28/02/18

Eurostat - Nella UE quasi la metà dei disoccupati è a rischio povertà, e la più alta percentuale si trova in Germania

Dai dati Eurostat, risulta che le prospettive di povertà per i disoccupati dell'Unione europea aumentano costantemente e che la più alta percentuale di disoccupati a rischio di povertà si trova nella ricca Germania, dove i  benefici della politica mercantilista tedesca basata sulla moneta unica e sulla compressione dei salari restano concentrati in poche mani. Il malcontento popolare cresce dunque in tutte le nazioni dell'unione, e con esso crolla il sostegno per i partiti che hanno condotto a questa pesante situazione sociale. 

 

 

 

26 febbraio 2018

 

Nel 2016 quasi la metà (48,7%) dei disoccupati di età compresa tra i 16 e i 64 anni dell'Unione europea (UE) risultava a rischio di povertà dopo i trasferimenti sociali. In altre parole, il rischio di povertà è cinque volte superiore a quello degli occupati ( 9,6%).

 

Negli ultimi 10 anni, la percentuale di disoccupati a rischio di povertà è aumentata continuamente, passando dal 41,5% nel 2006 al 48,7% nel 2016.

 

Le persone a rischio di povertà sono quelle che vivono in una famiglia con un reddito disponibile equivalente (calcolato dividendo il reddito totale disponibile di ciascuna famiglia per il numero dei suoi componenti, ndt) al di sotto della soglia di rischio, che è fissata al 60% del reddito disponibile equivalente mediano nazionale (dopo i trasferimenti sociali).

 

La più alta percentuale di disoccupati a rischio di povertà si trova in Germania.

 

Nel 2016 tra gli Stati membri dell'UE  il tasso di disoccupati a rischio di povertà era più alto in Germania (70,8%), seguito a distanza dalla Lituania (60,5%). Oltre la metà dei disoccupati in Lettonia (55,8%), Bulgaria (54,9%), Estonia (54,8%), Repubblica ceca (52,3%), Romania (51,4%) e Svezia (50,3%) erano a rischio di povertà.

 



 

 

All'estremo opposto della scala, meno del 40% dei disoccupati era a rischio di povertà a Cipro e in Finlandia (entrambi al 37,3%), in Francia (38,4%) e in Danimarca (38,6%).

 

Il divario con gli occupati risulta il più ridotto a Cipro, in Francia e in Portogallo.

 

Nel 2016, le maggiori differenze tra la percentuale di disoccupati e di occupati a rischio di povertà sono state registrate in Germania (il 70,8% per i disoccupati contro il 9,5% per i lavoratori dipendenti, con  61,3 punti percentuali di scarto), Lituania (51,8 pp ), Repubblica ceca (48,5 pp) e Lettonia (47,3 pp).

 

Al contrario, la differenza era significativamente meno pronunciata a Cipro (37,3% per i disoccupati contro 8,4% per gli occupati, o un gap di 28,9 punti percentuali), Francia (30,5 pp) e Portogallo (30,8 pp).

 

26/02/18

FT - Iniziate ora a prepararvi per la prossima crisi finanziaria

Il Financial Times suona l’ennesimo campanello di allarme sulle conseguenze della prossima probabile crisi globale. I mercati e le autorità di regolamentazione reagiranno verosimilmente in modo disordinato e inadeguato. A parte denunciare l’impreparazione del sistema, l’articolo non offre in verità soluzioni, e non percorre l’unica strada maestra: politiche economiche anti-cicliche e redistribuzione del reddito per ridurre i livelli di debito.

 

 

di William White, 18 febbraio 2018

 

La politica monetaria globale è ultra-espansiva già da molti anni. E solo ora sta diventando chiaro che si è infilata da sola in una trappola del debito che essa stessa ha creato.

 

Continuare sull’attuale percorso di politica monetaria è inutile e sempre più pericoloso. Ma d’altra parte qualsiasi capovolgimento implicherebbe grandi rischi. Ne segue che la probabilità dell’esplosione di una nuova crisi continua a crescere.

 

Bisogna sperare che i preparativi che i decisori politici stanno facendo per far fronte a una simile situazione stiano evolvendo di pari passo. Limitarsi a incrociare le dita e pregare che “non potrebbe mai accadere” oggi sembra quantomeno imprudente.

 

Continuare con l’attuale politica monetaria porta al rischio di inflazione. E dato che gli economisti hanno poca comprensione sia del livello “potenziale” che del processo inflattivo stesso, la cosa potrebbe facilmente sfuggir loro dalle mani.

 

L’inflazione, ad ogni modo, non è l’unico pericolo. Per prima cosa, si è lasciato che gli indici di indebitamento crescessero costantemente per decenni, anche dopo che la crisi è iniziata. Per giunta, mentre prima della crisi questo era essenzialmente un problema delle economie avanzate, ora è diventato globale. In seconda istanza, la tolleranza al rischio minaccia la futura stabilità finanziaria, così come la diminuzione dei margini di profitto di molte istituzioni finanziarie di stampo tradizionale. In terzo luogo, questo tipo di politica monetaria incoraggia la cattiva allocazione delle risorse reali da parte delle banche e di altre istituzioni finanziarie. Se i mercati non sono in grado di allocare appropriatamente le risorse, a causa delle azioni intraprese dalle banche centrali, la probabilità che il servizio del debito non venga onorato cresce fortemente.

 

Purtroppo anche la normalizzazione della politica monetaria porta con sé rischi significativi. È chiaro che un'economia globale che si rafforza è preferibile ad una barcollante. Tuttavia, in una simile situazione, aumentare le pressioni inflattive probabilmente porterebbe a una stretta della politica monetaria che avrebbe effetti destabilizzanti.

 

Una conseguenza indesiderata delle riforme normative è stata quella di ridurre la liquidità dei mercati. Nonostante l’assenza di pressioni inflattive, gli stessi mercati finanziari potrebbero reagire disordinatamente a segnali che preannunciano una forte crescita. I rendimenti dei titoli pubblici nelle economie avanzate sono a livelli storicamente minimi, e sono maturi per una inversione. Se ora iniziano nuovamente a crescere, questo potrebbe avere implicazioni importanti per i prezzi già sovrastimati di molti altri asset.

 

Quale azioni dovrebbero essere intraprese prudenzialmente dalle autorità per prepararsi in anticipo a un tale esito? I governi nazionali e le banche centrali, con le organizzazioni internazionali, dovrebbero negoziare dei memorandum di intesa su chi fa cosa in caso di crisi. Le "simulazioni di guerra” sarebbero un utile complemento. E sono necessarie misure per garantire che possano essere forniti adeguati livelli di liquidità per stabilizzare i mercati e il sistema finanziario. Per come stanno le cose, ad esempio, negli USA, molti provvedimenti del Dodd-Frank Act, approvato in seguito alla crisi finanziaria, ostacolerebbero la Federal Reserve nei suoi tentativi di fornire liquidità sia al mercato interno che a quello internazionale.

 

La cosa forse più importante è la necessità che i governi e i forum internazionali rivedano le loro procedure per la bancarotta. Il debito che non può essere ripagato non verrà ripagato. I governi devono mettere in atto legislazioni per assicurare che questo possa avvenire nel modo più ordinato possibile. Sfortunatamente i recenti lavori dell’OCSE indicano che le procedure di bancarotta per i privati non sono affatto ottimali in molti paesi. Inoltre, nonostante grandi sforzi, non siamo riusciti a migliorare la nostra capacità legale di affrontare in modo ordinato le banche avviate al fallimento ma “troppo grandi per fallire”. Anche le procedure per la ristrutturazione del debito sovrano sono inadeguate.

 

È necessario prendere adesso dei provvedimenti per limitare la possibilità di caos nei mercati quando verrà la prossima crisi. Le azioni preventive che possano aiutare a risolvere il problema dell'eccesso di debito potrebbero anche ridurre il rischio che una tale crisi si presenti. La necessità di un’azione propedeutica è amplificata dalla portata limitata delle politiche macroeconomiche anticicliche con cui possiamo reagire. Queste politiche potrebbero innescare il disordine che vogliamo evitare. Molto meglio prepararsi al peggio, anche se speriamo per il meglio.

Bloomberg - Elettori italiani infuriati per un'economia nel caos

PIL pro-capite ancora lontano dai livelli pre-crisi (mentre il resto d'Europa ha ormai ampiamente recuperato). Disoccupazione all'11% e crescita asfittica dei posti di lavoro, per lo più a tempo determinato. E nell'ultimo decennio povertà in impetuoso aumento, tasso d'insolvenza in crescita e prezzi immobiliari in caduta libera. E la pressione fiscale più alta d'Europa.  É questa l'impietosa fotografia della situazione economica italiana fatta da Bloomberg ad un passo dalle elezioni politiche del 4 marzo. La fotografia di un fallimento, o di un successo se vista come il compimento della trasformazione dell'economia italiana in senso mercantilista  - un'economia guidata dalle esportazioni e con il mercato interno devastato - voluta dai governi del PD sotto gli austeri auspici della UE. Un successo che gli elettori alle urne non dimenticheranno di premiare.

 

 

 

di Lorenzo Totaro e Giovanni Salzano, 21 febbraio 2018

 

L'economia italiana sta crescendo di nuovo, ma registra ancora le peggiori prestazioni  dell'eurozona, provocando risentimento tra gli elettori prima delle elezioni del 4 marzo.

 

Mentre gli ultimi sondaggi prima del blackout di due settimane che precede il voto mostrano che non ci sarà nessun vincitore assoluto, i partiti stanno focalizzando l'attenzione sull'economia.

 

L'ex primo ministro Silvio Berlusconi promette che i suoi piani di riduzione delle tasse guideranno una crescita più rapida. Il Movimento Cinque Stelle anti-establishment garantisce un "reddito di cittadinanza" per i più svantaggiati.

 

Il Partito Democratico al governo punta su una stabile ripresa dalla peggiore recessione che ha colpito il paese dalla Seconda Guerra Mondiale. Tuttavia è ostacolato da una disoccupazione bloccata quasi all'11%.

 

In pochi seguono da vicino i più recenti dati sull'economia dell'Istituto nazionale di statistica Istat, ma gli italiani sanno che la ripresa ha molti più alti e bassi di quanto non suggerisca la retorica del governo.

 

Questi sette grafici mostrano perché.

 

La crescita c'è, ma è lenta

 

L'economia è cresciuta per 14 trimestri consecutivi, anche se al ritmo attuale occorrerebbero ancora sei anni per tornare al livello precedente alla crisi finanziaria. Nel frattempo, l'economia dell'eurozona a 19 paesi gode della sua migliore crescita in un decennio.

 

[caption id="attachment_14214" align="alignnone" width="830"] Il PIL pro-capite di Italia, Spagna, Regno Unito, Francia, Germania e dell'eurozona dal 2007 al 2019. I dati sono normalizzati rispetto al 2007 (2007 = 1.0) - i dati 2018 e 2019 sono stime. Fonte: AMECO - Direzione Generale degli Affari Finanziari ed Economici della Commissione Europea; ultimo aggiornamento novembre 2017.[/caption]

 

Bei tempi per le esportazioni

 

Il "Made in Italy" suona ancora magico. Ciò significa che le esportazioni e la produzione industriale aumentano con il miglioramento dell'economia globale.

 

[caption id="attachment_14215" align="alignnone" width="817"] Produzione industriale (in nero) ed esportazioni (in rosso). Valori destagionalizzati, normalizzati al 2007 (2007 = 100). Fonte: calcoli di Bloomberg News basati su dati Istat.[/caption]

 

Più posti di lavoro, ma più incertezza

 

L'Italia ha creato quasi 1 milione di posti di lavoro da quando il Partito Democratico ha riformato le leggi sul lavoro nel 2014, ma il 59% sono temporanei. In altre parole, il lavoratore sfortunato potrebbe ritrovarsi per strada al termine del contratto.

 

[caption id="attachment_14216" align="alignnone" width="821"] Variazione dei posti di lavoro a tempo indeterminato (in nero) e a tempo determinato (in rosso) da maggio 2014. Fonte: calcoli di Bloomberg News basati su dati Istat.[/caption]

 

Ci sono più poveri, molti di più

 

Anche nella terza economia più grande della zona euro, per i più sfortunati la possibilità di ritrovarsi poveri è dietro l'angolo. Gli italiani a rischio di povertà sono aumentati di oltre 3 milioni, arrivando a 18 milioni nel decennio fino al 2016, l'ultimo anno per il quale sono disponibili dati.

 

[caption id="attachment_14217" align="alignnone" width="817"] Italiani a rischio povertà, in milioni (a sinistra) e in percentuale della popolazione totale (a destra), nel decennio dal 2006 al 2016. Fonte: calcoli di Bloomberg News basati su dati Eurostat.[/caption]

 

La Flat Tax guadagna sostenitori

 

In Italia le imposte sul reddito delle persone fisiche, con una aliquota massima comprese le addizionali che arriva al 47,2%, sono tra le più alte in Europa e ben al di sopra della media del 39% dei 28 paesi membri dell'UE. Non c'è da meravigliarsi che la proposta più discussa nella campagna elettorale sia la promessa dell'ex premier Silvio Berlusconi di una tassa uguale per tutti del 23%.

 

[caption id="attachment_14218" align="alignnone" width="803"] Aliquota massima sul reddito delle persone fisiche (incluse addizionali) in Italia (in rosso), rispetto alla media UE (in nero). Fonte: Eurostat.[/caption]

 

L'incremento dei prestiti in sofferenza

 

Sempre più persone e piccole imprese non riescono a rimborsare i propri prestiti. Nel 2013 le regioni con alti tassi di insolvenza tendevano a votare il Movimento Cinque Stelle. Ciò potrebbe significare guai per il partito di governo.

 

[caption id="attachment_14219" align="alignnone" width="832"] Tasso di insolvenza dei prestiti, calcolato rispetto agli importi dei prestiti (in nero) e rispetto al numero dei debitori (in rosso). Fonte: Banca d'Italia[/caption]

 

Casa dolce casa svalutata

 

I prezzi delle case italiane sono in calo da più di sei anni in termini nominali e hanno continuato a diminuire lo scorso anno. Si sta esaurendo anche la parziale ripresa del numero di compravendite.

 

[caption id="attachment_14220" align="alignnone" width="806"] Indice del prezzo nominale delle case (in nero), delle nuove case (in rosso) e delle case esistenti (in blu), normalizzato al 2010 (2010 = 100). Fonte: calcoli di Bloomberg news basati sui dati Istat.[/caption]

 

Anche se l'economia è cresciuta per 14 trimestri consecutivi, ciò non ha convinto gli elettori che il paese ha svoltato l'angolo per avviarsi verso una prosperità duratura. Chiunque dopo il 4 marzo erediterà l'amministrazione dell'economia, troverà ad attenderlo un lavoro molto difficile.

 

22/02/18

Il tasso di mortalità infantile negli USA è superiore del 70% a quello delle altre nazioni ricche

L'ultima, tragica sparatoria in una scuola negli Stati Uniti rende terribilmente attuale questo studio americano, che tra l'altro mostra come negli Usa il rischio di morire di arma da fuoco per i ragazzi tra i 15 e i 19 anni sia 82 volte più alto che negli altri Paesi ricchi. Ma non solo. Mentre in Italia si parla con superficialità e leggerezza di tagli alla spesa pubblica - che ovviamente riguarda anche la spesa legata a un servizio sanitario universale, strumento senza il quale è ben difficile capire come si possa parlare di una società avanzata - lo studio mostra dati agghiaccianti sulla mortalità infantile negli Usa, del 70% superiore a quella degli altri Paesi ricchi confrontabili. Semplicemente restando nella media degli altri Paesi, gli Usa avrebbero avuto 600.000 bambini morti in meno negli ultimi cinquant'anni. Dal sito di informazione indipendente Common Dreams.  

 

 

 

 di Jessica Corbett, 9 gennaio 2018

 

Uno studio rinnova le preoccupazioni sull'accesso alle armi da fuoco e sul sistema sanitario nazionale.

 

I bambini americani hanno il 70% di probabilità in più di morire durante l'infanzia rispetto ai bambini delle altre nazioni avanzate, secondo uno studio sottoposto a revisione scientifica e pubblicato lunedì (8 gennaio ndt) da Health Affairs.

 

"Questo studio dovrebbe destare l'allarme generale", ha dichiarato alla CNN il dottor Ashish Thakrar, autore principale dello studio, che lavora presso il Johns Hopkins Hospital and Health System.

"Gli Stati Uniti tra le democrazie avanzate sono il Paese più pericoloso del mondo per i bambini", ha aggiunto. "A tutte le età e in entrambi i sessi, i bambini muoiono più frequentemente negli Stati Uniti che in altri paesi simili, dagli anni '80".

 

Le cause più comuni di morte tra i bambini rinnovano le preoccupazioni sul sistema sanitario americano, sull'accesso alle armi e sulla sicurezza dei veicoli.

 

Il rischio di morte è ancora più alto per i neonati e per gli adolescenti americani rispetto ai loro coetanei all'estero. I bambini negli Stati Uniti hanno il 76% di probabilità in più di morire durante il loro primo anno di vita, spesso a causa della sindrome della morte infantile improvvisa (SIDS) o di complicazioni legate alla nascita prematura, mentre i bambini e ragazzi tra i 15 e i 19 anni hanno una probabilità 82 volte maggiore di morire di violenza legata all'uso di armi, aspetto che Thakrar ha definito "la nuova scoperta più sconvolgente".

 

Thakrar e i suoi colleghi ricercatori hanno esaminato i tassi di mortalità infantile tra il 1961 e il 2010 negli Stati Uniti e in altre 19 nazioni appartenenti all'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE), tra cui  Australia, Canada, Giappone e diversi paesi europei e scandinavi.

 

 



 

 

Grafico. Scostamento del tasso di mortalità infantile rispetto alla media nei diversi Paesi


 

 

 

La frequenza delle morti infantili in tutti questi paesi, Stati Uniti inclusi, nel corso dei 50 anni coperti dallo studio è notevolmente diminuita. Tuttavia, l'alto tasso di mortalità infantile negli Stati Uniti rispetto alle altre nazioni considerate, ha sottolineato Thakrar,  "significa che negli Usa dal 1961 sono morti 600.000 bambini in più rispetto alla media degli altri 19 paesi".

 

Thakrar ha dichiarato a Sarah Kliff di Vox che ritiene che i dati emersi dallo studio siano legati all'aumento della povertà infantile verificatosi negli Stati Uniti negli anni '80, ma anche in gran parte "alle conseguenze del nostro sistema sanitario frammentato". Ad esempio, ha spiegato, "le madri che acquistano per la prima volta il diritto ad accedere a Medicaid in quanto madri, potrebbero non avere mai visto un medico prima, potrebbero non avere un medico di famiglia né alcun sistema di supporto definito".

 

Come numerose analisi e studi hanno dimostrato nel corso degli anni, la mancanza di un sistema sanitario universale negli Stati Uniti ha portato a tassi di mortalità più elevati e risultati sanitari inferiori rispetto a quelli dei Paesi che hanno sistemi sanitari solidi che coprono tutta la popolazione.

 

Mentre la riforma fiscale dei repubblicani, approvata dal Congresso e firmata dal presidente Donald Trump alla fine dell'anno scorso, in parte smantella il sistema sanitario americano, il Congresso continua a rinviare il rifinanziamento del programma nazionale di assicurazione sanitaria per i bambini (CHIP ), che assiste 9 milioni di minori - e il programma di visita domiciliare materna, infantile e di prima infanzia (MIECHV), scaduto alla fine di settembre.

 

Anche se l'organo legislativo federale ha approvato una misura di spesa a breve termine che ha fornito fondi per il CHIP poco prima del nuovo anno, gli Stati continuano a mettere in guardia i destinatari che, senza ulteriori finanziamenti, presto finiranno i soldi e non saranno più in grado di fornire i servizi necessari.

 

"Diversi Stati hanno inviato lettere che avvertono le famiglie che l'assicurazione sanitaria dei loro figli potrebbe scadere il 31 gennaio", ha spiegato Kliff in un altro articolo . "Il Congresso ha approvato una proposta di legge che prevedeva di prolungare la durata della vita di CHIP fino a marzo, ma ora si scopre che hanno sbagliato i calcoli e che gli Stati potrebbero finire i finanziamenti fin dal 19 gennaio. Tra undici giorni da oggi."

 

Thakrar ha dichiarato a Kliff che è preoccupato per come l'instabilità dei finanziamenti per i programmi che prestano assistenza sanitaria ai bambini americani continuerà a incidere sui tassi di mortalità infantile negli Stati Uniti.

 

"Stiamo vedendo gli effetti dell'instabilità in questo momento", ha concluso. "In tutto il paese le famiglie stanno aspettando di sapere se il CHIP sarà reintegrato, se continueranno ad avere un'assicurazione sanitaria, le visite mediche alle famiglie sono a rischio. I programmi che hanno dimostrato di essere efficaci in questo Paese devono ancora affrontare una costante instabilità".

 

La Merkel sta formando una coalizione col partito sbagliato

Come scrive Tom Luongo, è chiaro che la Merkel sta tentando di formare una coalizione di cui i tedeschi sono stufi. Il vero obiettivo è tentare di impedire un altro giro di elezioni, che darebbe ancor più peso al partito nazionalista AfD. Con le elezioni italiane alle porte che potrebbero portare al governo una coalizione battagliera con Berlino e Bruxelles, il peso di AfD potrebbe essere decisivo per innescare la disgregazione dell’eurozona.

 

 

Di Tom Luongo, 20 febbraio 2018

 

L’ultima volta che ho dato un’occhiata allo squallore delle trattative per la formazione della coalizione di governo tedesca, il dato importante era che il vento soffiava contro i Social Democratici (SPD). Oggi l’ultimo sondaggio conferma che più la Merkel prova a formare una coalizione con Martin Schultz e la SPD, più la coalizione perde consensi.

 

DI recente ci sono stati due sondaggi, e uno di questi,  finito su tutte le prime pagine,  mostra Alternative for Deutschland (AfD), il partito anti-immigrazione ed euroscettico,  davanti all’SPD a livello nazionale, con il 16% contro il 15,5%. Un altro mostra AfD che guadagna due punti portandosi al 14%, ma ancora 4 punti sotto l’SPD. Il dato importante di questi sondaggi non è se AfD sia più o meno popolare della SPD, a questo punto. Combinando questi risultati con l’incremento sorprendente del partito di Angela Merkel, di 2 punti in entrambi i sondaggi, emerge un chiaro segnale dall’elettorato tedesco.

 

I tedeschi vogliono che venga formato un governo, perché non sono abituati a stare senza, ma non vogliono un’altra “Gross Koalition” tra la Merkel e l’SPD.

 

Si tratterebbe del classico governo amorfo, allergico alle opinioni, di cui i tedeschi sono stufi. L’hanno avuto negli ultimi quattro anni e tutto quello che hanno ottenuto è un ulteriore asservimento a Bruxelles e a Washington.

 

Da quando la Merkel ha fermato il flusso di migranti in Germania – per favorire la sua campagna elettorale – la sua leadership è, al momento, accettabile allo scopo. Ma quello che i tedeschi stanno dicendo a tutti è che vogliono che lei si sposti ancor più a “destra”, anziché spostarsi a sinistra per far contenta l’SPD.

 

E questo significa una coalizione con AfD, che, naturalmente, è impossibile data l’attuale leadership politica tedesca. Ed ecco perché AfD continua a prendersi una fetta sempre più grande della torta elettorale.

 

Non credete ai numeri

 

Un nuovo articolo sull’”American Conservative” di Doug Bandow entra nel dettaglio delle dinamiche in gioco. Sottolinea correttamente che i tedeschi sono insoddisfatti dell’attuale status quo.

 

“Anche se nessuno mette in discussione la leadership della Merkel, questa è al servizio di obiettivi che sono in contrasto coi desideri dei tedeschi. Il rifiuto tedesco di Schultz, apertamente pro-Bruxelles, ne costituisce una prova evidente. Il fatto che Schultz ottenga significative concessioni dalla Merkel nelle trattative per la coalizione può essere un vantaggio per i politici dell’SPD solo a breve termine.

 

Otterranno miliardi da distribuire in programmi governativi con cui comprarsi dei voti. Ma tutto questo avverrà al prezzo di cedere un maggior controllo a Bruxelles sul futuro della Germania, dal momento che Schultz è risolutamente a favore del modello degli Stati Uniti d’Europa.”

 

Allo stesso tempo però, penso che Bandlow faccia l’errore di prendere alla lettera gli attuali sondaggi. Come detto, parte del sostegno alla Merkel deriva dalla sua volontà di creare una qualche forma di governo di maggioranza.

 

Pertanto, se questo tentativo fallisce perché l’SPD vota contro il governo di coalizione, non aspettiamoci che il 30-32% della CDU possa essere confermato. Altri sondaggi hanno mostrato che più di due terzi dei tedeschi vogliono che la Merkel rinunci al mandato di Cancelliere.

 

Secondo Bandow i tedeschi non otterranno quello che vogliono con nuove elezioni, perché i sondaggi indicano dei risultati simili a quelli che abbiamo già visto. Io non sono d’accordo.

 

Perché non credo che i poteri che stanno dietro le quinte in Europa permetteranno che la Merkel si faccia da parte. Continueranno a proporre ai tedeschi scelte fasulle, nella speranza che possano arrivare a un risultato accettabile.

 

Questa è stata la strategia del 2017, quando  Schultz, che era già detestato, è stato usato come sparring partner della Merkel per aiutarla ad arrivare al traguardo di un consenso appena sufficiente per confermarsi come Cancelliera. Ha quasi funzionato. Il problema è stato che AfD e gli altri partiti di minoranza hanno assorbito le perdite della SPD, non l’Unione dei Cristiani Democratici (CDU).

 

E oggi assistiamo allo stesso trend.

 

Pertanto, il risultato più probabile è che il consenso per AfD aumenterà di almeno 3 o 4 punti (se non di più), mentre il sostegno per la CDU collasserà. E questo è il minimo. Se la Merkel non si farà da parte, il travaso di consensi sarà ancora maggiore, con AfD che viaggerà tranquillamente sopra la soglia del 20%, erodendo consensi all’Unione.

 

L’Unione Divisa

 

A questo punto il leader della CSU (affiliato Bavarese alla CDU, NdVdE) e Governatore della Baviera, Horst Seehofer, dovrà prendere una decisione importante. Potrebbe separare la CSU dalla CDU e potrebbe avvenire un’importante riorganizzazione del comitato direttivo.

 

Stiamo andando incontro all’iceberg delle elezioni italiane, che avrà un’enorme influenza sulla dinamica politica tedesca. I tedeschi non vogliono salvare l’Italia, né nessun altro. E in Italia tra due settimane il risultato delle elezioni potrebbe facilmente portare al potere una coalizione determinata a un confronto serrato con la Germania sulla situazione del debito italiano, che è insostenibile.

 

Come ho detto un mese fa:

 

“Pertanto, a meno che esista la volontà politica di consolidare tutto il debito dell’Europa sotto un unico tetto, questo problema è interamente sulle spalle della BCE, della Bundesbank e della farsa che è la politica tedesca.

 

Ciò mette nelle mani della Troika –  BCE, FMI e Commissione Europea  –  la decisione se procedere direttamente a un salvataggio o buttare l’Italia fuori dall’euro. E questa è una mossa politica intelligente. Far apparire Bruxelles come il poliziotto cattivo. E Salvini sta già interpretando perfettamente la parte. Se sono davvero svegli, avranno pronta da impiegare la Lira se le cose si mettessero davvero male.

 

Quindi, un secondo giro di elezioni che rafforzi i nazionalisti tedeschi è esattamente quello che la Merkel e Schultz stanno tentando di evitare, con la farsa della grande coalizione. E il popolo tedesco sta cominciando a capire chiaramente come stanno le cose.

 

21/02/18

FT - I riformatori dell'Eurozona agiscono come se la crisi non ci fosse mai stata

Dalle colonne del Financial Times, Wolfgang Münchau critica aspramente la famigerata proposta di riforma dell'eurozona formulata dai 14 economisti franco-tedeschi su incarico dei loro governi (piano di cui già si è parlato su Vocidallestero, e che è stato commentato qui da Sergio Cesaratto).  Münchau prende in esame  i cosiddetti  "European Safe Bond" progettati nel piano, che di sicuro hanno soltanto l'etichetta, in quanto si tratta di una nuova versione dei famigerati strumenti finanziari CDO alla base della crisi dei subprime.

 

 

di Wolfgang Münchau, 18 febbraio 2018

 

Ecco una ricetta per il disastro. Prima prendi i due strumenti finanziari più tossici degli ultimi 20 anni e poi li metti insieme. Il primo è il CDO (collateralised debt obligation o obbligazione garantita da crediti, ndt), il complesso strumento al centro della crisi dei subprime degli Stati Uniti di un decennio fa. Il settore finanziario ha creato un boom immobiliare attraverso un allentamento degli standard del credito, ha trasformato i mutui in complessi CDO, e poi li ha venduti a ignari investitori.

 

L'altro sembra uno strumento molto più innocente: un titolo di debito sovrano di un paese della zona euro. Sono in realtà attività rischiose perché i paesi dell'eurozona emettono debito sovrano ma non hanno più una propria autonoma banca centrale come acquirente di ultima istanza. Questo è il motivo per cui i mercati del debito dell'eurozona sono intrinsecamente più soggetti a crisi rispetto a quelli dei paesi con una politica monetaria indipendente.

 

Come passo successivo, mischi questi due strumenti molto diversi secondo le seguenti istruzioni: prendi i titoli di stato di tutti o parte dei paesi membri della zona euro e li trasformi in un CDO. Li chiami European Safe Bonds - o ESBies. Gli ESBies sono europei. Sono sicuri perché lo dice l'etichetta. E sono obbligazioni. Quindi cosa c'è che non va ?

 

Per i principianti, la truffa dei CDO degli anni dei subprime si fondava principalmente sulla collusione delle agenzie di rating, e le agenzie di rating hanno imparato la lezione. Gli alti rating che erano solite attribuire ai CDO erano basati su un giudizio errato, deliberato o meno, sulla natura del rischio. Un unico mutuo per la casa può sempre andare male. In tempi buoni, un tale rischio può essere neutralizzato. Ma se l'intero mercato immobiliare crolla, molti prestiti vanno male contemporaneamente.

 

La correlazione del rischio è stata un grosso problema anche per le obbligazioni sovrane durante la crisi dell'eurozona. Le due situazioni sono quindi paragonabili. Lo scorso anno Standard & Poor's ha dichiarato che avrebbe valutato gli ESBies nella fascia bassa della classificazione dei titoli "investment-grade".

 

Si poteva pensare che questo sarebbe bastato per bocciare l'idea. Ma una versione degli ESBies è stata ripresentata a sorpresa in un recente articolo di un gruppo di economisti francesi e tedeschi, che si propone di colmare le divergenze di opinioni dei loro paesi su come riformare la zona euro. Si ha la sensazione che gli autori conoscano la letteratura accademica sui mercati finanziari, ma non siano altrettanto informati sulla realtà dei mercati finanziari.

 

Una particolare sezione del documento procede come se la crisi dei subprime non si fosse mai verificata: "La sicurezza è ottenuta da una combinazione di diversificazione e grado di rischio. Nella . . . proposta più avanzata, gli intermediari finanziari acquisterebbero un portafoglio standardizzato di obbligazioni sovrane. . . e lo utilizzerebbero come garanzia per un titolo emesso in più tranche. Il "livello di subordinazione". . . sarebbe calibrato in modo che la perdita prevista a cinque anni della tranche più garantita. . . sia all'incirca la stessa di un titolo sovrano con rating AAA."

 

Gli ESBies presentano un altro problema, anche più serio. Non possono assumere la funzione di collaterale dei normali titoli di stato. Le economie moderne hanno bisogno di grandi quantità di attività sicure come collaterale per gli enormi volumi di transazioni quotidiane che hanno luogo sul mercato monetario. Le attività sicure sono utilizzate come garanzia nei cosiddetti pronti contro termine, o repo, una delle più grandi sezioni del mercato monetario.

 

 

Da un punto di vista puramente finanziario, la crisi dell'eurozona è iniziata con la realizzazione tra gli investitori che i titoli dei paesi periferici dell'eurozona non erano sicuri. La crisi si è conclusa quando Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea, ha assicurato un impegno illimitato a comprare "whatever it takes". Impegno a cui hanno fatto seguito, alcuni anni dopo, acquisti effettivi di titoli del debito pubblico. Come conseguenza del programma di acquisto titoli della BCE, la zona euro ha guadagnato una attività sicura in forma virtuale.

 

A partire dalla fine di gennaio, in seguito agli acquisti di titoli di stato, la BCE deteneva 2,3 miliardi di euro di attività. È probabile che quest'anno gli acquisti vengano gradualmente eliminati, ma finché la BCE mantiene lo stock esistente, l'eurozona ha già un eurobond solido, benché sintetico. Le obbligazioni detenute dalla BCE costituiscono un pool disponibile di attività da utilizzare come garanzia per i pronti contro termine.

 

Per evitare una potenziale compressione del collaterale, la BCE è diventata un attore fondamentale nel mantenimento di un mercato dei pronti contro termine ordinato. Se la BCE dovesse passare dall'acquisto di attività alla vendita di attività e ridurre l'effettivo stock di titoli di stato, la zona euro dovrebbe quindi fare affidamento sui titoli nazionali o sugli ESBies sintetici per la stabilità finanziaria. Buona fortuna!

 

Non sarebbe un gran male se gli stati dell'eurozona creassero ESBies come una sorta di esercizio di pubbliche relazioni, come simbolo della loro unione. Questo va bene finché la BCE fa il lavoro pesante. Ma non ci vuole molta immaginazione per elaborare uno scenario in cui questo potrebbe non accadere più.

 

19/02/18

I miti della globalizzazione: conversazione con Noam Chomsky e Ha-Joon Chang

Dal sito di Truthout una doppia intervista a Noam Chomsky e Ha-Joon Chang - noto in Italia per il saggio "Cattivi samaritani", che smaschera l'effetto nefasto delle politiche neoliberiste imposte ai paesi poveri dai paesi ricchi e dalle istituzioni internazionali tra cui Fmi e Wto. Temi come la globalizzazione, i suoi legami con il capitalismo, i suoi vantaggi e svantaggi nonché la sua ineluttabilità e proposte come il reddito minimo universale sono spesso oggetto di propaganda, luoghi comuni se non addirittura affermazioni false, che - ripetute ovunque - finiscono per essere scambiate con la verità. In questo senso la riflessione documentata e approfondita di due studiosi fuori dal coro è l'unica efficace forma di debunking, capace di separare quello che è vero da  quello che semplicemente conviene agli interessi dei più forti.

 

 

 

di C.J. Polychroniou, 22 giugno 2017

 

Dalla fine degli anni 70, l'economia mondiale e le nazioni dominanti hanno marciato al passo della globalizzazione (neoliberale), il cui impatto e i cui effetti - dispiegati ovunque - sui mezzi per vivere e sulle comunità del ceto medio stanno generando un grande malcontento popolare, accompagnato da un'ondata crescente di sentimenti nazionalisti e anti- elitari. Ma che cosa è, esattamente, che sta guidando la globalizzazione? E chi ne trae davvero vantaggio? La globalizzazione e il capitalismo sono intrecciati tra loro? Come affrontare i crescenti livelli di disuguaglianza e massiccia insicurezza economica? I progressisti e i radicali devono sostenere in massa la proposta di introdurre un reddito minimo universale? In questa intervista, unica ed esclusiva, due tra le più importanti menti del nostro tempo, il linguista e intellettuale Noam Chomsky e l'economista dell'Università di Cambridge Ha-Joon Chang condividono la loro visione su queste questioni cruciali.

 

CJ Polychroniou: La globalizzazione viene solitamente definita come un processo di interazione e integrazione tra le economie e le persone nel mondo attraverso il commercio internazionale e gli investimenti esteri, supportata dalla tecnologia dell'informazione. Ma quindi la globalizzazione è semplicemente un processo neutrale e inevitabile di interconnessioni economiche, sociali e tecnologiche, o è qualcosa di natura più politica, in cui l'azione dello Stato produce trasformazioni globali (una globalizzazione guidata dallo Stato)?

 

Ha-Joon Chang:  Il più grande mito sulla globalizzazione è che si tratti di un processo guidato dal progresso tecnologico. Il che ha permesso ai difensori della globalizzazione di etichettare i critici come "moderni luddisti", che stanno cercando di far tornare indietro il tempo contro l'ineluttabile progresso della scienza e della tecnologia.

 

Eppure, se la tecnologia è ciò che determina il grado di globalizzazione, come si può spiegare che il mondo fosse molto più globalizzato alla fine dei diciannovesimo e all'inizio del ventesimo secolo in confronto alla metà del ventesimo secolo? Durante la prima era liberale, all'incirca tra il 1870 e il 1914, c'erano le navi a vapore e il telegrafo via cavo, ma l'economia mondiale era praticamente da tutti i punti di vista più globalizzata che durante il successivo periodo, molto meno liberale, della metà del XX secolo (all'incirca tra il 1945 e il 1973 ), quando c'erano già tutte le tecnologie di trasporto e comunicazioni che abbiamo oggi, ad eccezione di Internet e dei telefoni cellulari, anche se in forme meno efficienti.

 

Il motivo per cui il mondo era molto meno globalizzato in quest'ultimo periodo è che durante questo periodo la maggior parte dei Paesi ha imposto restrizioni decisamente significative ai movimenti di beni, servizi, capitali e persone, liberalizzandoli solo gradualmente. E ciò che merita di essere sottolineato è che, nonostante il basso grado di globalizzazione... questo periodo è stato quello in cui il capitalismo ha funzionato meglio: la crescita più rapida, il più basso grado di disuguaglianza, il più alto grado di stabilità finanziaria e - nel caso delle economie capitalistiche avanzate - il più basso livello di disoccupazione nei 250 anni di storia del capitalismo. Questo è il motivo per cui il periodo è spesso chiamato "l'età d'oro del capitalismo".

 

La tecnologia definisce solo il limite esterno della globalizzazione: era impossibile per il mondo raggiungere un alto grado di globalizzazione con le sole navi a vela. Ma è la politica economica (o la politica, potremmo dire) che determina esattamente quanta globalizzazione si raggiunge e in quali settori.

 

L'attuale forma di globalizzazione orientata al mercato e guidata dalle aziende non è l'unica - per non dire che non è neanche la migliore - possibile forma di globalizzazione. È possibile una forma di globalizzazione più equa, più dinamica e più sostenibile.

 

Sappiamo che la globalizzazione è propriamente iniziata nel quindicesimo secolo e che ci sono stati diversi stadi della globalizzazione, ognuno dei quali rifletteva l'impatto sottostante del potere dello Stato imperiale e delle trasformazioni che stavano manifestandosi nelle forme istituzionali, così come le imprese e l'emergere di nuove tecnologie e comunicazioni. Cosa distingue lo stadio attuale della globalizzazione (dal 1973 al presente) da quelli precedenti?

 

Chang:  Lo stadio attuale della globalizzazione è diverso da quelli precedenti in due aspetti importanti.

 

La prima differenza è che c'è un imperialismo meno esplicito.

 

Prima del 1945, i paesi capitalisti avanzati praticavano [apertamente] l'imperialismo. Colonizzarono i paesi più deboli o imposero loro "trattati asimmetrici", cosa che li rese colonie virtuali - per esempio occupando parti del loro territorio attraverso forme di "leasing", privandoli del diritto di stabilire tariffe, ecc.

 

Dal 1945, abbiamo visto l'emergere di un sistema globale che rifiuta un imperialismo così scoperto. C'è stato un processo continuo di decolonializzazione e, una volta ottenuta la sovranità, gli Stati diventano membri delle Nazioni Unite, dove ci si basa sul principio di un voto per ciascun Paese.

 

Certo, la pratica è poi stata diversa - i membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite hanno il diritto di veto e molte organizzazioni economiche internazionali (il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale) sono gestite secondo il principio di "un dollaro-un voto" (cioè i diritti di voto sono legati al capitale versato). Tuttavia, anche così, l'ordine mondiale post-1945 fu incommensurabilmente migliore di quello che c'era stato prima.

 

Sfortunatamente, a partire dagli anni '80, ma con un'accelerazione dalla metà degli anni '90, c'è stato un riarretramento della sovranità di cui i paesi post-coloniali avevano goduto. La nascita del WTO (Organizzazione mondiale del commercio) nel 1995 ha ridotto lo "spazio politico" per i paesi in via di sviluppo. Questa contrazione è stata poi intensificata dalle serie di successivi accordi commerciali e di investimento, bilaterali e regionali, stretti tra Paesi ricchi e Paesi in via di sviluppo, come gli accordi di libero scambio con gli Stati Uniti e gli accordi di partenariato economico con l'Unione europea.

 

La seconda cosa che distingue la globalizzazione post-1973 è che è stata guidata dalle multinazionali in misura molto maggiore di prima. Le multinazionali esistevano già dalla fine del XIX secolo, ma dagli anni '80 la loro importanza economica è notevolmente aumentata.

 

Hanno anche influenzato la formazione delle regole globali, improntandole in modo da aumentare il loro potere. Soprattutto, hanno inserito in molti accordi internazionali il meccanismo di risoluzione delle controversie tra investitore e Stato (ISDS). Attraverso questo meccanismo, le multinazionali possono portare i Governi in un tribunale composto da tre giudici, scelti da un pool di avvocati commerciali internazionali in gran parte allineati con le aziende, con l'accusa di avere ridotto i loro profitti attraverso una legge o un regolamento. Questa è un'estensione del potere delle aziende che non ha precedenti.

 

Noam, la globalizzazione e il capitalismo sono due cose diverse?

 

Noam Chomsky:  Se per "globalizzazione" intendiamo l'integrazione internazionale, allora questa è di gran lunga precedente al capitalismo. Le "vie della seta", risalenti all'era pre-cristiana, erano già una forma estesa di globalizzazione. L'ascesa del capitalismo di stato industriale ha cambiato le dimensioni e il carattere della globalizzazione, e ci sono stati ulteriori cambiamenti lungo la strada, mentre l'economia globale veniva rimodellata da coloro che Adam Smith definiva "i padroni dell'umanità", che perseguivano la loro "spregevole massima": "Tutto per noi e niente per gli altri".

 

Ci sono stati cambiamenti sostanziali durante il recente periodo della globalizzazione neoliberale, dalla fine degli anni '70, con Reagan e Thatcher come figure emblematiche, anche se in realtà le politiche cambiano molto poco al cambiare delle amministrazioni. Le multinazionali sono la forza trainante, e il loro potere politico in gran parte conduce la politica degli Stati a tutelare i loro interessi.

 

Durante questi anni, sostenuti dalle politiche degli Stati, che dominano largamente, le multinazionali hanno sempre più costruito catene di valore globali (global value chains, GVC) in cui l'"azienda guida" esternalizza la produzione attraverso intricate reti globali che stabilisce e controlla. Ne è un esempio standard la Apple, la più grande azienda al mondo. Il suo iPhone è stato progettato negli Stati Uniti. I componenti prodotti da molti fornitori negli Stati Uniti e in Asia orientale sono assemblati per lo più in Cina, in stabilimenti di proprietà della grande impresa taiwanese Foxconn. Si stima che i profitti di Apple siano di circa dieci volte superiori a quelli di Foxconn, mentre il valore aggiunto e il profitto in Cina, dove i lavoratori lavorano in condizioni miserabili, è minimo. Apple stabilisce quindi un ufficio in Irlanda, in modo da eludere le tasse degli Stati Uniti - e recentemente è stata multata per 14 miliardi di dollari dall'UE a causa di tasse non pagate.

 

Esaminando il "mondo GVC" nella rivista britannica International Affairs, Nicola Phillips scrive che la produzione per Apple coinvolge migliaia di aziende e imprese che non hanno alcun rapporto formale con Apple, e ai livelli inferiori potrebbe essere del tutto inconsapevole della destinazione di ciò che produce.  E questa è una situazione generalizzata.

 

L'immensa scala di questo nuovo sistema globalizzato è stata rivelata nel Rapporto sugli investimenti del 2013 della Commissione delle Nazioni Unite per il commercio e lo sviluppo. Secondo le stime, circa l'80% del commercio globale è interno alle catene del valore globale stabilite e gestite da multinazionali, che rappresentano forse il 20% dei posti di lavoro in tutto il mondo.



La ricchezza nazionale secondo i criteri di misura convenzionali è diminuita. Ma la proprietà aziendale statunitense dell'economia globalizzata è esplosa.



 

La proprietà di questa economia globalizzata è stata studiata dall'economista politico Sean Starrs. Starrs sottolinea che le stime convenzionali della ricchezza nazionale in termini di PIL nell'era della globalizzazione neoliberale sono ingannevoli. Con catene di approvvigionamento integrate complesse, subappalti e altri dispositivi simili, la proprietà aziendale della ricchezza mondiale sta diventando una misura più realistica del potere globale rispetto alla ricchezza nazionale, poiché il mondo si allontana più di prima dal modello di economie politiche nazionali separate. Investigando la proprietà aziendale, Starrs trova che praticamente in ogni settore economico - manifatturiero, finanziario, servizi, vendita al dettaglio e altri - le società statunitensi sono assolutamente in testa nella proprietà dell'economia globale. Nel complesso, la loro proprietà è vicina al 50% del totale. Questa è approssimativamente la stima massima della ricchezza nazionale degli Stati Uniti nel 1945, al picco storico della potenza USA. La ricchezza nazionale misurata secondo i criteri convenzionali è diminuita dal 1945 ad oggi, intorno al 20 per cento. Ma la proprietà aziendale statunitense dell'economia globalizzata è esplosa.

 

La linea standard dei politici tradizionali è che la globalizzazione avvantaggia tutti. Eppure, la globalizzazione produce vincitori e vinti, come  ha dimostrato il libro Global Inequality di Branko Milanovic. Quindi la domanda è questa: il successo nella globalizzazione è una questione di abilità?

 

Chang:  L'ipotesi che la globalizzazione avvantaggi tutti è basata su teorie economiche tradizionali che presuppongono che i lavoratori possano essere spostati verso altre attività senza costi, se il commercio internazionale o gli investimenti transfrontalieri rendono alcuni settori non redditizi.

 

In questa prospettiva, se gli Stati Uniti firmano il NAFTA con il Messico, alcuni lavoratori automobilistici negli Stati Uniti potrebbero perdere il lavoro, ma non ci rimetteranno, in quanto potranno riqualificarsi e ottenere posti di lavoro in settori in espansione, grazie al NAFTA, come il software o il settore degli investimenti finanziari.

 

L'assurdità dell'argomento balza all'occhio immediatamente: quanti lavoratori del settore automobilistico americano conosciamo che si siano riqualificati come ingegneri informatici o banchieri d'investimento negli ultimi due decenni? In genere, gli ex-lavoratori licenziati hanno finito per lavorare come guardiani notturni in un magazzino o ad accatastare scaffali nei supermercati, ricevendo salari molto più bassi rispetto a prima.

 

Il punto è che, se anche il paese nel complesso traesse vantaggio dalla globalizzazione, ci saranno sempre dei perdenti, specialmente (anche se non esclusivamente) tra i lavoratori che hanno competenze che non sono più apprezzate. E, a meno che questi perdenti non vengano risarciti, non si può dire che il cambiamento sia una buona cosa per "tutti" ...

 

Naturalmente, la maggior parte dei paesi ricchi ha meccanismi attraverso i quali i vincitori del processo di globalizzazione (o di qualsiasi cambiamento economico, in realtà) compensano i perdenti. Il meccanismo di base rivolto a questo scopo è lo stato sociale, ma ci sono anche meccanismi di riqualificazione e ricerca di posti di lavoro finanziati pubblicamente - nei Paesi scandinavi questo si fa particolarmente bene - così come schemi settoriali specifici per compensare i "perdenti" (ad esempio, protezione temporanea per le imprese allo scopo di promuoverne la ristrutturazione, fondi per le indennità di licenziamento dei lavoratori). Questi meccanismi sono migliori in alcuni Paesi rispetto ad altri, ma da nessuna parte sono perfetti e, sfortunatamente, alcuni paesi li hanno abbandonati (la recente contrazione dello stato sociale nel Regno Unito ne è un buon esempio).

 

Secondo lei, Ha-Joon Chang, la convergenza della globalizzazione e della tecnologia potrebbe produrre più o meno disuguaglianza?

 

Chang:  Come ho sostenuto sopra, la tecnologia e la globalizzazione non sono dovute al destino.

 

Il fatto che le disuguaglianze di reddito siano effettivamente diminuite in Svizzera tra il 1990 e il 2000 e il fatto che le disuguaglianze di reddito siano recentemente aumentate in Canada e nei Paesi Bassi durante il periodo neoliberista dimostrano che i Paesi possono scegliere quale disparità di reddito avere, anche se tutti devono affrontare le stesse tecnologie e le stesse tendenze nell'economia globale.

 

In realtà i Paesi possono fare molto per influenzare la disuguaglianza di reddito. Molti paesi europei, tra cui Germania, Francia, Svezia e Belgio sono tanto diseguali quanto (o, a volte, anche di più) gli Stati Uniti, prima di ridistribuire il reddito attraverso la tassazione progressiva e lo stato sociale. Poiché essi ridistribuiscono così tanto, le disuguaglianze che ne derivano in quei paesi sono molto più basse.

 

Noam, in che modo la globalizzazione accresce le tendenze intrinseche del capitalismo verso la dipendenza economica, l'ineguaglianza e lo sfruttamento?

 

Chomsky: La globalizzazione durante l'era del capitalismo industriale ha sempre aumentato la dipendenza, l'ineguaglianza e lo sfruttamento, spesso portandoli a estremi orribili. Per fare un esempio classico, la prima rivoluzione industriale si basava fondamentalmente sul cotone, prodotto principalmente nel Sud americano nel sistema di schiavitù più terribile della storia umana - che ha assunto nuove forme dopo la guerra civile, con la criminalizzazione della vita nera e la mezzadria. La versione odierna della globalizzazione include non solo l'ipersfruttamento ai livelli più bassi del sistema globale delle catene del valore, ma anche il genocidio virtuale, in particolare nel Congo orientale, dove milioni di persone sono state massacrate negli ultimi anni, mentre i minerali cruciali trovano la loro strada verso i dispositivi high-tech prodotti nelle catene del valore globali.

 

Ma anche a prescindere da questi aspetti orrendi della globalizzazione ... la ricerca dello "spregevole massimo" porta naturalmente a simili conseguenze. Lo studio di Phillips che ho citato è un raro esempio di inchiesta su "come le disuguaglianze sono prodotte e riprodotte in un mondo [attraverso catene del valore], [mediante] asimmetrie del potere di mercato, asimmetrie del potere sociale e asimmetrie del potere politico". Come mostra Phillips "Il consolidamento e la mobilitazione di queste asimmetrie di mercato poggia sull'assicurare una struttura di produzione in cui un piccolo numero di aziende molto grandi ai vertici, in molti casi quelle che vendono prodotti di marca, occupano posizioni oligopolistiche - cioè posizioni di dominio del mercato, e in cui i livelli inferiori della produzione sono caratterizzati da mercati densamente popolati e intensamente competitivi... La conseguenza di ciò in tutto il mondo è stata la crescita esplosiva del lavoro precario, insicuro e sfruttato nella produzione globale, realizzato da una forza lavoro significativamente composta da personale precario, migranti, lavoratori a contratto e donne, e si estende all'estremità dello spettro fino al ricorso consapevole al lavoro forzato ".

 

Queste conseguenze sono aumentate deliberatamente attraverso politiche commerciali e fiscali, una questione studiata in particolare da Dean Baker. Come sottolinea, negli Stati Uniti "da dicembre 1970 a dicembre 2000 l'occupazione manifatturiera è rimasta praticamente invariata, a parte aumenti e flessioni ciclici. Nei sette anni successivi, da dicembre 2000 a dicembre 2007, l'occupazione manifatturiera è diminuita di oltre 3,4 milioni , un calo di quasi il 20 per cento. Questo crollo dell'occupazione è dovuto all'esplosione del deficit commerciale in questo periodo, non all'automazione: c'era molta automazione (ovvero crescita della produttività) nei tre decenni dal 1970 al 2000, ma una maggiore produttività è stata compensata da un aumento della domanda, lasciando l'occupazione totale poco mutata. Questo non era più vero quando il deficit commerciale è esploso a quasi il 6 per cento del PIL nel 2005 e nel 2006 (oltre 1,1 trilioni di dollari nell'economia di oggi). "

 

Queste sostanzialmente sono state conseguenze della politica del dollaro alto e degli accordi sui diritti degli investitori mascherati da "libero commercio" - scelte politiche che andavano nell'interesse dei padroni, non risultato delle leggi economiche.

 

Ha-Joon Chang, i progressisti mirano a sviluppare strategie per contrastare gli effetti negativi della globalizzazione, ma c'è poco accordo sul modo più efficace e realistico di farlo. In questo contesto, le risposte variano da forme alternative di globalizzazione alla localizzazione. Qual è la sua opinione su questo argomento?

 

Chang:  In breve, la mia opzione preferita sarebbe una forma più controllata di globalizzazione, caratterizzata da molte più restrizioni sui flussi globali di capitale e da maggiori restrizioni sui flussi di beni e servizi. Inoltre, anche con queste restrizioni, ci saranno inevitabilmente vincitori e vinti, e c'è bisogno di uno stato sociale più forte (e non più debole) oltre ad altri meccanismi attraverso i quali i perdenti del processo vengano compensati. Politicamente, questa combinazione politica richiederà voci più forti per i lavoratori e per i cittadini.

 

Non penso che la localizzazione sia una soluzione, anche se la fattibilità della localizzazione dipende da qual è la località e da qual è il problema di cui stiamo parlando. Se la località in questione è un villaggio o un quartiere in un'area urbana, capiamo immediatamente che ci sono pochissime cose che possono essere "localizzate". Se parli di una regione tedesca (Stato) o di uno Stato americano, vediamo che può provare a coltivare maggiormente il proprio cibo o produrre da sé alcuni prodotti fabbricati che oggi sono importati. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, avere la maggior parte delle cose prodotte localmente semplicemente non è fattibile. Non sarebbe saggio avere in ogni Paese, per non parlare di ogni stato americano, la produzione dei propri aeroplani, telefoni cellulari né persino di tutto il suo cibo.

 

Detto questo, non sono contrario a tutte le forme di localizzazione. Ci sono certamente cose che possono essere fornite in misura maggiore a livello locale, come alcuni prodotti alimentari o l'assistenza sanitaria.

 

Un'ultima domanda: l'idea di un reddito di base universale sta lentamente ma gradualmente prendendo piede come strumento politico per affrontare il problema della povertà e delle preoccupazioni sull'automazione. Aziende come Google e Facebook sono forti sostenitori di un reddito di base universale, anche se saranno le società a sostenere il costo di questa politica, mentre la maggior parte delle imprese multinazionali si sposteranno sempre più verso l'uso di robot e altre tecniche computerizzate per eseguire compiti tradizionalmente svolti da lavoratori. I progressisti e gli oppositori della globalizzazione capitalista in generale dovrebbero sostenere l'idea di un reddito di base universale?

 

Chang:  Di reddito minimo universale si parla in molte versioni differenti, ma è un'idea libertaria, nel senso che pone l'accento sulla massimizzazione della libertà individuale piuttosto che sull'identità collettiva e sulla solidarietà.

 

Tutti i cittadini dei paesi che superano il livello di reddito medio hanno diritto a una certa quantità di risorse di base (nei paesi più poveri, praticamente a nessuna). Hanno accesso a una certa quantità di cure mediche, istruzione, pensioni, acqua e altri elementi "di base" della vita. L'idea su cui si fonda il reddito minimo universale è che i diritti alle risorse dovrebbero essere forniti agli individui il più possibile in contanti (piuttosto che in natura), in modo che i cittadini possano esercitare la massima scelta.

 

La versione di destra del reddito minimo, sostenuta da Friedrich von Hayek e Milton Friedman, i guru del neoliberismo, è che il governo dovrebbe fornire ai suoi cittadini un reddito di base a livello di sussistenza, fornendo al contempo (o poco) ulteriori beni e servizi. Per quanto posso vedere, questa è la versione del reddito minimo supportata dalle aziende della Silicon Valley. Sono totalmente contrario.

 

Ci sono poi libertari di sinistra che sostengono il reddito minimo universale, stabilito a un livello piuttosto elevato, il che richiederebbe una redistribuzione del reddito piuttosto alta. Ma anche loro credono che la fornitura collettiva di beni e servizi "di base" attraverso lo stato sociale debba essere minimizzata (sebbene il loro "minimo" sia considerevolmente maggiore di quello neo-liberista). Questa versione è più accettabile per me, ma non ne sono convinto.

 

Primo, se i membri di una società stanno provvedendo collettivamente ad alcuni beni e servizi, hanno il diritto collettivo di influenzare il modo in cui le persone usano i loro diritti di base.

 

Secondo, l'erogazione attraverso lo stato sociale di servizi universali basati sulla cittadinanza rende i servizi sociali - come la salute, l'istruzione, l'assistenza all'infanzia, l'assicurazione contro la disoccupazione e le pensioni - molto più economici, grazie agli acquisti di massa e alla condivisione dei rischi. Il fatto che gli Stati Uniti spendano almeno il 50% in più per l'assistenza sanitaria rispetto agli altri paesi ricchi (il 17% del PIL negli Stati Uniti rispetto all'11,5% del PIL in Svizzera), ma abbiano peggiori indicatori di salute è molto indicativo dei potenziali problemi che potremmo avere in un sistema di reddito minimo universale combinato con la fornitura privata di servizi sociali di base, anche se il livello di reddito minimo fosse elevato.

 

Chomsky:  La risposta, direi, è: "tutto dipende" - vale a dire, dipende dal contesto socioeconomico e politico in cui l'idea è proposta. La società a cui dovremmo aspirare, penso, dovrebbe rispettare il concetto "jedem nach seinen Bedürfnissen": a ciascuno secondo i suoi bisogni. Tra i bisogni primari, per la maggior parte delle persone, c'è una vita di dignità e autorealizzazione. Ciò si traduce in particolare in un lavoro svolto sotto il proprio controllo, tipicamente in solidarietà e interagendo con gli altri, creativo e di valore per la società in generale. Questo lavoro può assumere molte forme: costruire un ponte bello e necessario, il mestiere stimolante di insegnare e imparare con i bambini piccoli, risolvere un problema eccezionale nella teoria dei numeri e una miriade di altre opzioni. Provvedere a tali bisogni è sicuramente entro il regno delle possibilità.

 

Nel mondo attuale, le aziende si rivolgono sempre più all'automazione, come hanno fatto praticamente da sempre: pensiamo alla macchina sgranatrice di cotone, per esempio. Attualmente, ci sono poche prove che gli effetti siano oltre quelli normali. Il principale impatto si manifesterebbero in termini di produttività, ma questa è in realtà bassa rispetto agli standard dei primi anni del dopoguerra. Intanto, c'è ancora molto lavoro da fare: dalla ricostruzione delle infrastrutture collassanti, alla creazione di scuole decenti, al miglioramento della conoscenza e della comprensione, e molto altro ancora. Ci sono molte mani disponibili. Ci sono ampie risorse. Ma il sistema socioeconomico è talmente disfunzionale che non è in grado di riunire questi fattori in modo soddisfacente e, sotto l'attuale campagna Trump-Repubblicana per creare una minuscola America che tremerà all'interno di muri, la situazione non potrà che peggiorare. Nella misura in cui i robot e altre forme di automazione possono liberare le persone dal lavoro di routine e pericoloso e dare loro la possibilità di dedicarsi a impegni più creativi (e, in particolare negli Stati Uniti così scarsi di tempo libero, di avere più tempo per se stessi), tutto va per il meglio. In questo senso il reddito minimo universale potrebbe avere un posto, anche se è uno strumento troppo rozzo per ottenere la versione marxista preferibile.

18/02/18

Le tasse sono per la gente comune, non per i miliardari

Le élite economiche e politiche del mondo si considerano una "nuova aristocrazia globale", che come quella feudale di sangue vuole godere del privilegio di essere esentata dal pagamento delle tasse. Una vera e propria rivolta dei privilegiati, in cui miliardari e multinazionali rifiutano di pagare le tasse, appoggiandosi ad una rete globale di professionisti e paradisi fiscali e praticando un vero e proprio terrorismo fiscale verso gli Stati nazionali. Una rivolta che non avrebbe successo senza l'appoggio complice dei governi e senza regole fatte su misura dai principali partiti nazionali per eludere le tasse e facilitare i condoni fiscali, in un'esplicita dimostrazione che gli stati nazionali sono ormai catturati dall'oligarchia globale. Da Huffpost Spagna.

 

 

 

di Miguel Urbàn, 9 febbraio 2018

 

Leona Helmsley, moglie del miliardario Harry Helmsley (condannato per evasione fiscale) ha dichiarato con orgoglio che "le tasse sono per le persone normali". E la verità è che la ragione non le manca. Da lungo tempo vediamo come anno dopo anno vengono alla luce nuove fughe di notizie, che dimostrano che le élite economiche e politiche del mondo si considerano una "nuova aristocrazia globale", che gode del privilegio di essere esentata dal pagamento delle tasse.

 

Nel frattempo, i lavoratori e i piccoli imprenditori contribuiscono con le loro tasse e sopperiscono anche alla parte che altri non hanno pagato. Aumenta la disuguaglianza nel mondo e l'austerità si insedia nelle politiche pubbliche con i tagli alla nostra educazione, alla nostra salute, in definitiva ai  nostri diritti.

 

L'evasione e l'elusione fiscale non sono casi isolati o congiunturali, ma sono intimamente legati a un fenomeno strutturale del capitalismo liquido del nostro tempo, e sono intimamente legati all'offensiva neoliberale che sta investendo le nostre economie da decenni. Lo stesso Joseph Stiglitz, premio Nobel per l'economia, ha dichiarato al Parlamento Europeo che siamo soggetti a un ingiusto regime fiscale globale e che dietro i paradisi fiscali si nasconde un settore  basato sulla segretezza che crea una "economia globale ombra". Un'economia globale che ha il suo epicentro amministrativo nel forum economico di Davos, che è si è tenuto qualche settimana fa nel primo e più importante paradiso fiscale del mondo, la Svizzera. Elite mondiali che rifiutano di pagare le tasse e concentrano sempre più ricchezza in poche mani.

 

I paradisi fiscali sono tra i principali responsabili dell'estrema disuguaglianza nella concentrazione della ricchezza, poiché consentono alle grandi multinazionali e alle grandi fortune di non pagare la giusta parte di tasse che spetta loro. In effetti, tutti gli studi dimostrano come non ci sia mai stato così tanto denaro nei paradisi fiscali come ora.

 

Secondo l'economista Gabriel Zucman, ci sono circa 7,6 trilioni di dollari di fortune personali nascoste in luoghi come la Svizzera, il Lussemburgo e Singapore. Ciò significa che le statistiche sulla disuguaglianza sottostimano seriamente il vero grado di concentrazione della ricchezza, poiché non includono il denaro nascosto in queste giurisdizioni opache o nei paradisi fiscali.

 

Nel mondo, oltre 600 miliardi (la metà del PIL spagnolo) sono redistribuiti artificiosamente ogni anno dalle multinazionali verso i paradisi fiscali. Tutte le società tranne una, Aena, dell'indice Ibex 35  "attualmente hanno una presenza in territori considerati paradisi fiscali, senza che tali sedi siano direttamente collegate all'esercizio della loro attività principale", sottolinea Oxfam. Una prassi che corrisponde a una macchinazione diffusa da parte delle multinazionali, per evitare di pagare le tasse massimizzando i propri profitti a scapito dei nostri diritti.

 

La nuova riforma fiscale di Donald Trump, fatta su misura per miliardari e multinazionali, ha abbassato le imposte societarie alle grandi multinazionali dal 35% al ​​20%, offrendo la possibilità di rimpatriare i profitti con una tassa dell' 8% per le attività illiquide e i profitti reinvestiti e del 15,5% per le attività liquide.

 

Come risultato del "condono fiscale" di Trump per i grandi capitali, Apple prevede di rimpatriare circa 250 miliardi di dollari di profitti che teneva nascosti in paesi terzi, in cambio di 38 miliardi di dollari di tasse da pagare, risparmiando più di 49,5 miliardi di dollari di imposta. Quasi nello stesso momento in cui Apple affermava in un comunicato che "un pagamento di queste dimensioni potrebbe essere il più grande del suo genere mai fatto", che in realtà ha coinciso con una delle più grandi truffe fiscali mai realizzate, querelava Attac Francia per le sue azioni di denuncia e critica delle pratiche di evasione fiscale effettuate dal colosso americano.

 

Panama è non solo uno dei più famosi paradisi fiscali del mondo, ma anche un caso paradigmatico della connessione tra le élite politiche e i facilitatori dell'evasione fiscale, un elemento essenziale perché la rete dell'evasione funzioni. Ramón Fonseca, mentre cogestiva lo studio con Jürgen Mossack, investito da una fuga di notizie conosciuta come "Panama Papers" e che lavorava con criminali e evasori di ogni tipo per i loro business off-shore, è stato un leader politico del principale partito del paese, che ha fornito consulenze o ha persino contribuito a redigere leggi a Panama. Un vero pirata offshore con lettera di corsa.

 

Nonostante gli scandali come la fuga di notizie dei Panama Papers, abbiamo visto come il governo spagnolo, che sa come restituire un favore, non solo non ha incluso Panama nella lista spagnola dei paradisi fiscali. Ma negli ultimi mesi ha insistito per tirarlo fuori dalla lista nera europea. L'elenco delle giurisdizioni terze che non cooperano in materia fiscale, ufficialmente chiamato la lista nera, intendeva essere la prima lista di paradisi fiscali comuni per tutta la UE, in sostituzione delle liste nazionali che avevano alcuni Stati, ma in realtà è nata già ferita a morte, dato che omette di menzionare o segnalare qualsiasi nascondiglio fiscale europeo. Una lista che più che nera è diventata la candeggina dei paradisi fiscali dei governi europei.

 

Stiamo assistendo ad una vera e propria rivolta dei privilegiati, in cui miliardari e multinazionali rifiutano di pagare le tasse praticando un vero e proprio terrorismo fiscale, con l'appoggio complice dei governi e dei partiti principali, mentre denunciano o minacciano chi denuncia la loro pratiche di appropriazione indebita delle finanze pubbliche. È per questo che la lotta contro l'evasione fiscale diventa ora più che mai una contestazione dell'ordine mondiale neoliberista imperante, una messa in discussione dell'accaparramento di tutte le risorse del pianeta da parte della minoranza dell'Un per cento. Una battaglia che non possiamo permetterci di perdere.

 

16/02/18

NYT - Lo scaricabarile del crollo dei mercati

Dal New York Times una dura denuncia contro le autorità di vigilanza, il ceto politico e il mondo accademico, colpevoli di non aver seguito le minime regole di buonsenso prescritte dalla buona pratica economica, e di aver lasciato invece gonfiare a dismisura i profitti speculativi fino al prevedibile recente crollo delle borse, che potrebbe essere solo un assaggio di una crisi molto più profonda all'orizzonte. L'aspetto più amareggiante è l'assoluta mancanza di responsabilità di tutti gli attori economici, che pure causano ingenti perdite all'economia reale canalizzando risorse verso la cartolarizzazione selvaggia. Un monito di come le politiche economiche debbano sempre essere calibrate alla situazione reale di ogni singolo paese, perché non esistono misure universalmente valide sempre e comunque.

 

 

 

di Desmond Lachman, 06 febbraio 2018

 

 

Secondo un vecchio proverbio, il successo ha molti padri, ma il fallimento è orfano. Lo si è visto fin troppo bene in occasione della grande recessione del 2008-09: Dopo i fatti, nessuno si è fatto avanti, dalle comunità politiche, finanziarie o accademiche, per accettare la responsabilità della peggiore recessione globale degli ultimi 70 anni.

 

 

È improbabile che qualcuno si prenda la responsabilità per l'attuale crollo del mercato globale che, dopo tre giorni, non è ovviamente solo un assestamento, ma una tardiva correzione di anni di eccessi. Rimane da vedere se il danno sarà limitato ai mercati o si riverserà nell'economia generale, ma di sicuro potremmo essere sull'orlo di un'altra crisi finanziaria globale.

 

 

E tutto questo nonostante la presidente uscente della Federal Reserve, Janet Yellen, ci abbia ripetutamente rassicurato che non avremmo assistito a un'altra crisi economica globale durante la sua vita, mentre la comunità economica accademica si è caratterizzata ancora una volta per il suo pressoché totale silenzio mentre ultimamente nel mercato si andavano creando bolle di ogni tipo. E proprio il mese scorso a Davos, in Svizzera, il presidente Trump si è vantato ancora una volta che le politiche della sua amministrazione stavano spingendo i mercati azionari a continui record, mentre i banchieri continuavano spensieratamente a fare prestiti rischiosi.

 

 

Non sorprende che prima o poi i mercati finanziari globali stacchino violentemente la spina come sembrano fare adesso, se si pensa fino a che punto sono stati sono stati lasciati liberi di non rispettare le loro stesse regole. Era solo una questione di tempo prima che si verificasse un crollo.

 

 

E non solo perché il fatto che non è stato fatto nulla per evitare che le quotazioni in borsa globali raggiungessero livelli visti solo tre volte negli ultimi cento anni. Ancor più grave è il fatto che i rendimenti dei titoli di stato siano stati lasciati scendere a livelli storicamente bassi, e non sia stato fatto nulla per impedire alle istituzioni finanziarie di concedere prestiti molto rischiosi a tassi di interesse eccessivamente bassi.

 

 

Si può forse in parte perdonare alle principali banche centrali del mondo, compresa la Federal Reserve sotto il predecessore della signora Yellen, Ben Bernanke, di aver messo in moto il nostro attuale ciclo di espansione del boom con i loro programmi per fronteggiare la Grande Recessione. Per uscirne, le principali economie si sono affidate troppo pesantemente alla politica monetaria, rifiutandosi di adottare contemporaneamente misure di stimolo di bilancio adeguate e ben mirate.

 

 

Con un'economia che correva il rischio di soccombere in una spirale deflazionistica e con tassi d'interesse ridotti al minimo, le banche centrali del mondo non avevano altra scelta se non acquistare titoli di stato su vasta scala per incoraggiare gli investitori ad assumersi ulteriori rischi. All'epoca sembrava un rischio ragionevole, anche se rischiava di distorcere i prezzi dei mercati finanziari e creare una bolla nelle borse globali.

 

 

Meno comprensibile è stata, l'anno scorso, la mancata rimozione da parte della Fed della mangiatoia del basso tasso di interesse quando già il festino economico globale stava mostrando chiari segni di sfuggirle di mano. Se nell'ultimo anno l'economia americana ha quasi raggiunto la piena occupazione, i titoli azionari sono aumentati del 25% e il dollaro è svalutato del 10%, perché la Fed è stata così riluttante ad aumentare i tassi? Una politica monetaria più aggressiva nel 2017 avrebbe potuto riportare il buonsenso nel mercato e ridurre le possibilità che l'economia americana potesse surriscaldarsi e stimolare di conseguenza l'inflazione.

 

 

È anche difficile capire perché l'amministrazione Trump e il Congresso guidato dai Repubblicani abbiano approvato un taglio fiscale senza coperture proprio nel momento più sbagliato del ciclo economico. Con una disoccupazione molto bassa e un'economia in rapida crescita, l'ultima cosa di cui l'economia aveva bisogno era uno stimolo fiscale che potesse alimentare i timori di inflazione e far rispuntare i bond vigilantes dal nulla.

 

 

Anche gli accademici e i banchieri dovrebbero prendersi la responsabilità di aver imparato così poco dall'ultimo ciclo di espansione del pianeta. È troppo chiedere agli economisti accademici di sapere che un'eccessiva inflazione dei prezzi dei beni non è coerente con la stabilità economica di lungo periodo e che il loro ruolo dovrebbe essere quello di dare l'allarme quando si formano bolle? È troppo chiedere al settore finanziario di ricordare che fare prestiti incauti è un rischio per tutti quando la giostra alla fine si ferma?

 

 







Sollevo tutte queste domande non come un esercizio accusatorio ma nella speranza che nelle prossime settimane politici, economisti ed amministratori traggano le giuste lezioni su come siamo entrati in questa difficilissima situazione di mercato economico e finanziario. Solo allora ci sarà qualche possibilità di sfuggire a questi cicli di espansione seguita da recessione, che ora sembrano verificarsi regolarmente.







 

 

 

 







Desmond Lachman è specializzando presso l'American Enterprise Institute. In passato è stato vicedirettore nel dipartimento di sviluppo e revisione delle politiche del Fondo Monetario Internazionale e principale stratega economico dei mercati emergenti presso Salomon Smith Barney.






15/02/18

Nei sondaggi, il crollo dei partiti di regime tedeschi

Un affezionato lettore ci manda un articolo del Die Welt sugli ultimi sondaggi che in Germania testimoniano il tracollo dei partiti di regime tedeschi.  Ovunque i popoli europei stanno abbandonando i partiti che hanno guidato i governi sino al disastro attuale. Il rischio è che, aggiustando in un modo o nell'altro le coalizioni, i politici si ostineranno sulla linea politica "unica" di Bruxelles.

 

 

 

di Matthias Heinrich, 13 febbraio 2018


Traduzione di Lorenzo Papini


 

Stando all’ultimo sondaggio INSA la Grande Coalizione [fra democristiani e socialdemocratici, NdT] ha perso la maggioranza presso l’elettorato tedesco.

 

- I democristiani raggiungono il 29,5 %, mentre i socialdemocratici, dopo le controversie su Martin Schulz, non superano il 16,5 %: è la percentuale più bassa della loro storia.

 

- Così i socialdemocratici si piazzano di poco avanti ad Alternative für Deutschland, che rimane terzo partito con il 15% delle preferenze.

 

Tre giorni dopo la rinunzia del segretario socialdemocratico Martin Schulz al ministero degli affari esteri, i socialdemocratici crollano al 16,5 %: il risultato peggiore mai conseguito. Nei sondaggi INSA diffusi lunedì scorso per il quotidiano Bild, i socialdemocratici hanno solo un punto percentuale e mezzo in più rispetto ad Alternative für Deutschland.

 

Ci lascia le penne anche la democrazia cristiana che non tocca la soglia del 30%, arrestandosi al 29,5.  È dall’ottobre 2016 che il partito della cancelliera Angela Merkel non riceveva un pronostico così scadente; alle parlamentari del settembre 2017 aveva raggiunto il 33% alleata con la CSU [la democrazia cristiana bavarese, NdT].


 

Il presidente dell’agenzia INSA Hermann Binkert ha detto al Bild: “Democristiani e socialdemocratici temono nuove elezioni. La grande coalizione non è mai stata tanto detestata”. A questa, secondo gli ultimi sondaggi, mancherebbero quattro punti percentuali per formare una maggioranza parlamentare.


 

Mentre i democristiani perdono un punto e i socialdemocratici mezzo punto percentuale rispetto alla settimana precedente, Alternative für Deutschland rimane stabile al terzo posto con il 15%. Verdi (13%), Linke (11,5%) e liberali della FDP (10,5%) guadagnano ciascuno mezzo punto. Su queste basi una Coalizione Giamaica di democristiani, verdi e liberali potrebbe contare su una maggioranza del 53% dei voti.


 

Nei sondaggi pubblicati durante il fine settimana i democristiani arrivavano ancora al 31% (sondaggio FORSA) o al 34% (secondo la EMNID), mentre la SPD aveva dal 17 al 20% dei voti. Alternative für Deutschland poteva contare sul 13% dei voti secondo FORSA, sul 12% secondo la EMNID. Liberali e verdi ottenevano il 10% (FORSA) o 9% (EMNID).


 

Per il sondaggio della INSA sono stati consultati oltre 2600 votanti nello spazio compreso fra venerdì e lunedì. Il sondaggio prende dunque in considerazione gli spostamenti conseguenti alla rinuncia da parte di Schulz alla carica di ministro degli esteri. Questi aveva annunziato la sua rinuncia venerdì per motivi interni al partito. Il giorno dopo aveva dichiarato che non avrebbe accettato alcun incarico in un eventuale governo guidato dalla Merkel.


Il margine di errore del sondaggio domenicale è valutato attorno al 2,2%.


 

I complottisti avevano ragione: secondo l'Economist i mercati sono truccati

Nonostante la pretesa liberista dell’efficienza e autoregolamentazione dei mercati, tre recenti studi dimostrano che i mercati di norma sono truccati: favoriscono una ristretta élite che approfitta della possibilità di accedere a informazioni nascoste al pubblico a discapito di tutti gli altri. Se aggiungiamo che le ultime crisi globali hanno avuto origine proprio dagli squilibri dei mercati, risulta sempre più chiara la necessità che siano gli Stati a regolamentare e limitare con decisione l’invasività dei mercati per impedire ingiuste speculazioni e scongiurare i maggiori rischi di crisi sistemiche.

 

 

 

Di Zero Hedge, 11 febbraio 2018

 

 

Tre nuovi paper scientifici recentemente pubblicati sembrano confermare quanto molti sostengono da anni: i “mercati efficienti” non solo sono inefficienti – da un punto di vista informativo – ma sono pure decisamente truccati. Dei tre paper, secondo l’Economist,  uno sostiene che gli Insider con gli agganci giusti hanno guadagnato perfino dalla crisi finanziaria, mentre gli altri due si spingono a suggerire che l’intero sistema di negoziazione delle azioni è truccato.

 

A differenza di quanto fanno solitamente coloro che denunciano i casi di insider trading – che richiedono di solito occasionali soffiate  e vaste, costose indagini, che comprendono l’esame di prove complesse provenienti da telefonate, e-mail o informatori muniti di apparecchi di registrazione – i paper fanno un uso originale di analisi schematiche su dati per scoprire che probabilmente l’insider trading è  molto diffuso, come riporta l’Economist.

 

"Questo approccio rappresenta un modo nuovo di analizzare il comportamento dei mercati finanziari. Inoltre, fa sorgere domande su come trattare questi comportamenti, dato che si tratta di comportamenti sistemici anziché limitati al singolo trader disonesto."


 

Il primo paper parte dagli incontri privati tenuti durante la crisi tra funzionari del governo americano e istituzioni finanziarie. Come abbiamo qui discusso anni fa, allora non vennero resi pubblici i dettagli critici sul famigerato programma TARP (che guarda caso fu creato e amministrato dall’attuale presidente della FED di Minneapolis, Neel Kashkari, che paradossalmente continua furiosamente a denunciare i salvataggi di banche “Too big to fail”), in particolare quanti soldi sarebbero stati impiegati e come sarebbero stati allocati. Questi dettagli avevano un’importanza enorme, perché era in gioco la sopravvivenza stessa di alcune istituzioni; alla fine, furono impegnati centinaia di miliardi di dollari. In quel periodo, conoscere in anticipo la struttura e il campo di applicazione dei salvataggi  sarebbe stata un’informazione di importanza vitale per gli investitori.

 

"Il paper esamina il comportamento di 497 istituzioni finanziarie tra il 2005 e il 2011, prestando particolare attenzione agli individui che avevano lavorato in precedenza per il governo centrale, in istituzioni diverse compresa la Federal Reserve. Nei due anni precedenti il TARP,  queste persone non avevano dimostrato particolari capacità di trading e di orientarsi nei mercati. Ma nei nove mesi successivi all’annuncio del TARP, produssero risultati decisamente buoni. Il paper conclude che “degli insider con buone connessioni in politica hanno avuto un vantaggio informativo importante durante la crisi e l'hanno sfruttato sul mercato”.


 

Sembra quasi che la FED lavorasse segretamente con Wall Street per arricchire gli insider a spese della classe media…

 

Gli altri paper utilizzano dati dal 1999 al 2014 di Abel Noser – una ditta utilizzata dagli investitori istituzionali per tracciare i costi delle transazioni – che riguardano 300 broker, soffermandosi sui 30 più importanti attraverso i quali transitava circa l’80-85% dei flussi.

 

“Gli autori hanno trovato le prove che i grandi investitori fanno più trading nei periodi che precedono annunci importanti, il che è difficile da giustificare se non col fatto che possono avere accesso a informazioni particolarmente buone”.


 

I broker possono aver acquisito queste informazioni in parecchi modi, tra i quali il più innocente è che essi “diffondevano la notizia” che un loro particolare cliente volesse comprare o vendere un grosso numero di azioni al fine di creare un mercato, così come una casa d’aste potrebbe fare con un quadro. Ma è anche possibile – secondo il paper – ed è molto più probabile, che le banche dessero queste informazioni ai clienti più importanti per incrementare i propri affari. A riprova di questa tesi, è stato constatato che i gestori di asset di grandi dimensioni che utilizzano i propri broker affiliati non perdono denaro.

 

Come riassume l’Economist, “come risulta da queste scoperte, le grandi istituzioni possono essere sia i beneficiari che le vittime di questa sorta di fuga di informazioni. Ma in genere complessivamente ci guadagnano. I veri perdenti, conclude il paper, sono i clienti al dettaglio e i manager di piccoli asset”. E naturalmente il vasto pubblico degli investitori.

 

E la battuta finale:

 

“Tutti i paper hanno in comune il fatto di riconoscere che i pubblici mercati, come i complottisti sostengono da molto tempo, sono tutt’altro che pubblici” e che “cambiare la legge per correggere questa situazione potrebbe persino rivelarsi impossibile”.



 

Potremmo anche dire che, per ironia della sorte, la rivista che ha pubblicato il paper è per il 26% posseduta dalla famiglia Rothschild.

 

 

* * *

I papers di cui sopra sono:

 

"Political connections and the informativeness of insider trades" di Alan D. Jagolinzer, Judge Business School, University of Cambridge; David F. Larcker, Graduate School of Business, Rock Center for Corporate Governance, Stanford University; Gaizka Ormazabal, IESE Business School, University of Navarra; Daniel J. Taylor, the Wharton School, University of Pennsylvania. Rock Center for Corporate Governance at Stanford University, Working Paper No. 222.

 

"Brokers and order flow leakage: evidence from fire sales" di Andrea Barbon, Marco Di Maggio, Francesco Franzoni, Augustin Landler. National Bureau of Economist Research, Working Paper 24089, December, 2017

 

"The Relevance of Broker Networks for Information Diffusion in the Stock Market" di Marco Di Maggio, Francesco Franzoni, Amir Kermani and Carlo Summavilla. NBER Working Paper, No 23522, June, 2017.

 

14/02/18

Financial Times - L'anomalia italiana: il prezzo delle case continua a scendere

Mentre in campagna elettorale il partito al governo millanta un'economia in ripresa,  i dati commentati sul Financial Times ci descrivono "l'anomalia" del mercato immobiliare italiano, che continua a crollare pesando anche in maniera significativa sulle sofferenze di un sistema bancario fortemente provato dalla crisi.  In questo quadro, l'UE sta preparando per il dopo elezioni le nuove regole sui cosiddetti Non Performing Loans, i crediti in sofferenza nei bilanci delle banche, che già a partire da quest'anno imporranno alle banche di aumentare le coperture.  Un'accelerazione che mette alle strette il sistema bancario italiano.

 

 

 

Mentre il Partito Democratico al governo, in vista delle elezioni del 4 marzo, cerca di vendere agli elettori la notizia di una ripresa dell'economia, il prezzo  degli immobili in Italia continua a scendere in modo anomalo rispetto al resto della UE.  I dati nazionali pubblicati questa settimana hanno mostrato un ulteriore peggioramento dei prezzi delle case nel terzo trimestre - e in un paese in cui oltre il 72% delle famiglie possiede la casa, il malcontento cresce. Secondo l'Eurobarometro, oltre l'80% degli italiani ritiene che la situazione economica sia negativa.

 

Inoltre, i mali del mercato immobiliare italiano rappresentano un freno per il sistema bancario in difficoltà, che sta ancora lottando per riprendersi dalla crisi finanziaria. Secondo gli ultimi dati di Eurostat, l'agenzia di statistica dell'UE, nel secondo trimestre dello scorso anno l'Italia è stato l'unico paese dell'Unione in cui i prezzi delle case si sono contratti. Al contrario, quasi i due terzi dei paesi dell'UE segnalano una crescita dei prezzi delle case di oltre il 5%.  In termini reali, i prezzi reali delle case in Italia sono diminuiti costantemente dal 2007 e sono ora inferiori del 23 per cento, un crollo che ha messo in ginocchio i settori dell'edilizia e della proprietà immobiliare.

 


Secondo i dati di Cerved, una società italiana che opera come Information Provider, il settore delle costruzioni si è quasi dimezzato rispetto al livello precedente alla crisi. Nel 2016, il 4,4% delle imprese di costruzioni è fallito, un numero inferiore rispetto al 5,5% del 2013, ma sempre molto superiore al 2,6% medio dell'industria.

 



 

 

E per quanto riguarda i mutui immobiliari, la proporzione dei prestiti in sofferenza è il doppio rispetto a quella del settore manifatturiero, e pesa sui 173 miliardi di crediti in sofferenza delle banche.  Il sistema bancario italiano sta migliorando: lo stock dei crediti inesigibili si è ridotto di 28 miliardi di euro nei 12 mesi fino a novembre 2017, a causa della crescente cartolarizzazione - la parcellizzazione dei prestiti - e perché tra i nuovi prestiti si hanno meno sofferenze. Ma i prestiti legati alla proprietà rimangono un freno.

 



 

Anche la cessione dei crediti in sofferenza è stata più lenta che per gli altri settori. Le banche sono più disposte a svalutare i crediti in sofferenza delle imprese sin dalla fase iniziale, avendo poche speranze che possano andare a buon fine, afferma Massimo Massimilla, amministratore delegato di Algebris Italia, società di gestione del risparmio. Al contrario, le banche continuano a nutrire maggiori speranze di ripresa sui prestiti garantiti alle imprese edili e alle società immobiliari. Di conseguenza, questo tipo di  prestiti è rimasto nel limbo più a lungo.

 



 

 

Luca Dondi, amministratore delegato di Nomisma, un think tank italiano, afferma che i proprietari di case si sono mostrati riluttanti a riconoscere la realtà dei prezzi più bassi, così che si è venuta a creare una scorta crescente di alloggi invenduti che ha ritardato il rimbalzo.

 

In un circolo vizioso, anche le vendite degli immobili recuperati dalle banche stanno contribuendo alla prolungata contrazione dei prezzi delle abitazioni. Il numero delle unità immobiliari vendute all'asta - il metodo di vendita delle banche - è aumentato del 25% negli ultimi due anni.

 

Una ripresa significativa degli investimenti immobiliari potrebbe riportare a crescere i prezzi delle case. Una decina di anni fa gli investimenti immobiliari rappresentavano una transazione su cinque, ma ormai sono assenti dal mercato.  Matteo Renzi, leader del partito democratico, spera di mantenere il suo partito al potere e puntare a un'accelerazione della crescita, a un miglioramento del reddito disponibile delle famiglie e una maggiore creazione di posti di lavoro. Ma il mercato immobiliare moribondo non aiuta a diffondere fiducia.