | 27.91 | 67% |
Belize | 1.11 | 67% |
Swaziland | 16.34 | 68% |
Oman | 11.26 | 69% |
Israele | 498.07 | 70% |
Russia | 25397.33 | 71% |
Bulgaria | 35.09 | 72% |
Guatemala | 104.44 | 73% |
Trinidad e Tobago | 37.90 | 74% |
Isole Solomon | 2.08 | 74% |
Polonia | 738.37 | 75% |
Hong Kong | 1055.98 | 76% |
Lettonia | 9.40 | 76% |
Algeria | 2629.58 | 78% |
Romania | 177.02 | 81% |
Nepal | 342.88 | 81% |
Nicaragua | 80.22 | 82% |
Arabia Saudita | 1167.47 | 82% |
Corea del Sud | 687421.20 | 84% |
Ecuador | 31.60 | 84% |
Honduras | 89.93 | 84% |
Paraguay | 13903.87 | 85% |
Cisgiordania e Gaza | 3.70 | 85% |
Lesotho | 11.49 | 86% |
Cile | 67538.71 | 86% |
Camerun | 5717.41 | 86% |
Tailandia | 4553.73 | 87% |
Mauritius | 155.22 | 88% |
Lituania | 16.10 | 88% |
Repubblica del Congo | 772.77 | 88% |
Repubblica Slovacca | 36.96 | 88% |
Colombia | 256914.00 | 90% |
Kuwait | 19.00 | 90% |
Djibouti | 60.67 | 90% |
Cuba | 25.93 | 91% |
Benin | 1951.11 | 91% |
Emirati Arabi Uniti | 663.11 | 91% |
Egitto | 914.39 | 91% |
Libano | 30327.21 | 92% |
Costa Rica | 13038.10 | 93% |
Irlanda | 116.04 | 93% |
Botswana | 42.92 | 94% |
Pakistan | 5712.83 | 94% |
Albania | 385.05 | 94% |
Senegal | 3090.76 | 95% |
Capoverde | 71.61 | 96% |
Kirgyzistan | 20.58 | 97% |
Bolivia | 22.02 | 98% |
Marocco | 453.47 | 99% |
Malawi | 652.42 | 99% |
Mauritania | 448.06 | 106% |
Moldavia | 17.28 | 108% |
Iraq | 105654.78 | 109% |
Namibia | 57.21 | 110% |
Belarus | 1.01 | 111% |
Kenya | 2265.82 | 111% |
Malesia | 584.36 | 112% |
Turkia | 839.67 | 115% |
Giordania | 6.22 | 115% |
Sao Tome e Principe | 2102.32 | 116% |
Kosovo | 2.70 | 116% |
Niger | 1769.17 | 119% |
Singapore | 218.78 | 119% |
Mali | 2542.25 | 120% |
Repubblica Dominicana | 1224.97 | 120% |
Timor-Leste | 0.67 | 120% |
Sudan | 17.62 | 124% |
Perù | 278.89 | 126% |
Filippine | 4545.69 | 127% |
Indonesia | 5311308.16 | 129% |
Sri Lanka | 5137.10 | 133% |
Congo | 6331.19 | 135% |
Georgia | 6.42 | 139% |
Sierra Leone | 5294.59 | 142% |
Burkina Faso | 2738.32 | 145% |
Bangladesh | 5306.24 | 150% |
Ghana | 22.33 | 162% |
Armenia | 1333.63 | 166% |
Vietnam | 1916359.00 | 168% |
Panama | 23.53 | 169% |
Zambia | 81.72 | 172% |
Uganda | 35628.56 | 177% |
Kazakistan | 8407.96 | 181% |
Tanzania | 30517.23 | 183% |
Nigeria | 45037.26 | 190% |
Angola | 1126.92 | 201% |
India | 82199.84 | 207% |
Mongolia | 10794.71 | 207% |
Lao PDR | 73773.88 | 210% |
Uzbekistan | 2334.35 | 212% |
Bhutan | 43.16 | 219% |
Mozambico | 322.53 | 221% |
Ciad | 3571.58 | 222% |
Cambogia | 31886.78 | 226% |
Macao | 246.40 | 227% |
Tagikistan | 4.09 | 229% |
Rwanda | 4424.00 | 235% |
Turkmenistan | 37.32 | 268% |
Etiopia | 607.82 | 300% |
Cina | 49207.06 | 325% |
Azerbaigian | 15.81 | 335% |
Guinea equatoriale | 4592.95 | 336% |
Myanmar | 47482.39 | 370% |
Qatar | 628.08 | 374% |
24/10/17
Bloomberg - Tradite dalle banche, 40.000 aziende italiane sono in un limbo
di Sonia Sirletti, Luca Casiraghi, e Tommaso Ebhardt - 20 ottobre 2017
La Serenissima Repubblica, così è nota da un millennio l'area attorno a Venezia, è ora l'inguaiato epicentro di un crollo bancario che minaccia di abbattere una delle migliori storie di successo dell'era della globalizzazione.
Base di marchi come Benetton, De Longhi, Geox e Luxottica, il Veneto è diventato la casa anche di 40.000 piccole imprese che ora improvvisamente si trovano abbandonate senza accesso al credito, da quando in giugno sono crollate due banche regionali.
L'implosione della Popolare di Vicenza e di Veneto Banca, che tra le altre cose ha anche spazzato via i risparmi di 200.000 azionisti, ha innescato un terremoto economico e politico che si è sentito ovunque, da Roma a Francoforte. La collera contro ciò che molti vedono come il risultato di una supervisione troppo lassista da parte delle autorità centrali nazionali sta fomentando la richiesta di una maggiore autonomia - richiesta che, nel frattempo, viene ispirata anche dagli sforzi della Catalogna per separarsi dalla Spagna.
"La sofferenza delle banche venete può essere giunta al termine, ma la sofferenza delle aziende è appena all'inizio”, ha dichiarato Andrea Arman, un avvocato consulente di alcune delle società e dei risparmiatori che sono stati colpiti più duramente. "Stiamo iniziando adesso a vedere le conseguenze del crollo, e ciò che stiamo vedendo è allarmante”.
A metà tra le Alpi e l'Adriatico, il Veneto è patria di cinque milioni di persone. Come la Catalogna, anche il Veneto ha un'eredità culturale di lunghi viaggi via mare, ha una propria lingua e un reddito ben al di sopra della media nazionale. Il Presidente del Veneto, Luca Zaia, che ha definito l'Italia e i suoi 64 governi in 71 anni come "uno Stato in bancarotta", ha in mente di sfruttare il risultato di un referendum non vincolante del 22 ottobre per fare pressione su Roma al fine di ottenere maggiore autonomia. Secondo un sondaggio di Demos pubblicato ieri [19 ottobre, NdT] su Repubblica, i tre quarti dei veneti desiderano maggiore autonomia locale, e il 15 per cento sarebbe favorevole alla completa indipendenza.
Mentre Intesa Sanpaolo SpA, la seconda maggiore banca italiana, ha pagato un prezzo simbolico per acquisire la parte più sana dei due istituti di credito veneti, l'entità pubblica destinata ad assorbire i 18 miliardi di euro di crediti in sofferenza ammassati dalle banche, SGA, non è ancora completamente operativa. Questa situazione ha lasciato nel pantano le piccole e medie imprese, che in molti casi in queste condizioni non sono in grado di continuare a produrre.
"Molte di queste imprese sono redditizie, ma sono bloccate in un limbo”, dice Mauro Rocchesso, capo di Fidi Impresa e Turismo Veneto, un'azienda finanziaria che fornisce collaterali alle aziende che cercano linee di credito. "Non hanno più una controparte e non riescono a trovare nuovi capitali da prendere a prestito a causa della loro attuale esposizione verso le due banche venete”.
Uno sviluppatore nei dintorni di Padova, che ha chiesto di restare anonimo, riteneva di aver risolto i suoi problemi di finanziamento dopo avere trovato un acquirente per un suo edificio commerciale nei pressi dell'autostrada che collega Venezia a Verona, ma poi è stato costretto a bloccare la vendita quando un debito che aveva verso Veneto Banca, collegato a quella proprietà, è stato assegnato alla SGA.
Ancora peggio è andato a Toni Costalunga, che a 71 anni lavora ancora nella sua fabbrica di macchinari nei pressi di Schio, uno snodo industriale ai piedi delle colline. Costalunga, che si sveglia alle una di notte e spesso lavora senza soste fino a dopo mezzogiorno, ha affermato di non essere in grado di pagare i suoi dipendenti entro i tempi dovuti perché la sua linea di credito è stata interrotta "senza un preavviso o una spiegazione" l'11 settembre, quando la SGA ha rilevato la linea di credito di Veneto Banca.
"Anche durante i momenti peggiori della recessione, solo pochissime volte ho effettuato pagamenti in ritardo, e mai avevo dovuto ritardare i pagamenti verso i miei lavoratori o i fornitori, fino allo scorso mese”, dice Costalunga.
Anche un eccellente merito creditizio è inutile oggi in Veneto, se i vostri soli collaterali sono azioni presso una di quelle due banche, banche che pure sono state fonte di investimenti sicuri per generazioni di persone nella regione.
Agostino Bonomo, fornaio di Asiago, una località alpina nota per il suo formaggio, racconta che i suoi affari vanno abbastanza bene e crescono, ma ha difficoltà a trovare il credito che gli serve per un nuovo forno, a causa dei 350.000 euro di azioni andate in fumo, le stesse che i suoi avi avevano depositato presso la banca vicentina in un secolo di risparmi. E si tratta solo di una piccola frazione degli 11 miliardi di euro che in questa regione stati bruciati dal 2015 a oggi.
"Custodivamo gelosamente quelle azioni, come si custodiscono dei lingotti d'oro”, ha detto Bonomo, 60 anni e presidente delle piccole imprese del Veneto. "Acquistare le azioni della propria banca era qualcosa che si faceva per tradizione. Ma abbiamo sbagliato”.
Anche durante i momenti peggiori della doppia recessione che ha colpito l'Italia dopo la crisi finanziaria globale, negli ultimi dieci anni, la Popolare di Vicenza e Veneto Banca avevano continuato a espandere il loro credito rivolto alle imprese, in controtendenza rispetto al resto del settore. Verso la fine dello scorso anno, la loro esposizione aveva raggiunto i 46 miliardi di euro, di cui circa il 40 per cento era in sofferenza. Si trattava del doppio dei crediti in sofferenza rispetto alla percentuale media in Italia e perfino di più rispetto a Monte dei Paschi di Siena nel peggiore momento, quello in cui il governo dovette intervenire per salvare l'antico istituto di credito.
Gli ex manager di entrambe le banche venete sono sotto inchiesta dopo che la Banca Centrale Europea ha ritenuto che costringessero i clienti ad acquistare più azioni di quante ne avessero bisogno, aumentando artificialmente le riserve. I report mostrano che le due banche hanno prestato 3 miliardi di dollari, a questo solo scopo, tra il 2013 e il 2016.
"È uno scandalo", ha dichiarato l'Amministratore delegato di Intesa Sanpaolo, Carlo Messina, il 10 ottobre, dopo che la sua banca aveva annunciato la creazione di un fondo di 100 milioni di euro per aiutare i propri clienti a minore reddito che avevano perso tutto acquistando azioni bancarie. "Queste banche hanno tradito la fiducia dei loro clienti”.
La presumibile rinomina del governatore di Banca d'Italia, Ignazio Visco, è stata messa in discussione questa settimana dal Partito Democratico a causa della sua gestione delle varie crisi bancarie. "Bisogna scrivere una nuova pagina" alla Banca centrale, ha dichiarato l'ex primo ministro Matteo Renzi questo mercoledì ai giornalisti. "Forse qualcuno ci potrà spiegare cosa è successo fino ad ora sui problemi che ci sono stati e sulla mancanza di supervisione”.
Molti azionisti sono stati colpiti due volte. Dopo che la BCE ha proibito alle banche di ricomprare le azioni nel 2014, queste hanno offerto ai loro clienti prestiti a basso tasso di interesse. Tuttavia, quando le riserve dietro i crediti si sono azzerate, gli interessi che i clienti hanno dovuto pagare alle banche sono esplosi.
Walter Baseggio, pensionato di 74 anni di Montebelluna, città in cui Veneto Banca fu fondata nel 1877, racconta che l'istituto di credito e i suoi impiegati erano sempre stati come una famiglia. Quando è andato in pensione, nel 2009, ha venduto metà della sua concessionaria di auto e ha investito i proventi in azioni della sua banca, senza alcuna esitazione - così come facevano tutti. Gli è costato 800.000 euro.
"Veneto Banca era come una madre per la gente che vive qui, ci proteggeva quando ce n'era bisogno ed era sempre leale con la gente”, ci dice, mentre sorseggia il suo caffè espresso in piazza.
Il sottosegretario alle finanze Paolo Baretta, durante un'intervista a Milano dello scorso mese, ha dichiarato che il governo è determinato a mantenere "vive" molte aziende venete in ogni modo possibile, incluse quelle che hanno debiti ora in mano alla SGA.
"Siamo fiduciosi che il Veneto continuerà a giocare un ruolo determinante come motore della crescita in Italia", ha detto Baretta.
Mentre i funzionari lavorano al quadro giuridico entro cui SGA dovrà iniziare a operare, i suoi manager stanno trattando con gli istituti di credito nazionali, come Intesa e Banca Ifis, il modo in cui iniziare a gestire i crediti, secondo le persone esperte della materia.
Se le aziende multinazionali venete sono state generalmente lasciate illese dal collasso dei due istituti di credito, il sistema di finanziamento che aveva sostenuto la trasformazione della regione da economia agricola a potenza manufatturiera durante l'ultimo secolo non sarà mai più lo stesso.
"Le banche venete sono state cruciali per la creazione e il sostegno di migliaia di piccole imprese, che sono la spina dorsale dell'economia locale", ha dichiarato Luigi Zingales, di origine padovana e professore all'Università Booth School of Business di Chicago. "Questo modello oggi è scomparso".
22/10/17
Handelsblatt - La flessibilità dei sindacati tedeschi piega la curva di Phillips
di Carsten Brzeski, 13 ottobre 2017
Se nella zona euro esiste un'economia in cui i salari dovrebbero iniziare a risollevarsi, questa è l'economia tedesca. Tuttavia, dal 2009, i salari nominali sono aumentati solo di una media di circa il 2% all'anno. In termini reali, dopo avere tenuto conto dell'inflazione, i salari sono aumentati solo di circa l'1% ogni anno. Meglio che niente, ma non è la crescita salariale che ci si poteva aspettare in un'economia al nono anno di forte crescita e in un mercato del lavoro che supera nuovi record di occupazione quasi ogni mese.
La Banca Centrale Europea, che sta cercando di trovare modi e ragioni per uscire lentamente dalle sue politiche monetarie estremamente allentate, tiene sotto osservazione i salari tedeschi da molto tempo. Per parafrasare Frank Sinatra: se l'inflazione salariale non si riprende lì, non si riprenderà da nessuna parte (almeno, nella nella zona euro). La BCE probabilmente ha riposto le sue speranze nei negoziati salariali di questo autunno in Germania, in ultimo vedendoci il lungamente atteso sprone all'inflazione salariale. Ma si sta preparando una grande delusione perché i sindacati tedeschi, per citare ancora Sinatra, lo stanno facendo a modo loro.
Questa settimana il più grande sindacato tedesco, la IG Metall, ha lanciato la solita richiesta di un aumento salariale (del 6% in due anni). Ma la sorpresa è stata che il sindacato è sembrato essere più interessato ad aumentare il tempo libero dei suoi membri e migliorarne l'equilibrio tra il lavoro e la vita. Ha richiesto di ridurre la settimana lavorativa dalle 35 ore attuali a 28 ore alla settimana. Questa richiesta fa parte di una tendenza interessante, che a nostro avviso riflette la struttura in cambiamento del mercato del lavoro tedesco e le mutevoli preferenze dei dipendenti, sullo sfondo della mancanza di lavoratori qualificati. Più tempo libero; non più soldi.
Questa tendenza, però, significa problemi per la BCE. Finché i salari rimangono bassi, per la banca centrale è più difficile stringere la sua politica monetaria. Tuttavia, se mantiene invariata la sua politica, nonostante la forte crescita economica dell'intera zona euro, aumenta il rischio di bolle e di allocazione sbagliata dei capitali. Negli ultimi tempi è stato scritto molto sul rapporto mutevole tra il calo del tasso di disoccupazione e i salari. Il presidente della BCE, Mario Draghi, ha addirittura definito i salari il fulcro della politica monetaria della banca centrale [con questa dichiarazione Draghi implicitamente ammette l'inutilità della Banca Centrale Europea e di quelle indipendenti in generale: se l'obiettivo della BCE è centrato sull'inflazione, e se questa è guidata dall'occupazione e non dalla massa monetaria, le politiche monetarie da sole non possono fare quasi nulla per indirizzare il mercato del lavoro, i salari e quindi l'inflazione, ndVdE]. In tempi di inflazione elevata e di crescita più debole, la crescita dei salari bassi è stata una ragione gradita per estendere le politiche di allentamento monetario. Ora che la crescita è ancora forte, la debole crescita dei salari è un inconveniente che rende difficile la decisione della BCE di muoversi verso il termine delle sue misure non convenzionali.
[caption id="attachment_13119" align="aligncenter" width="1458"] La curva di Phillips, che prende il nome dall'economista neozelandese William Phillips, descrive una relazione statistica inversa tra i tassi di disoccupazione e i relativi tassi di inflazione. In poche parole, quando la disoccupazione scende, l'inflazione sale.[/caption]
Fino ad oggi la BCE ha cercato conforto in un famoso concetto dell’economia, chiamato la curva di Phillips. Intitolata a William Phillips, che ne propose l'idea nel 1958, questa curva descrive la relazione inversa che egli osservò tra i tassi di disoccupazione e l'inflazione. Sulla base di questa premessa, gli economisti della BCE hanno costantemente previsto che la crescita salariale in tutta l'area dell'euro deve essere in procinto di accelerare.
Purtroppo, le loro proiezioni sembrano non essere più che una pia illusione. Molti fattori stanno mantenendo gli aumenti salariali strutturalmente bassi - in Germania, ma anche in tutta l'area dell'euro. Sebbene il tasso di disoccupazione ufficiale sia basso, i mercati del lavoro in Germania hanno ancora molte sacche nascoste. Molte persone occupano posti a basso salario o sono involontariamente occupate a tempo parziale o temporaneamente. La disoccupazione nascosta, un enorme settore di lavoratori a basso salario e l'afflusso dei rifugiati sono probabilmente i motivi principali della crescita salariale così fiacca. I problemi del settore automobilistico, la minaccia dell'automazione, della globalizzazione e della pressione al ribasso su salari e prezzi dovuta alla digitalizzazione non aiutano. [una spiegazione più estesa dell'allentamento della curva di Phillips è stata data dall'economista Alberto Bagnai nel suo blog Goofynomics: la curva è ancora valida; è scivolata su un nuovo equilibrio in seguito alle riforme strutturali che hanno investito il mercato del lavoro dagli anni '80 in poi, con l'obiettivo, raggiunto, di diminuire la rigidità dei salari verso il basso, ndVdE]
E adesso c'è questo nuovo fattore, del quale il passo intrapreso da IG Metall questa settimana può essere solo un precursore: la forza lavoro tedesca in sé sembra sempre meno interessata a lottare per salari elevati, poiché il compromesso tra denaro e tempo libero in questa società prospera e in via di invecchiamento si sta spostando. Forse è giunto il momento di rivedere la curva Phillips nella teoria economica, così come le ipotesi impiegate dalla BCE e molto di più [o forse è giunto il momento di introdurre nuovamente tutele nel mercato del lavoro, cancellare l'indipendenza delle banche centrali e mettere in campo politiche statali per la piena occupazione? ndVdE].
20/10/17
Neoliberalismo: l'idea che ha inghiottito il mondo
di Stephen Metcalf, 18 Agosto 2017
La scorsa estate, ricercatori del Fondo Monetario Internazionale hanno messo fine a una lunga e aspra disputa sul "neoliberalismo": hanno ammesso che esiste. Tre importanti economisti dell'FMI, un'organizzazione non certo nota per la sua imprudenza, hanno pubblicato un documento che si interroga sui benefici del neoliberalismo. Così facendo, hanno contribuito a ribaltare l'idea che la parola non sia altro che un artificio politico, o un termine senza alcun reale potere analitico. Il paper ha chiaramente individuato un' "agenda neoliberalista" che ha spinto la deregolamentazione delle economie in tutto il mondo, forzato l'apertura dei mercati nazionali al libero commercio e alla libera circolazione dei capitali e richiesto la riduzione del settore pubblico tramite l'austerità o le privatizzazioni. Gli autori hanno dimostrato con dati statistici la diffusione delle politiche neoliberali a partire dal 1980 e la loro correlazione con la crescita anemica, i cicli di espansione e frenata e le disuguaglianze.
Neoliberalismo è un termine vecchio, risalente agli anni Trenta, ma è stato rivitalizzato come un modo per descrivere la nostra politica attuale o, più precisamente, l'ordine delle idee consentite dalla nostra politica. All'indomani della crisi finanziaria del 2008, è stato un modo per attribuire la responsabilità della débacle, non a un partito politico di per sé, ma ad un establishment che aveva ceduto la sua autorità al mercato. Per i Democratici negli Stati Uniti e i Laburisti nel Regno Unito, questa cessione è stata descritta come un grottesco tradimento dei loro principi. Bill Clinton e Tony Blair, è stato detto, hanno abbandonato gli impegni tradizionali della sinistra, in particolare nei confronti dei lavoratori, a favore di un'élite finanziaria globale e di politiche autoritarie che li hanno arricchiti; e, nel fare questo, hanno permesso un terribile aumento delle disuguaglianze.
Negli ultimi anni il dibattito si è inasprito e il termine è diventato un'arma retorica, un modo per la gente di sinistra di gettare le colpe su quelli che stanno anche un centimetro alla loro destra. (Non c'è da stupirsi che i centristi dicano che è un insulto insensato: sono quelli nei cui confronti l'insulto è veramente più sensato). Ma il "neoliberalismo" è qualcosa di più che una battuta legittima e gratificante. Rappresenta anche, a suo modo, un paio di lenti attraverso le quali guardare il mondo.
Osserva la realtà attraverso le lenti del neoliberalismo e vedrai più chiaramente come i pensatori politici più ammirati da Thatcher e da Reagan hanno contribuito a modellare l'ideale della società come una sorta di mercato universale (e non, ad esempio, una polis, una sfera civile o una sorta di famiglia) e gli esseri umani come dei calcolatori di profitti e perdite (e non come beneficiari di previdenze o titolari di diritti e doveri inalienabili). Naturalmente l'obiettivo era quello di indebolire lo stato sociale e l'obiettivo della piena occupazione e, sempre, di ridurre le tasse e deregolamentare. Ma "neoliberalismo" indica qualcosa di più di una lista standard di obiettivi di destra. Era un modo per riordinare la realtà sociale, e ripensare il nostro status come individui isolati.
Ancora sbirciando attraverso l'obiettivo si vede come, non meno dello stato sociale, il libero mercato è un'invenzione umana. Si vede in quale maniera pervasiva siamo invitati a pensare a noi stessi come proprietari dei nostri talenti e iniziative, con quanta disinvoltura ci viene detto di competere e adattarci. Si vede in quale misura un linguaggio che precedentemente era limitato alle semplificazioni didattiche che descrivono i mercati delle materie prime (concorrenza, trasparenza, comportamenti razionali) è stato applicato a tutta la società, fino a invadere la realtà della nostra vita personale, e come l'atteggiamento del venditore si è infiltrato inestricabilmente in tutte le forme dell'espressione di sé.
In breve, il "neoliberalismo" non è semplicemente un nome che sta a indicare le politiche a favore del mercato, o i compromessi con il capitalismo finanziario fatti dai partiti socialdemocratici falliti. È la denominazione di una premessa che, silenziosamente, è arrivata a regolare tutta la nostra pratica e le nostre credenze: che la concorrenza è l'unico legittimo principio di organizzazione dell'attività umana.
Non appena il neoliberalismo è stato certificato come reale, e non appena ha reso evidente l'ipocrisia universale del mercato, allora i populisti e i fautori dell'autoritarismo sono arrivati al potere. Negli Stati Uniti, Hillary Clinton, il super-cattivo dei neoliberal, ha perso - e nei confronti di un uomo che sapeva solo quanto basta per fingere di odiare il libero scambio. Quindi quegli occhiali sono ormai inutili? Possono fare qualcosa per aiutarci a capire cosa si è rotto nella politica britannica e americana? Contro le forze dell'integrazione globale, si è riaffermata l'identità nazionale e nel modo più duro possibile. Cosa potrebbero avere a che fare il militante della parrocchia della Brexit e l'America Trumpista con la logica neoliberale? Qual è la possibile connessione tra il presidente – un folle a ruota libera – e il paradigma esangue dell'efficienza conosciuto come libero mercato?
Non è solo che il libero mercato produce una piccola squadra di vincitori e un enorme esercito di perdenti – e i perdenti, in cerca di vendetta, si sono rivolti alla Brexit e a Trump. C'era, sin dall'inizio, una relazione inevitabile tra l'ideale utopistico del libero mercato e il presente distopico in cui ci troviamo; tra il mercato come dispensatore unico di valore e tutore della libertà, e la nostra attuale caduta nella post-verità e nell'illiberalismo.
Io credo che occorra spostare il dibattito sterile sul neoliberalismo ritornando al principio, e prendendo sul serio la misura del suo effetto cumulativo su tutti noi, indipendentemente dall'appartenenza. E questo richiede il ritorno alle sue origini, che non hanno nulla a che fare con Bill o Hillary Clinton. C'era una volta un gruppo di persone che si definivano neoliberali, e lo facevano con molto orgoglio, e ambivano a una rivoluzione totale nel pensiero. Il più importante fra di loro, Friedrich Hayek, non pensava di conquistare una posizione nello spettro politico, o di giustificare i ricchi, o aggrapparsi ai margini della microeconomia.
Pensava di risolvere il problema della modernità: il problema della conoscenza oggettiva. Per Hayek, il mercato non agevolava semplicemente il commercio di beni e servizi; rivelava la verità. Com'è che la sua ambizione si è rovesciata nel suo opposto – la sconvolgente possibilità che, grazie alla nostra venerazione sconsiderata del libero mercato, la verità potrebbe essere scacciata del tutto dalla vita pubblica?
Quando nel 1936 Friedrich Hayek ebbe l'idea, egli si rese conto, con la convinzione di un'"illuminazione improvvisa", che si era imbattuto in qualcosa di nuovo. "Come può la combinazione di frammenti di conoscenze esistenti in menti diverse", ha scritto, "portare a risultati che, se dovessero essere perseguiti deliberatamente, richiederebbero una conoscenza da parte del regista che nessuno può possedere?”
Non si trattava di un punto tecnico sui tassi di interesse o sui crolli deflazionari. Non era una polemica reazionaria contro il collettivismo o lo stato sociale. Era un modo di far nascere un mondo nuovo. Con crescente eccitazione, Hayek capì che il mercato potrebbe essere considerato come una sorta di mente.
La "mano invisibile" di Adam Smith ci aveva già consegnato la concezione moderna del mercato: una sfera autonoma dell'attività umana e quindi, potenzialmente, un oggetto valido di conoscenza scientifica. Ma Smith era, e lo è stato fino alla fine della sua vita, un moralista del XVIII secolo. Pensava che il mercato fosse giustificato solo alla luce della virtù individuale, e temeva che una società governata da nient'altro che dall'interesse personale allo scambio non fosse affatto una società. Il neoliberalismo è Adam Smith senza il suo timore.
Che Hayek sia considerato il padre del neoliberalismo – uno stile di pensiero che riduce tutto all'economia – è un po' assurdo dato che egli era un economista mediocre. Era solo un giovane e oscuro tecnocrate viennese quando era stato reclutato alla London School of Economics per competere con la stella nascente di John Maynard Keynes a Cambridge, o addirittura contrastarla.
Il piano fallì, e l'Hayek contrapposto a Keynes fu una disfatta. La Teoria Generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta di Keynes, pubblicata nel 1936, fu accolta come un capolavoro. Dominava la discussione pubblica, specialmente tra i giovani economisti inglesi in formazione, per i quali Keynes, brillante, affascinante e ben inserito socialmente, rappresentava un modello ideale. Alla fine della seconda guerra mondiale, molti eminenti sostenitori del libero mercato si erano avvicinati al modo di pensare di Keynes, riconoscendo che il governo aveva un ruolo da svolgere nella gestione di un'economia moderna. L'eccitazione iniziale su Hayek si era dissipata. La sua peculiare idea che non fare niente avrebbe potuto curare una depressione economica era stata screditata in teoria e nella pratica. Successivamente ammise di aver sperato che il suo lavoro di critica a Keynes venisse semplicemente dimenticato.
Hayek fece una figura stupida: un professore alto, eretto e dall'accento pronunciato, in abito di tweed ben tagliato, che insisteva su un formale "Von Hayek", ma crudelmente soprannominato dietro le spalle "Mr. Fluctooations". Nel 1936 era un accademico senza pubblicazioni e senza un futuro scontato. Adesso viviamo nel mondo di Hayek, come abbiamo vissuto una volta in quello di Keynes. Lawrence Summers, il consigliere di Clinton ed ex rettore dell'Università di Harvard, ha affermato che la concezione di Hayek del sistema dei prezzi è "un'impresa penetrante e originale alla pari della microeconomia del XX secolo" e "la cosa più importante da imparare oggi in un corso di economia". E comunque lo sottovaluta. Keynes non ha vissuto o previsto la guerra fredda, ma il suo pensiero è riuscito a penetrare in tutti gli aspetti del mondo della guerra fredda; così anche ogni aspetto del mondo post-1989 è imbevuto del pensiero di Hayek.
Hayek aveva una visione globale: un modo di strutturare tutta la realtà sul modello della concorrenza. Comincia assumendo che quasi tutte le attività umane (se non tutte) sono una forma di calcolo economico e possono così essere assimilate ai concetti fondamentali di ricchezza, valore, scambio, costo – e soprattutto prezzo. I prezzi sono un mezzo per allocare le risorse scarse in modo efficiente, secondo necessità e utilità, in base alla domanda e all'offerta. Perché il sistema dei prezzi funzioni in modo efficiente, i mercati devono essere liberi e concorrenziali. Da quando Smith aveva immaginato l'economia come una sfera autonoma, esisteva la possibilità che il mercato non fosse solo un pezzo della società, ma la società nel suo complesso. All'interno di tale società, gli uomini e le donne hanno bisogno solo di seguire il proprio interesse personale e competere per le risorse scarse. Attraverso la concorrenza "diventa possibile", come ha scritto il sociologo Will Davies, "discernere chi e che cosa ha valore".
Tutto ciò che una persona che conosce la storia vede come necessari baluardi contro la tirannia e lo sfruttamento – una classe media prospera e una sfera civile; istituzioni libere; suffragio universale; libertà di coscienza, dimensione collettiva, religione e stampa; il riconoscimento di fondo che l'individuo è portatore di dignità – non ha alcun posto nel pensiero di Hayek. Hayek ha incorporato nel neoliberalismo l'ipotesi che il mercato fornisca tutta la protezione necessaria contro l'unico reale pericolo politico: il totalitarismo. Per evitare questo, lo Stato deve solo mantenere libero il mercato.
Quest'ultimo è ciò che rende il neoliberalismo "neo". È una modifica fondamentale della credenza precedente in un mercato libero e uno stato minimo, noto come "liberalismo classico". Nel liberalismo classico, i commercianti semplicemente chiedevano allo Stato di "lasciarli soli" – di "lasciarli fare". Il neoliberalismo riconosce che lo stato deve essere attivo nell'organizzazione di un'economia di mercato. Le condizioni che consentono il libero mercato devono essere conquistate politicamente, e lo stato deve essere riprogettato per sostenere il libero mercato in modo costante e continuativo.
Questo non è tutto: ogni aspetto della politica democratica, dalle scelte degli elettori alle decisioni dei politici, deve essere sottoposto ad un'analisi puramente economica. Il legislatore è obbligato a lasciare abbastanza le cose come stanno per non distorcere le azioni naturali del mercato e così, idealmente, lo Stato fornisce un quadro giuridico fisso, neutrale e universale in cui le forze di mercato operano spontaneamente. La direzione consapevole del governo non è mai preferibile ai "meccanismi automatici di aggiustamento", cioè il sistema dei prezzi, che non è solo efficiente, ma massimizza la libertà, o l'opportunità per gli uomini e le donne di fare scelte libere sulla propria vita.
Mentre Keynes volava tra Londra e Washington, creando l'ordine del dopoguerra, Hayek se ne stava imbronciato a Cambridge. Era stato mandato lì durante le evacuazioni di guerra; e si lamentava di essere circondato da "stranieri" e "orientali di tutti i tipi" e "europei di praticamente tutte le nazionalità, ma solo pochissimi dotati di una reale intelligenza".
Bloccato in Inghilterra, senza alcuna influenza o credibilità, Hayek aveva solo la sua idea a consolarlo; un'idea così grande che un giorno avrebbe fatto mancare il terreno sotto i piedi a Keynes e a qualsiasi altro intellettuale. Lasciato libero di funzionare, il sistema dei prezzi funziona come una sorta di mente. E non come una mente qualsiasi, ma una mente onnisciente: il mercato calcola ciò che gli individui non possono afferrare. Rivolgendosi a lui come a un compagno d'armi intellettuale, il giornalista americano Walter Lippmann scrisse a Hayek dicendo: "Nessuna mente umana ha mai colto l'intero schema di una società ... Nella migliore delle ipotesi, una mente può cogliere la propria versione dello schema, qualcosa di molto più limitato, che sta alla realtà come una sagoma sta a un uomo reale".
È una affermazione epistemologica forte – che il mercato è un sistema per conoscere le cose che supera radicalmente la capacità di ogni mente individuale. Un tale mercato non è tanto una convenzione umana, da manipolare come qualsiasi altra cosa, quanto una forza da studiare e da placare. L'economia cessa di essere una tecnica – come credeva Keynes – per raggiungere fini sociali desiderabili, come la crescita o la stabilità del valore della moneta. L'unico fine sociale è il mantenimento del mercato stesso. Nella sua onniscienza, il mercato costituisce l'unica forma legittima di conoscenza, davanti alla quale tutti gli altri modi di riflessione sono parziali, in entrambi i sensi della parola: comprendono solo un frammento di un intero e rispondono a un interesse particolare. A livello individuale, i nostri valori sono solo personali, o semplici opinioni; a livello collettivo, il mercato li converte in prezzi, o fatti oggettivi.
Dopo essersene venuto via dalla LSE, Hayek non ebbe mai un incarico permanente che non fosse pagato da grandi sponsor aziendali. Anche i suoi colleghi conservatori dell'Università di Chicago – l'epicentro globale del dissenso libertario negli anni '50 – consideravano Hayek come un portavoce reazionario, un "uomo di squadra della destra" con uno "sponsor di squadra della destra", come si suol dire. Nel 1972, un amico andò a trovare Hayek, ora a Salisburgo, e trovò un uomo anziano prostrato nell'autocommiserazione, convinto che il lavoro della sua vita era stato inutile. Nessuno si interessava a quello che aveva scritto!
C'era, però, qualche segno di speranza: Hayek era il filosofo politico preferito di Barry Goldwater e a quanto si dice anche di Ronald Reagan. Poi c'era Margaret Thatcher. Thatcher esaltava Hayek di fronte a tutti, e prometteva di mettere insieme la sua filosofia del libero mercato con una ripresa dei valori vittoriani: famiglia, comunità, lavoro duro.
Hayek si incontrò privatamente con Thatcher nel 1975, proprio nel momento in cui lei, appena nominata leader dell'opposizione nel Regno Unito, si stava preparando a mettere in pratica la sua Grande Idea per consegnarla alla storia. Si consultarono in privato per 30 minuti a Londra, a Lord North Street presso l'Istituto per gli Affari Economici. Dopo l'incontro, lo staff della Thatcher gli chiese ansiosamente cosa stava pensando. Cosa poteva dire? Per la prima volta in 40 anni, il potere restituiva a Friedrich von Hayek la tanto preziosa immagine che egli aveva di se stesso, l'immagine di un uomo che poteva sconfiggere Keynes e ricostruire il mondo.
Rispose: "Lei è veramente bella".
La Grande Idea di Hayek non è granché come idea, fino a che non la ingigantisci. Processi organici, spontanei ed eleganti che, come un milione di dita sul tavolo di una seduta spiritica, si coordinano per creare risultati che altrimenti sarebbero accidentali. Applicata ad un mercato reale – il mercato della pancetta di maiale o i futures del granturco – questa rappresentazione dei fatti è poco più che un'ovvietà. Può essere ampliata per descrivere come i vari mercati, delle materie prime e del lavoro e anche lo stesso mercato della moneta, compongano quella parte della società conosciuta come "l'economia". Questo è meno banale, ma ancora irrilevante; un Keynesiano accetta tranquillamente questa rappresentazione. Ma cosa succede se le facciamo fare un passo avanti? Cosa succede se concepiamo tutta la società come una sorta di mercato?
Più l'idea di Hayek si espande, più diventa reazionaria, più si nasconde dietro la sua pretesa di neutralità scientifica – e più permette alla scienza economica di collegarsi alla tendenza intellettuale più importante dell'occidente sin dal 17° secolo. L'ascesa della scienza moderna ha generato un problema: se il mondo universalmente obbedisce alle leggi naturali, cosa significa essere esseri umani? L'essere umano è semplicemente un oggetto nel mondo, come qualsiasi altra cosa? Sembra che non sia possibile integrare l'esperienza soggettiva e interiore dell'uomo nella natura, nel modo in cui la scienza la concepisce, come un qualcosa di oggettivo, soggetto a regole che scopriamo tramite l'osservazione.
Tutta la cultura politica del dopoguerra gioca a favore di John Maynard Keynes e di un forte ruolo dello Stato nella gestione dell'economia. Ma tutta la cultura accademica postbellica si trova a favore della Grande Idea di Hayek. Prima della guerra, anche l'economista più conservatore pensava al mercato come lo strumento per un obiettivo limitato, l'efficiente allocazione delle risorse scarse. Fin dai tempi di Adam Smith a metà del 1700, e fino ai membri fondatori della scuola di Chicago negli anni del dopoguerra, vi era la credenza comune che gli obiettivi finali della società e della vita, si trovavano nella sfera non-economica.
Secondo questo punto di vista, le questioni di valore sono risolte politicamente e democraticamente, non economicamente – attraverso la riflessione morale e la deliberazione pubblica. La espressione classica moderna di questa convinzione si trova in un saggio del 1922 intitolato Etica e Interpretazione Economica di Frank Knight, che giunse a Chicago due decenni prima di Hayek. "La critica economica razionale dei valori dà risultati ripugnanti per il buon senso", scrisse Knight. "L'uomo economico è egoista e spietato, degno di condanna morale".
Gli economisti avevano dibattutto aspramente per 200 anni sulla questione di come considerare i valori sui quali si organizza una società mercantile, al di là di un semplice calcolo e interesse personale. Knight, insieme ai suoi colleghi Henry Simon e Jacob Viner, si trovava davanti a Franklin D Roosevelt e agli interventi sul mercato del New Deal, e fondarono l'Università di Chicago facendone quel tempio intellettualmente rigoroso dell'economia del libero mercato che rimane ancora oggi. Tuttavia, Simons, Viner e Knight iniziarono tutti la loro carriera prima che l'inarrivabile prestigio dei fisici atomici riuscisse a far fluire enormi somme di denaro nel sistema universitario e lanciasse la moda postbellica per la scienza "dura". Non adoravano le equazioni o i modelli, e si preoccupavano di questioni non scientifiche. Più esplicitamente, si preoccupavano di questioni di valore, dove il valore era assolutamente distinto dal prezzo.
Non è solo che Simons, Viner e Knight fossero meno dogmatici di Hayek, o più disposti a perdonare lo stato per la tassazione e la spesa pubblica. Non è che Hayek fosse loro intellettualmente superiore. Semplicemente, riconoscevano come principio fondamentale che la società non era la stessa cosa del mercato, e che il prezzo non era la stessa cosa del valore. Questo ha fatto sì che venissero completamente dimenticati dalla storia.
È stato Hayek che ci ha mostrato come arrivare dalla condizione senza speranza della relatività umana alla maestosa oggettività della scienza. La Grande Idea di Hayek funge da anello mancante tra la nostra natura umana soggettiva e la natura stessa. Così facendo, pone qualsiasi valore che non possa essere espresso come un prezzo – il verdetto del mercato – su un piano incerto, come nient'altro che un'opinione, una preferenza, folklore o superstizione.
Ma più di chiunque altro, anche più di Hayek stesso, è stato il grande economista del dopoguerra di Chicago, Milton Friedman, che ha contribuito a convertire i governi e i politici al potere alla Grande Idea di Hayek. Ma prima ha dovuto rompere con i due secoli precedenti e dichiarare che l'economia è "in linea di principio indipendente da qualsiasi posizione etica particolare o da giudizi normativi" e che è "una scienza oggettiva, nello stesso senso di qualsiasi scienza fisica". I valori del vecchio ordine mentale normativo erano viziati, erano "differenze su cui gli uomini alla fine possono solo combattere". Detto con altre parole, da una parte c'è il mercato, e dall'altra il relativismo.
I mercati possono essere facsimili umani di sistemi naturali, e come l'universo stesso, possono essere senza autori e senza valore. Ma l'applicazione della Grande Idea di Hayek ad ogni aspetto della nostra vita nega ciò che di noi è più caratteristico. Nel senso che assegna ciò che è più umano degli esseri umani – la nostra mente e la nostra volontà – agli algoritmi e ai mercati, lasciandoci meccanici, come zombi, rappresentazioni rattrappite di modelli economici. Espandere l'idea di Hayek sino a promuovere radicalmente il sistema dei prezzi a una sorta di onniscienza sociale significa ridimensionare radicalmente l'importanza della nostra capacità individuale di ragionare – la nostra capacità di trovare le giustificazioni delle nostre azioni e credenze e valutarle.
Di conseguenza, la sfera pubblica – lo spazio in cui offriamo ragioni e contestiamo le ragioni degli altri – cessa di essere lo spazio della deliberazione, e diventa un mercato di click, like e retweet. Internet è la preferenza personale enfatizzata dall'algoritmo; uno spazio pseudo pubblico che riecheggia la voce dentro la nostra testa. Piuttosto che uno spazio di dibattito in cui facciamo il nostro cammino, come società, verso il consenso, ora c'è un apparato di affermazione reciproca chiamato banalmente "mercato delle idee". Quello che appare pubblico e chiaro è solo un'estensione delle nostre preesistenti opinioni, pregiudizi e credenze, mentre l'autorità delle istituzioni e degli esperti è stata spiazzata dalla logica aggregativa dei grandi dati. Quando accediamo al mondo attraverso un motore di ricerca, i suoi risultati vengono classificati, per come la mette il fondatore di Google, "ricorrentemente" - da un'infinità di singoli utenti che funzionano come un mercato, in modo continuo e in tempo reale.
A parte l'utilità straordinaria della tecnologia digitale, una tradizione più antica e umanistica, che ha dominato per secoli, aveva sempre distinto fra i nostri gusti e preferenze - i desideri che trovano espressione sul mercato - e la nostra capacità di riflessione su quelle preferenze, che ci consente di stabilire ed esprimere valori.
"Un sapore è definito come una preferenza su cui non si discute", ha scritto una volta il filosofo ed economista Albert O Hirschman. "Un gusto che si può contestare, con se stessi o con gli altri, cessa ipso facto di essere un gusto - diventa un valore".
Hirschman ha formulato una distinzione tra quella parte di sé che è un consumatore e quella parte di sé che produce ragionamenti. Il mercato riflette ciò che Hirschman ha definito le preferenze, che sono "rivelate dagli agenti quando acquistano beni e servizi". Ma, come afferma, gli uomini e le donne hanno anche la capacità di rivedere i loro "desideri, volontà e preferenze", per chiedersi se veramente vogliono questi desideri e preferiscono queste preferenze ". Modelliamo noi stessi e le nostre identità sulla base di questa capacità di riflessione. L'uso del potere di riflessione del singolo individuo è la ragione; l'uso collettivo di questi poteri di riflessione è la ragione pubblica; l'uso della ragione pubblica per approvare le leggi e la linea politica è la democrazia. Quando forniamo ragioni per le nostre azioni e credenze, ci realizziamo: individualmente e collettivamente, decidiamo chi e che cosa siamo.
Secondo la logica della Grande Idea di Hayek, queste espressioni della soggettività umana senza la ratifica del mercato sono senza significato - come ha detto Friedman, non sono altro che relativismo, ogni cosa risultando buona come qualsiasi altra. Quando l'unica verità oggettiva è determinata dal mercato, tutti gli altri valori hanno lo status di mere opinioni; tutto il resto è aria fritta relativistica. Ma il "relativismo" di Friedman è una accusa che può essere rivolta a qualsiasi pretesa basata sulla ragione umana. È un insulto assurdo, visto che tutte le attività umane sono "relative" a differenza delle scienze. Sono relative alla condizione (privata) di avere una mente e alla necessità (pubblica) di ragionare e comprendere, anche quando non possiamo aspettarci delle prove scientifiche. Quando i nostri dibattiti non sono più risolti con deliberazioni basate su ragionamenti, allora l'esito sarà determinato dai capricci del potere.
È qui che il trionfo del neoliberismo si traduce nell'incubo politico che viviamo oggi. Per citare una vecchia battuta, "avevi solo una cosa da fare!". Il grande progetto di Hayek, come originariamente concepito negli anni '30 e '40, era stato espressamente progettato per impedire di ricadere nel caos politico e ne fascismo. Ma la Grande Idea ha sempre coinciso con questo abominio stesso che voleva impedire che accadesse. Era, fin dall'inizio, intrisa della cosa stessa da cui sosteneva di proteggere. La società riconcepita come un gigante mercato porta ad una vita pubblica ridotta ad uno scontro tra mere opinioni; finché il pubblico frustrato non si rivolge, infine, ad un uomo forte come ultima risorsa per risolvere i suoi problemi, altrimenti ingestibili.
Nel 1989, un giornalista americano bussò alla porta di Hayek 90enne. Viveva a Freiburg, nella Germania Ovest, in un appartamento al terzo piano ad Urachstrasse. I due uomini si sedettero in una stanza con le finestre che guardavano sulle montagne e Hayek, che si stava riprendendo dalla polmonite, mentre parlavano si mise una coperta sulle gambe.
Non era più l'uomo di una volta, sprofondato nella sconfitta per mano di Keynes. Thatcher aveva appena scritto a Hayek con un tono di trionfo epocale. Niente di ciò che lei e Reagan avevano compiuto "sarebbe stato possibile senza i valori e le idee che ci hanno portato sulla strada giusta e fornito la giusta direzione". Hayek ora era soddisfatto di se stesso e ottimista sul futuro del capitalismo. Come ha scritto il giornalista, "In particolare, Hayek vede un maggiore apprezzamento per il mercato tra le giovani generazioni. Oggi i giovani disoccupati di Algeri e Rangoon non protestano per uno stato sociale pianificato a livello centrale, ma per le opportunità: la libertà di acquistare e vendere - jeans, automobili, qualunque cosa - a qualsiasi prezzo che il mercato possa sostenere ».
Sono passati trent'anni, e si può giustamente dire che la vittoria di Hayek non ha rivali. Viviamo in un paradiso costruito dalla sua Grande Idea. Più il mondo può essere fatto assomigliare ad un mercato ideale governato solo dalla libera concorrenza, più il comportamento umano diviene complessivamente "ordinato" e "scientifico". Ogni giorno noi stessi - nessuno deve più dircelo! - ci sforziamo di diventare più perfetti come acquirenti e venditori, isolati, discreti, anonimi; e ogni giorno consideriamo il desiderio residuo di essere qualcosa di più di un consumatore come un'espressione di nostalgia, o di elitismo.
Ciò che è iniziato come una nuova forma di autorità intellettuale, radicata in una visione del mondo onestamente apolitica, si è facilmente trasformata in una politica ultra-reazionaria. Quello che non può essere quantificato non deve essere reale, dice l'economista, e come misurare i principali benefici dell'illuminazione - vale a dire, il ragionamento critico, l'autonomia personale e l'autogoverno democratico? Quando abbiamo abbandonato, per il suo imbarazzante residuo di soggettività, la ragione come una forma di verità e abbiamo reso la scienza l'unico arbitro del reale e del vero, abbiamo creato un vuoto che la pseudo-scienza è stata ben felice di riempire.
L'autorità del professore, del riformatore, del legislatore o del giurista non deriva dal mercato, ma da valori umanistici come la passione civile, la coscienza o il desiderio di giustizia. Molto tempo prima che l'amministrazione di Trump cominciasse a squalificarle, queste figure erano state private di rilevanza da uno schema esplicativo che non può spiegarle. Certamente c'è una connessione tra la loro crescente irrilevanza e l'elezione di Trump, una creatura di puro capriccio, un uomo senza principi o convinzioni che lo possano rendere una persona coerente. Un uomo senza mente, che rappresenta la totale assenza della ragione, sta governando il mondo; o portandolo alla rovina. Come una vera agenzia immobiliare di Manhattan, però, Trump, ehi - sa quel che sa: che i suoi peccati devono ancora essere puniti dal mercato.