A proposito di “fake news” sulla grande stampa ufficiale, il Guardian riassume una vicenda incresciosa che il celebre giornale tedesco Der Spiegel è stato costretto ad ammettere: uno dei suoi giornalisti di punta, che scriveva articoli sulla società e le notizie internazionali, ha inventato storie, protagonisti e fonti per anni. Il giornalista aveva vinto premi prestigiosi come il premio CNN per il Giornalista dell’Anno nel 2014 e un Premio Europeo per la Stampa nel 2017. Il fatto gravissimo viene presentato come un cedimento personale alla pressione a produrre informazione resistendo alla competizione. Ad ogni modo, getta un’ombra sulla credibilità del sistema di informazione ufficiale e su quanto sia facile inventare notizie e costruire brillanti carriere sulla falsità. Solamente il coraggio di un collega, a lungo ostracizzato per i suoi sospetti, ha permesso alla verità di emergere.
di Kate Connolly, 19 dicembre 2018
La rivista tedesca Der Spiegel è precipitata nel caos dopo aver rivelato che uno dei suoi migliori giornalisti ha falsificato storie per anni.
Il mondo dei media è sconvolto dalle rivelazioni su Claas Relotius, giornalista già vincitore di prestigiosi premi, che secondo il settimanale “ha inventato storie e protagonisti” in almeno 14 dei suoi 60 articoli apparsi sulle edizioni cartacee e online, avvertendo che anche altri giornali potrebbero essere coinvolti.
Relotius, 33 anni, ha rassegnato le dimissioni dopo avere ammesso la frode. Scriveva per Der Spiegel da sette anni e aveva vinto numerosi premi per il suo giornalismo investigativo, tra cui il premio della CNN come Giornalista dell’Anno nel 2014.
All’inizio di questo mese aveva vinto anche il premio tedesco Reporterpreis (Reporter dell’anno) per la sua storia su un bambino siriano. I giudici lo avevano elogiato per la “leggerezza, la poesia e la rilevanza”. Da allora è però emerso che tutte le fonti del suo reportage erano quantomeno nebulose, e che molto di ciò che ha scritto era inventato.
La falsificazione è venuta alla luce dopo che un collega di Relotius che ha lavorato con lui a un articolo sulla frontiera tra Messico e Stati Uniti ha iniziato a sollevare sospetti su alcuni dei dettagli da lui riportati, sospetti che covava da tempo.
Il collega, di nome Juan Moreno, alla fine ha rintracciato due delle presunte fonti che venivano citate ampiamente nell’articolo di Relotius, articolo che era stato pubblicato in novembre. Entrambe le presunte fonti hanno dichiarato di non avere mai incontrato Relotius, il quale avrebbe mentito anche, secondo successive indagini, sull’esistenza di una scritta pitturata a mano che avrebbe detto ”Messicani state alla larga”.
Altre storie fraudolente includono quella su un presunto prigioniero yemenita a Guantanamo, e una sulla star americana del football Colin Kaepernick.
In un lungo articolo lo Spiegel, che vende circa 725.000 copie alla settimana e ha più di 6,5 milioni di lettori online, si è detto “scioccato” dalla scoperta, e ha chiesto scusa ai propri lettori e a chiunque possa essere stato soggetto di ”citazioni fraudolente, invenzioni di dettagli personali o scene inventate in posti fittizi”.
La rivista, che ha sede ad Amburgo, è stata fondata nel 1947 ed è rinomata per i suoi approfonditi pezzi investigativi, ha detto che Relotius ha commesso una frode giornalistica “su ampia scala”. Ha descritto l’episodio come “il punto più basso nella storia lunga 70 anni dello Spiegel”. È stata istituita una commissione interna per riesaminare l’intero lavoro di Relotius per il settimanale.
Il giornalista ha scritto articoli anche per una serie di altri noti giornali tedeschi, tra cui il Taz, Die Welt, e la Frankfurter Allgemeine (edizione domenicale). Die Welt questo mercoledì ha twittato: “[Relotius] ha abusato del proprio talento”.
Relotius ha dichiarato allo Spiegel di rammaricarsi per le proprie azioni e di provare profonda vergogna, secondo quanto riportato dal settimanale. ”Sto male e ho bisogno di aiuto” avrebbe detto.
Moreno, che ha lavorato per il giornale dal 2007, ha rischiato il suo stesso posto di lavoro per aver affrontato Relotius e altri colleghi con i suoi sospetti. Molti colleghi non volevano credergli. ”Per tre o quattro settimane Moreno ha passato l’inferno, perché all’inizio i suoi colleghi e i suoi superiori non volevano credere alle sue accuse”, ha scritto Der Spiegel nelle sue scuse ai lettori. Per molte settimane, ha precisato il settimanale, Relotius è stato perfino considerato una vittima delle trame di Moreno.
”Relotius respingeva abilmente tutti gli attacchi, tutte le prove, per quanto approfondite, di Moreno, fino a un punto in cui questo non ha più funzionato, fino a che non ha più potuto dormire ed era perseguitato dalla paura di essere scoperto”, ha scritto Der Spiegel.
Relotius, ha aggiunto, alla fine si è arreso la scorsa settimana, dopo essere stato affrontato da un caporedattore del giornale.
Nella sua confessione al suo superiore ha detto: ”Non era perché volevo trovare il grande scoop. Era per la paura di fallire. Il mio senso di essere costretto a non potermi mai permettere di fallire diventava sempre più grande quanto più grande diventava il mio successo”.
La rivista, uno dei giornali più importanti in Germania, sta ora cercando di salvare la propria reputazione, ma si teme che, già alle prese con i tanti problemi dell’industria dell’informazione tedesca, farà molta fatica a recuperare.
”Tutti i suoi colleghi sono profondamente scossi” ha scritto Der Spiegel. In particolare, ha scritto, nel dipartimento “Società”, dove lui lavorava, “i suoi colleghi sono tristi e sbalorditi… sembra come un lutto in famiglia”.
21/12/18
19/12/18
Il ruolo della Germania in Europa - Siamo noi gli egemoni
Mentre imperversa la controversia tra Bruxelles (ovvero Berlino) e Roma sulla legge di bilancio presentata dal governo italiano per il 2019, il nostro collaboratore dalla Germania Beppe Vandai ha ripescato un articolo, comparso nel 2015 sulla Frankfurter Allegemeine Zeitung, dello storico e geo-stratega tedesco Herfried Münkler, un intellettuale di notevole influenza sulle alte sfere della classe dirigente tedesca. Nell'articolo si evoca, senza nominarla chiaramente, l'egemonia della Germania sull'Europa come un destino di un popolo che, quasi senza volerlo, per suo merito, si trova a dover affrontare questo compito; e si esortano gli intellettuali a discuterne apertamente nel paese per sollecitare quel forte consenso popolare che sarebbe necessario a sostenere la sfida. Alla fine dell'articolo alcune note di Beppe Vandai a commento.
di Herfried MÜNKLER, 21 agosto 2015
Traduzione di Beppe Vandai
Al momento i tedeschi si mostrano esitanti sul loro ruolo in Europa. Eppure, candidati di riserva non ce ne sono. È dunque il momento di affrontare la realtà.
Né la politica né la società tedesche hanno ambìto a questo ruolo: quello della potenza centrale in Europa, a cui tocca il compito di domare le forze centrifughe che recentemente sono drammaticamente cresciute nell’Unione europea, di far incontrare i diversi interessi degli europei del nord, del sud, dell’ovest e dell’est, cercando nel contempo una linea comune, e infine di far sì che la sfida lanciata da una parte dell’Unione coinvolga anche la parte opposta. Questo è un compito che richiede una grande abilità politica. Bisogna essere pazienti, ma comportarsi con decisione, si devono finanziare dei compromessi per renderli accettabili, e contemporaneamente stare attenti che i patti su cui in definitiva si fonda l’Unione europea vengano effettivamente rispettati.
E per tutto questo è necessario, come se non bastasse, trovare il consenso politico della propria popolazione. I compiti a cui deve assolvere la potenza centrale europea assomigliano alla quadratura di un cerchio.
Efficiente e resistente al populismo
Non meraviglia che la politica tedesca, finché è stato possibile, abbia cercato di evitare di assumersi questo ruolo. Sono state necessarie più sollecitazioni dall’esterno prima che alla fine, almeno nella classe politica, si imponesse l’idea che la Repubblica federale deve assumersi, anche consapevolmente, il ruolo che nei fatti le è toccato, per poterne essere all’altezza e non fallire. Infatti il problema sta nel fatto che, se i tedeschi falliscono, non è pronto nessun candidato di riserva che possa entrare in campo e assumersi questo ruolo. Per dirla in modo drammatico: se la Germania fallisce nella missione di potenza centrale, allora fallisce l’Europa. L’espressione “il fallimento della Germania” – e non ad esempio “il fallimento della politica tedesca” – l’ho scelta con cognizione di causa, poiché la missione di “potenza centrale”, alla lunga, non può essere assolta dalla politica senza il sostegno duraturo da parte della società.
Non sono infatti solamente la potenza economica della Germania, il suo maggiore numero di abitanti, prossimo a quello degli stati immediatamente più popolosi, o la circostanza di essere il paese che nel suo insieme ha tratto il maggior profitto dall’ unificazione europea, ad aver imposto alla Repubblica federale la posizione di potenza centrale, bensì, in pari misura, anche il fatto, tutt’altro che ovvio, che la popolazione tedesca più degli altri stati europei ha dimostrato di resistere alle promesse dei partiti populisti. Questa è la premessa per poter elaborare in modo responsabile i compiti da potenza centrale europea.
Un dibattito all'interno della società, non un progetto elitario
La Francia, che nel progetto europeo, in tandem con la Germania, ha interpretato quel ruolo guida per decenni, ormai ha perso la sua funzione; non solo è alle prese con le mancate riforme economiche e sociali, ma si trova in questa posizione (di retrocessione, ndt) come conseguenza della forte affermazione del Fronte nazionale nella politica francese. Non appena raggiungono una certa forza, anche se non coinvolti nel governo, i partiti populisti di destra e di sinistra limitano la libertà d’azione di un Paese. Nella libertà d’azione si può dunque vedere l'arcano di una potenza centrale. Essere all’altezza delle sfide non è dunque una missione che una potenza centrale possa affrontare se questo rimane il progetto di una élite. Se si vuole veramente essere all’altezza, occorre il sostegno di gran parte dell’elettorato e la sua disponibilità ad affrontare queste sfide e a sopportarne il peso. A tal fine, alla lunga, non basterà certamente essere refrattari al populismo, bensì servirà una discussione nella società, in cui vengano esplicitate e discusse le opportunità e i rischi del ruolo di potenza centrale.
Assumersi questo compito, prima che sia troppo tardi
Su questo finora c´è un deficit in Germania. E se le cose stanno così dipende non tanto dal fallimento dei politici, quanto piuttosto dal fatto, ben noto, che gli intellettuali, di solito così amanti delle discussioni, evitano di affrontare questo problema. Invero questo dibattito non va condotto lanciando allarmi, richiami preoccupati o moniti, bensì confrontandosi in maniera responsabile con un grande tema, non destinato a scomparire dai titoli dei giornali in poche settimane; un tema che non si deve svolgere esortando la popolazione, o creando aspettative, ma in cui ne va della capacità di convincere, propria degli argomenti politici. Il ruolo di potenza centrale in Europa che ormai spetta alla Germania non si lascia ridurre alla capacità di resistenza dei politici nelle trattative-maratona di Bruxelles, bensì abbraccia un confronto politico e sociale dettagliato sui compiti da assumere. Questo forse non sembra ora così impellente, poiché i dati economici del Paese sono buoni ed è chiaro a chiunque sappia far di conto che la Germania trae vantaggi dall’UE, anche se è di gran lunga il maggior contributore netto dell’Unione. I compiti di una potenza centrale vanno assunti anche quando il quadro congiunturale peggiora. Ergo: discuti delle sfide e dei problemi per tempo, così in tempi difficili avrai almeno la possibilità di venirne a capo.
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Note di Beppe Vandai
L’articolo di Münkler è paradigmatico di ciò che pensa da alcuni anni la classe dirigente tedesca, i piani alti di partiti politici come la CDU, la CSU, la SPD, la FDP, dei sindacati (soprattutto quelli industriali), delle organizzazioni imprenditoriali, così come le alte gerarchie burocratiche, la Bundesbank e gran parte degli economisti tedeschi.
L’autore dell’articolo è uno dei più noti e apprezzati studiosi di storia moderna e contemporanea. Non solo, è considerato il più autorevole esperto di geopolitica in Germania. Il suo chiodo fisso, nei libri pubblicati nell’ultimo decennio, è la definizione della Germania come die Macht der Mitte (ovvero die Zentralmacht); in italiano: “la potenza del centro, ovvero centrale”, con tutte le sfumature semantiche che il termine ‘centrale’ porta con sé.
[...]
Quando Münkler e tanti tedeschi pensano o sostengono che il loro popolo o il loro stato siano nella condizione privilegiata di chi sa gestirsi in modo giusto, equilibrato e sostenibile, a differenza di tanti altri popoli vittime in varie forme della dismisura, non si riferiscono agli individui, non teorizzano affatto la superiorità di un tedesco rispetto ad uno spagnolo o ad un italiano; non fanno cioè del suprematismo. Questo va detto a chiare lettere. Se cose del genere erano pane quotidiano in età guglielmina o in epoca nazionalsocialista, ora non lo sono più. Da questo punto di vista la democrazia in Germania ha lavorato indefessamente e bene.
Ciò non toglie però nulla al fatto che, quando si parla di stati e nazioni, ormai la Germania vive una resipiscenza del passato. Anche la stessa democrazia viene brandita come una clava. Ad esempio, nei media, stigmatizzando la mancanza di democrazia in Russia, si giustifica il fiancheggiamento ed il supporto all’Ucraina o alla Georgia affinché entrino nella Nato e nell’UE, ovvero nella zona d’influenza della Germania. Il tenore dell’argomentazione è subdolo. Si nasconde un interesse geopolitico dietro la proclamazione di principi assoluti, cancellando completamente lo spazio della mediazione politica.
Subdolo è anche quanto Münkler sostiene esplicitamente nell’articolo allorché dice che sono i fatti stessi, il disorientamento dell’Europa, il bisogno di avere un centro e una guida ad affidare alla Germania il compito di essere egemone. Subdola è – come ben sanno i Greci e gli Italiani (nel frattempo anche i Francesi) – la tesi che sia stata, per una sorta di leggi oggettive, la Germania a trarre il maggior profitto dall’Unione europea. Noi invece sappiamo che i vantaggi se li è presi, dettando dapprima le regole dell’eurozona, e poi usandole spregiudicatamente per impedire che gli squilibri sorti dalla sua politica economica competitiva venissero risolti in modo equo e cooperativo. Subdola è l’implicita asserzione che solo la Germania possieda la pietra filosofale della razionalità e dell’equilibrio, che la renderebbe immune dai populismi. Un corollario poi di quest’ultima presunzione di superiorità sarebbe che tutti dovrebbero accettarne il ruolo guida.
Mi si lasci concludere con tre osservazioni. Münkler rampogna gli intellettuali, che sarebbero ancora troppo legati al vecchio stile della discussione in Germania, tipico della Repubblica di Bonn, uno stile che privilegiava le battaglie sui principi e sui diritti umani, sulle garanzie dell’individuo, così come la forte autocritica della storia tedesca. Gli intellettuali dovrebbero a suo avviso fare un bagno di Realpolitik, capire l’occasione egemonica, che ora si presenta, di dare un ordine stabile all’Europa. L’autore si augura anche un’ampia discussione nell’opinione pubblica tedesca, senza tabù, sul nuovo ruolo che il Paese avrebbe da assolvere.
Noto da un lato che, a distanza di tre anni dall’uscita dell’articolo, e di quasi un decennio di queste sottolineature di Münkler, in Germania manca un dibattito franco su queste cose; dall’altro lato, noto che sul Paese grava una cappa di unanimismo sui fatti europei degli ultimi nove anni, da quando scoppiò la crisi greca. Come interpretare questa generale mancanza di dialettica e di agire comunicativo?
Credo che questo stato di cose si spieghi con l’autismo della società e della democrazia tedesche rispetto agli altri popoli. A parte circoli assai minoritari di spiriti critici, per lo più estranei sia ai partiti, che ai sindacati, che al mondo dell’informazione, il resto della popolazione tende a vedere il proprio Paese come assediato da popoli di gente disordinata, non abbastanza laboriosa, priva della necessaria disciplina individuale e collettiva. Vedono con favore l’immigrazione da questi paesi in Germania, purché essa sia accompagnata dall’apprendimento dei modi di comportamento e dei valori canonici per ogni tedesco. Non voglio addentrarmi nella fenomenologia di questo habitus, noto che in fin dei conti esso sfocia nell’atteggiamento difensivo e sospettoso di chi si aspetta di essere derubato del portafoglio. Chiaramente questa mentalità condiziona anche i politici più aperti, che non sanno fare altro che promettere coram populo che difenderanno fino all’ultimo sangue il risparmiatore ed il contribuente tedesco. Così si cementa il consenso universale che fa sì che le condizioni materiali negli altri Paesi dell’Eurozona e dell’UE si deteriorino sempre di più, e con esse crescano rabbia, delusione e la nostalgia della sovranità perduta.
Chiudo sul termine “egemonia”. Pochissimi tedeschi lo usano apertamente (in camera caritatis non so). Münkler non la usa praticamente mai, Schäuble nemmeno, per non parlare della signora Merkel che, credo, non la userebbe nemmeno sotto tortura. Ma il termine “egemonia” calza a pennello su quel che sostengono Münkler & Co. Il termine ha una lunga storia, che viene dall’Antica Grecia. L’egemonia era la capacità ed il diritto di una polis-leader di dirigere e comandare un gruppo di poleis sue alleate, di farlo innanzitutto con il consenso, ma, se necessario, pure con la coercizione. Non siamo all’epoca della summachía (alleanza militare) ateniese, siamo nel XXI° secolo, nell’Eurozona. Quanto consenso e quanta coercizione abbiamo sperimentato in questi anni? C’è motivo di dormire sonni tranquilli o di stare in guardia?
di Herfried MÜNKLER, 21 agosto 2015
Traduzione di Beppe Vandai
Al momento i tedeschi si mostrano esitanti sul loro ruolo in Europa. Eppure, candidati di riserva non ce ne sono. È dunque il momento di affrontare la realtà.
Né la politica né la società tedesche hanno ambìto a questo ruolo: quello della potenza centrale in Europa, a cui tocca il compito di domare le forze centrifughe che recentemente sono drammaticamente cresciute nell’Unione europea, di far incontrare i diversi interessi degli europei del nord, del sud, dell’ovest e dell’est, cercando nel contempo una linea comune, e infine di far sì che la sfida lanciata da una parte dell’Unione coinvolga anche la parte opposta. Questo è un compito che richiede una grande abilità politica. Bisogna essere pazienti, ma comportarsi con decisione, si devono finanziare dei compromessi per renderli accettabili, e contemporaneamente stare attenti che i patti su cui in definitiva si fonda l’Unione europea vengano effettivamente rispettati.
E per tutto questo è necessario, come se non bastasse, trovare il consenso politico della propria popolazione. I compiti a cui deve assolvere la potenza centrale europea assomigliano alla quadratura di un cerchio.
Efficiente e resistente al populismo
Non meraviglia che la politica tedesca, finché è stato possibile, abbia cercato di evitare di assumersi questo ruolo. Sono state necessarie più sollecitazioni dall’esterno prima che alla fine, almeno nella classe politica, si imponesse l’idea che la Repubblica federale deve assumersi, anche consapevolmente, il ruolo che nei fatti le è toccato, per poterne essere all’altezza e non fallire. Infatti il problema sta nel fatto che, se i tedeschi falliscono, non è pronto nessun candidato di riserva che possa entrare in campo e assumersi questo ruolo. Per dirla in modo drammatico: se la Germania fallisce nella missione di potenza centrale, allora fallisce l’Europa. L’espressione “il fallimento della Germania” – e non ad esempio “il fallimento della politica tedesca” – l’ho scelta con cognizione di causa, poiché la missione di “potenza centrale”, alla lunga, non può essere assolta dalla politica senza il sostegno duraturo da parte della società.
Non sono infatti solamente la potenza economica della Germania, il suo maggiore numero di abitanti, prossimo a quello degli stati immediatamente più popolosi, o la circostanza di essere il paese che nel suo insieme ha tratto il maggior profitto dall’ unificazione europea, ad aver imposto alla Repubblica federale la posizione di potenza centrale, bensì, in pari misura, anche il fatto, tutt’altro che ovvio, che la popolazione tedesca più degli altri stati europei ha dimostrato di resistere alle promesse dei partiti populisti. Questa è la premessa per poter elaborare in modo responsabile i compiti da potenza centrale europea.
Un dibattito all'interno della società, non un progetto elitario
La Francia, che nel progetto europeo, in tandem con la Germania, ha interpretato quel ruolo guida per decenni, ormai ha perso la sua funzione; non solo è alle prese con le mancate riforme economiche e sociali, ma si trova in questa posizione (di retrocessione, ndt) come conseguenza della forte affermazione del Fronte nazionale nella politica francese. Non appena raggiungono una certa forza, anche se non coinvolti nel governo, i partiti populisti di destra e di sinistra limitano la libertà d’azione di un Paese. Nella libertà d’azione si può dunque vedere l'arcano di una potenza centrale. Essere all’altezza delle sfide non è dunque una missione che una potenza centrale possa affrontare se questo rimane il progetto di una élite. Se si vuole veramente essere all’altezza, occorre il sostegno di gran parte dell’elettorato e la sua disponibilità ad affrontare queste sfide e a sopportarne il peso. A tal fine, alla lunga, non basterà certamente essere refrattari al populismo, bensì servirà una discussione nella società, in cui vengano esplicitate e discusse le opportunità e i rischi del ruolo di potenza centrale.
Assumersi questo compito, prima che sia troppo tardi
Su questo finora c´è un deficit in Germania. E se le cose stanno così dipende non tanto dal fallimento dei politici, quanto piuttosto dal fatto, ben noto, che gli intellettuali, di solito così amanti delle discussioni, evitano di affrontare questo problema. Invero questo dibattito non va condotto lanciando allarmi, richiami preoccupati o moniti, bensì confrontandosi in maniera responsabile con un grande tema, non destinato a scomparire dai titoli dei giornali in poche settimane; un tema che non si deve svolgere esortando la popolazione, o creando aspettative, ma in cui ne va della capacità di convincere, propria degli argomenti politici. Il ruolo di potenza centrale in Europa che ormai spetta alla Germania non si lascia ridurre alla capacità di resistenza dei politici nelle trattative-maratona di Bruxelles, bensì abbraccia un confronto politico e sociale dettagliato sui compiti da assumere. Questo forse non sembra ora così impellente, poiché i dati economici del Paese sono buoni ed è chiaro a chiunque sappia far di conto che la Germania trae vantaggi dall’UE, anche se è di gran lunga il maggior contributore netto dell’Unione. I compiti di una potenza centrale vanno assunti anche quando il quadro congiunturale peggiora. Ergo: discuti delle sfide e dei problemi per tempo, così in tempi difficili avrai almeno la possibilità di venirne a capo.
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Note di Beppe Vandai
L’articolo di Münkler è paradigmatico di ciò che pensa da alcuni anni la classe dirigente tedesca, i piani alti di partiti politici come la CDU, la CSU, la SPD, la FDP, dei sindacati (soprattutto quelli industriali), delle organizzazioni imprenditoriali, così come le alte gerarchie burocratiche, la Bundesbank e gran parte degli economisti tedeschi.
L’autore dell’articolo è uno dei più noti e apprezzati studiosi di storia moderna e contemporanea. Non solo, è considerato il più autorevole esperto di geopolitica in Germania. Il suo chiodo fisso, nei libri pubblicati nell’ultimo decennio, è la definizione della Germania come die Macht der Mitte (ovvero die Zentralmacht); in italiano: “la potenza del centro, ovvero centrale”, con tutte le sfumature semantiche che il termine ‘centrale’ porta con sé.
[...]
Quando Münkler e tanti tedeschi pensano o sostengono che il loro popolo o il loro stato siano nella condizione privilegiata di chi sa gestirsi in modo giusto, equilibrato e sostenibile, a differenza di tanti altri popoli vittime in varie forme della dismisura, non si riferiscono agli individui, non teorizzano affatto la superiorità di un tedesco rispetto ad uno spagnolo o ad un italiano; non fanno cioè del suprematismo. Questo va detto a chiare lettere. Se cose del genere erano pane quotidiano in età guglielmina o in epoca nazionalsocialista, ora non lo sono più. Da questo punto di vista la democrazia in Germania ha lavorato indefessamente e bene.
Ciò non toglie però nulla al fatto che, quando si parla di stati e nazioni, ormai la Germania vive una resipiscenza del passato. Anche la stessa democrazia viene brandita come una clava. Ad esempio, nei media, stigmatizzando la mancanza di democrazia in Russia, si giustifica il fiancheggiamento ed il supporto all’Ucraina o alla Georgia affinché entrino nella Nato e nell’UE, ovvero nella zona d’influenza della Germania. Il tenore dell’argomentazione è subdolo. Si nasconde un interesse geopolitico dietro la proclamazione di principi assoluti, cancellando completamente lo spazio della mediazione politica.
Subdolo è anche quanto Münkler sostiene esplicitamente nell’articolo allorché dice che sono i fatti stessi, il disorientamento dell’Europa, il bisogno di avere un centro e una guida ad affidare alla Germania il compito di essere egemone. Subdola è – come ben sanno i Greci e gli Italiani (nel frattempo anche i Francesi) – la tesi che sia stata, per una sorta di leggi oggettive, la Germania a trarre il maggior profitto dall’Unione europea. Noi invece sappiamo che i vantaggi se li è presi, dettando dapprima le regole dell’eurozona, e poi usandole spregiudicatamente per impedire che gli squilibri sorti dalla sua politica economica competitiva venissero risolti in modo equo e cooperativo. Subdola è l’implicita asserzione che solo la Germania possieda la pietra filosofale della razionalità e dell’equilibrio, che la renderebbe immune dai populismi. Un corollario poi di quest’ultima presunzione di superiorità sarebbe che tutti dovrebbero accettarne il ruolo guida.
Mi si lasci concludere con tre osservazioni. Münkler rampogna gli intellettuali, che sarebbero ancora troppo legati al vecchio stile della discussione in Germania, tipico della Repubblica di Bonn, uno stile che privilegiava le battaglie sui principi e sui diritti umani, sulle garanzie dell’individuo, così come la forte autocritica della storia tedesca. Gli intellettuali dovrebbero a suo avviso fare un bagno di Realpolitik, capire l’occasione egemonica, che ora si presenta, di dare un ordine stabile all’Europa. L’autore si augura anche un’ampia discussione nell’opinione pubblica tedesca, senza tabù, sul nuovo ruolo che il Paese avrebbe da assolvere.
Noto da un lato che, a distanza di tre anni dall’uscita dell’articolo, e di quasi un decennio di queste sottolineature di Münkler, in Germania manca un dibattito franco su queste cose; dall’altro lato, noto che sul Paese grava una cappa di unanimismo sui fatti europei degli ultimi nove anni, da quando scoppiò la crisi greca. Come interpretare questa generale mancanza di dialettica e di agire comunicativo?
Credo che questo stato di cose si spieghi con l’autismo della società e della democrazia tedesche rispetto agli altri popoli. A parte circoli assai minoritari di spiriti critici, per lo più estranei sia ai partiti, che ai sindacati, che al mondo dell’informazione, il resto della popolazione tende a vedere il proprio Paese come assediato da popoli di gente disordinata, non abbastanza laboriosa, priva della necessaria disciplina individuale e collettiva. Vedono con favore l’immigrazione da questi paesi in Germania, purché essa sia accompagnata dall’apprendimento dei modi di comportamento e dei valori canonici per ogni tedesco. Non voglio addentrarmi nella fenomenologia di questo habitus, noto che in fin dei conti esso sfocia nell’atteggiamento difensivo e sospettoso di chi si aspetta di essere derubato del portafoglio. Chiaramente questa mentalità condiziona anche i politici più aperti, che non sanno fare altro che promettere coram populo che difenderanno fino all’ultimo sangue il risparmiatore ed il contribuente tedesco. Così si cementa il consenso universale che fa sì che le condizioni materiali negli altri Paesi dell’Eurozona e dell’UE si deteriorino sempre di più, e con esse crescano rabbia, delusione e la nostalgia della sovranità perduta.
Chiudo sul termine “egemonia”. Pochissimi tedeschi lo usano apertamente (in camera caritatis non so). Münkler non la usa praticamente mai, Schäuble nemmeno, per non parlare della signora Merkel che, credo, non la userebbe nemmeno sotto tortura. Ma il termine “egemonia” calza a pennello su quel che sostengono Münkler & Co. Il termine ha una lunga storia, che viene dall’Antica Grecia. L’egemonia era la capacità ed il diritto di una polis-leader di dirigere e comandare un gruppo di poleis sue alleate, di farlo innanzitutto con il consenso, ma, se necessario, pure con la coercizione. Non siamo all’epoca della summachía (alleanza militare) ateniese, siamo nel XXI° secolo, nell’Eurozona. Quanto consenso e quanta coercizione abbiamo sperimentato in questi anni? C’è motivo di dormire sonni tranquilli o di stare in guardia?
16/12/18
Michel Houellebecq: "La gamma di opinioni consentite si restringe costantemente"
Il sito Infowars riprende alcune dichiarazioni di Michel Houellebecq sul continuo ridursi della gamma di opinioni che è consentito esprimere sulla stampa, in una sorta di dittatura esercitata dal politicamente corretto. Secondo Houellebecq, inoltre, non esiste alcun popolo europeo che possa dare vita ad alcuno stato democratico europeo. In una parola, l'idea di Europa unita è stata semplicemente un'idea stupida che si è gradualmente trasformata in un incubo, da cui prima o poi ci sveglieremo.
di Paul Joseph Watson, 14 dicembre 2018
L'autore francese di culto suona un campanello d'allarme per la libertà di parola
Il leggendario autore francese Michel Houellebecq avverte che la "gamma di opinioni consentite", che le persone sono autorizzate a esprimere in pubblico è "in costante contrazione".
In un pezzo scritto per Harper's, l'autore di culto denuncia lo strangolamento della libertà di parola.
"Gli americani non sono più disposti a morire per la libertà di stampa", scrive Houellebecq, aggiungendo: "Inoltre, quale libertà di stampa? Fin da quando avevo dodici anni ho visto la gamma di opinioni consentite sulla stampa restringersi costantemente".
Quindi ha denunciato una nuova "battuta di caccia" in Francia contro lo scrittore conservatore Éric Zemmour, autore di The French Suicide, che sostiene che la società francese è stata fortemente danneggiata dal neoliberismo, dall'Islam e dall'ossequio al "politicamente corretto".
Recentemente Zemmour ha fronteggiato una marea di critiche per avere avvertito che in Francia era in corso una colonizzazione al contrario dovuta ai decenni di immigrazione di massa, causata dal disprezzo di sé della nazione.
Houellebecq, il cui libro Submission, che ha messo in guardia da una conquista islamica della Francia, è stato pubblicato il giorno del massacro di Charlie Hebdo, è stato a sua volta preso di mira per avere sostenuto verità impopolari.
Nel 2002, lo scrittore è stato portato in giudizio per odio razziale - e in seguito assolto - per avere dichiarato in un'intervista che l'Islam è "la religione più stupida". Inoltre ha dovuto ricorrere a periodi alterni a una scorta armata dopo avere ricevuto minacce contro la sua vita da parte di terroristi islamici.
In un altro passo del suo articolo per Harper, Houellebecq nota che l'Europa storicamente è sempre stata in lotta contro l'Islam e che "quella lotta è semplicemente tornata in primo piano".
Houellebecq si aspetta anche che l'Unione europea si dissolva e che la Francia diventi nuovamente un paese indipendente.
"La mia convinzione è che in Europa non abbiamo né una lingua comune, né valori comuni, né interessi comuni: in una parola, sono convinto che l'Europa non esiste, e che non costituirà mai un popolo né sosterrà una possibile democrazia (vedi l'etimologia del termine), semplicemente perché non vuole costituire un popolo", scrive Houellebecq. "In breve, l'Europa è solo un'idea stupida che si è gradualmente trasformata in un brutto sogno, dal quale alla fine ci sveglieremo".
di Paul Joseph Watson, 14 dicembre 2018
L'autore francese di culto suona un campanello d'allarme per la libertà di parola
Il leggendario autore francese Michel Houellebecq avverte che la "gamma di opinioni consentite", che le persone sono autorizzate a esprimere in pubblico è "in costante contrazione".
In un pezzo scritto per Harper's, l'autore di culto denuncia lo strangolamento della libertà di parola.
"Gli americani non sono più disposti a morire per la libertà di stampa", scrive Houellebecq, aggiungendo: "Inoltre, quale libertà di stampa? Fin da quando avevo dodici anni ho visto la gamma di opinioni consentite sulla stampa restringersi costantemente".
Quindi ha denunciato una nuova "battuta di caccia" in Francia contro lo scrittore conservatore Éric Zemmour, autore di The French Suicide, che sostiene che la società francese è stata fortemente danneggiata dal neoliberismo, dall'Islam e dall'ossequio al "politicamente corretto".
Recentemente Zemmour ha fronteggiato una marea di critiche per avere avvertito che in Francia era in corso una colonizzazione al contrario dovuta ai decenni di immigrazione di massa, causata dal disprezzo di sé della nazione.
Houellebecq, il cui libro Submission, che ha messo in guardia da una conquista islamica della Francia, è stato pubblicato il giorno del massacro di Charlie Hebdo, è stato a sua volta preso di mira per avere sostenuto verità impopolari.
Nel 2002, lo scrittore è stato portato in giudizio per odio razziale - e in seguito assolto - per avere dichiarato in un'intervista che l'Islam è "la religione più stupida". Inoltre ha dovuto ricorrere a periodi alterni a una scorta armata dopo avere ricevuto minacce contro la sua vita da parte di terroristi islamici.
In un altro passo del suo articolo per Harper, Houellebecq nota che l'Europa storicamente è sempre stata in lotta contro l'Islam e che "quella lotta è semplicemente tornata in primo piano".
Houellebecq si aspetta anche che l'Unione europea si dissolva e che la Francia diventi nuovamente un paese indipendente.
"La mia convinzione è che in Europa non abbiamo né una lingua comune, né valori comuni, né interessi comuni: in una parola, sono convinto che l'Europa non esiste, e che non costituirà mai un popolo né sosterrà una possibile democrazia (vedi l'etimologia del termine), semplicemente perché non vuole costituire un popolo", scrive Houellebecq. "In breve, l'Europa è solo un'idea stupida che si è gradualmente trasformata in un brutto sogno, dal quale alla fine ci sveglieremo".
14/12/18
Sapir e colleghi – È l’euro, argomento tabù, la causa principale dei “gilet gialli”
Un gruppo di economisti, tra cui Jacques Sapir, pubblica un articolo sul blog francese "Les Crises" in cui cerca di riassumere in pochi paragrafi il grande argomento "tabù" di cui in Francia (come e forse più che in Italia) nessuno parla: l'euro. Con la conseguenza del tasso di cambio fisso, l'euro impone di aggiustare gli squilibri tramite svalutazione interna, causando disoccupazione e riduzione del potere d'acquisto. La rivolta, in Francia, è cominciata, sebbene la consapevolezza sulle sue ragioni profonde sia ancora limitata.
10 dicembre 2018
A quasi vent’anni dal lancio dell’euro, avvenuto il primo gennaio 1999, la situazione della moneta unica è paradossale. Da un lato, il fallimento di questo progetto è palese, ed è stato riconosciuto dalla maggior parte degli economisti competenti, tra cui molti premi Nobel. Dall’altro lato, questo argomento continua a restare un tabù in Francia, tanto che nessun politico di rilievo osa affrontarlo a testa alta. Come si spiega una situazione del genere?
Nessuno sembra ricollegare l’attuale movimento dei “gilet gialli” al fallimento dell’euro. Eppure, l’impoverimento della maggior parte della popolazione, di cui esso è il segno più manifesto, è la conseguenza diretta delle politiche messe in atto per tentare di salvare a qualsiasi costo la moneta unica europea. Non si sta parlando, qui, dell’allentamento della politica monetaria da parte della Banca Centrale Europea col suo quantitative easing, peraltro inefficace nel rilanciare la produzione. Si sta parlando piuttosto delle politiche fiscali di aumento delle tasse e di diminuzione degli investimenti pubblici che vengono richiesti, ovunque, da parte della Commissione Europea di Bruxelles. Questi hanno, è vero, raddrizzato i conti con l’estero di alcuni paesi che erano in deficit. Al prezzo, però, di una “svalutazione interna”, vale a dire di una drastica diminuzione dei redditi disponibili, associata a un crollo della domanda interna. Come conseguenza c’è stata una drammatica caduta della produzione nella maggior parte dell’Europa del Sud, associata a un tasso di disoccupazione molto elevato e a un massiccio esodo di forza lavoro da questi paesi verso l’estero.
La zona euro è ormai diventata quella con la più bassa crescita economica al mondo. Le differenze tra i paesi membri, lungi dall’essere state ridotte, si sono invece amplificate molto. Anziché favorire la creazione di un mercato europeo dei capitali, la “moneta unica” si è accompagnata a un aumento dell’indebitamento pubblico e privato nella maggior parte delle nazioni. Eppure, l’esistenza stessa dell’euro, di cui si potrebbero ancora discutere gli effetti, è diventato un argomento assolutamente tabù. Nonostante sia ovvio il suo legame con l’attuale scontento, i sostenitori dell’euro continuano a sventolare di fronte ai francesi i suoi illusori vantaggi (l’unico reale è la facilitazione nei viaggi in Europa). Essi disegnano quadri apocalittici della situazione economica in caso di uscita dalla “moneta unica”, nel tentativo di terrorizzare i francesi che non conoscono bene la questione.
Di fronte a tali argomenti dobbiamo ribadire tutto ciò che la Francia ha perso in materia di crescita economica, il crollo della sua quota di mercato in Europa e nel mondo, il drammatico indebolimento del suo sistema industriale. I francesi stanno già subendo la diminuzione del loro potere di acquisto, dell’occupazione, del pensionamento, della qualità dei servizi pubblici e via dicendo. Le politiche di “svalutazione interna”, che sono essenziali per mantenere in vita l’euro, non sono ancora state pienamente attuate qui da noi, al contrario che in altri paesi dell’Europa del Sud, eppure stanno già provocando forti reazioni contrarie. Il movimento dei “gilet gialli” ne è la conseguenza diretta.
Dobbiamo dunque spiegare ai nostri compatrioti quale sia lo svantaggio principale dell’euro per la Francia, ossia un tasso di cambio troppo elevato che porta, inevitabilmente, a una perdita di competitività della nostra economia, facendo aumentare i prezzi e il costo del lavoro in Francia rispetto alla maggior parte dei paesi stranieri. Dobbiamo evitare di confondere le idee parlando di una eventuale coesistenza tra un nuovo franco e una “moneta comune 2.0”, dotata di tutti i suoi attributi, perché sarebbe un vicolo cieco. Una simile moneta potrebbe essere concepita semplicemente come una “unità di conto”, analogamente al vecchio ECU. Per quanto riguarda la perdita di sovranità a causa dell’euro, sebbene essa sia indubitabile, è però un argomento teorico, lontano dalle preoccupazioni dei francesi, che sono invece sensibili soprattutto alla loro situazione concreta.
A causa della mancata comprensione dei problemi reali, molti dei nostri compatrioti continuano, per il momento, ad avere paura di un qualsiasi sconvolgimento dello status quo, e nel frattempo i sostenitori dell’euro alzano grida ogni volta che il loro feticcio viene messo in discussione. Cosa fare, in questa situazione? Di fronte al malcontento dei francesi, è evidente che non potrà essere condotta alcuna politica di recupero dell’economia in Francia se non si ristabilirà una moneta nazionale il cui tasso di cambio sia adeguato al nostro paese. Ma è altrettanto certo che questo cambiamento dovrà essere fatto in condizioni che siano praticabili e accettate dal popolo francese.
La prima di queste condizioni sarebbe quella di preparare una transizione graduale verso un dopo-euro, possibilmente discutendo coi nostri partner l’organizzazione di uno smantellamento concertato. Nel caso ciò non sia possibile, bisognerà prendere l’iniziativa in modo unilaterale, dopo avere messo in atto le opportune misure di protezione. La seconda condizione è quella di far comprendere ai nostri compatrioti i vantaggi di una “svalutazione monetaria” del nuovo franco, accompagnata a una politica economica coerente, che mantenga un controllo sull’inflazione, come avvenne nel 1958 col generale De Gaulle e poi nel 1969 con Georges Pompidou. Oggi l’inflazione va temuta meno che allora, a causa della sottoutilizzazione delle nostre capacità produttive. L’inevitabile perdita di potere di acquisto, derivante dall’aumento dei costi di alcune delle importazioni, sarà modesta e passeggera, e sarà rapidamente compensata dalla ripresa della produzione nazionale. Il debito pubblico del nostro paese non aumenterebbe, perché verrebbe automaticamente convertito in nuovi franchi (secondo la cosiddetta regola della lex monetae, che prevale in materia di finanza internazionale). La Francia e i francesi recupereranno brillanti prospettive di crescita futura che l’euro ha, finora, costantemente soffocato.
Forum collettivo firmato da Guy BERGER, Hélène CLÉMENT-PITIOT, Daniel FEDOU, Jean-Pierre GERARD, Christian GOMEZ, Jean-Luc GREAU, Laurent HERBLAY, Jean HERNANDEZ, Roland HUREAUX, Gérard LAFAY, Jean-Louis MASSON, Philippe MURER, Pascal PECQUET, Claude ROCHET, Jean-Jacques ROSA, Jacques SAPIR, Henri TEMPLE, Jean-Claude WERREBROUCK, Emmanuel TODD
10 dicembre 2018
A quasi vent’anni dal lancio dell’euro, avvenuto il primo gennaio 1999, la situazione della moneta unica è paradossale. Da un lato, il fallimento di questo progetto è palese, ed è stato riconosciuto dalla maggior parte degli economisti competenti, tra cui molti premi Nobel. Dall’altro lato, questo argomento continua a restare un tabù in Francia, tanto che nessun politico di rilievo osa affrontarlo a testa alta. Come si spiega una situazione del genere?
Nessuno sembra ricollegare l’attuale movimento dei “gilet gialli” al fallimento dell’euro. Eppure, l’impoverimento della maggior parte della popolazione, di cui esso è il segno più manifesto, è la conseguenza diretta delle politiche messe in atto per tentare di salvare a qualsiasi costo la moneta unica europea. Non si sta parlando, qui, dell’allentamento della politica monetaria da parte della Banca Centrale Europea col suo quantitative easing, peraltro inefficace nel rilanciare la produzione. Si sta parlando piuttosto delle politiche fiscali di aumento delle tasse e di diminuzione degli investimenti pubblici che vengono richiesti, ovunque, da parte della Commissione Europea di Bruxelles. Questi hanno, è vero, raddrizzato i conti con l’estero di alcuni paesi che erano in deficit. Al prezzo, però, di una “svalutazione interna”, vale a dire di una drastica diminuzione dei redditi disponibili, associata a un crollo della domanda interna. Come conseguenza c’è stata una drammatica caduta della produzione nella maggior parte dell’Europa del Sud, associata a un tasso di disoccupazione molto elevato e a un massiccio esodo di forza lavoro da questi paesi verso l’estero.
La zona euro è ormai diventata quella con la più bassa crescita economica al mondo. Le differenze tra i paesi membri, lungi dall’essere state ridotte, si sono invece amplificate molto. Anziché favorire la creazione di un mercato europeo dei capitali, la “moneta unica” si è accompagnata a un aumento dell’indebitamento pubblico e privato nella maggior parte delle nazioni. Eppure, l’esistenza stessa dell’euro, di cui si potrebbero ancora discutere gli effetti, è diventato un argomento assolutamente tabù. Nonostante sia ovvio il suo legame con l’attuale scontento, i sostenitori dell’euro continuano a sventolare di fronte ai francesi i suoi illusori vantaggi (l’unico reale è la facilitazione nei viaggi in Europa). Essi disegnano quadri apocalittici della situazione economica in caso di uscita dalla “moneta unica”, nel tentativo di terrorizzare i francesi che non conoscono bene la questione.
Di fronte a tali argomenti dobbiamo ribadire tutto ciò che la Francia ha perso in materia di crescita economica, il crollo della sua quota di mercato in Europa e nel mondo, il drammatico indebolimento del suo sistema industriale. I francesi stanno già subendo la diminuzione del loro potere di acquisto, dell’occupazione, del pensionamento, della qualità dei servizi pubblici e via dicendo. Le politiche di “svalutazione interna”, che sono essenziali per mantenere in vita l’euro, non sono ancora state pienamente attuate qui da noi, al contrario che in altri paesi dell’Europa del Sud, eppure stanno già provocando forti reazioni contrarie. Il movimento dei “gilet gialli” ne è la conseguenza diretta.
Dobbiamo dunque spiegare ai nostri compatrioti quale sia lo svantaggio principale dell’euro per la Francia, ossia un tasso di cambio troppo elevato che porta, inevitabilmente, a una perdita di competitività della nostra economia, facendo aumentare i prezzi e il costo del lavoro in Francia rispetto alla maggior parte dei paesi stranieri. Dobbiamo evitare di confondere le idee parlando di una eventuale coesistenza tra un nuovo franco e una “moneta comune 2.0”, dotata di tutti i suoi attributi, perché sarebbe un vicolo cieco. Una simile moneta potrebbe essere concepita semplicemente come una “unità di conto”, analogamente al vecchio ECU. Per quanto riguarda la perdita di sovranità a causa dell’euro, sebbene essa sia indubitabile, è però un argomento teorico, lontano dalle preoccupazioni dei francesi, che sono invece sensibili soprattutto alla loro situazione concreta.
A causa della mancata comprensione dei problemi reali, molti dei nostri compatrioti continuano, per il momento, ad avere paura di un qualsiasi sconvolgimento dello status quo, e nel frattempo i sostenitori dell’euro alzano grida ogni volta che il loro feticcio viene messo in discussione. Cosa fare, in questa situazione? Di fronte al malcontento dei francesi, è evidente che non potrà essere condotta alcuna politica di recupero dell’economia in Francia se non si ristabilirà una moneta nazionale il cui tasso di cambio sia adeguato al nostro paese. Ma è altrettanto certo che questo cambiamento dovrà essere fatto in condizioni che siano praticabili e accettate dal popolo francese.
La prima di queste condizioni sarebbe quella di preparare una transizione graduale verso un dopo-euro, possibilmente discutendo coi nostri partner l’organizzazione di uno smantellamento concertato. Nel caso ciò non sia possibile, bisognerà prendere l’iniziativa in modo unilaterale, dopo avere messo in atto le opportune misure di protezione. La seconda condizione è quella di far comprendere ai nostri compatrioti i vantaggi di una “svalutazione monetaria” del nuovo franco, accompagnata a una politica economica coerente, che mantenga un controllo sull’inflazione, come avvenne nel 1958 col generale De Gaulle e poi nel 1969 con Georges Pompidou. Oggi l’inflazione va temuta meno che allora, a causa della sottoutilizzazione delle nostre capacità produttive. L’inevitabile perdita di potere di acquisto, derivante dall’aumento dei costi di alcune delle importazioni, sarà modesta e passeggera, e sarà rapidamente compensata dalla ripresa della produzione nazionale. Il debito pubblico del nostro paese non aumenterebbe, perché verrebbe automaticamente convertito in nuovi franchi (secondo la cosiddetta regola della lex monetae, che prevale in materia di finanza internazionale). La Francia e i francesi recupereranno brillanti prospettive di crescita futura che l’euro ha, finora, costantemente soffocato.
Forum collettivo firmato da Guy BERGER, Hélène CLÉMENT-PITIOT, Daniel FEDOU, Jean-Pierre GERARD, Christian GOMEZ, Jean-Luc GREAU, Laurent HERBLAY, Jean HERNANDEZ, Roland HUREAUX, Gérard LAFAY, Jean-Louis MASSON, Philippe MURER, Pascal PECQUET, Claude ROCHET, Jean-Jacques ROSA, Jacques SAPIR, Henri TEMPLE, Jean-Claude WERREBROUCK, Emmanuel TODD
12/12/18
La UE e i segnali premonitori di fascismo
Un articolo del sito off-Guardian descrive con grande lucidità l’evidente deriva della Ue verso un regime totalitario. I tentativi - maldestramente nascosti - di stabilire una “verità ufficiale” e di reprimere ogni pensiero alternativo o di dissenso sono sempre più numerosi ed espliciti. È in questa fase che i pericoli per il popolo sono maggiori, visto che gli eurocrati si rendono conto che stanno perdendo presa sul potere, e potrebbero ricorrere ad azioni estreme per tentare di rimanere in sella.
di Kit Knightly, 10 dicembre 2018
In Europa la situazione sta sfuggendo di mano più velocemente di quanto molti avessero previsto. Oltre alla Brexit, esiste un forte clima anti-Ue in Ungheria, Spagna, Italia, Grecia e Francia. La Ue rischia di crollare, e le persone che temono di perdere il potere tendono a gesti estremi di controllo dittatoriale.
Quanto ci vorrà prima che la Ue diventi effettivamente quella forza autoritaria che entrambi gli estremi dello schieramento politico hanno sempre temuto?
La forza militare europea
All’inizio dell’anno, la Ue ha votato per “punire” un proprio membro, l’Ungheria, per le politiche interne adottate dal suo governo. Chiariamo una cosa – qualsiasi cosa si pensi di Viktor Orban, si tratta di un primo ministro eletto dal popolo ungherese. È il loro leader democratico legalmente riconosciuto. L’Ungheria lo ha votato – al contrario, l’Ungheria NON ha votato alcuno dei 448 parlamentari europei che hanno sostenuto la mozione, posta dal parlamentare olandese Judith Sargentini, che afferma:
“Il popolo ungherese merita di meglio… merita libertà di parola, assenza di discriminazioni, tolleranza, giustizia e uguaglianza, tutte cose che sono sancite dai trattati europei”.
Notiamo che la “democrazia” non è inclusa nella lista. “Tolleranza”, “giustizia” e “uguaglianza”, ma non democrazia. Un lapsus freudiano, forse.
La stessa votazione del Parlamento europeo è stata un nonsenso totale – l’astensione è stata ignorata così da poter raggiungere una maggioranza dei due terzi. È stato forzato un provvedimento che, essenzialmente, richiede un cambio di regime in Ungheria attraverso:
“misure appropriate atte a ristabilire la democrazia inclusiva, lo stato di diritto e il rispetto dei diritti fondamentali”.
Una delle sanzioni suggerite – l’”opzione nucleare” – è stata la perdita del diritto di voto. L’Ungheria rimarrebbe un membro della UE, dovrebbe ancora effettuare i suoi versamenti alla UE, dovrebbe ancora obbedire a tutte le leggi e regole UE, ma non potrebbe più esprimere la sua opinione su quali debbano essere queste leggi.
Tutto questo verrebbe fatto, teoricamente, in difesa della “democrazia inclusiva”.
Quanto ci vorrà prima che la disapprovazione e le misure punitive nei confronti di alcuni leader diventino una rimozione esplicita? Possiamo veramente dire che questo non succederà mai?
Questo mese, a Parigi (e in altre città francesi) abbiamo visto le enormi proteste dei Gilet Gialli contro la tassa sulla benzina, l’austerità e la disuguaglianza. La violenta repressione di queste proteste non ha ricevuto alcuna critica da alcuno stato membro della Ue, o dalla Ue stessa. Tuttavia, un veicolo militare con lo stemma della Ue èstato visto per le strade di Parigi.
Sia Macron sia la Merkel hanno parlato, recentemente, della necessità di un esercito Ue – le proteste francesi verranno usate come pretesto per realizzare questi progetti?
Ipotizziamo che l’esercito Ue venga creato – forniamo all’Unione europea quella “forza di difesa” così fortemente voluta. Presumibilmente 250.000 soldati, provenienti da tutti gli stati membri. Quale sarebbe il loro scopo? Quale la loro funzione?
Per esempio, sarebbero stati usati lo scorso anno in Catalogna, per “mantenere la pace”? Un ipotetico esercito Ue agirebbe contro un voto pacifico per “difendere” l’integrità dell’Unione?
Un possibile ulteriore passo per fronteggiare il governo di Viktor Orban potrebbe essere forse l’utilizzo delle Forze di Difesa Ue a Budapest per rimuovere l’uomo che minaccia l’”uguaglianza”? Potremmo dire che queste sono “misure appropriate per ripristinare la democrazia inclusiva”?
Se si decide che la Brexit è una “minaccia ai diritti umani” (o qualche altra corbelleria), l’esercito Ue potrebbe essere usato nelle strade di Londra per proteggerci da noi stessi?
Ci sono state, e potrebbero esserci, molte situazioni nel passato recente della Ue dove interventi militari sono stati evitati solo perché letteralmente non erano un’opzione possibile. Se un esercito Ue li rendesse possibili, ci fidiamo del fatto che Bruxelles non si avvarrebbe di questa opzione?
Qualcuno sostiene che un esercito Ue sarebbe una cosa buona perché diminuirebbe la dipendenza dell'Europa dalla Nato e ci permetterebbe di sottrarci all’influenza degli Stati Uniti. Non credo che succederebbe, e a dimostrazione porto il fatto che la “Carnegie Endowment for International Peace”, ben nota Ong sostenuta dagli Stati Uniti, è molto favorevole a questo progetto.
Il “Ministero della Verità” della UE
Naturalmente, la crescente probabilità di un "EU consensus" imposto con la forza è solo una parte del problema.
Oltre alla repressione fisica – sia da parte della Ue (della sovranità nazionale) che da parte dello stato (del diritto individuale alla protesta) – ci sono segnali preoccupanti di repressione intellettuale. È in arrivo un giro di vite sulla libertà di espressione e di opinione.
Oggi sul Guardian c’è un articolo che fa paura: La Russia “ha spianato la strada al sequestro delle navi dell’Ucraina con un’ondata di fake news”. Non fa paura a causa del titolo – fa paura per le motivazioni che ci stanno dietro e per le implicazioni sul futuro dell’Europa.
La sostanza dell’articolo è una denuncia totalmente priva di fonti, senza legami logici e senza alcuna prova, di malefatte da parte dei russi; in quanto tale, le si applica il Rasoio di Hitchens.
La prima metà dell’articolo è piena di bugie, omissioni ed errori. È il Guardian, c’è da aspettarselo. Lasciamo perdere gli sproloqui sul colera e le bombe nucleari. Lasciamo perdere gli errori fattuali – anche se sono molti. In questo caso, tutto questo non conta.
Quello che veramente conta è la seconda parte – la “soluzione” proposta al “problema” rispetto al quale questo articolo “reagisce”. Vale a dire, la disinformazione online. In particolare la disinformazione online “russa”.
Julian King, ex ambasciatore del Regno Unito in Francia e ora commissario alla sicurezza Ue, vuole che le società hi-tech prendano provvedimenti per prevenire il diffondersi delle “fake news”. Si tratta di una guerra al dissenso, su tre fronti.
Uno – stabilire la “verità”:
"La scorsa settimana la Commissione europea ha annunciato che imposterà un sistema rapido di allarme per aiutare gli stati membri Ue a riconoscere le campagne di disinformazione."
In pratica, ci sarà una lista approvata dalla Ue di “notizie” accettabili, e tutto quello che se ne discosta, anche in maniera minima, verrà bollato come “disinformazione”. Questo permetterà alla gente di ignorare i punti di vista diversi dal proprio, invece che accettare il confronto.
Due – eliminare il dissenso:
King ha detto che "le piattaforme dei social media devono identificare e chiudere gli account fake che diffondono disinformazione".
Quando parlano di “account fake”, intendono dire quegli account che diffondono “disinformazione”. Essere un “bot” non dipende dal fatto di essere o meno una persona reale, ma dal fatto di avere o meno la giusta opinione. Come è stato dimostrato, loro non sanno o non si preoccupano di chi sia reale o no. Persone perfettamente reali sono state bollate dai media come bot russi, anche quando è stato provato che non erano né russi, né bot. Che questa sia incompetenza o corruzione non importa, il punto è che i governi hanno dimostrato che su questo punto non sono credibili.
Tre – controllare la narrazione dei fatti:
"Abbiamo bisogno di maggiore chiarezza sugli algoritmi, maggiori informazioni su come prioritizzano i contenuti che mostrano, per esempio. Se si cerca qualcosa di legato alla Ue, i contenuti che vengono da siti di propaganda russa come RT o Sputnik sono sempre tra i primi risultati… tutto questo dovrebbe essere soggetto a un controllo e un audit indipendenti."
L’algoritmo di Google permette di mostrare tra i suoi risultati notizie sfavorevoli alla Ur, o direttamente critiche. È inaccettabile. Quello che vuole il Commissario per la sicurezza Ue è che Google “aggiusti” il sistema, assicurando che le notizie che si discostano dall’agenda Ue non vengano mostrate tra i risultati.
Ora, se pensate che questa suoni come censura, non preoccupatevi, perché [grassetto nostro]:
"Quello che cerchiamo di fare non è censurare internet. Non stiamo suggerendo che noi – o chiunque altro – dovrebbe diventare l’arbitro che decide quali siano i contenuti dei quali gli utenti debbano o non debbano usufruire online. Si tratta di trasparenza, non di censura."
L’Ue vuole che Google rimuova certi siti web dai suoi algoritmi, ma è una questione di trasparenza, non di censura. Quindi, tutto ok.
Conclusioni
Per riassumere.
Le due figure più importanti della Ue sono entrambe a favore di un esercito Ue.
La bandiera dell’Ue è stampata su un veicolo militare che reprime le proteste anti-governative in Francia.
L’Ue sta stanziando 5 milioni di euro per “aiutare le persone a riconoscere la disinformazione”.
L’Ue vuole mettere pressione alle società di social media perché “chiudano” gli account che diffondono “fake news”.
L’Ue vuole che Google modifichi i suoi algoritmi per promuovere le notizie che elogiano la Ue e declassare i siti che la criticano.
L’Ue vuole che capiamo che tutto questo è una questione di “trasparenza” e assolutamente NON è censura.
Vi sembra un’organizzazione della quale dovremmo voler far parte? Dovrebbe forse piacerci la “forza di difesa” multinazionale proposta dalla Ue che reprime le manifestazioni anti-Ue nelle strade di Barcellona o di Roma? Dovremmo rallegrarci all’idea che l’esercito Ue possa essere mandato negli stati membri che non cooperano, per rimuovere “pericolosi” leader eletti perché rappresentano un pericolo per l’”uguaglianza”?
Non potremmo nemmeno arrivare alla verità su queste questioni, perché la Ue fornirà liste di account che diffondono “fake news” sui social media a Twitter e Facebook, che diligentemente li chiuderanno. Mentre Google modificherà sempre di più i suoi algoritmi per fare in modo che ogni notizia riguardante la repressione della democrazia da parte della Ue venga spinta così in fondo nella pagina dei risultati che sarebbe uguale se non ci fosse.
La stampa britannica, i sapientoni e i commentatoroni si riferiscono continuamente alla “crisi-Brexit”, ma si tratta solo di isterismo e di un tentativo di incutere paura. Ri-negoziare la tua posizione all’interno di un accordo di scambio commerciale NON è una crisi. Una crisi è quello che succede quando una struttura di potere, non eletta e burocratica, improvvisamente si rende conto che sta perdendo presa sul potere, e agisce di conseguenza.
E potrebbe benissimo esserci una crisi all’orizzonte. I segni ci sono, se si vuole vederli.
di Kit Knightly, 10 dicembre 2018
In Europa la situazione sta sfuggendo di mano più velocemente di quanto molti avessero previsto. Oltre alla Brexit, esiste un forte clima anti-Ue in Ungheria, Spagna, Italia, Grecia e Francia. La Ue rischia di crollare, e le persone che temono di perdere il potere tendono a gesti estremi di controllo dittatoriale.
Quanto ci vorrà prima che la Ue diventi effettivamente quella forza autoritaria che entrambi gli estremi dello schieramento politico hanno sempre temuto?
La forza militare europea
All’inizio dell’anno, la Ue ha votato per “punire” un proprio membro, l’Ungheria, per le politiche interne adottate dal suo governo. Chiariamo una cosa – qualsiasi cosa si pensi di Viktor Orban, si tratta di un primo ministro eletto dal popolo ungherese. È il loro leader democratico legalmente riconosciuto. L’Ungheria lo ha votato – al contrario, l’Ungheria NON ha votato alcuno dei 448 parlamentari europei che hanno sostenuto la mozione, posta dal parlamentare olandese Judith Sargentini, che afferma:
“Il popolo ungherese merita di meglio… merita libertà di parola, assenza di discriminazioni, tolleranza, giustizia e uguaglianza, tutte cose che sono sancite dai trattati europei”.
Notiamo che la “democrazia” non è inclusa nella lista. “Tolleranza”, “giustizia” e “uguaglianza”, ma non democrazia. Un lapsus freudiano, forse.
La stessa votazione del Parlamento europeo è stata un nonsenso totale – l’astensione è stata ignorata così da poter raggiungere una maggioranza dei due terzi. È stato forzato un provvedimento che, essenzialmente, richiede un cambio di regime in Ungheria attraverso:
“misure appropriate atte a ristabilire la democrazia inclusiva, lo stato di diritto e il rispetto dei diritti fondamentali”.
Una delle sanzioni suggerite – l’”opzione nucleare” – è stata la perdita del diritto di voto. L’Ungheria rimarrebbe un membro della UE, dovrebbe ancora effettuare i suoi versamenti alla UE, dovrebbe ancora obbedire a tutte le leggi e regole UE, ma non potrebbe più esprimere la sua opinione su quali debbano essere queste leggi.
Tutto questo verrebbe fatto, teoricamente, in difesa della “democrazia inclusiva”.
Quanto ci vorrà prima che la disapprovazione e le misure punitive nei confronti di alcuni leader diventino una rimozione esplicita? Possiamo veramente dire che questo non succederà mai?
Questo mese, a Parigi (e in altre città francesi) abbiamo visto le enormi proteste dei Gilet Gialli contro la tassa sulla benzina, l’austerità e la disuguaglianza. La violenta repressione di queste proteste non ha ricevuto alcuna critica da alcuno stato membro della Ue, o dalla Ue stessa. Tuttavia, un veicolo militare con lo stemma della Ue èstato visto per le strade di Parigi.
Sia Macron sia la Merkel hanno parlato, recentemente, della necessità di un esercito Ue – le proteste francesi verranno usate come pretesto per realizzare questi progetti?
Ipotizziamo che l’esercito Ue venga creato – forniamo all’Unione europea quella “forza di difesa” così fortemente voluta. Presumibilmente 250.000 soldati, provenienti da tutti gli stati membri. Quale sarebbe il loro scopo? Quale la loro funzione?
Per esempio, sarebbero stati usati lo scorso anno in Catalogna, per “mantenere la pace”? Un ipotetico esercito Ue agirebbe contro un voto pacifico per “difendere” l’integrità dell’Unione?
Un possibile ulteriore passo per fronteggiare il governo di Viktor Orban potrebbe essere forse l’utilizzo delle Forze di Difesa Ue a Budapest per rimuovere l’uomo che minaccia l’”uguaglianza”? Potremmo dire che queste sono “misure appropriate per ripristinare la democrazia inclusiva”?
Se si decide che la Brexit è una “minaccia ai diritti umani” (o qualche altra corbelleria), l’esercito Ue potrebbe essere usato nelle strade di Londra per proteggerci da noi stessi?
Ci sono state, e potrebbero esserci, molte situazioni nel passato recente della Ue dove interventi militari sono stati evitati solo perché letteralmente non erano un’opzione possibile. Se un esercito Ue li rendesse possibili, ci fidiamo del fatto che Bruxelles non si avvarrebbe di questa opzione?
Qualcuno sostiene che un esercito Ue sarebbe una cosa buona perché diminuirebbe la dipendenza dell'Europa dalla Nato e ci permetterebbe di sottrarci all’influenza degli Stati Uniti. Non credo che succederebbe, e a dimostrazione porto il fatto che la “Carnegie Endowment for International Peace”, ben nota Ong sostenuta dagli Stati Uniti, è molto favorevole a questo progetto.
Il “Ministero della Verità” della UE
Naturalmente, la crescente probabilità di un "EU consensus" imposto con la forza è solo una parte del problema.
Oltre alla repressione fisica – sia da parte della Ue (della sovranità nazionale) che da parte dello stato (del diritto individuale alla protesta) – ci sono segnali preoccupanti di repressione intellettuale. È in arrivo un giro di vite sulla libertà di espressione e di opinione.
Oggi sul Guardian c’è un articolo che fa paura: La Russia “ha spianato la strada al sequestro delle navi dell’Ucraina con un’ondata di fake news”. Non fa paura a causa del titolo – fa paura per le motivazioni che ci stanno dietro e per le implicazioni sul futuro dell’Europa.
La sostanza dell’articolo è una denuncia totalmente priva di fonti, senza legami logici e senza alcuna prova, di malefatte da parte dei russi; in quanto tale, le si applica il Rasoio di Hitchens.
La prima metà dell’articolo è piena di bugie, omissioni ed errori. È il Guardian, c’è da aspettarselo. Lasciamo perdere gli sproloqui sul colera e le bombe nucleari. Lasciamo perdere gli errori fattuali – anche se sono molti. In questo caso, tutto questo non conta.
Quello che veramente conta è la seconda parte – la “soluzione” proposta al “problema” rispetto al quale questo articolo “reagisce”. Vale a dire, la disinformazione online. In particolare la disinformazione online “russa”.
Julian King, ex ambasciatore del Regno Unito in Francia e ora commissario alla sicurezza Ue, vuole che le società hi-tech prendano provvedimenti per prevenire il diffondersi delle “fake news”. Si tratta di una guerra al dissenso, su tre fronti.
Uno – stabilire la “verità”:
"La scorsa settimana la Commissione europea ha annunciato che imposterà un sistema rapido di allarme per aiutare gli stati membri Ue a riconoscere le campagne di disinformazione."
In pratica, ci sarà una lista approvata dalla Ue di “notizie” accettabili, e tutto quello che se ne discosta, anche in maniera minima, verrà bollato come “disinformazione”. Questo permetterà alla gente di ignorare i punti di vista diversi dal proprio, invece che accettare il confronto.
Due – eliminare il dissenso:
King ha detto che "le piattaforme dei social media devono identificare e chiudere gli account fake che diffondono disinformazione".
Quando parlano di “account fake”, intendono dire quegli account che diffondono “disinformazione”. Essere un “bot” non dipende dal fatto di essere o meno una persona reale, ma dal fatto di avere o meno la giusta opinione. Come è stato dimostrato, loro non sanno o non si preoccupano di chi sia reale o no. Persone perfettamente reali sono state bollate dai media come bot russi, anche quando è stato provato che non erano né russi, né bot. Che questa sia incompetenza o corruzione non importa, il punto è che i governi hanno dimostrato che su questo punto non sono credibili.
Tre – controllare la narrazione dei fatti:
"Abbiamo bisogno di maggiore chiarezza sugli algoritmi, maggiori informazioni su come prioritizzano i contenuti che mostrano, per esempio. Se si cerca qualcosa di legato alla Ue, i contenuti che vengono da siti di propaganda russa come RT o Sputnik sono sempre tra i primi risultati… tutto questo dovrebbe essere soggetto a un controllo e un audit indipendenti."
L’algoritmo di Google permette di mostrare tra i suoi risultati notizie sfavorevoli alla Ur, o direttamente critiche. È inaccettabile. Quello che vuole il Commissario per la sicurezza Ue è che Google “aggiusti” il sistema, assicurando che le notizie che si discostano dall’agenda Ue non vengano mostrate tra i risultati.
Ora, se pensate che questa suoni come censura, non preoccupatevi, perché [grassetto nostro]:
"Quello che cerchiamo di fare non è censurare internet. Non stiamo suggerendo che noi – o chiunque altro – dovrebbe diventare l’arbitro che decide quali siano i contenuti dei quali gli utenti debbano o non debbano usufruire online. Si tratta di trasparenza, non di censura."
L’Ue vuole che Google rimuova certi siti web dai suoi algoritmi, ma è una questione di trasparenza, non di censura. Quindi, tutto ok.
Conclusioni
Per riassumere.
Le due figure più importanti della Ue sono entrambe a favore di un esercito Ue.
La bandiera dell’Ue è stampata su un veicolo militare che reprime le proteste anti-governative in Francia.
L’Ue sta stanziando 5 milioni di euro per “aiutare le persone a riconoscere la disinformazione”.
L’Ue vuole mettere pressione alle società di social media perché “chiudano” gli account che diffondono “fake news”.
L’Ue vuole che Google modifichi i suoi algoritmi per promuovere le notizie che elogiano la Ue e declassare i siti che la criticano.
L’Ue vuole che capiamo che tutto questo è una questione di “trasparenza” e assolutamente NON è censura.
Vi sembra un’organizzazione della quale dovremmo voler far parte? Dovrebbe forse piacerci la “forza di difesa” multinazionale proposta dalla Ue che reprime le manifestazioni anti-Ue nelle strade di Barcellona o di Roma? Dovremmo rallegrarci all’idea che l’esercito Ue possa essere mandato negli stati membri che non cooperano, per rimuovere “pericolosi” leader eletti perché rappresentano un pericolo per l’”uguaglianza”?
Non potremmo nemmeno arrivare alla verità su queste questioni, perché la Ue fornirà liste di account che diffondono “fake news” sui social media a Twitter e Facebook, che diligentemente li chiuderanno. Mentre Google modificherà sempre di più i suoi algoritmi per fare in modo che ogni notizia riguardante la repressione della democrazia da parte della Ue venga spinta così in fondo nella pagina dei risultati che sarebbe uguale se non ci fosse.
La stampa britannica, i sapientoni e i commentatoroni si riferiscono continuamente alla “crisi-Brexit”, ma si tratta solo di isterismo e di un tentativo di incutere paura. Ri-negoziare la tua posizione all’interno di un accordo di scambio commerciale NON è una crisi. Una crisi è quello che succede quando una struttura di potere, non eletta e burocratica, improvvisamente si rende conto che sta perdendo presa sul potere, e agisce di conseguenza.
E potrebbe benissimo esserci una crisi all’orizzonte. I segni ci sono, se si vuole vederli.
11/12/18
Prime riflessioni sugli "événements de décembre” in Francia
Un breve post sul blog Global Inequality sottolinea due lezioni che possiamo trarre dalla rivolta dei Gilet Jaunes: in primo luogo, l'ipocrisia insita in alcuni aspetti della retorica della "decrescita" (più o meno felice) e dell'ambientalismo, che spesso nasconde un programma di impoverimento generale e di inasprimento delle diseguaglianze; in secondo luogo l'elitismo e la distanza dalla popolazione dei leader incensati dai media in quanto progressisti e vincenti, come Macron e la Clinton. Ora è però necessario vigilare perché il legittimo risentimento popolare non venga dirottato in senso radicale e violento, poiché ciò potrebbe sfociare in un risultato diametralmente opposto.
Branko Milanovic, 5 dicembre 2018
I recenti fatti accaduti in Francia, eventi che visti da fuori appaiono meno drammatici che dall’interno, sollevano due questioni importanti: una nuova, l'altra "storica". È infatti un caso che la goccia che ha fatto traboccare il vaso sia stata una tassa sul carburante che colpiva soprattutto le aree rurali e suburbane, le popolazioni con redditi relativamente modesti. Apparentemente il punto non era tanto l'entità dell'aumento, ma il fatto che esso ha contribuito a intensificare un sentimento molto diffuso: che oggi, dopo aver già pagato i costi della globalizzazione, delle politiche neoliberiste, della delocalizzazione, della concorrenza con la manodopera straniera più economica e del deterioramento dei servizi sociali, a tutto questo si aggiunga quella che è considerata, probabilmente non in modo del tutto infondato, una tassa elitaria sul cambiamento climatico.
Ciò solleva un problema più generale che ho precedentemente discusso nella mia polemica con Jason Hickel e Kate Raworth. I fautori della decrescita, e coloro che sostengono sia necessario prendere provvedimenti drastici per quanto riguarda il cambiamento climatico, sono stranamente evasivi e riservati quando si tratta di precisare a chi toccherebbe sostenere i costi di queste misure. Come ho fatto presente a Jason e Kate durante questa discussione, se fossero seri dovrebbero uscire allo scoperto e dire chiaramente all'opinione pubblica dei paesi occidentali che i loro redditi reali dovrebbero essere dimezzati, e spiegare anche come intendono farlo. Ovviamente i decrescisti sanno che un programma del genere sarebbe un suicidio politico, quindi preferiscono rimanere nel vago e mascherare la questione sotto la retorica "falsamente comunitaria" che [il cambiamento climatico] ci influenzerebbe tutti e che in qualche modo l'economia prospererebbe se tutti prendessimo coscienza del problema - senza mai dirci quali tasse specifiche vorrebbero aumentare o in che modo intendono ridurre i redditi delle persone.
La rivolta francese porta ora questo problema allo scoperto. Le classi medie occidentali, già colpite dalle ricadute della globalizzazione, sembrano non voler pagare un’ulteriore tassa sul cambiamento climatico. Si spera che adesso i decrescisti abbiano capito l’importanza di avere piani concreti.
Il secondo problema è "storico". È il problema della divisione tra le élite politiche e una parte significativa della popolazione. L’ascesa di Macron si è realizzata su una piattaforma apparentemente anti-mainstream, e il suo eterogeneo partito è stato creato appena prima delle elezioni. Ma le sue politiche sono state fin dall’inizio a favore dei ricchi, una sorta di rivisitazione del thatcherismo. Si è trattato inoltre di politiche molto elitarie, spesso disdegnose dell'opinione pubblica. È alquanto bizzarro che questa presidenza, per sua stessa ammissione "napoleonica”, sia stata glorificata dalla stampa liberal, in particolare quella di lingua inglese, sebbene la sua politica interna fosse fortemente pro-capitalistica, e quindi non dissimile da quella di Trump. Ma poiché la retorica internazionale di Macron (ma solo la retorica) era anti-Trump, la sua politica interna passava in secondo piano.
In più, poco saggiamente, Macron ha approfondito la separazione tra sé e la gente comune, sia per le sue abitudini patrizie che per la tendenza a dispensare lezioni paternalistiche, che a volte sono degenerate nell'assurdo (come quando ha passato diversi minuti a insegnare a un bambino di 12 anni il modo corretto di rivolgersi al presidente). Nel momento in cui più che mai i ceti popolari occidentali si aspettavano dai politici che mostrassero almeno un minimo di empatia, Macron ha scelto la prospettiva opposta di colpevolizzare le persone per la loro incapacità di avere successo o di trovare un lavoro (dicendo loro che per fare ciò bastava uscire di casa). Ha quindi commesso lo stesso errore di Hillary Clinton con il suo infelice commento sui "deplorables". Non sorprende che i sondaggi sul suo gradimento abbiano subìto un crollo, e, a quanto pare, neanche questi colgono appieno l'entità del disprezzo in cui è tenuto da molti.
È in tali condizioni che si sono verificati "gli eventi". Il pericolo è tuttavia che un’ulteriore radicalizzazione, e in particolare se violenta, comprometta i loro obiettivi originari. Non dimentichiamo che le manifestazioni del maggio 1968, dopo aver spinto de Gaulle a rifugiarsi a Baden-Baden, pochi mesi dopo gli consegnarono una delle più grandi vittorie elettorali, a causa della violenza dei manifestanti e degli errori commessi nella gestione di quella grande opportunità politica.
Branko Milanovic, 5 dicembre 2018
I recenti fatti accaduti in Francia, eventi che visti da fuori appaiono meno drammatici che dall’interno, sollevano due questioni importanti: una nuova, l'altra "storica". È infatti un caso che la goccia che ha fatto traboccare il vaso sia stata una tassa sul carburante che colpiva soprattutto le aree rurali e suburbane, le popolazioni con redditi relativamente modesti. Apparentemente il punto non era tanto l'entità dell'aumento, ma il fatto che esso ha contribuito a intensificare un sentimento molto diffuso: che oggi, dopo aver già pagato i costi della globalizzazione, delle politiche neoliberiste, della delocalizzazione, della concorrenza con la manodopera straniera più economica e del deterioramento dei servizi sociali, a tutto questo si aggiunga quella che è considerata, probabilmente non in modo del tutto infondato, una tassa elitaria sul cambiamento climatico.
Ciò solleva un problema più generale che ho precedentemente discusso nella mia polemica con Jason Hickel e Kate Raworth. I fautori della decrescita, e coloro che sostengono sia necessario prendere provvedimenti drastici per quanto riguarda il cambiamento climatico, sono stranamente evasivi e riservati quando si tratta di precisare a chi toccherebbe sostenere i costi di queste misure. Come ho fatto presente a Jason e Kate durante questa discussione, se fossero seri dovrebbero uscire allo scoperto e dire chiaramente all'opinione pubblica dei paesi occidentali che i loro redditi reali dovrebbero essere dimezzati, e spiegare anche come intendono farlo. Ovviamente i decrescisti sanno che un programma del genere sarebbe un suicidio politico, quindi preferiscono rimanere nel vago e mascherare la questione sotto la retorica "falsamente comunitaria" che [il cambiamento climatico] ci influenzerebbe tutti e che in qualche modo l'economia prospererebbe se tutti prendessimo coscienza del problema - senza mai dirci quali tasse specifiche vorrebbero aumentare o in che modo intendono ridurre i redditi delle persone.
La rivolta francese porta ora questo problema allo scoperto. Le classi medie occidentali, già colpite dalle ricadute della globalizzazione, sembrano non voler pagare un’ulteriore tassa sul cambiamento climatico. Si spera che adesso i decrescisti abbiano capito l’importanza di avere piani concreti.
Il secondo problema è "storico". È il problema della divisione tra le élite politiche e una parte significativa della popolazione. L’ascesa di Macron si è realizzata su una piattaforma apparentemente anti-mainstream, e il suo eterogeneo partito è stato creato appena prima delle elezioni. Ma le sue politiche sono state fin dall’inizio a favore dei ricchi, una sorta di rivisitazione del thatcherismo. Si è trattato inoltre di politiche molto elitarie, spesso disdegnose dell'opinione pubblica. È alquanto bizzarro che questa presidenza, per sua stessa ammissione "napoleonica”, sia stata glorificata dalla stampa liberal, in particolare quella di lingua inglese, sebbene la sua politica interna fosse fortemente pro-capitalistica, e quindi non dissimile da quella di Trump. Ma poiché la retorica internazionale di Macron (ma solo la retorica) era anti-Trump, la sua politica interna passava in secondo piano.
In più, poco saggiamente, Macron ha approfondito la separazione tra sé e la gente comune, sia per le sue abitudini patrizie che per la tendenza a dispensare lezioni paternalistiche, che a volte sono degenerate nell'assurdo (come quando ha passato diversi minuti a insegnare a un bambino di 12 anni il modo corretto di rivolgersi al presidente). Nel momento in cui più che mai i ceti popolari occidentali si aspettavano dai politici che mostrassero almeno un minimo di empatia, Macron ha scelto la prospettiva opposta di colpevolizzare le persone per la loro incapacità di avere successo o di trovare un lavoro (dicendo loro che per fare ciò bastava uscire di casa). Ha quindi commesso lo stesso errore di Hillary Clinton con il suo infelice commento sui "deplorables". Non sorprende che i sondaggi sul suo gradimento abbiano subìto un crollo, e, a quanto pare, neanche questi colgono appieno l'entità del disprezzo in cui è tenuto da molti.
È in tali condizioni che si sono verificati "gli eventi". Il pericolo è tuttavia che un’ulteriore radicalizzazione, e in particolare se violenta, comprometta i loro obiettivi originari. Non dimentichiamo che le manifestazioni del maggio 1968, dopo aver spinto de Gaulle a rifugiarsi a Baden-Baden, pochi mesi dopo gli consegnarono una delle più grandi vittorie elettorali, a causa della violenza dei manifestanti e degli errori commessi nella gestione di quella grande opportunità politica.
J. A. Kregel - Crescita e moneta unica: il paradosso della politica fiscale (Allegato alla "Politeia" di Savona)
Una esauriente e approfondita scheda esplicativa sullo studio intitolato "Crescita e moneta unica: il paradosso della politica fiscale" elaborato dall'economista J. A. Kregel e allegato al documento "Una politeia per un’Europa diversa, più forte e più equa" che il Ministro Paolo Savona ha proposto come base di discussione al Consiglio europeo al fine di verificare la reale rispondenza della architettura europea agli obiettivi di crescita di piena occupazione e di stabilità che sarebbero alla base dei trattati. Il documento di Kregel, estremamente significativo, dimostra su base scientifica la natura paradossale dell'impianto della moneta unica, che con le sue regole di rigore fiscale nel lungo periodo non può che portare o a condizioni di stagnazione permanente o ad un'intrinseca fragilità finanziaria tipica di uno schema Ponzi, che si scaricherebbe sul resto del mondo. Una follia economica.
Ringraziamo il curatore della scheda Beppe Vandai, che ha spesso collaborato con Vocidallestero traducendo articoli di particolare rilevanza. Beppe, di formazione filosofica, vive da 32 anni in Germania e ha fondato ad Heidelberg il circolo di discussione politico-culturale Volta la Carta!! e a Treviso il circolo Risorse, sui temi dell'economia.
Scheda a cura di Beppe Vandai sul documento di Jan A. Kregel* "Crescita e moneta unica: il paradosso della politica fiscale"
*Jan A. Kregel è un importante economista post-Keynesiano, direttore del programma «Politica monetaria» presso il Levy Economic Institute of Bard College e professore di Development Finance presso la Tallinn University of Technology. Ex professore di Economia Politica presso l’Università degli Studi di Bologna ed ex professore di Economia Internazionale presso il Johns Hopkins University’s Paul Nitze School of Advanced International Studies, dove è stato anche direttore associato del Bologna Center dal 1987 al 1990.
La Moneta unica e la stabilità del cambio
Con il sistema di Bretton Woods i tassi di cambio tra le monete erano fissi, ma modificabili di comune accordo. La moneta di riferimento era il dollaro statunitense, a sua volta scambiabile ad un tasso con l’oro, fisso e immodificabile. Nel 1971–73 questo sistema collassò e lasciò il posto in breve tempo alla pratica dei cambi flessibili tra le monete. Negli anni settanta del secolo scorso però l’Europa comunitaria avviò il progetto della moneta unica. La fase preparatoria doveva consistere nel sistema del serpente monetario a banda stretta (solo ± 1%, poi ± 2,5%). Entrambi i tentativi si dimostrarono di difficilissima realizzazione.
La moneta unica europea, varata nel 1999, introduceva due grandi novità:
Cambi fissi all’interno dell’Eurozona, ma variabili tra Euro e resto del mondo, impediscono il libero aggiustamento tra la moneta di ogni singolo paese dell’Eurozona ed il resto del mondo; il rapporto risulta infatti sempre mediato dal rapporto tra Euro e la moneta extra-Euro in questione. Ad esempio, se l’Euro in certo periodo fosse risultato essere più forte rispetto al dollaro di quanto sarebbe stato lo scudo portoghese, le merci portoghesi offerte in euro al di fuori dell’Eurozona sarebbero risultate più care; ergo: calo della loro vendita e peggioramento della bilancia commerciale portoghese. Viceversa, se l’Euro fosse risultato essere più debole rispetto al dollaro di quanto sarebbe stato il marco tedesco, le merci tedesche sarebbero risultate più facilmente vendibili al di fuori dell’Eurozona; ergo: miglioramento della bilancia commerciale tedesca verso l’area extra-eurozona. In breve: aumenta la divaricazione tra paesi più competitivi e paesi meno competitivi dell’Eurozona. I primi risultano favoriti, i secondi sfavoriti.
Essendo l’Euro emesso da una istituzione scollegata da un governo e da un bilancio nazionali o sovranazionali, spariva la coordinazione tra la creazione di liquidità e i tassi di interesse e la politica fiscale. Di nuovo: risultavano impossibili manovre differenziate di stimolo o di raffreddamento delle economie nazionali. Ne risultavano svantaggiati i meno competitivi, avvantaggiati i più competitivi
Aggiustamenti interni agli squilibri esterni
Con la moneta unica, venendo a mancare l’aggiustamento tra le valute nazionali precedenti all’Euro, la variabile di maggiore impatto per i riequilibri tra le economie nazionali diventava il livello dei salari. Un paese con un problema di bilancia commerciale negativa non poteva fare altro che cercare di tenere bassi i salari o di comprimerli. In teoria nulla vieterebbe che accadesse il contrario, cioè che i paesi più concorrenziali aumentassero i salari di più rispetto ai meno concorrenziali, ma la logica economica vigente in Europa sembra non considerare questa variante. Solo il miglioramento della bilancia commerciale dell’Eurozona verso il resto del mondo viene presa in considerazione.
La conseguenza: una compressione sulla domanda aggregata dell’Eurozona e una tendenza inevitabilmente deflazionista. Cioè: riduzione o azzeramento dell’inflazione o addirittura deflazione pura. Ovviamente, ne conseguono tassi di interesse calanti o addirittura negativi e aumento della disoccupazione e del lavoro precario.
Che queste sarebbero state le conseguenze era inciso nel corpo della costituzione materiale europea voluto con l’Atto unico europeo (1986) e con il Trattato di Maastricht (1992). Infatti, vi si disinnescava in modo crescente anche l’unica leva che in teoria rimaneva a disposizione per controbilanciare gli squilibri: quella fiscale, cioè il finanziamento di politiche pubbliche volte a stimolare la domanda aggregata (consumi e investimenti). La tendenza a rendere inservibile la leva fiscale si incrudì con il Fiscal compact ed il Six Pack (2012), allorché si iniziò a prescrivere il pareggio o il surplus del bilancio statale. Con ciò il bilancio pubblico, nota Kregel, viene trattato come quello di qualsiasi ente privato.
Con un’unica gestione dei tassi di interesse da parte della Banca Centrale Europea prese le mosse un’altra distorsione delle regole classiche di funzionamento delle economie di mercato: quella del rapporto tra livello di rischio e i tassi di interesse. Infatti, dando la sensazione che con l’Euro non c’erano più differenti rischi di credito, i tassi di interesse nominali iniziarono rapidamente ad uniformarsi nell’Eurozona. Così, i governi dei paesi meno competitivi, nel primo decennio dell’Euro, poterono stimolare la spesa pubblica per evitare di giungere alla compressione salariale e alla spinta deflazionista sulle proprie economie.
Con la crisi finanziaria del 2008, però, il re era nudo. Il sistema creditizio si rimise a prezzare in modo differenziato il rischio del finanziamento sia ai privati che agli stati. Iniziò la ben nota storia degli spread. Interessi improvvisamente molto alti per i paesi meno competitivi, cioè meno sicuri, iniziarono a strangolare sia il settore pubblico che quello privato di questi paesi. L’Eurozona rispose con i Fondi salva-stati. Vista la loro insufficienza, nel 2012 Draghi dovette pronunciare il famoso “what it takes”. La BCE dichiarò che l’acquisto di titoli di stato (poi anche privati) sul mercato secondario sarebbe proseguito, anzi si sarebbe allargato.
Primi riconoscimenti dell'impatto della politica monetaria e delle restrizioni fiscali
J. KREGEL cita ampiamente “Derailed” (“Deragliati”), il breve scritto di Winne Godley del 1993. Godley, uno dei principali esponenti della scuola post-keynesiana, spiegò già allora come il ‘grosso buco nel Trattato di Maastricht’ fosse la mancanza di una politica fiscale adeguata, o meglio, la contraddizione tra una politica monetaria centralizzata e politiche fiscali decentrate e depotenziate. La politica monetaria e quella fiscale dovrebbero invece essere coerenti in questo senso: la politica fiscale deve risolvere i problemi che quella monetaria crea, e viceversa. Perciò devono essere pensate centralmente. In uno stato democratico, entrambe vanno gestite da istituzioni democraticamente elette e collocate allo stesso livello, non dovrebbero essere dirette da centri tecnocratici, tanto più se questi usano il ‘pilota automatico’.
La crisi finanziaria del 2009 e la politica fiscale straordinaria. Rafforzare i vincoli fiscali riduce la flessibilità della risposta alla crisi
Una volta che i nodi vennero al pettine, nel 2009, l’Eurozona non volle riconoscere che la costruzione dell’Euro era diventata insostenibile, mancando di una politica fiscale di sostegno della domanda aggregata e degli investimenti. Invece di provvedere in tal senso si inasprì ulteriormente la stretta sui bilanci statali. Perché? Per mantenere forte l’Euro, addirittura per rafforzarlo. Si anteponeva cioè il cambio della moneta all’equilibrio macroeconomico dell’intera area. Ne risultò una tendenza deflazionistica che punì ampi strati della popolazione. Per metterci una pezza Draghi agì di nuovo con la leva monetaria, iniziando il Quantitative easing. Il risultato fu di guadagnare tempo senza risolvere la contraddizione-base dell’Eurozona.
Stabilità fiscale e fragilità finanziaria
Con il 2012 l’Eurozona – grazie al Fiscal compact – ha reso ancora più paradossale la propria politica economica. Esigendo che gli stati giungessero, per di più in fretta, al pareggio di bilancio, per poi passare al surplus di bilancio, imponeva loro di fare il cosiddetto hedge financing, cioè di avere un flusso di cassa sicuro e in grado di pagare puntualmente sia gli interessi per un debito contratto che il debito stesso. Come si può centrare in generale questo obiettivo? Di solito con un mix di crescita sufficiente del PIL e inflazione, magari anche con moderati aumenti della tassazione. Ma il nocciolo del problema rimane la crescita del PIL. E questa da dove può venire? Dato il Fiscal compact, il mercato interno non può assolvere questo compito, visto che si riduce il reddito disponibile per i consumi e gli investimenti. Non resta in teoria che la domanda estera. Ma qui ci si incaglia su una grave difficoltà, sull’Euro stesso. Per i paesi che devono ridurre il deficit c’è un primo problema: siccome il grosso delle esportazioni dei paesi dell’Eurozona sono interne alla stessa e non sono più possibili degli aggiustamenti di cambio per le economie in difficoltà, non resta che la cosiddetta “svalutazione interna”, cioè il calo dei prezzi dei beni e dei servizi, ovvero una forte disinflazione. Come si fa? Riducendo i salari in termini reali. A questo punto è però certa la decrescita interna e non è chiaro se l’aumento delle esportazioni sarà superiore alla decrescita. A ciò si aggiunga che la terapia del Fiscal compact viene consigliata e somministrata contemporaneamente a tutti i paesi dell’Eurozona. Non si capisce come questo schema possa funzionare. I maggiori successi, senza danni collaterali, dovrebbe offrirli l’export verso paesi esterni all’eurozona. È pensabile che, seguendo tutti l’esempio tedesco, stringendo la cinghia e aumentando la competitività, l’intera eurozona raddoppi il surplus commerciale con il resto del mondo, passando da un surplus annuo di 400 mld. € a 800 mld. €. Ma il resto del mondo accetterà questa enorme pressione mercantilistica? E poi, una tale strategia può avere successo sul medio-lungo periodo? L’Euro aumenterebbe di valore, le merci dell’eurozona diventerebbero più care per gli acquirenti esteri. A quel punto il surplus si ridurrebbe. Ci sarebbe sempre la strada della manipolazione del valore delle moneta. Si comprerebbero allora, alla grande, assets esteri. L’estero si indebiterebbe sempre di più. Lo si costringerebbe a passare a forme di finanza speculativa e rischiosa. Ad un certo punto gli assets finanziari esteri comperati dall’eurozona perderebbero di valore. In casi estremi diventerebbero carta straccia. Pensando la cosa fino in fondo, eccolo il futuro radioso che la filosofia eurista ci offrirebbe!
**** NOTA BENE: KREGEL mette a frutto concetti elaborati da Hyman Minsky e con essi testa sia la teoria che la pratica eurista. Centrale è la constatazione che per chiunque, impresa, famiglia o stato sono possibili tre scenari creditizi: lo hedge financing, lo speculative financing e il Ponzi financing. Che si intende con questo? Si ha hedge financing (finanza coperta) quando il debitore è in grado di sostenere puntualmente, con il suo flusso di risorse, sia il pagamento degli interessi che la restituzione del capitale. In genere dà anche in garanzia dei beni o dei titoli finanziari. Si ha speculative financing (finanza speculativa) quando il flusso di cassa riesce a coprire gli interessi maturati, ma il debitore non è in grado di restituire per tempo il capitale o parte del capitale prestato. Si hanno dunque continue ricontrattazioni del debito. Se nulla cambia nel flusso di cassa, ad un certo punto si avrà l’insolvenza del debitore. Si ha Ponzi financing (finanza alla Ponzi) quando il debitore non ha nemmeno un flusso di cassa per pagare gli interessi sul debito contratto. Il ‘nostro’ Ponzi (dal nome di un imbroglione italo-americano) punta sul fatto che gli assets che ha comperato aumentino talmente di valore da poter ripagare sia interessi che capitale. Di solito finisce malissimo. La crisi americana dei subprime calza a pennello per illustrare questo caso. Negli USA il sistema finanziario, per alimentare la crescita dell’economia, spinse parecchia gente a vestire i panni del ‘buon’ Ponzi. Com’ è andata a finire lo sappiamo. Minsky ha analizzato anche come si creano cicli finanziari in cui un sistema economico passa per le tre tappe del tipo di indebitamento. È giunto anche alla conclusione che è soprattutto l’indebitamento privato ad essere labile e pericoloso. Kregel usa il suo armamentario concettuale per sottolineare che, nel caso europeo, la volontà stessa di hedge financing, male intesa, conduce involontariamente paesi o settori economici verso lo speculative financing o addirittura al Ponzi financing. *****************
Stabilità fiscale, fragilità finanziaria : il paradosso della politica fiscale
Il combinato di Fiscal Compact (FC) + Six Pack europeo (SPE) chiama gli stati dell’eurozona alla riduzione del rapporto Debito Pubblico (DP)/PIL fino alla soglia del 60% entro 20 anni. Al momento solo tre piccoli stati (Estonia, Lussemburgo e Lettonia) sono al disotto di quella soglia. Per l’Italia la forbice che andrebbe chiusa per il passaggio sotto-soglia è del 70% del PIL (da 130% a 60%). L’intenzione è di costringere gli stati dell’€Z a praticare quello che Minsky chiamava hedge financing in un contesto in cui anche il debito privato sia sostenibile, cioè non cresca per via della diminuzione del debito pubblico. Si tratterebbe cioè di spingere sia il settore pubblico che quello privato contemporaneamente sulla via dell’ hedge financing.
Quale la via per raggiungere l’obiettivo proposto? Agire sul numeratore del rapporto DP/PIL senza che il denominatore (cioè il PIL) scenda, anzi aumenti almeno moderatamente. Si tratterebbe di seguire la Germania che ha praticato prima il pareggio e ora il surplus del bilancio pubblico contenendo il consumo dello stato, incentivando il risparmio in generale e contenendo gli investimenti privati. La cosa in Germania sta riuscendo. Ma in che contesto? La Germania ce la sta facendo da sola o grazie all’espansione all’estero? La risposta: da soli è logicamente impossibile farlo. Per capirlo dobbiamo dapprima studiare come funzionano le cose in un’economia chiusa, che non interagisca con l’estero. Ma il discorso vale anche per economie che di fatto hanno una bilancia commerciale in pareggio con l’estero.
Per seguire Kregel però ci servono ora almeno conoscenze rudimentali della contabilità nazionale:
[La contabilità nazionale di un’economia chiusa parte dalla definizione di PIL annuale di un paese quale valore aggiunto in un dato anno generato da tutte le attività economiche. Il valore aggiunto lordo (VAL) viene calcolato, per qualsiasi agente economico (per la Volkswagen, come per il negozio di parrucchiere all’angolo), sottraendo dai ricavi (l’importo lordo di ciò che si è venduto) i costi per l’acquisto di materiali e prestazioni esterne necessarie alla produzione di beni o alla fornitura di servizi (dalle materie prime, ai semilavorati, al pettine del parrucchiere, ai costi per l’energia e per la pubblicità, alle spese generali, alla riparazione di una macchina ecc.). Per un’impresa, in pratica il VA lordo comprende (a) il profitto lordo dell’impresa (prima della tassazione), (b) i salari lordi erogati e (c) l’IVA, detratte le sovvenzioni erogate alle imprese. Anche l’attività dello stato, preso come datore di lavoro, viene considerata così. Nell’aggregato del VA lordo nazionale (PIL) entrano anche il VA delle imprese finanziarie (banche ecc.), così come le rendite finanziarie dei privati o di associazioni private. Così il quadro sarà completo.
La formula canonica della contabilità nazionale dal lato della sua formazione è suppergiù questa:
( Equazione 1) Y = ( Ya + Ym + Ye + Ysp + Ysg + Yf + Yaff + Yv + IVA ) – Sovv.
laddove Y sta per l’aggregato totale che chiamiamo anche PIL (Prodotto Interno Lordo), Ya simbolizza il VA dell’agricoltura, Ym quello della manifattura, Ye quello dell’edilizia, Ysp quello dei servizi privati, Ysg quello dei servizi forniti dalla pubblica amministrazione, Yf quello generato nel settore finanziario (rendite dei clienti comprese), Yaff il VA dagli affitti e Yv quello da settori vari non ancora considerati. Infine, IVA sta per l’Imposta sul Valore Aggiunto e Sovv. per le sovvenzioni erogate in quell’anno. Ben si capisce come sia complicato fare questo calcolo in tempi rapidi (necessari per agire in fretta).
C’è però un altro metodo, più rapido per calcolare il PIL: calcolare non come si è andato formando, bensì come è stato utilizzato. Perciò – per un’economia chiusa – viene usata quest’altra equazione:
(Equazione 2) Y = C + I + G,
laddove Y sta sempre per l’aggregato totale che chiamiamo anche PIL (Prodotto Interno Lordo), C sta per l’aggregato totale dei consumi privati di quell’anno, I simbolizza il totale degli investimenti lordi dei privati (le posizioni principali che vi rientrano sono: le spese delle imprese per gli impianti produttivi e per la propria edilizia, le scorte di beni prodotti in quell’anno e aggiuntesi all’invenduto, infine le spese per l’edilizia abitativa). G simbolizza le spese dello stato e della pubblica amministrazione (spese per il personale, per i materiali acquistati per lo svolgimento corrente delle sue funzioni, per fornire beni di utilità sociale, per sussidi sociali, investimenti per infrastrutture e beni pubblici, ecc.). Nell’insieme, è più agevole calcolare questi tre aggregati. Ma i vantaggi non sono finiti, come vedremo fra poco.
Si giunge facilmente ad una terza equazione, che poi metteremo in relazione con la seconda. Il reddito generato (Y) si lascia disaggregare necessariamente, per chiunque abbia a disposizione un certo reddito, sotto tre voci: i consumi, le tasse ed il risparmio.
Da qui la terza equazione:
(Equazione 3) Y = C + T + S,
laddove C sta sempre per l’aggregato totale dei consumi privati di quell’anno, T simbolizza l’insieme dalla tassazione diretta, sugli individui e le imprese, S infine sta per il risparmio.
Ora, visto che nella seconda e terza equazione i membri di destra sono entrambi uguali a Y, ne consegue anche la validità della seguente quarta equazione:
(Equazione 4) C + I + G = C + T + S. Equazione ovviamente semplificabile in:
(Equazione 4.1) I + G = T + S, a sua volta trasformabile in:
(Equazione 4.2) G – T = S – I.
L’equazione 4.2 ci dice questo: in un’economia chiusa – basandosi esclusivamente sul reddito generato in un certo anno – la differenza tra il consumo dello stato e l’intera tassazione diretta di quell’anno deve essere (per definizione) uguale alla differenza tra il flusso di risparmio di quell’anno e gli investimenti privati, operati in quell’anno. L’equazione ci fornisce cioè una importante informazione: indipendentemente dalle dimensioni delle singole posizioni, che possono essere assai diverse, la differenza tra la coppia dei membri di sinistra e quella di destra è sempre uguale. Ad esempio, se uno stato ha un deficit di bilancio pari al 2,9% del PIL (cioè se G > T per il 2,9% del PIL), allora: S > I per il 2,9% del PIL. Dall’ equazione non sappiamo forse ancora né l’entità degli investimenti, né quella del risparmio, né come è andata l’economia in quell’anno, sapremo però che il risparmio delle famiglie (e forse anche delle imprese) ha sopravanzato gli investimenti di quell’entità. Dove sarà andato a finire quel saldo di risparmio? Avrà coperto il deficit statale di quell’anno. Quella fetta di reddito pari al 2,9% del PIL non consumato dai privati sarà stata allocata per finanziare i consumi e gli investimenti della pubblica amministrazione. Lo stato avrà dunque offerto ai risparmiatori un’occasione per piazzare quel surplus di nuovi risparmi e garantire loro, in futuro, un surplus di reddito. Uno stato ben gestito, però cercherà di non esagerare nell’offrire questa ‘droga’. Viceversa, se ad esempio lo stato avrà avuto un saldo di bilancio positivo dell’1,5% del PIL (per aver risparmiato sulla spesa corrente o sugli investimenti, oppure per avere aumentato la tassazione oppure combinando entrambe le cose) sapremo che il risparmio privato non sarà stato sufficiente a coprire tutti gli investimenti di quell’anno del settore privato. Ma allora come sarà stato finanziato quel saldo degli investimenti? In un’economia chiusa, in cui per definizione non può affluire risparmio dall’estero, magari si usano vecchie scorte di risparmio (ad esempio i privati, siano essi imprese o famiglie, venderanno alle banche asset accumulati in passato). In ogni caso il sistema bancario creerà dal nulla la quantità di moneta endogena necessaria. Non sapremo neanche, dall’equazione stessa, se uno stato, che ad esempio passa da un anno all’altro da un deficit di bilancio del 2,9% ad un surplus dell’ 1,5%, avrà favorito la crescita dell’economia o se l’avrà mandata in recessione. Quasi sicuramente sarà il secondo caso, ma per dirlo ci servirebbero altre informazioni. Non è infatti da escludersi che il settore privato si sia fortemente indebitato con il sistema bancario per sostenere gli investimenti e l’attività economica in generale. Se così fosse, la posizione debitoria dello stato sarebbe migliorata grazie ad un peggioramento speculare di quella del settore privato. Usando la terminologia proposta da Minsky, lo stato avrebbe fatto hedge financing, ma spinto il settore privato verso lo speculative financing.
[ **** NOTA BENE: a) ogni membro delle equazioni è un flusso aggregato (non va confuso con il totale degli stock precedenti accumulatisi); b) queste equazioni sono delle tautologie, cioè sono vere per definizione; questa parte dell’economia è sicuramente scientifica, poiché dedotta per via logica da definizioni; ciò garantisce anche lo statuto di verità della certezza a tutte le deduzioni correttamente effettuate a sua volta da queste equazioni.******************* ]
Orbene, dall’equazione 4.2 consegue pure la seguente
(Equazione 4.3) (T – G) + (S – I) = 0.
In parole: in un’economia chiusa – basandosi esclusivamente sul reddito generato in un certo anno – la somma del saldo del bilancio dello stato e del saldo netto tra investimenti e risparmio dei privati è uguale a zero. Detto altrimenti: in un’economia chiusa è logicamente impossibile che, in un dato anno, lo stato abbia un saldo positivo tra entrate e uscite (cioè che le sue entrate sopravanzino le uscite) e contemporaneamente che il saldo tra risparmio e investimenti sia positivo (cioè che i privati risparmino di più di quanto investano). Peccato che proprio questo è ciò che in teoria vorrebbe ottenere il Fiscal compact. In economie chiuse (o in economie con la bilancia commerciale equilibrata) è impossibile che lo stato e i privati siano contemporaneamente risparmiatori netti. È impossibile che entrambi i settori facciano sul medio-lungo periodo dell’hedge financing. Se uno dei due settori fa a lungo dell’hedge financing, per quel periodo l’altro deve continuamente indebitarsi e scivolare nello speculative financing. Del resto è pure abbastanza intuitivo: affinché qualcuno possa risparmiare e mettere a frutto il suo risparmio, qualcun altro deve indebitarsi. Questa regola è certamente valida per l’economia mondiale nel suo insieme. Finché non commerceremo con degli extraterrestri la bilancia commerciale planetaria sarà sempre in parità, così come il debito aggregato del pianeta sarà sempre uguale a zero. Se uno continua ad accumulare risparmio, il suo partner dovrà continuamente indebitarsi, fino ad andare in rovina, passando cioè dall’ hedge financing, allo speculative financing o al Ponzi financing. Alla faccia dell’ideologia del Fiscal compact.]
Finora ci siamo limitati all’istantanea dei rapporti tra il settore privato e quello pubblico di un’economia nazionale di un dato anno, supponendo che il sistema finanziario non intervenga con immissioni o restrizioni di liquidità. Togliamo ora invece quest’ultima restrizione; in più passiamo alla dinamica, a vedere cioè che accade tendenzialmente al PIL della nostra economia chiusa, a seconda che il sistema finanziario intervenga o meno, creando equilibrio o squilibrio tra i settori (privato e pubblico). Mi riferisco qui alle pag. 45 e 46 del documento governativo. Kregel espone, usando una raffigurazione grafica elaborata da R. Parenteau, quel che accade con tutte le combinazioni possibili dei saldi settoriali.
Il Grafico 1 è costruito su due assi cartesiani. Sull’asse delle x si riportano tutti i valori (positivi e negativi) del saldo settoriale privato a seconda che valgano S > I, S = I (origine degli assi), oppure S < I. Sull’asse delle y si riportano tutti i valori (positivi e negativi) del saldo settoriale pubblico, a seconda che valgano G > T, G = T (origine degli assi), o G < T. La linea tratteggiata che disegna la diagonale nel grafico riporta tutte le coppie in cui i valori dei saldi (pubblico e privato) sono uguali, indipendentemente dal segno ( “+” oppure “–“ ). Ovviamente la linea ha un’inclinazione di 45°. Che accade al PIL? Resterà in equilibrio, cioè non riceverà nessun impulso né a crescere né a decrescere. Invece, in tutte le combinazioni in cui G > T e S < I (vedi area del quadrante III del grafico) si avrà crescita del PIL. In termini keynesiani: si farà del deficit spending sensato del settore pubblico. All’opposto, in tutte le combinazioni in cui S > I e T > G, cioè in cui entrambi i settori risparmiano, avremo una spinta alla decrescita. Lo stato restringe il reddito disponibile sia per i consumi che per i risparmi e al contempo toglie occasioni di allocazione del risparmio, induce anche il sistema a inibire gli investimenti. Logicamente il PIL diminuisce. Monti docet. L’area di proiezione di queste combinazioni è il quadrante I del grafico. Nei quadranti II e IV la situazione è variegata. Laddove il deficit del settore pubblico è maggiore del saldo di risparmio di quello privato (zona bassa del quadrante IV) ci sarà un impulso alla crescita. Se invece il saldo di risparmio del settore privato sarà maggiore del deficit del settore pubblico (zona alta del quadrante IV) il PIL tenderà a scendere. Le cose stanno in senso opposto nel quadrante II. Nella zona alta ci saranno impulsi alla decrescita, in quella bassa, alla crescita. Cito ora da Kregel : “Non è possibile per il governo gestire lo schema di hedge financing senza sacrificare la crescita, a meno che il settore privato non aumenti il suo indebitamento. (…) Se il governo dovesse gestire un surplus che fosse sufficiente ad eliminare nel tempo l’eccesso di debito, allora il risultato sarà semplicemente la sostituzione del debito pubblico con il debito privato, oppure la caduta del reddito nazionale, producendo condizioni di stagnazione permanente.”
Jan Kregel si chiede poi: c’è una strada per uscire dal paradosso della linea di politica economica sposata dall’Eurozona? Sì, se si realizzano due condizioni: (a) l’ area economica è aperta verso l’esterno, (b) si scarica costantemente sull’esterno l’onere dell’indebitamento. A quel punto saranno possibili sia T > G che S > I in contemporanea. Ed è proprio quello che è successo. Germania docet. È possibile far praticare dell’ hedge financing sia al settore pubblico che a quello privato della propria nazione e in più avere una certa crescita se e solo si esternalizza l’indebitamento (verso i partner europei ed extraeuropei). Questa è la sola soluzione che si offre anche all’intera eurozona. L’Euro potrà sopravvivere, seguendo la sua attuale filosofia economica, se e solo se il resto del mondo si sobbarcherà l’onere di indebitarsi continuamente. L’eurozona potrà continuare in un doppio hedge financing (pubblico e privato) mentre ampie zone del resto del mondo dovranno avviarsi prima verso un più rischioso speculative financing ed infine giungere a praticare del Ponzi financing. Lascio a voi immaginare il finale di questa storia.
Da pag. 46 alla fine del documento governativo del 7 settembre 2018 Jan Kregel allarga la riflessione al caso di una economia aperta (la situazione che conosciamo come normale). Nella contabilità nazionale l’ equazione settoriale base va scritta in questo modo:
( Equazione 5) (T – G) + (S – I) = ( X – M ).
Un altro modo di formulare le relazioni tra i saldi settoriali per un’economia nazionale aperta – vedi Kregel a pag. 46 del documento governativo – è questo:
(Equazione 5.1) (T – G) + (S – I) – ( X – M ) = 0.
Si inserisce infatti il rapporto commerciale con l’estero, laddove X sta per il flusso aggregato dell’export e M per il flusso aggregato dell’import. La cosa è evidente, ma per nulla banale. Infatti tutto quanto un’economia nazionale ha esportato, cioè quanto ha venduto ai clienti esteri, ha aumentato il reddito nazionale, mentre quanto i residenti hanno comperato dall’estero, non essendo stato prodotto dalle imprese indigene, ha aumentato il reddito dei fornitori esteri e sminuito il reddito nazionale del Paese importatore, dato che, se quei beni o servizi fossero stati prodotti in loco, avrebbero aumentato il reddito nazionale per quell’importo. [In realtà X – M della nostra equazione non coincide del tutto con la bilancia commerciale del paese considerato, bensì con il saldo delle partire correnti (Co.Pa.Co.). Non ci addentriamo ora nelle differenze tra i due saldi, limitiamoci a dire che quasi coincidono perché il ‘pezzo forte’ del conto delle partire correnti è la bilancia commerciale.]
Che ci dicono in buona sostanza le equazioni 5 e 5.1? Ci dicono che la somma del saldo del settore pubblico (T–G) e del saldo del settore privato (S–I) è uguale al saldo del conto delle partire correnti (X–M) (Current Account in inglese, Leistungsbilanz in tedesco). Infatti se il CA è positivo, cioè se X > M, allora, summa summarum, è affluito reddito aggiuntivo, e quindi liquidità, nel paese considerato. Questo afflusso si va dunque ad aggiungere a S e a T. Pensiamoci un po’. Se X>M, allora le imprese nazionali hanno prodotto di più, c´è dunque un surplus di S per loro; ma per produrre di più hanno impiegato manodopera aggiuntiva, che a sua volta avrà risparmiato una parte del suo reddito, aumentando pure S. Infine, con quei redditi aggiuntivi (per via di X>M) lo stato avrà incassato più tasse, quindi T risulterà maggiorato. Anche I e G potrebbero esserne influenzati, ma in genere molto di meno. Dunque, se X>M, allora nella parte destra dell’equazione 5 non avremo uno zero, ma un numero positivo. E quel surplus ce lo ritroveremo anche nella parte sinistra, distribuito tra (S–I) e T– G). È quindi evidente che la differenza positiva (il surplus) di X–M offre all’insieme dei due settori interni (pubblico e privato) più agio finanziario. Perciò un paese che fa registrare per lunghi periodi un surplus con l’estero avrà l’occasione di migliorare costantemente la sua situazione finanziaria, avrà meno deficit statale, o addirittura un surplus tra T e G e le imprese e le famiglie avranno a disposizione più S. Anche gli stock di debito pubblico e privato diminuiranno. Questa è la situazione di lungo periodo di paesi come la Germania e l’Olanda. Da alcuni anni anche dell’Italia; da poco tempo, della Spagna e del Portogallo. Viceversa stanno le cose per un paese che ha costantemente un deficit commerciale, e dunque anche nel CA. La sua situazione finanziaria peggiorerà di anno in anno; questo paese diminuirà gli stock pregressi di risparmio (S) e si indebiterà con l’estero in maniera crescente, la sua bilancia dei pagamenti (da non confondere né con la Bilancia commerciale né con il CA.) peggiorerà. Questa la situazione della Francia da molto tempo, ma, guardando al di fuori dell’Eurozona, anche della Gran Bretagna, e per dimensioni ancora maggiori, anche degli USA. Il loro apparato produttivo ne risulta sminuito così come la loro possibilità di fare hedge financing.
Da pag. 46 a pag. 52 Kregel si dedica allo studio degli scenari ipotetici e reali nella combinazione dei saldi finanziari dei tre settori (pubblico, privato e verso l’estero). [Vedi i Grafici da 2 a 7.] All’inizio di questa parte anticipa però, con queste parole, le conclusioni a cui giungerà: “È possibile per il settore pubblico e privato essere in surplus (S>I e T>G) se e solo se c’è una eccedenza delle partite correnti (X>M) sufficientemente grande che compensi. Questo significa che le condizioni del Fiscal Compact possono essere soddisfatte solo con un surplus esterno sufficientemente grande da bilanciare i risparmi del settore pubblico e privato. A livello UE questo significa che, poiché alcuni stati avranno bisogno solo di un equilibrio fiscale, mentre i paesi con debito eccessivo avranno bisogno di surplus, l’euro può sopravvivere solo se la UE nel suo insieme ha un surplus esterno. Ma questo significa che la fragilità finanziaria, la spesa in deficit e un indebitamento crescente sono riversati sul resto del mondo; nella situazione attuale verso gli Stati Uniti; ma la politica attuale degli USA sta prendendo iniziative per eliminare il suo ruolo di debitore di ultima istanza.”
A pag. 52/53 del documento Kregel riferisce che nel 1940 gli USA pensarono di iniziare un ciclo di espansione del surplus del Conto delle partite correnti (il cui pezzo forte, come sappiamo, è il surplus della bilancia commerciale) come supporto della domanda interna e del proprio hedge financing. Consultarono vari economisti. A quel punto E. Domar dimostrò però che un surplus di export continuo sarebbe stato possibile se e solo con un tasso di crescita del prestito all’estero maggiore o uguale al tasso di interesse sui prestiti. In altre parole: solo se ci fosse un crescendo costante di indebitamento dell’estero. Kregel aggiunge: “si nota che questa è la definizione di uno schema di Ponzi!” La grande astuzia di fare del beggar-thy-neighbour consisterebbe alla lunga nel ponzizzare altre nazioni. Questa è una variante delle conseguenze del Fiscal compact europeo. I ponzizzati sarebbero paesi non dell’Eurozona (europei o extraeuropei).
L’altra variante è questa: se l’estero extra-eurozona non si lascia ponzizzare, allora aumenteranno le tensioni interne all’Eurozona. Ad esempio, se un Paese segue le regole del Fiscal compact e riduce e tiene ai minimi termini il deficit del settore pubblico, deve aumentare l’indebitamento di quello privato oppure scaricare su altri ‘paesi fratelli’ dell’€Z quell’indebitamento. In teoria solo la Germania e l’Olanda potrebbero permettersi di indebitarsi e di mandare la bilancia commerciale in deficit per lungo tempo. Ma questo stride con la loro filosofia economia, con il Fiscal compact. Non solo, cozza con le dimensioni ed il tipo di apparato industriale e commerciale che hanno messo in piedi.
Da qualsiasi parte la si giri, il referto è questo: il Fiscal compact è una follia economica.
Kregel conclude la sua perizia mettendo a fuoco le posizioni dell’Italia e della Germania. Altro non faccio che citarlo, di nuovo, per esteso: “L’Italia non può aggiustare il suo cambio se vuole rimanere nella Eurozona. Potrebbe tentare di ridurre la crescita dei salari reali sotto il livello di crescita della produttività, ma questo dovrebbe essere ad un tasso maggiore di quello praticato in Germania e causerebbe una riduzione non solo nella domanda e nell’impiego ma anche del risparmio. Ciò ridurrebbe il risparmio anche in Germania, perché il suo tasso di crescita scenderebbe in seguito alla riduzione del surplus netto. La Germania può continuare nel suo comportamento cercando mercati per il suo export al di fuori della Eurozona, il che avvenne quando la Germania aumentò il suo export verso la Cina. Ma, data la nuova politica degli Stati Uniti, questo diventerà sempre più difficile. La linea di fondo è che i paesi altamente indebitati non saranno in grado di pagare i debiti arretrati attraverso l’austerità fiscale, e nemmeno espandendo il loro surplus esterno. – La soluzione consiste in una coordinazione delle politiche fiscali nella UE e nella economia globale, non nel Fiscal Compact. Paesi altamente indebitati possono definire il loro modo per uscire dall’indebitamento, non possono trovare nell’export la via di uscita dal debito attraverso deprezzamenti interni e aumentando l’export. Invece per far questo (uscire dalla trappola del debito, ndt) c’è bisogno di una riforma delle condizioni della politica fiscale nella UE per sostenere e condividere crescita e occupazione."
Mia nota finale. È apprezzabilissimo che il nostro governo abbia incaricato un economista con i fiocchi di fare un’analisi scientifica del Fiscal compact e delle distorsioni dell’Euro. Si nota la mano di Savona. È auspicabile che il documento economico presentato dal governo a Bruxelles il 7 settembre scorso venga discusso nell’opinione pubblica italiana e che si faccia pressione sugli altri governi europei affinché lo prendano in considerazione, smorzando anche i toni con cui rampognano il nostro paese.
Heidelberg, 2 Novembre 2018
Beppe Vandai
RISORSE – Associazione per capire meglio l’economia – Treviglio
VOLTA LA CARTA!! e. V. – Heidelberg
Ringraziamo il curatore della scheda Beppe Vandai, che ha spesso collaborato con Vocidallestero traducendo articoli di particolare rilevanza. Beppe, di formazione filosofica, vive da 32 anni in Germania e ha fondato ad Heidelberg il circolo di discussione politico-culturale Volta la Carta!! e a Treviso il circolo Risorse, sui temi dell'economia.
Scheda a cura di Beppe Vandai sul documento di Jan A. Kregel* "Crescita e moneta unica: il paradosso della politica fiscale"
*Jan A. Kregel è un importante economista post-Keynesiano, direttore del programma «Politica monetaria» presso il Levy Economic Institute of Bard College e professore di Development Finance presso la Tallinn University of Technology. Ex professore di Economia Politica presso l’Università degli Studi di Bologna ed ex professore di Economia Internazionale presso il Johns Hopkins University’s Paul Nitze School of Advanced International Studies, dove è stato anche direttore associato del Bologna Center dal 1987 al 1990.
La Moneta unica e la stabilità del cambio
Con il sistema di Bretton Woods i tassi di cambio tra le monete erano fissi, ma modificabili di comune accordo. La moneta di riferimento era il dollaro statunitense, a sua volta scambiabile ad un tasso con l’oro, fisso e immodificabile. Nel 1971–73 questo sistema collassò e lasciò il posto in breve tempo alla pratica dei cambi flessibili tra le monete. Negli anni settanta del secolo scorso però l’Europa comunitaria avviò il progetto della moneta unica. La fase preparatoria doveva consistere nel sistema del serpente monetario a banda stretta (solo ± 1%, poi ± 2,5%). Entrambi i tentativi si dimostrarono di difficilissima realizzazione.
La moneta unica europea, varata nel 1999, introduceva due grandi novità:
Cambi fissi all’interno dell’Eurozona, ma variabili tra Euro e resto del mondo, impediscono il libero aggiustamento tra la moneta di ogni singolo paese dell’Eurozona ed il resto del mondo; il rapporto risulta infatti sempre mediato dal rapporto tra Euro e la moneta extra-Euro in questione. Ad esempio, se l’Euro in certo periodo fosse risultato essere più forte rispetto al dollaro di quanto sarebbe stato lo scudo portoghese, le merci portoghesi offerte in euro al di fuori dell’Eurozona sarebbero risultate più care; ergo: calo della loro vendita e peggioramento della bilancia commerciale portoghese. Viceversa, se l’Euro fosse risultato essere più debole rispetto al dollaro di quanto sarebbe stato il marco tedesco, le merci tedesche sarebbero risultate più facilmente vendibili al di fuori dell’Eurozona; ergo: miglioramento della bilancia commerciale tedesca verso l’area extra-eurozona. In breve: aumenta la divaricazione tra paesi più competitivi e paesi meno competitivi dell’Eurozona. I primi risultano favoriti, i secondi sfavoriti.
Essendo l’Euro emesso da una istituzione scollegata da un governo e da un bilancio nazionali o sovranazionali, spariva la coordinazione tra la creazione di liquidità e i tassi di interesse e la politica fiscale. Di nuovo: risultavano impossibili manovre differenziate di stimolo o di raffreddamento delle economie nazionali. Ne risultavano svantaggiati i meno competitivi, avvantaggiati i più competitivi
Aggiustamenti interni agli squilibri esterni
Con la moneta unica, venendo a mancare l’aggiustamento tra le valute nazionali precedenti all’Euro, la variabile di maggiore impatto per i riequilibri tra le economie nazionali diventava il livello dei salari. Un paese con un problema di bilancia commerciale negativa non poteva fare altro che cercare di tenere bassi i salari o di comprimerli. In teoria nulla vieterebbe che accadesse il contrario, cioè che i paesi più concorrenziali aumentassero i salari di più rispetto ai meno concorrenziali, ma la logica economica vigente in Europa sembra non considerare questa variante. Solo il miglioramento della bilancia commerciale dell’Eurozona verso il resto del mondo viene presa in considerazione.
La conseguenza: una compressione sulla domanda aggregata dell’Eurozona e una tendenza inevitabilmente deflazionista. Cioè: riduzione o azzeramento dell’inflazione o addirittura deflazione pura. Ovviamente, ne conseguono tassi di interesse calanti o addirittura negativi e aumento della disoccupazione e del lavoro precario.
Che queste sarebbero state le conseguenze era inciso nel corpo della costituzione materiale europea voluto con l’Atto unico europeo (1986) e con il Trattato di Maastricht (1992). Infatti, vi si disinnescava in modo crescente anche l’unica leva che in teoria rimaneva a disposizione per controbilanciare gli squilibri: quella fiscale, cioè il finanziamento di politiche pubbliche volte a stimolare la domanda aggregata (consumi e investimenti). La tendenza a rendere inservibile la leva fiscale si incrudì con il Fiscal compact ed il Six Pack (2012), allorché si iniziò a prescrivere il pareggio o il surplus del bilancio statale. Con ciò il bilancio pubblico, nota Kregel, viene trattato come quello di qualsiasi ente privato.
Con un’unica gestione dei tassi di interesse da parte della Banca Centrale Europea prese le mosse un’altra distorsione delle regole classiche di funzionamento delle economie di mercato: quella del rapporto tra livello di rischio e i tassi di interesse. Infatti, dando la sensazione che con l’Euro non c’erano più differenti rischi di credito, i tassi di interesse nominali iniziarono rapidamente ad uniformarsi nell’Eurozona. Così, i governi dei paesi meno competitivi, nel primo decennio dell’Euro, poterono stimolare la spesa pubblica per evitare di giungere alla compressione salariale e alla spinta deflazionista sulle proprie economie.
Con la crisi finanziaria del 2008, però, il re era nudo. Il sistema creditizio si rimise a prezzare in modo differenziato il rischio del finanziamento sia ai privati che agli stati. Iniziò la ben nota storia degli spread. Interessi improvvisamente molto alti per i paesi meno competitivi, cioè meno sicuri, iniziarono a strangolare sia il settore pubblico che quello privato di questi paesi. L’Eurozona rispose con i Fondi salva-stati. Vista la loro insufficienza, nel 2012 Draghi dovette pronunciare il famoso “what it takes”. La BCE dichiarò che l’acquisto di titoli di stato (poi anche privati) sul mercato secondario sarebbe proseguito, anzi si sarebbe allargato.
Primi riconoscimenti dell'impatto della politica monetaria e delle restrizioni fiscali
J. KREGEL cita ampiamente “Derailed” (“Deragliati”), il breve scritto di Winne Godley del 1993. Godley, uno dei principali esponenti della scuola post-keynesiana, spiegò già allora come il ‘grosso buco nel Trattato di Maastricht’ fosse la mancanza di una politica fiscale adeguata, o meglio, la contraddizione tra una politica monetaria centralizzata e politiche fiscali decentrate e depotenziate. La politica monetaria e quella fiscale dovrebbero invece essere coerenti in questo senso: la politica fiscale deve risolvere i problemi che quella monetaria crea, e viceversa. Perciò devono essere pensate centralmente. In uno stato democratico, entrambe vanno gestite da istituzioni democraticamente elette e collocate allo stesso livello, non dovrebbero essere dirette da centri tecnocratici, tanto più se questi usano il ‘pilota automatico’.
La crisi finanziaria del 2009 e la politica fiscale straordinaria. Rafforzare i vincoli fiscali riduce la flessibilità della risposta alla crisi
Una volta che i nodi vennero al pettine, nel 2009, l’Eurozona non volle riconoscere che la costruzione dell’Euro era diventata insostenibile, mancando di una politica fiscale di sostegno della domanda aggregata e degli investimenti. Invece di provvedere in tal senso si inasprì ulteriormente la stretta sui bilanci statali. Perché? Per mantenere forte l’Euro, addirittura per rafforzarlo. Si anteponeva cioè il cambio della moneta all’equilibrio macroeconomico dell’intera area. Ne risultò una tendenza deflazionistica che punì ampi strati della popolazione. Per metterci una pezza Draghi agì di nuovo con la leva monetaria, iniziando il Quantitative easing. Il risultato fu di guadagnare tempo senza risolvere la contraddizione-base dell’Eurozona.
Stabilità fiscale e fragilità finanziaria
Con il 2012 l’Eurozona – grazie al Fiscal compact – ha reso ancora più paradossale la propria politica economica. Esigendo che gli stati giungessero, per di più in fretta, al pareggio di bilancio, per poi passare al surplus di bilancio, imponeva loro di fare il cosiddetto hedge financing, cioè di avere un flusso di cassa sicuro e in grado di pagare puntualmente sia gli interessi per un debito contratto che il debito stesso. Come si può centrare in generale questo obiettivo? Di solito con un mix di crescita sufficiente del PIL e inflazione, magari anche con moderati aumenti della tassazione. Ma il nocciolo del problema rimane la crescita del PIL. E questa da dove può venire? Dato il Fiscal compact, il mercato interno non può assolvere questo compito, visto che si riduce il reddito disponibile per i consumi e gli investimenti. Non resta in teoria che la domanda estera. Ma qui ci si incaglia su una grave difficoltà, sull’Euro stesso. Per i paesi che devono ridurre il deficit c’è un primo problema: siccome il grosso delle esportazioni dei paesi dell’Eurozona sono interne alla stessa e non sono più possibili degli aggiustamenti di cambio per le economie in difficoltà, non resta che la cosiddetta “svalutazione interna”, cioè il calo dei prezzi dei beni e dei servizi, ovvero una forte disinflazione. Come si fa? Riducendo i salari in termini reali. A questo punto è però certa la decrescita interna e non è chiaro se l’aumento delle esportazioni sarà superiore alla decrescita. A ciò si aggiunga che la terapia del Fiscal compact viene consigliata e somministrata contemporaneamente a tutti i paesi dell’Eurozona. Non si capisce come questo schema possa funzionare. I maggiori successi, senza danni collaterali, dovrebbe offrirli l’export verso paesi esterni all’eurozona. È pensabile che, seguendo tutti l’esempio tedesco, stringendo la cinghia e aumentando la competitività, l’intera eurozona raddoppi il surplus commerciale con il resto del mondo, passando da un surplus annuo di 400 mld. € a 800 mld. €. Ma il resto del mondo accetterà questa enorme pressione mercantilistica? E poi, una tale strategia può avere successo sul medio-lungo periodo? L’Euro aumenterebbe di valore, le merci dell’eurozona diventerebbero più care per gli acquirenti esteri. A quel punto il surplus si ridurrebbe. Ci sarebbe sempre la strada della manipolazione del valore delle moneta. Si comprerebbero allora, alla grande, assets esteri. L’estero si indebiterebbe sempre di più. Lo si costringerebbe a passare a forme di finanza speculativa e rischiosa. Ad un certo punto gli assets finanziari esteri comperati dall’eurozona perderebbero di valore. In casi estremi diventerebbero carta straccia. Pensando la cosa fino in fondo, eccolo il futuro radioso che la filosofia eurista ci offrirebbe!
**** NOTA BENE: KREGEL mette a frutto concetti elaborati da Hyman Minsky e con essi testa sia la teoria che la pratica eurista. Centrale è la constatazione che per chiunque, impresa, famiglia o stato sono possibili tre scenari creditizi: lo hedge financing, lo speculative financing e il Ponzi financing. Che si intende con questo? Si ha hedge financing (finanza coperta) quando il debitore è in grado di sostenere puntualmente, con il suo flusso di risorse, sia il pagamento degli interessi che la restituzione del capitale. In genere dà anche in garanzia dei beni o dei titoli finanziari. Si ha speculative financing (finanza speculativa) quando il flusso di cassa riesce a coprire gli interessi maturati, ma il debitore non è in grado di restituire per tempo il capitale o parte del capitale prestato. Si hanno dunque continue ricontrattazioni del debito. Se nulla cambia nel flusso di cassa, ad un certo punto si avrà l’insolvenza del debitore. Si ha Ponzi financing (finanza alla Ponzi) quando il debitore non ha nemmeno un flusso di cassa per pagare gli interessi sul debito contratto. Il ‘nostro’ Ponzi (dal nome di un imbroglione italo-americano) punta sul fatto che gli assets che ha comperato aumentino talmente di valore da poter ripagare sia interessi che capitale. Di solito finisce malissimo. La crisi americana dei subprime calza a pennello per illustrare questo caso. Negli USA il sistema finanziario, per alimentare la crescita dell’economia, spinse parecchia gente a vestire i panni del ‘buon’ Ponzi. Com’ è andata a finire lo sappiamo. Minsky ha analizzato anche come si creano cicli finanziari in cui un sistema economico passa per le tre tappe del tipo di indebitamento. È giunto anche alla conclusione che è soprattutto l’indebitamento privato ad essere labile e pericoloso. Kregel usa il suo armamentario concettuale per sottolineare che, nel caso europeo, la volontà stessa di hedge financing, male intesa, conduce involontariamente paesi o settori economici verso lo speculative financing o addirittura al Ponzi financing. *****************
Stabilità fiscale, fragilità finanziaria : il paradosso della politica fiscale
Il combinato di Fiscal Compact (FC) + Six Pack europeo (SPE) chiama gli stati dell’eurozona alla riduzione del rapporto Debito Pubblico (DP)/PIL fino alla soglia del 60% entro 20 anni. Al momento solo tre piccoli stati (Estonia, Lussemburgo e Lettonia) sono al disotto di quella soglia. Per l’Italia la forbice che andrebbe chiusa per il passaggio sotto-soglia è del 70% del PIL (da 130% a 60%). L’intenzione è di costringere gli stati dell’€Z a praticare quello che Minsky chiamava hedge financing in un contesto in cui anche il debito privato sia sostenibile, cioè non cresca per via della diminuzione del debito pubblico. Si tratterebbe cioè di spingere sia il settore pubblico che quello privato contemporaneamente sulla via dell’ hedge financing.
Quale la via per raggiungere l’obiettivo proposto? Agire sul numeratore del rapporto DP/PIL senza che il denominatore (cioè il PIL) scenda, anzi aumenti almeno moderatamente. Si tratterebbe di seguire la Germania che ha praticato prima il pareggio e ora il surplus del bilancio pubblico contenendo il consumo dello stato, incentivando il risparmio in generale e contenendo gli investimenti privati. La cosa in Germania sta riuscendo. Ma in che contesto? La Germania ce la sta facendo da sola o grazie all’espansione all’estero? La risposta: da soli è logicamente impossibile farlo. Per capirlo dobbiamo dapprima studiare come funzionano le cose in un’economia chiusa, che non interagisca con l’estero. Ma il discorso vale anche per economie che di fatto hanno una bilancia commerciale in pareggio con l’estero.
Per seguire Kregel però ci servono ora almeno conoscenze rudimentali della contabilità nazionale:
[La contabilità nazionale di un’economia chiusa parte dalla definizione di PIL annuale di un paese quale valore aggiunto in un dato anno generato da tutte le attività economiche. Il valore aggiunto lordo (VAL) viene calcolato, per qualsiasi agente economico (per la Volkswagen, come per il negozio di parrucchiere all’angolo), sottraendo dai ricavi (l’importo lordo di ciò che si è venduto) i costi per l’acquisto di materiali e prestazioni esterne necessarie alla produzione di beni o alla fornitura di servizi (dalle materie prime, ai semilavorati, al pettine del parrucchiere, ai costi per l’energia e per la pubblicità, alle spese generali, alla riparazione di una macchina ecc.). Per un’impresa, in pratica il VA lordo comprende (a) il profitto lordo dell’impresa (prima della tassazione), (b) i salari lordi erogati e (c) l’IVA, detratte le sovvenzioni erogate alle imprese. Anche l’attività dello stato, preso come datore di lavoro, viene considerata così. Nell’aggregato del VA lordo nazionale (PIL) entrano anche il VA delle imprese finanziarie (banche ecc.), così come le rendite finanziarie dei privati o di associazioni private. Così il quadro sarà completo.
La formula canonica della contabilità nazionale dal lato della sua formazione è suppergiù questa:
( Equazione 1) Y = ( Ya + Ym + Ye + Ysp + Ysg + Yf + Yaff + Yv + IVA ) – Sovv.
laddove Y sta per l’aggregato totale che chiamiamo anche PIL (Prodotto Interno Lordo), Ya simbolizza il VA dell’agricoltura, Ym quello della manifattura, Ye quello dell’edilizia, Ysp quello dei servizi privati, Ysg quello dei servizi forniti dalla pubblica amministrazione, Yf quello generato nel settore finanziario (rendite dei clienti comprese), Yaff il VA dagli affitti e Yv quello da settori vari non ancora considerati. Infine, IVA sta per l’Imposta sul Valore Aggiunto e Sovv. per le sovvenzioni erogate in quell’anno. Ben si capisce come sia complicato fare questo calcolo in tempi rapidi (necessari per agire in fretta).
C’è però un altro metodo, più rapido per calcolare il PIL: calcolare non come si è andato formando, bensì come è stato utilizzato. Perciò – per un’economia chiusa – viene usata quest’altra equazione:
(Equazione 2) Y = C + I + G,
laddove Y sta sempre per l’aggregato totale che chiamiamo anche PIL (Prodotto Interno Lordo), C sta per l’aggregato totale dei consumi privati di quell’anno, I simbolizza il totale degli investimenti lordi dei privati (le posizioni principali che vi rientrano sono: le spese delle imprese per gli impianti produttivi e per la propria edilizia, le scorte di beni prodotti in quell’anno e aggiuntesi all’invenduto, infine le spese per l’edilizia abitativa). G simbolizza le spese dello stato e della pubblica amministrazione (spese per il personale, per i materiali acquistati per lo svolgimento corrente delle sue funzioni, per fornire beni di utilità sociale, per sussidi sociali, investimenti per infrastrutture e beni pubblici, ecc.). Nell’insieme, è più agevole calcolare questi tre aggregati. Ma i vantaggi non sono finiti, come vedremo fra poco.
Si giunge facilmente ad una terza equazione, che poi metteremo in relazione con la seconda. Il reddito generato (Y) si lascia disaggregare necessariamente, per chiunque abbia a disposizione un certo reddito, sotto tre voci: i consumi, le tasse ed il risparmio.
Da qui la terza equazione:
(Equazione 3) Y = C + T + S,
laddove C sta sempre per l’aggregato totale dei consumi privati di quell’anno, T simbolizza l’insieme dalla tassazione diretta, sugli individui e le imprese, S infine sta per il risparmio.
Ora, visto che nella seconda e terza equazione i membri di destra sono entrambi uguali a Y, ne consegue anche la validità della seguente quarta equazione:
(Equazione 4) C + I + G = C + T + S. Equazione ovviamente semplificabile in:
(Equazione 4.1) I + G = T + S, a sua volta trasformabile in:
(Equazione 4.2) G – T = S – I.
L’equazione 4.2 ci dice questo: in un’economia chiusa – basandosi esclusivamente sul reddito generato in un certo anno – la differenza tra il consumo dello stato e l’intera tassazione diretta di quell’anno deve essere (per definizione) uguale alla differenza tra il flusso di risparmio di quell’anno e gli investimenti privati, operati in quell’anno. L’equazione ci fornisce cioè una importante informazione: indipendentemente dalle dimensioni delle singole posizioni, che possono essere assai diverse, la differenza tra la coppia dei membri di sinistra e quella di destra è sempre uguale. Ad esempio, se uno stato ha un deficit di bilancio pari al 2,9% del PIL (cioè se G > T per il 2,9% del PIL), allora: S > I per il 2,9% del PIL. Dall’ equazione non sappiamo forse ancora né l’entità degli investimenti, né quella del risparmio, né come è andata l’economia in quell’anno, sapremo però che il risparmio delle famiglie (e forse anche delle imprese) ha sopravanzato gli investimenti di quell’entità. Dove sarà andato a finire quel saldo di risparmio? Avrà coperto il deficit statale di quell’anno. Quella fetta di reddito pari al 2,9% del PIL non consumato dai privati sarà stata allocata per finanziare i consumi e gli investimenti della pubblica amministrazione. Lo stato avrà dunque offerto ai risparmiatori un’occasione per piazzare quel surplus di nuovi risparmi e garantire loro, in futuro, un surplus di reddito. Uno stato ben gestito, però cercherà di non esagerare nell’offrire questa ‘droga’. Viceversa, se ad esempio lo stato avrà avuto un saldo di bilancio positivo dell’1,5% del PIL (per aver risparmiato sulla spesa corrente o sugli investimenti, oppure per avere aumentato la tassazione oppure combinando entrambe le cose) sapremo che il risparmio privato non sarà stato sufficiente a coprire tutti gli investimenti di quell’anno del settore privato. Ma allora come sarà stato finanziato quel saldo degli investimenti? In un’economia chiusa, in cui per definizione non può affluire risparmio dall’estero, magari si usano vecchie scorte di risparmio (ad esempio i privati, siano essi imprese o famiglie, venderanno alle banche asset accumulati in passato). In ogni caso il sistema bancario creerà dal nulla la quantità di moneta endogena necessaria. Non sapremo neanche, dall’equazione stessa, se uno stato, che ad esempio passa da un anno all’altro da un deficit di bilancio del 2,9% ad un surplus dell’ 1,5%, avrà favorito la crescita dell’economia o se l’avrà mandata in recessione. Quasi sicuramente sarà il secondo caso, ma per dirlo ci servirebbero altre informazioni. Non è infatti da escludersi che il settore privato si sia fortemente indebitato con il sistema bancario per sostenere gli investimenti e l’attività economica in generale. Se così fosse, la posizione debitoria dello stato sarebbe migliorata grazie ad un peggioramento speculare di quella del settore privato. Usando la terminologia proposta da Minsky, lo stato avrebbe fatto hedge financing, ma spinto il settore privato verso lo speculative financing.
[ **** NOTA BENE: a) ogni membro delle equazioni è un flusso aggregato (non va confuso con il totale degli stock precedenti accumulatisi); b) queste equazioni sono delle tautologie, cioè sono vere per definizione; questa parte dell’economia è sicuramente scientifica, poiché dedotta per via logica da definizioni; ciò garantisce anche lo statuto di verità della certezza a tutte le deduzioni correttamente effettuate a sua volta da queste equazioni.******************* ]
Orbene, dall’equazione 4.2 consegue pure la seguente
(Equazione 4.3) (T – G) + (S – I) = 0.
In parole: in un’economia chiusa – basandosi esclusivamente sul reddito generato in un certo anno – la somma del saldo del bilancio dello stato e del saldo netto tra investimenti e risparmio dei privati è uguale a zero. Detto altrimenti: in un’economia chiusa è logicamente impossibile che, in un dato anno, lo stato abbia un saldo positivo tra entrate e uscite (cioè che le sue entrate sopravanzino le uscite) e contemporaneamente che il saldo tra risparmio e investimenti sia positivo (cioè che i privati risparmino di più di quanto investano). Peccato che proprio questo è ciò che in teoria vorrebbe ottenere il Fiscal compact. In economie chiuse (o in economie con la bilancia commerciale equilibrata) è impossibile che lo stato e i privati siano contemporaneamente risparmiatori netti. È impossibile che entrambi i settori facciano sul medio-lungo periodo dell’hedge financing. Se uno dei due settori fa a lungo dell’hedge financing, per quel periodo l’altro deve continuamente indebitarsi e scivolare nello speculative financing. Del resto è pure abbastanza intuitivo: affinché qualcuno possa risparmiare e mettere a frutto il suo risparmio, qualcun altro deve indebitarsi. Questa regola è certamente valida per l’economia mondiale nel suo insieme. Finché non commerceremo con degli extraterrestri la bilancia commerciale planetaria sarà sempre in parità, così come il debito aggregato del pianeta sarà sempre uguale a zero. Se uno continua ad accumulare risparmio, il suo partner dovrà continuamente indebitarsi, fino ad andare in rovina, passando cioè dall’ hedge financing, allo speculative financing o al Ponzi financing. Alla faccia dell’ideologia del Fiscal compact.]
Finora ci siamo limitati all’istantanea dei rapporti tra il settore privato e quello pubblico di un’economia nazionale di un dato anno, supponendo che il sistema finanziario non intervenga con immissioni o restrizioni di liquidità. Togliamo ora invece quest’ultima restrizione; in più passiamo alla dinamica, a vedere cioè che accade tendenzialmente al PIL della nostra economia chiusa, a seconda che il sistema finanziario intervenga o meno, creando equilibrio o squilibrio tra i settori (privato e pubblico). Mi riferisco qui alle pag. 45 e 46 del documento governativo. Kregel espone, usando una raffigurazione grafica elaborata da R. Parenteau, quel che accade con tutte le combinazioni possibili dei saldi settoriali.
Il Grafico 1 è costruito su due assi cartesiani. Sull’asse delle x si riportano tutti i valori (positivi e negativi) del saldo settoriale privato a seconda che valgano S > I, S = I (origine degli assi), oppure S < I. Sull’asse delle y si riportano tutti i valori (positivi e negativi) del saldo settoriale pubblico, a seconda che valgano G > T, G = T (origine degli assi), o G < T. La linea tratteggiata che disegna la diagonale nel grafico riporta tutte le coppie in cui i valori dei saldi (pubblico e privato) sono uguali, indipendentemente dal segno ( “+” oppure “–“ ). Ovviamente la linea ha un’inclinazione di 45°. Che accade al PIL? Resterà in equilibrio, cioè non riceverà nessun impulso né a crescere né a decrescere. Invece, in tutte le combinazioni in cui G > T e S < I (vedi area del quadrante III del grafico) si avrà crescita del PIL. In termini keynesiani: si farà del deficit spending sensato del settore pubblico. All’opposto, in tutte le combinazioni in cui S > I e T > G, cioè in cui entrambi i settori risparmiano, avremo una spinta alla decrescita. Lo stato restringe il reddito disponibile sia per i consumi che per i risparmi e al contempo toglie occasioni di allocazione del risparmio, induce anche il sistema a inibire gli investimenti. Logicamente il PIL diminuisce. Monti docet. L’area di proiezione di queste combinazioni è il quadrante I del grafico. Nei quadranti II e IV la situazione è variegata. Laddove il deficit del settore pubblico è maggiore del saldo di risparmio di quello privato (zona bassa del quadrante IV) ci sarà un impulso alla crescita. Se invece il saldo di risparmio del settore privato sarà maggiore del deficit del settore pubblico (zona alta del quadrante IV) il PIL tenderà a scendere. Le cose stanno in senso opposto nel quadrante II. Nella zona alta ci saranno impulsi alla decrescita, in quella bassa, alla crescita. Cito ora da Kregel : “Non è possibile per il governo gestire lo schema di hedge financing senza sacrificare la crescita, a meno che il settore privato non aumenti il suo indebitamento. (…) Se il governo dovesse gestire un surplus che fosse sufficiente ad eliminare nel tempo l’eccesso di debito, allora il risultato sarà semplicemente la sostituzione del debito pubblico con il debito privato, oppure la caduta del reddito nazionale, producendo condizioni di stagnazione permanente.”
Jan Kregel si chiede poi: c’è una strada per uscire dal paradosso della linea di politica economica sposata dall’Eurozona? Sì, se si realizzano due condizioni: (a) l’ area economica è aperta verso l’esterno, (b) si scarica costantemente sull’esterno l’onere dell’indebitamento. A quel punto saranno possibili sia T > G che S > I in contemporanea. Ed è proprio quello che è successo. Germania docet. È possibile far praticare dell’ hedge financing sia al settore pubblico che a quello privato della propria nazione e in più avere una certa crescita se e solo si esternalizza l’indebitamento (verso i partner europei ed extraeuropei). Questa è la sola soluzione che si offre anche all’intera eurozona. L’Euro potrà sopravvivere, seguendo la sua attuale filosofia economica, se e solo se il resto del mondo si sobbarcherà l’onere di indebitarsi continuamente. L’eurozona potrà continuare in un doppio hedge financing (pubblico e privato) mentre ampie zone del resto del mondo dovranno avviarsi prima verso un più rischioso speculative financing ed infine giungere a praticare del Ponzi financing. Lascio a voi immaginare il finale di questa storia.
Da pag. 46 alla fine del documento governativo del 7 settembre 2018 Jan Kregel allarga la riflessione al caso di una economia aperta (la situazione che conosciamo come normale). Nella contabilità nazionale l’ equazione settoriale base va scritta in questo modo:
( Equazione 5) (T – G) + (S – I) = ( X – M ).
Un altro modo di formulare le relazioni tra i saldi settoriali per un’economia nazionale aperta – vedi Kregel a pag. 46 del documento governativo – è questo:
(Equazione 5.1) (T – G) + (S – I) – ( X – M ) = 0.
Si inserisce infatti il rapporto commerciale con l’estero, laddove X sta per il flusso aggregato dell’export e M per il flusso aggregato dell’import. La cosa è evidente, ma per nulla banale. Infatti tutto quanto un’economia nazionale ha esportato, cioè quanto ha venduto ai clienti esteri, ha aumentato il reddito nazionale, mentre quanto i residenti hanno comperato dall’estero, non essendo stato prodotto dalle imprese indigene, ha aumentato il reddito dei fornitori esteri e sminuito il reddito nazionale del Paese importatore, dato che, se quei beni o servizi fossero stati prodotti in loco, avrebbero aumentato il reddito nazionale per quell’importo. [In realtà X – M della nostra equazione non coincide del tutto con la bilancia commerciale del paese considerato, bensì con il saldo delle partire correnti (Co.Pa.Co.). Non ci addentriamo ora nelle differenze tra i due saldi, limitiamoci a dire che quasi coincidono perché il ‘pezzo forte’ del conto delle partire correnti è la bilancia commerciale.]
Che ci dicono in buona sostanza le equazioni 5 e 5.1? Ci dicono che la somma del saldo del settore pubblico (T–G) e del saldo del settore privato (S–I) è uguale al saldo del conto delle partire correnti (X–M) (Current Account in inglese, Leistungsbilanz in tedesco). Infatti se il CA è positivo, cioè se X > M, allora, summa summarum, è affluito reddito aggiuntivo, e quindi liquidità, nel paese considerato. Questo afflusso si va dunque ad aggiungere a S e a T. Pensiamoci un po’. Se X>M, allora le imprese nazionali hanno prodotto di più, c´è dunque un surplus di S per loro; ma per produrre di più hanno impiegato manodopera aggiuntiva, che a sua volta avrà risparmiato una parte del suo reddito, aumentando pure S. Infine, con quei redditi aggiuntivi (per via di X>M) lo stato avrà incassato più tasse, quindi T risulterà maggiorato. Anche I e G potrebbero esserne influenzati, ma in genere molto di meno. Dunque, se X>M, allora nella parte destra dell’equazione 5 non avremo uno zero, ma un numero positivo. E quel surplus ce lo ritroveremo anche nella parte sinistra, distribuito tra (S–I) e T– G). È quindi evidente che la differenza positiva (il surplus) di X–M offre all’insieme dei due settori interni (pubblico e privato) più agio finanziario. Perciò un paese che fa registrare per lunghi periodi un surplus con l’estero avrà l’occasione di migliorare costantemente la sua situazione finanziaria, avrà meno deficit statale, o addirittura un surplus tra T e G e le imprese e le famiglie avranno a disposizione più S. Anche gli stock di debito pubblico e privato diminuiranno. Questa è la situazione di lungo periodo di paesi come la Germania e l’Olanda. Da alcuni anni anche dell’Italia; da poco tempo, della Spagna e del Portogallo. Viceversa stanno le cose per un paese che ha costantemente un deficit commerciale, e dunque anche nel CA. La sua situazione finanziaria peggiorerà di anno in anno; questo paese diminuirà gli stock pregressi di risparmio (S) e si indebiterà con l’estero in maniera crescente, la sua bilancia dei pagamenti (da non confondere né con la Bilancia commerciale né con il CA.) peggiorerà. Questa la situazione della Francia da molto tempo, ma, guardando al di fuori dell’Eurozona, anche della Gran Bretagna, e per dimensioni ancora maggiori, anche degli USA. Il loro apparato produttivo ne risulta sminuito così come la loro possibilità di fare hedge financing.
Da pag. 46 a pag. 52 Kregel si dedica allo studio degli scenari ipotetici e reali nella combinazione dei saldi finanziari dei tre settori (pubblico, privato e verso l’estero). [Vedi i Grafici da 2 a 7.] All’inizio di questa parte anticipa però, con queste parole, le conclusioni a cui giungerà: “È possibile per il settore pubblico e privato essere in surplus (S>I e T>G) se e solo se c’è una eccedenza delle partite correnti (X>M) sufficientemente grande che compensi. Questo significa che le condizioni del Fiscal Compact possono essere soddisfatte solo con un surplus esterno sufficientemente grande da bilanciare i risparmi del settore pubblico e privato. A livello UE questo significa che, poiché alcuni stati avranno bisogno solo di un equilibrio fiscale, mentre i paesi con debito eccessivo avranno bisogno di surplus, l’euro può sopravvivere solo se la UE nel suo insieme ha un surplus esterno. Ma questo significa che la fragilità finanziaria, la spesa in deficit e un indebitamento crescente sono riversati sul resto del mondo; nella situazione attuale verso gli Stati Uniti; ma la politica attuale degli USA sta prendendo iniziative per eliminare il suo ruolo di debitore di ultima istanza.”
A pag. 52/53 del documento Kregel riferisce che nel 1940 gli USA pensarono di iniziare un ciclo di espansione del surplus del Conto delle partite correnti (il cui pezzo forte, come sappiamo, è il surplus della bilancia commerciale) come supporto della domanda interna e del proprio hedge financing. Consultarono vari economisti. A quel punto E. Domar dimostrò però che un surplus di export continuo sarebbe stato possibile se e solo con un tasso di crescita del prestito all’estero maggiore o uguale al tasso di interesse sui prestiti. In altre parole: solo se ci fosse un crescendo costante di indebitamento dell’estero. Kregel aggiunge: “si nota che questa è la definizione di uno schema di Ponzi!” La grande astuzia di fare del beggar-thy-neighbour consisterebbe alla lunga nel ponzizzare altre nazioni. Questa è una variante delle conseguenze del Fiscal compact europeo. I ponzizzati sarebbero paesi non dell’Eurozona (europei o extraeuropei).
L’altra variante è questa: se l’estero extra-eurozona non si lascia ponzizzare, allora aumenteranno le tensioni interne all’Eurozona. Ad esempio, se un Paese segue le regole del Fiscal compact e riduce e tiene ai minimi termini il deficit del settore pubblico, deve aumentare l’indebitamento di quello privato oppure scaricare su altri ‘paesi fratelli’ dell’€Z quell’indebitamento. In teoria solo la Germania e l’Olanda potrebbero permettersi di indebitarsi e di mandare la bilancia commerciale in deficit per lungo tempo. Ma questo stride con la loro filosofia economia, con il Fiscal compact. Non solo, cozza con le dimensioni ed il tipo di apparato industriale e commerciale che hanno messo in piedi.
Da qualsiasi parte la si giri, il referto è questo: il Fiscal compact è una follia economica.
Kregel conclude la sua perizia mettendo a fuoco le posizioni dell’Italia e della Germania. Altro non faccio che citarlo, di nuovo, per esteso: “L’Italia non può aggiustare il suo cambio se vuole rimanere nella Eurozona. Potrebbe tentare di ridurre la crescita dei salari reali sotto il livello di crescita della produttività, ma questo dovrebbe essere ad un tasso maggiore di quello praticato in Germania e causerebbe una riduzione non solo nella domanda e nell’impiego ma anche del risparmio. Ciò ridurrebbe il risparmio anche in Germania, perché il suo tasso di crescita scenderebbe in seguito alla riduzione del surplus netto. La Germania può continuare nel suo comportamento cercando mercati per il suo export al di fuori della Eurozona, il che avvenne quando la Germania aumentò il suo export verso la Cina. Ma, data la nuova politica degli Stati Uniti, questo diventerà sempre più difficile. La linea di fondo è che i paesi altamente indebitati non saranno in grado di pagare i debiti arretrati attraverso l’austerità fiscale, e nemmeno espandendo il loro surplus esterno. – La soluzione consiste in una coordinazione delle politiche fiscali nella UE e nella economia globale, non nel Fiscal Compact. Paesi altamente indebitati possono definire il loro modo per uscire dall’indebitamento, non possono trovare nell’export la via di uscita dal debito attraverso deprezzamenti interni e aumentando l’export. Invece per far questo (uscire dalla trappola del debito, ndt) c’è bisogno di una riforma delle condizioni della politica fiscale nella UE per sostenere e condividere crescita e occupazione."
Mia nota finale. È apprezzabilissimo che il nostro governo abbia incaricato un economista con i fiocchi di fare un’analisi scientifica del Fiscal compact e delle distorsioni dell’Euro. Si nota la mano di Savona. È auspicabile che il documento economico presentato dal governo a Bruxelles il 7 settembre scorso venga discusso nell’opinione pubblica italiana e che si faccia pressione sugli altri governi europei affinché lo prendano in considerazione, smorzando anche i toni con cui rampognano il nostro paese.
Heidelberg, 2 Novembre 2018
Beppe Vandai
RISORSE – Associazione per capire meglio l’economia – Treviglio
VOLTA LA CARTA!! e. V. – Heidelberg
09/12/18
Gilet gialli: "Macron ha mani e piedi legati dall'Unione europea"
Le rivendicazioni dei Gilet Jaunes, legittime e condivisibili, rischiano di restare lettera morta se non accompagnate da un almeno altrettanto energico sforzo per liberarsi delle assurde restrizioni imposte da un sistema anti-democratico, elitista e imperialista come l'Unione Europea. Nessuna delle richieste ribadite in questi ultimi fine settimana a Parigi e nelle principali città francesi, e ora anche in altri paesi, è realizzabile all'interno del sistema di regole europee. Coralie Delaume, che in Francia gestisce il blog L'Arene nue, lo spiega senza mezzi termini in questo importante articolo pubblicato su Le Figaro.
Di Coralie Delaume, 6 dicembre 2018
Aumenti di SMIC (salario minimo orario, ndt) e pensioni, maggiore tassazione delle grandi società, protezione dell'industria francese, fine della politica di austerità e riorganizzazione dei servizi pubblici: queste sono le richieste dei gilet gialli comunicate la scorsa settimana attraverso la stampa. A ciò spesso si aggiunge anche la richiesta di ripristino di una vera democrazia.
Tra le parole d’ordine e gli slogan è invece assente l'Europa. Eppure nessuna delle richieste formulate è realizzabile nell'attuale Unione europea, con il Mercato unico e l'euro, che sono il confine entro il quale si attuano le politiche nazionali. I governi nazionali sono in ultima analisi solo dei volenterosi intermediari dell'Ue, mediatori di potere soddisfatti della loro impotenza.
Non ci può essere democrazia nell'Unione europea
L'Unione europea è qualcosa di più di un'organizzazione internazionale. Non è intergovernativa, ma sovranazionale. I giuristi affermano che la Corte di Giustizia della Comunità ha "elevato i trattati al rango costituzionale" con due sentenze, nel 1963 e nel 1964. In altre parole, la Corte ha creato un nuovo ordinamento giuridico e gettato le basi di un proto-federalismo senza che i popoli siano stati consultati - o persino avvertiti - sul concepimento di una quasi-Costituzione.
I francesi alla fine l’hanno saputo... ma solo quarant'anni dopo! Il referendum del 2005 sul Trattato costituzionale europeo consisteva in definitiva nel chiedere agli elettori di legittimare ex post una situazione che esisteva già da tempo. È questo uno dei motivi per cui il "no" francese (o il "no" olandese) non è stato preso in considerazione: il testo è stato ripresentato sotto il nome di "Trattato di Lisbona". Per poter rispettare il verdetto delle urne, si rese necessario ammettere che era stato già deciso un processo di "federalizzazione sottobanco" dell'Europa, e in tal senso indietreggiare temporaneamente lungo il percorso.
Se la mutazione in senso costituzionale dei trattati è iniziata molto presto, il processo di svuotamento democratico è continuato in seguito. Il problema è stato aggravato, ad esempio, dall’abolizione del principio dell'unanimità nel Consiglio europeo. Come spiega il giurista tedesco Dieter Grimm, ciò ha spezzato la "catena di legittimazione" dal popolo al Consiglio, il cui anello essenziale erano i governi nazionali eletti. Con l’abolizione dell'unanimità, uno Stato può essere soggetto a una norma di legge che è stata esplicitamente respinta da uno degli anelli della catena di formazione della propria volontà nazionale, anche se in linea di principio il peso relativo della Francia nel Consiglio la rende immune da ciò.
Per rimediare all'immenso "deficit democratico" della costruzione comunitaria, il trattato di Lisbona ha aumentato i poteri del Parlamento europeo. Problema: questo Parlamento non è un organo unico. Non rappresenta il "popolo europeo" (dato che non esiste), ma si limita semplicemente a far coabitare i rappresentanti nazionali di ventotto stati. Per di più, a parte questo, non è neanche il principale produttore di diritto comunitario. Questo ruolo è di competenza della Corte di Lussemburgo, che emette norme a getto continuo, con valore giuridico e senza consultare nessuno. Infine, il Parlamento europeo non ha la possibilità di modificare i trattati, anche laddove questi contengono elementi di politica economica. Che l'Assemblea di Strasburgo abbia una maggioranza di "sinistra" o di "sovranisti", ciò non darebbe luogo ad alcun riorientamento. Qualunque cosa accada nelle urne elettorali durante le elezioni europee del 2019, il combinato legislativo composto dai trattati e dalle sentenze della Corte continuerà ad imporre più libero scambio, più austerità, più concorrenza.
Non può esserci alcun cambio di rotta della politica economica nel contesto del mercato unico e dell'euro
I trattati europei sono la "costituzione economica" dell'Europa. La loro posizione predominante spiega perché la politica economica condotta in Francia non è cambiata dalla metà degli anni '80, benché si siano succeduti alla testa dello Stato uomini di diverse posizioni. È "l'alternanza unica" secondo la definizione di Jean-Claude Michéa, lo stesso che segue il medesimo, dando l'apparenza del cambiamento. Finché si rimane nell'Unione europea, votare non cambia nulla.
Ecco perché l'ex commissario Viviane Reding ha potuto ad esempio affermare: "Diventa inesorabilmente necessario rendersi conto che non esistono più politiche interne nazionali".
I governi dei paesi membri hanno a disposizione solo un numero molto limitato di strumenti di politica economica. Nessuna politica industriale proattiva è possibile poiché i trattati vietano "distorsioni della concorrenza" attraverso l'intervento dello Stato. Nessuna politica commerciale protezionista è possibile poiché la politica commerciale è una "competenza esclusiva" dell'Unione. Nessuna politica dei cambi è possibile perché nel contesto dell'euro i governi non possono attuali. Nessuna politica monetaria è possibile, dato che è la Banca centrale europea a guidarla. Infine, nessuna politica di bilancio pubblico è possibile, poiché i paesi che hanno adottato la moneta unica sono soggetti a "criteri di convergenza", tra cui la famosa regola, del tutto arbitraria, del tetto del 3% al deficit pubblico. Inoltre, a partire dal 2010 e nell'ambito di un programma denominato "Semestre europeo", la Commissione ha iniziato a supervisionare meticolosamente la preparazione dei bilanci nazionali.
In queste condizioni, sono solo due gli strumenti a disposizione dei governi nazionali: la tassazione e l’abbassamento del "costo del lavoro".
Per quanto riguarda la tassazione, generalmente si decide di diminuire quella che pesa sul capitale suscettibile di delocalizzazione e di aumentare quella che grava sulle classi sociali che non possono sfuggire al fisco. Nel 1986 si è stabilito il principio della "libera circolazione dei capitali" nel mercato unico. Da allora il capitale ha acquisito il potere di esercitare su ciascuno Stato un vero e proprio ricatto, minacciando di fuggire verso gli Stati vicini. I paesi membri sono impegnati in una concorrenza fiscale sfrenata, alcuni (Lussemburgo, Irlanda) si sono persino trasformati in paradisi fiscali e vivono delle opportunità di evasione fiscale che offrono alle multinazionali.
Per quanto riguarda il reddito (e il diritto) al lavoro, sono uno dei bersagli privilegiati dell’organismo sovranazionale. Per rendersene conto basta leggere i documenti di orientamento prodotti dalla Commissione europea, dagli "Orientamenti per l'occupazione" alla "Indagine annuale sulla crescita" e le "Raccomandazioni del Consiglio" elaborate ogni anno durante il semestre europeo. Tutte le riforme del diritto del lavoro attuate nei paesi membri, dal Jobs Act in Italia alla legge di El Khomri in Francia, erano state previste in uno di questi grossi tomi [provenienti dalla Commissione].
Per finire, i principi della "libera circolazione delle persone" e della "libera prestazione di servizi" all'interno del mercato unico favoriscono il livellamento verso il basso. Nonostante l'ampia disparità nei livelli retributivi da un paese all'altro, queste "libertà" mettono in competizione tutti i lavoratori europei l’uno con l’altro. Favoriscono una serie di pratiche di dumping sociale, il più noto dei quali è l'utilizzi di lavoratori distaccati. Per i paesi con l'euro, è ancora più grave: non essendo in grado di svalutare la loro moneta per aumentare la loro competitività, sono costretti a praticare la "svalutazione interna", ossia abbassare i salari.
Perché tutti i governi francesi che si sono susseguiti hanno contribuito a costruire questa Europa?
Per capire gli eventi attuali tornano utili le categorie tradizionali del marxismo. Se, come afferma Jérôme Sainte-Marie, il movimento dei gilet gialli riporta alla ribalta l'esistenza del conflitto di classe, è anche vero che questo non ha mai cessato di esistere. L'Europa dei mercati e delle valute è sempre stata un'Europa classista. Ha l'obiettivo di erodere incessantemente i redditi da lavoro e distruggere tutti gli strumenti redistributivi, in particolare i servizi pubblici, con il pretesto dell’"apertura alla concorrenza" da un lato, del "controllo della spesa pubblica" e della "riduzione del debito" dall'altro.
Come è già accaduto in passato, questa politica di classe si adatta bene a un "regime di occupazione" che consente alle classi dominanti di disfarsi e/o di affidare a qualcuno più forte di loro l’incombenza di garantire un certo Ordine. Poiché l'occupazione stricto sensu, da parte di una potenza straniera che invada militarmente il territorio, è ovviamente impensabile, le élite francesi cosmopolite hanno elaborato una modalità di occupazione “soft”. L'ex presidente della Commissione José Manuel Barroso ha dichiarato che l'Unione europea è un "impero non imperiale", una formula che giustamente suggerisce che l'aggregazione dei territori all'impero sia stata fatta tramite l’economia e il diritto, non con la forza. Una volta raggiunta l'unificazione continentale, le regole comunitarie svolgono il loro ruolo: quello del vincolo esterno scelto in un regime di schiavitù volontaria.
Uno dei principali slogan sentiti durante le manifestazioni dei gilet gialli o nelle rotonde è "Macron dimettiti". Ma nelle condizioni attuali, le dimissioni di un uomo sarebbero qualcosa di ampiamente insufficiente. Per ridiventare padroni del proprio destino, i francesi (e tutti i popoli d'Europa) devono esigere che le mappe europee siano profondamente rielaborate e che venga ripristinata la sovranità nazionale, un altro nome per "diritto dei popoli all'autodeterminazione".
Infine, rassicuriamoci: la fine dell'Unione europea, che altro non è che un insieme contingente di regole e istituzioni poste al servizio di interessi particolari, non significherà la fine dell'Europa, vecchio continente, né dei paesi che la compongono.
Di Coralie Delaume, 6 dicembre 2018
Aumenti di SMIC (salario minimo orario, ndt) e pensioni, maggiore tassazione delle grandi società, protezione dell'industria francese, fine della politica di austerità e riorganizzazione dei servizi pubblici: queste sono le richieste dei gilet gialli comunicate la scorsa settimana attraverso la stampa. A ciò spesso si aggiunge anche la richiesta di ripristino di una vera democrazia.
Tra le parole d’ordine e gli slogan è invece assente l'Europa. Eppure nessuna delle richieste formulate è realizzabile nell'attuale Unione europea, con il Mercato unico e l'euro, che sono il confine entro il quale si attuano le politiche nazionali. I governi nazionali sono in ultima analisi solo dei volenterosi intermediari dell'Ue, mediatori di potere soddisfatti della loro impotenza.
Non ci può essere democrazia nell'Unione europea
L'Unione europea è qualcosa di più di un'organizzazione internazionale. Non è intergovernativa, ma sovranazionale. I giuristi affermano che la Corte di Giustizia della Comunità ha "elevato i trattati al rango costituzionale" con due sentenze, nel 1963 e nel 1964. In altre parole, la Corte ha creato un nuovo ordinamento giuridico e gettato le basi di un proto-federalismo senza che i popoli siano stati consultati - o persino avvertiti - sul concepimento di una quasi-Costituzione.
I francesi alla fine l’hanno saputo... ma solo quarant'anni dopo! Il referendum del 2005 sul Trattato costituzionale europeo consisteva in definitiva nel chiedere agli elettori di legittimare ex post una situazione che esisteva già da tempo. È questo uno dei motivi per cui il "no" francese (o il "no" olandese) non è stato preso in considerazione: il testo è stato ripresentato sotto il nome di "Trattato di Lisbona". Per poter rispettare il verdetto delle urne, si rese necessario ammettere che era stato già deciso un processo di "federalizzazione sottobanco" dell'Europa, e in tal senso indietreggiare temporaneamente lungo il percorso.
Se la mutazione in senso costituzionale dei trattati è iniziata molto presto, il processo di svuotamento democratico è continuato in seguito. Il problema è stato aggravato, ad esempio, dall’abolizione del principio dell'unanimità nel Consiglio europeo. Come spiega il giurista tedesco Dieter Grimm, ciò ha spezzato la "catena di legittimazione" dal popolo al Consiglio, il cui anello essenziale erano i governi nazionali eletti. Con l’abolizione dell'unanimità, uno Stato può essere soggetto a una norma di legge che è stata esplicitamente respinta da uno degli anelli della catena di formazione della propria volontà nazionale, anche se in linea di principio il peso relativo della Francia nel Consiglio la rende immune da ciò.
Per rimediare all'immenso "deficit democratico" della costruzione comunitaria, il trattato di Lisbona ha aumentato i poteri del Parlamento europeo. Problema: questo Parlamento non è un organo unico. Non rappresenta il "popolo europeo" (dato che non esiste), ma si limita semplicemente a far coabitare i rappresentanti nazionali di ventotto stati. Per di più, a parte questo, non è neanche il principale produttore di diritto comunitario. Questo ruolo è di competenza della Corte di Lussemburgo, che emette norme a getto continuo, con valore giuridico e senza consultare nessuno. Infine, il Parlamento europeo non ha la possibilità di modificare i trattati, anche laddove questi contengono elementi di politica economica. Che l'Assemblea di Strasburgo abbia una maggioranza di "sinistra" o di "sovranisti", ciò non darebbe luogo ad alcun riorientamento. Qualunque cosa accada nelle urne elettorali durante le elezioni europee del 2019, il combinato legislativo composto dai trattati e dalle sentenze della Corte continuerà ad imporre più libero scambio, più austerità, più concorrenza.
Non può esserci alcun cambio di rotta della politica economica nel contesto del mercato unico e dell'euro
I trattati europei sono la "costituzione economica" dell'Europa. La loro posizione predominante spiega perché la politica economica condotta in Francia non è cambiata dalla metà degli anni '80, benché si siano succeduti alla testa dello Stato uomini di diverse posizioni. È "l'alternanza unica" secondo la definizione di Jean-Claude Michéa, lo stesso che segue il medesimo, dando l'apparenza del cambiamento. Finché si rimane nell'Unione europea, votare non cambia nulla.
Ecco perché l'ex commissario Viviane Reding ha potuto ad esempio affermare: "Diventa inesorabilmente necessario rendersi conto che non esistono più politiche interne nazionali".
I governi dei paesi membri hanno a disposizione solo un numero molto limitato di strumenti di politica economica. Nessuna politica industriale proattiva è possibile poiché i trattati vietano "distorsioni della concorrenza" attraverso l'intervento dello Stato. Nessuna politica commerciale protezionista è possibile poiché la politica commerciale è una "competenza esclusiva" dell'Unione. Nessuna politica dei cambi è possibile perché nel contesto dell'euro i governi non possono attuali. Nessuna politica monetaria è possibile, dato che è la Banca centrale europea a guidarla. Infine, nessuna politica di bilancio pubblico è possibile, poiché i paesi che hanno adottato la moneta unica sono soggetti a "criteri di convergenza", tra cui la famosa regola, del tutto arbitraria, del tetto del 3% al deficit pubblico. Inoltre, a partire dal 2010 e nell'ambito di un programma denominato "Semestre europeo", la Commissione ha iniziato a supervisionare meticolosamente la preparazione dei bilanci nazionali.
In queste condizioni, sono solo due gli strumenti a disposizione dei governi nazionali: la tassazione e l’abbassamento del "costo del lavoro".
Per quanto riguarda la tassazione, generalmente si decide di diminuire quella che pesa sul capitale suscettibile di delocalizzazione e di aumentare quella che grava sulle classi sociali che non possono sfuggire al fisco. Nel 1986 si è stabilito il principio della "libera circolazione dei capitali" nel mercato unico. Da allora il capitale ha acquisito il potere di esercitare su ciascuno Stato un vero e proprio ricatto, minacciando di fuggire verso gli Stati vicini. I paesi membri sono impegnati in una concorrenza fiscale sfrenata, alcuni (Lussemburgo, Irlanda) si sono persino trasformati in paradisi fiscali e vivono delle opportunità di evasione fiscale che offrono alle multinazionali.
Per quanto riguarda il reddito (e il diritto) al lavoro, sono uno dei bersagli privilegiati dell’organismo sovranazionale. Per rendersene conto basta leggere i documenti di orientamento prodotti dalla Commissione europea, dagli "Orientamenti per l'occupazione" alla "Indagine annuale sulla crescita" e le "Raccomandazioni del Consiglio" elaborate ogni anno durante il semestre europeo. Tutte le riforme del diritto del lavoro attuate nei paesi membri, dal Jobs Act in Italia alla legge di El Khomri in Francia, erano state previste in uno di questi grossi tomi [provenienti dalla Commissione].
Per finire, i principi della "libera circolazione delle persone" e della "libera prestazione di servizi" all'interno del mercato unico favoriscono il livellamento verso il basso. Nonostante l'ampia disparità nei livelli retributivi da un paese all'altro, queste "libertà" mettono in competizione tutti i lavoratori europei l’uno con l’altro. Favoriscono una serie di pratiche di dumping sociale, il più noto dei quali è l'utilizzi di lavoratori distaccati. Per i paesi con l'euro, è ancora più grave: non essendo in grado di svalutare la loro moneta per aumentare la loro competitività, sono costretti a praticare la "svalutazione interna", ossia abbassare i salari.
Perché tutti i governi francesi che si sono susseguiti hanno contribuito a costruire questa Europa?
Per capire gli eventi attuali tornano utili le categorie tradizionali del marxismo. Se, come afferma Jérôme Sainte-Marie, il movimento dei gilet gialli riporta alla ribalta l'esistenza del conflitto di classe, è anche vero che questo non ha mai cessato di esistere. L'Europa dei mercati e delle valute è sempre stata un'Europa classista. Ha l'obiettivo di erodere incessantemente i redditi da lavoro e distruggere tutti gli strumenti redistributivi, in particolare i servizi pubblici, con il pretesto dell’"apertura alla concorrenza" da un lato, del "controllo della spesa pubblica" e della "riduzione del debito" dall'altro.
Come è già accaduto in passato, questa politica di classe si adatta bene a un "regime di occupazione" che consente alle classi dominanti di disfarsi e/o di affidare a qualcuno più forte di loro l’incombenza di garantire un certo Ordine. Poiché l'occupazione stricto sensu, da parte di una potenza straniera che invada militarmente il territorio, è ovviamente impensabile, le élite francesi cosmopolite hanno elaborato una modalità di occupazione “soft”. L'ex presidente della Commissione José Manuel Barroso ha dichiarato che l'Unione europea è un "impero non imperiale", una formula che giustamente suggerisce che l'aggregazione dei territori all'impero sia stata fatta tramite l’economia e il diritto, non con la forza. Una volta raggiunta l'unificazione continentale, le regole comunitarie svolgono il loro ruolo: quello del vincolo esterno scelto in un regime di schiavitù volontaria.
Uno dei principali slogan sentiti durante le manifestazioni dei gilet gialli o nelle rotonde è "Macron dimettiti". Ma nelle condizioni attuali, le dimissioni di un uomo sarebbero qualcosa di ampiamente insufficiente. Per ridiventare padroni del proprio destino, i francesi (e tutti i popoli d'Europa) devono esigere che le mappe europee siano profondamente rielaborate e che venga ripristinata la sovranità nazionale, un altro nome per "diritto dei popoli all'autodeterminazione".
Infine, rassicuriamoci: la fine dell'Unione europea, che altro non è che un insieme contingente di regole e istituzioni poste al servizio di interessi particolari, non significherà la fine dell'Europa, vecchio continente, né dei paesi che la compongono.