30/07/17

Die Anstalt - Ridendo e scherzando, qualche notizia sull'Africa che nessuno ci dà

Dopo l'intelligente sketch sull'equilibrio dei mercati, diamo ancora spazio alla trasmissione televisiva tedesca Die Anstalt, questa volta impegnata, nel suo stile leggero - ma non per questo banale - a fornirci qualche informazione sulle cause dell'emigrazione di massa dall'Africa. E vedrete che sono informazioni che molto raramente si leggono sui nostri media, e di cui la nostra satira "de sinistra" solitamente non si occupa.

 

28/07/17

Sapir - La "nazionalizzazione" di STX e le contraddizioni del governo francese

Il campione del liberalismo europeista nazionalizza un’impresa per difendere gli interessi francesi. Jacques Sapir mette in luce sul suo blog Russeurope come questa smaccata contraddizione mostri da una parte l’assenza di una coerente linea politica nel governo di Philippe e Macron, dall’altra che la nazionalizzazione di STX è probabilmente una mossa puramente propagandistica, priva di sostanza.

 

 

 

Di Jacques Sapir, 27 luglio 2017

 

Il governo ha deciso di "nazionalizzare" la società cantieristica STX (1). Questo potrebbe sorprendere, da parte di un governo che, finora, si era fatto notare soprattutto per le sue posizioni ispirate al più puro liberalismo economico. L'obiettivo dichiarato è quello di "difendere gli interessi strategici della Francia." Il governo fino a oggi era proprietario del 33,33% del capitale, insieme a un diritto di prelazione in scadenza sabato 29 luglio. È proprio questo diritto che il governo ha deciso di esercitare, dopo il fallimento delle trattative con la società italiana, Fincantieri, che doveva acquisire una quota del capitale (2).

 


Il caso STX e il conflitto franco-italiano


 

L'esecutivo ha cercato di negoziare un modello "50-50" che bilanciasse gli interessi francesi (lo Stato, l'ex Gruppo navale DCNS, BPI-Francia e i dipendenti) e quelli italiani nel finanziamento dei Chantiers de l’Atlantique, mentre l’accordo originale assegnava al campo italiano il 55% del capitale di STX France. Le cause dell’inversione di rotta del governo francese sono note. Fincantieri opera nella stessa fascia di mercato della STX, che ne è il principale concorrente. Mentre il governo presieduto da Bernard Cazeneuve aveva accettato che agli italiani andasse la quota di maggioranza, quello presieduto da Édouard Philippe, e naturalmente il Presidente della Repubblica, hanno fatto propri i timori di molti funzionari di STX che l’acquirente italiano intervenisse per garantirsi il controllo di alcuni impianti esistenti a Saint-Nazaire, lasciando decadere la produzione nel sito. Il governo italiano ha respinto la proposta francese, sia per voce del ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda, sia del suo collega al Tesoro Pier Carlo Padoan.

 

Si tratta di una decisione importante. Ma va anche contestualizzata. Questa scelta comporta una spesa che non supera gli 80 milioni di euro. Nello stesso momento, il governo Philippe si prepara a privatizzare la società Aéroports de Paris, per una cifra stimata tra 2,7 e 7 miliardi di euro, a seconda della formula di privatizzazione prescelta. Ora, questi aeroporti (Charles de Gaulle e Orly) possono essere considerati altrettanto strategici quanto i cantieri navali STX. Inoltre, il governo francese ha annunciato la sua decisione di riprendere i negoziati con la controparte italiana, per arrivare a una sorta di "Airbus del mare", e quindi di non chiudere la porta a un accordo con l'Italia.

 


Le contraddizioni del governo


 

In realtà, l'atteggiamento del governo francese evidenzia le contraddizioni della comunicazione e della politica di Emmanuel Macron.

 

In primo luogo, in questo progetto di creare un "Airbus navale" c’è una contraddizione evidente. Ricordiamolo: il precedente dell’Airbus era basato su un'esperienza di collaborazione con l'industria aeronautica tedesca che durava da più di un decennio. Questa cooperazione era concentrata sul velivolo da trasporto Transall, ma prevedeva anche la costruzione su licenza in Germania del predecessore del Transall (il Noratlas) e del Fouga Magister. Inoltre, quando era stato negoziato il consorzio Airbus, era in corso anche un altro programma di cooperazione industriale per l'Alpha Jet. L’Airbus è stato dunque, in origine, il risultato di molti progetti di cooperazione industriale, in cui era chiaro che la Francia giocava un ruolo di primo piano. Con le costruzioni navali non siamo affatto in questo tipo di situazione. L'analogia proclamata dal governo si basa sul nulla. Sono solo parole.

 

Da notare inoltre che la decisione riporta in scena la sovranità della Francia, anche se il Presidente continua a cantare le lodi di un'Europa più integrata, il che comporterebbe nuove perdite di sovranità. Qui possiamo vedere che si manifesta di nuovo la stessa contraddizione che aveva caratterizzato François Hollande, quando nel novembre 2015 dichiarò lo stato di emergenza. Sia con François Hollande sia con Emmanuel Macron, siamo in presenza di presidenti che affermano la loro volontà di andare oltre nel processo di integrazione europea, ma che, di fronte a una crisi, reagiscono nel senso di una riaffermazione della sovranità francese. Una contraddizione irrimediabile.

 


Il ruolo dello Stato nello sviluppo del settore



 

Il governo di Philippe e di Macron appare quindi privo di rotta, dice una cosa e ne fa un’altra. Questo è particolarmente grave nel settore industriale che, meno di qualsiasi altro, tollera messinscene e decisioni opportunistiche.

 

L'attività industriale non è un'organizzazione come le altre. Come le chiese e gli eserciti, si tratta di un'organizzazione gerarchica non democratica (3), in cui la stragrande maggioranza dei membri è esclusa dalla creazione delle istituzioni interne.

 

Per poter funzionare, deve ricorrere a sistemi di complementarietà realizzati attraverso la divisione del lavoro (4). Allo stesso tempo, si basa su una separazione radicale tra proprietari e dipendenti. L’impresa, nella sua forma capitalistica, si basa quindi su un insieme di funzioni, di cui fanno parte (senza riassumerle totalmente) la minimizzazione dei costi di transazione (come argomenta R. Coase) e l'ottimizzazione di un sistema di conoscenza collettiva locale (5), in particolare la creazione di linee informative e di diffusione (interpretazione di un volume crescente di segnali attraverso le conoscenze generate dalla divisione tecnica del lavoro). Inoltre assicura, va ricordato, la predominanza di certe strategie di appropriazione rispetto ad altre (6). Questa dimensione d’altra parte ha anche introdotto un certo livello di incoerenza nell'articolazione di sistemi coerenti che realizza l'impresa capitalistica.

 

Un’impresa pubblica, d’altra parte, può adottare istituzioni interne per facilitare la condivisione spontanea della conoscenza individuale e incoraggiare la creazione di strutture di conoscenza collettiva. Ma non per questo è priva di inconvenienti. In primo luogo, perché lo Stato possa agire come un proprietario che si autoassegna dei limiti (vale a dire, si impegna a non disertare), l'area produttiva dello Stato deve essere limitata. Se le necessità di finanziamento del settore pubblico sono troppo elevate rispetto alle capacità di finanziamento, i lavoratori possono temere o una interruzione dell’impegno assunto (sotto forma di una privatizzazione o di un allineamento della gestione allo standard normale delle imprese capitalistiche), o una rivalsa fiscale.

 

Ci sono molte ragioni, tuttavia, che vanno a favore dell’esistenza di un settore industriale pubblico: creare un'alternativa ai produttori privati ​​per costringerli a moderare i loro prezzi nei contratti tra Stato e imprese; assumersi il rischio di impresa in condizioni di elevata incertezza; in alcune attività, essere capaci di sostenere un significativo costo di ingresso, che scoraggia gli investitori privati.

 

Questa "nazionalizzazione" di STX potrebbe offrire l’opportunità di una presa di coscienza sia della situazione dell’industria francese, sia della necessità di un settore industriale pubblico, in alcuni campi. Ma questo esige che il governo si liberi della cappa ideologica non solo del liberalismo, ma anche dell’europeismo.

 

Francamente, è molto poco probabile che questo avvenga. Questa “nazionalizzazione” rischia dunque di essere null’altro che fumo negli occhi.

 

 

Note

(1) http://www.lefigaro.fr/flash-eco/2017/07/27/97002-20170727FILWWW00227-bruno-le-maire-annonce-la-nationalisation-de-stx.php

 

(2) http://www.lefigaro.fr/societes/2017/07/18/20005-20170718ARTFIG00340-stx-franceattend-le-verdict-d-emmanuel-macron.php

 

(3) È chiaro che anche altre organizzazioni, partiti politici, sindacati, squadre sportive, possono funzionare in modo non democratico. Ma questa forma di funzionamento non è intrinseca alla loro natura, e d’altra parte anche queste organizzazioni potrebbero tranquillamente funzionare in modo democratico, il che non esclude il principio gerarchico, ma dà ai suoi membri un potere di controllo sulla designazione della gerarchia e sull'ampiezza dei suoi poteri.

 

(4) Questo punto è ricordato da C. Pitelis, "Transaction Costs, Markets and Hierarchies: the Issues”, in C. Pitelis, (a cura di) Transaction Costs, Markets and Hierarchies, Basil Blackwell, Oxford, 1993.

 

(5) S. Winter, "On Coase Competence and the Corporation", in O.E. Williamson & SG Winter (a cura di), The Nature of the Firm -Origins, Evolution and Development, Oxford University Press, Oxford, 1991, pp. 179-195.

 

(6) G. K. Dow, "The Appropriability Critique of Transaction Cost Economics" in C. Pitelis, (a cura di), Transaction Costs, Markets and Hierarchies, Basil Blackwell, Oxford, 1993, pp. 101-132. Per un'analisi molto pertinente di questa asimmetria vedi anche, D.H. Robertson, The Control of Industry, Cambridge University Press, Cambridge, 1923.

 

Politico - Quei disonesti dei tedeschi

L'edizione europea di Politico ripercorre la parabola che negli ultimi anni ha messo fine al mito dell'onestà tedesca. Gli scandali che hanno colpito tutti i maggiori business del paese — Deutsche Bank, Siemens, le grandi case automobilistiche — , e sui quali le autorità di Berlino sembrano avere sempre chiuso uno o entrambi gli occhi, dimostrano che, se la Germania forse non è "peggiore" degli altri, non ha però alcun titolo per ergersi a moralizzatore dei presunti peccati altrui.

 

 

 

di Paul Taylor, 25 luglio 2017

 

La prossima volta che un ministro tedesco farà la lezioncina a qualche altro paese dell'Unione Europea sulla necessità di obbedire alle regole, il malcapitato bersaglio potrà essere perdonato se gli renderà la pariglia.

 

Il paese che tanto ama fustigare gli altri per i danni legati all'azzardo morale, che chiede una rigida disciplina nell'applicare le regole fiscali della UE e che dipinge i paesi dell'Europa del Sud come endemicamente corrotti, è caduto proprio lui nel pantano. Gli scandali hanno colpito la sua tanto decantata industria automobilistica, il suo più grande settore ingegneristico (Siemens) e la sua maggiore banca (Deutsche Bank) — e c'è più di un sospetto che Berlino abbia chiuso un occhio su tutto questo, per molto tempo.

 

Può essere che la Germania non sia né più sporca né più pulita di qualsiasi altro paese europeo. Ma è certamente più presuntuosa. Ed è per questo che oggi è difficile non essere percorsi da un brivido di gioia maligna quando si leggono i sempre più frequenti resoconti sui comportamenti scorretti — e forse anche illegali — di alcune delle sue maggiori aziende.

 

L'ultimo scandalo che ha macchiato la reputazione di Deutschland AG - "Germania Spa", come viene spesso soprannominata la relazione un po' troppo intima tra mondo degli affari e politica, riguarda più di due decenni di presunte collusioni tra le cinque maggiori case automobilistiche tedesche. Lo riporta Der Spiegel.

 

Le autorità tedesche ed europee sull'antitrust stanno investigando per appurare se Mercedes-Benz, proprietario di Daimler, Volskwagen, BMW, Porsche e Audi abbiano svolto riunioni segrete per concordare gli standard tecnici, le forniture e i prezzi, a scapito dei concorrenti stranieri.

 

Secondo il report è stata Volkswagen, nel disperato tentativo di ripulirsi ed evitare ulteriori problemi legali dopo essere stata scoperta a imbrogliare sistematicamente nei test di emissione di sostanze inquinanti negli Stati Uniti, a informare l'Ufficio federale tedesco per l'antitrust. In seguito, dice l'inchiesta, è risultato che Daimler potrebbe avere preceduto Volkswagen nel fare la soffiata.

 

Le prove sull'esistenza di un presunto cartello sarebbero state poi insabbiate per un anno, fino a che Der Spiegel non ha pubblicato il suo report. BMW ha negato qualsiasi comportamento illegale. Le altre case automobilistiche non hanno commentato, mentre la VDA (associazione tedesca dell'industria automobilistica ndT) ha dichiarato di non essere coinvolta.

 

Le case automobilistiche confermate colpevoli di violazione delle regole europee sulla concorrenza potrebbero essere multate fino al 10 per cento del loro fatturato totale: ma il sistema prevede che il primo dei partecipanti a denunciare l'esistenza dei comportamenti anticoncorrenziali illeciti sia esentato dal pagamento della multa. Per esempio, due dei maggiori costruttori tedeschi di camion — MAN e Daimler — erano tra le cinque aziende coinvolte in un cartello per concordare i prezzi che lo scorso anno è stato sanzionato dalla Commissione Europea con una multa di 2,93 miliardi di euro. Però MAN non è stata multata, perché è stata la prima a rivelare l'esistenza del cartello, nel 2011.

 

Ma non è solo la tanto decantata industria automobilistica tedesca ad essersi messa in cattiva luce negli ultimi tempi. Lo scorso anno Deutsche Bank ha patteggiato 7,2 miliardi di dollari con il Dipartimento della Giustizia statunitense per un'indagine sulle modalità scorrette di vendita di titoli garantiti da ipoteca tra il 2005 e il 2007: era risultato che alcuni prestiti fatti a debitori del tutto privi di garanzie venivano reimpacchettati e rivenduti agli investitori come titoli sicuri.

 

Il crollo dei titoli garantiti da ipoteca è stato uno dei maggiori fattori scatenanti della crisi finanziaria globale del 2008 (quella stessa che dato fiato a orde di moralizzatori tedeschi). Ma Deutsche Bank è stata multata anche perché la sua società sussidiaria nel Regno Unito ha manipolato il tasso di interesse LIBOR e non ha impedito il riciclaggio di 10 miliardi di dollari di denaro sporco proveniente dalla Russia.

 

Nel frattempo il gigante ingegneristico Siemens è stato accusato di avere fornito turbine a gas per alcuni generatori elettrici che permetteranno il funzionamento di due centrali elettriche nella Crimea occupata dalla Russia, e che metteranno fine alla dipendenza energetica della penisola dall'Ucraina, dopo che Mosca ha ripreso possesso della regione nel 2014.

 

La fornitura di apparecchiature elettriche alla Crimea viola le sanzioni stabilite dall'Unione Europea, ma Siemens sostiene che il dirottamento è avvenuto a sua insaputa, a causa di un'azienda statale russa sua cliente, in violazione del contratto e nonostante i passati avvertimenti fatti dall'azienda.

 

All'inizio del mese Siemens aveva negato un report di Reuters che affermava che due delle sue turbine erano state inviate in Crimea dalla vicina Russia sud-occidentale. Poi ha affermato che stava compiendo delle indagini. Poi ha ammesso che l'attrezzatura era stata spedita in Crimea ma "contro la sua volontà" e ha dichiarato che avrebbe fatto causa al suo cliente russo, Technopromexport, e alla sua stessa società sussidiaria in Russia, la Siemens Gas Turbine Technologies. Ora dichiara di avere bloccato l'esportazione di qualsiasi tecnologia per la generazione di corrente elettrica destinata alla Russia.

 

Le spiegazioni fornite appaiono nel migliore dei casi ingenue. Come riportato dal sito investigativo ucraino Euromaidanpress, era evidente a chiunque che Mosca stava costruendo a gran velocità centrali elettriche calibrate esattamente per le turbine Siemens in Crimea. Mentre i progetti per la costruzione di una centrale elettrica, cui sulla carta le turbine dovevano essere destinate, sull'altra sponda del Mar d'Azov, erano a malapena abbozzati.

 

Recitando il più ovvio dei copioni, Siemens si è autodipinta come vittima di un inganno dei russi e ha rumorosamente chiuso la stalla  dopo che i buoi erano già scappati.

 

Tutta la faccenda è una bella ragione di imbarazzo per Berlino, che si era schierata in prima fila nella richiesta delle sanzioni europee contro le aziende e i singoli russi coinvolti nell'occupazione della Crimea da parte di Mosca. La cancelliera Angela Merkel ha perfino affermato che questa vicenda ha infranto un sistema di regole rispettate in Europa dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.

 

Un portavoce del governo tedesco ha dichiarato che alti funzionari russi avevano assicurato che le turbine non sarebbero state usate in Crimea, e che Berlino stava studiando le potenziali conseguenze di questa  operazione "inaccettabile".

 

In uno scaricabarile da manuale, il portavoce del governo ha affermato che era compito delle aziende assicurarsi di non violare le sanzioni, e tuttavia non ha minimamente fatto cenno ad alcuna conseguenza per Siemens legata a tutto questo.

 

Un filo comune, in tutta questa serie di scandali aziendali, è che il governo tedesco non è mai stato il primo a far saltare fuori pubblicamente i problemi o svolgere indagini. Al contrario, sono state le autorità degli Stati Uniti (e in misura minore di Bruxelles) a smascherare il comportamento di Deutsche Bank e Volkswagen.

 

Volkswagen ha pagato 2,8 miliardi di dollari di sanzioni penali, più 1,5 miliardi di dollari di sanzioni civili negli Stati Uniti in aprile per avere manipolato in modo truffaldino il software dei suoi veicoli diesel, perché passassero i test sulle emissioni inquinanti imposti dalla legge. È stata l'Agenzia statunitense per la protezione ambientale a scoprire le violazioni, nel 2015.

 

Volkswagen ha dovuto allora richiamare 11 milioni di veicoli, di cui circa 8 milioni erano stati venduti in Europa. Lo scandalo ha messo in luce tutta la debolezza e la frammentarietà del sistema di regolamentazione europeo, nonché l'applicazione estremamente lassista delle regole da parte delle autorità. La casa automobilistica tedesca ha accettato di pagare circa 15 miliardi di euro di risarcimenti agli acquirenti statunitensi, ma ha rifiutato di fare lo stesso verso i propri clienti europei, a causa delle diverse regole per la tutela dei consumatori in Europa.

 

I produttori tedeschi riescono a far pagare cari i propri prodotti, le loro "automobili definitive", grazie a quello che un tempo era conosciuto in Europa come l'indiscutibile marchio di "Deutsche Qualität" (qualità tedesca).

 

Ma che succede, se la massima avanguardia tecnologica sbandierata negli slogan come "il progresso attraverso la tecnologia" si rivela essere "il progresso attraverso l'imbroglio", costruito con marchingegni truffaldini e cartelli sui prezzi?

 

Si canterebbe ancora Oh Signore comprami una Mercedes-Benz?

27/07/17

Quantitative Easing, il più grande trasferimento di ricchezza della storia

Il Quantitative Easing, dopo aver fallito tutti i suoi obiettivi dichiarati, sta per essere abbandonato da quasi tutti i paesi del mondo. Un editoriale di RT esamina le conseguenze redistributive degli ultimi cicli di QE nel Regno Unito, in Giappone e nei paesi del Sud del mondo, ed i possibili scenari che si presenteranno dopo l'abbandono di tali politiche.

 

 

 

Di Dan Glazebrook*, 22 luglio 2017

 

Sembra che l’enorme trasferimento di ricchezza verso i ricchi, durato circa un decennio e noto come 'quantitative easing’, stia per volgere al termine. Delle quattro principali banche centrali del mondo - la Federal Reserve americana, la Bank of England, la Banca centrale europea e la Banca del Giappone - due hanno già abbandonato la politica di acquisto di attività finanziarie (la Fed e la BoE), e la BCE intende smettere gli acquisti da dicembre. La Fed dovrebbe infatti iniziare a vendere nei prossimi due mesi i 3500 miliardi di dollari di titoli acquistati in tre cicli di QE.

 

Dal momento che - valutato alla luce degli obiettivi ufficiali - il QE è stato un completo disastro, ciò appare perfettamente sensato. Grazie ad un’”iniezione” di denaro nell’economia, il QE avrebbe dovuto portare le banche a prestare nuovamente, rilanciando gli investimenti e la crescita economica. In realtà, dopo l’introduzione del QE il credito bancario totale nel Regno unito è invece diminuito, e il credito a piccole e medie imprese - responsabili per il 60% dell’occupazione - è in caduta verticale.

 

Come notato da Laith Khalaf, senior analyst presso Hargreaves Lansdown: “Dopo la crisi finanziaria, le banche centrali hanno inondato l’economia globale con denaro a buon mercato, ma la crescita globale è tuttora in una situazione di stallo, in particolare in Europa ed in Giappone, dove sono state prese imponenti misure di stimolo per fronteggiare il problema.”

 

Persino Forbes ammette che il QE ha “in gran parte fallito nel rivitalizzare la crescita economica”.

 

Ciò non sorprende, o quanto meno non dovrebbe. Il QE era destinato fin dall’inizio a mancare i suoi obiettivi dichiarati, perché il motivo per cui le banche non finanziavano investimenti produttivi non era la carenza di denaro - al contrario, già nel 2013, molto prima degli ultimi cicli di QE, le imprese inglesi disponevano di quasi 500 miliardi di riserve liquide - ma piuttosto perché l’economia globale si trovava (e si trova tuttora) in una profonda crisi di sovrapproduzione. In poche parole, i mercati erano (e sono) saturi, e non ha senso investire in un mercato saturo.

 

Per questo motivo, tutto il nuovo denaro creato dal QE ed “iniettato” nelle istituzioni finanziarie - come fondi pensione e compagnie d’assicurazione - non è stato poi investito nelle attività produttive, ma si è invece riversato nei mercati azionari ed immobiliari, gonfiando i prezzi delle azioni e degli immobili, senza generare nulla in termini di ricchezza reale o occupazione.

 

I titolari di beni come azioni e immobili hanno tratto molti vantaggi dal QE, che in UK si stima abbia accresciuto la ricchezza del 5 percento più ricco mediamente di £128,000 a testa.

 

Com’è stato possibile? Da dove è venuta tutta questa nuova ricchezza? Dopo tutto, anche se il denaro - a dispetto degli slogan dei Tory - può essere effettivamente creato “dal nulla”, precisamente come è stato fatto col QE, non è così per la ricchezza reale. Ed il QE non ha prodotto ricchezza reale. Eppure, il 5% più ricco oggi dispone di £128,000 extra da spendere in yacht, ville principesche, diamanti, caviale e così via. Ma da dove viene questo denaro?

 

Semplice. La ricchezza che il QE ha trasferito ai titolari di asset proviene, in primo luogo, direttamente dai salari dei lavoratori. Poiché ha praticamente svalutato la moneta, il QE ha ridotto la capacità d’acquisto del denaro, il che ha causato nei fatti una svalutazione dei salari reali, che in UK sono tuttora del 6% al di sotto dei loro livelli pre-QE. Il denaro sottratto ai salari forma dunque parte di quel dividendo di £128,000. Ma viene anche dagli ultimi arrivati nei mercati gonfiati dal QE - principalmente gli acquirenti di una prima casa e chi è recentemente andato in pensione.

 

Chi oggi acquista una casa (che il QE ha reso molto più cara), ad esempio, dovrà lavorare migliaia di ore in più per pagare un mutuo a prezzi più alti. Sono queste ore in più a creare la ricchezza che sovvenziona le stravaganti spese del 5% più ricco. Ovviamente, questi prezzi immobiliari più alti sono pagati da chiunque acquisti una casa, non solo da chi lo fa per la prima volta - ma per chi è già proprietario il costo aggiuntivo è compensato dall’aumento di prezzo della casa già di proprietà (o delle azioni, per chi è abbastanza ricco da possederne).

 

Un’altra conseguenza del QE è che chi va in pensione adesso è costretto a sovvenzionare il 5% più ricco. I nuovi pensionati usano il loro fondo pensione per acquistare una ‘rendita’ - un pacchetto di titoli azionari fruttiferi che produce reddito. Ma poiché il QE ha causato un’inflazione del prezzo dei titoli, ciò ha ridotto il numero di titoli acquistabili con questo fondo. E dato che all’aumento di prezzo dei titoli non corrisponde un aumento dei dividendi, ciò si traduce in una pensione ridotta.

 

In realtà, la teoria che il QE servisse ad incoraggiare gli investimenti e stimolare l’occupazione e la crescita è sempre stata un artificio fantasioso creato per dissimulare quello che stava realmente accadendo - un colossale trasferimento di ricchezza verso i più ricchi.

 

L’economista Dhaval Joshi faceva notare nel 2011: “La cosa più sconvolgente è che, dopo due anni di apparente ripresa, i lavoratori [inglesi] in realtà guadagnano meno che nel momento più drammatico della recessione. Salari e stipendi reali sono calati di £4 miliardi. I profitti sono aumentati di £11 miliardi. I benefici della ripresa sono stati distribuiti nel modo più iniquo possibile.”

 

Nel marzo di quest’anno il Financial Times riportava che, nonostante il PIL della Gran Bretagna sia ritornato ai livelli pre-crisi già dal 2014, i salari reali sono ancora più bassi del 10% rispetto al 2008. “La contrazione dei salari reali in UK si è arrestata nel 2015“ aggiungeva, “ma ciò non è destinato a durare”.

 

Così è stato. Nello stesso mese di pubblicazione di quell’articolo, i salari reali hanno iniziato nuovamente a scendere, e sono da allora in costante diminuzione.

 

Lo stesso è successo in Giappone, dove, secondo Forbes, “il reddito delle famiglie si è effettivamente ridotto dopo l’introduzione del QE”.

 

Il QE ha sortito un effetto simile nei paesi del sud del mondo: aumentare la ricchezza dei detentori di asset a spese di chi non ne ha. Così come l’afflusso di nuovo denaro crea bolle nei mercati immobiliari e finanziari, allo stesso modo crea una bolla nei prezzi delle materie prime, dovuta ad esempio alla corsa degli speculatori all’acquisto di quote di petrolio e di materie prime alimentari. Per alcuni paesi produttori di petrolio ciò ha comportato effetti positivi, con la messa a disposizione di denaro inatteso da investire in programmi sociali, come inizialmente è accaduto nel caso di Venezuela, Libia ed Iran. In tutti e tre i casi, le forze imperialiste sono state costrette a ricorrere a vari livelli di intervento militare per contrastare queste conseguenze indesiderate. Ma l’aumento del prezzo del petrolio è certamente deleterio per paesi che non ne producono - e qualsiasi aumento dei prezzi alimentari è sempre devastante.

 

Nel 2011 il Daily Telegraph sottolineavala correlazione tra i prezzi alimentari e gli acquisti da parte della Fed di titoli di stato americani (ossia, programmi di quantitative easing)...Si può notare come l’indice dei prezzi alimentari si è pressoché stabilizzato tra la fine del 2009 e l’inizio del 2010, ed è poi nuovamente salito a partire dalla metà del 2010 dopo il nuovo avvio del quantitative easing...con un aumento dei prezzi di circa il 40% durante un periodo di tempo di otto mesi.”

 

L’aumento dei prezzi ha spinto 44 milioni di persone in povertà nel solo 2010 - il Telegraph riteneva che ciò stesse alla base del malcontento manifestato nelle cosiddette Primavere Arabe. Robert Zoellick, ex-presidente della Banca Mondiale, all’epoca commentava: “L’inflazione dei prezzi alimentari è oggi la più grave minaccia incombente sui poveri del mondo...basta un episodio di maltempo estremo per finire nel baratro.”

 

Sono questi i costi del quantitative easing.

 

I paesi BRICS erano anche critici nei confronti del QE per un altro motivo: lo consideravano un metodo subdolo di svalutazione competitiva. Riducendo artificialmente il valore delle loro monete, la “triade imperiale” USA, EU e Giappone causavano a tutti gli effetti un apprezzamento delle valute di tutti gli altri paesi, danneggiando così le loro esportazioni. Nel 2015 Forbes scriveva, “Gli effetti si iniziano già a sentire anche nei paesi esportatori più dinamici al mondo, nell’est asiatico. Le loro esportazioni in dollari americani hanno subito una drammatica variazione, da una crescita annua del 10% ad una contrazione del 12% nella prima metà di quest’anno, e questi risultati  non cambiano, che si tenga conto o no della Cina.

 

Il vantaggio principale del QE per i paesi in via di sviluppo avrebbe dovuto essere l’enorme afflusso di capitali da esso innescato. Si stima che circa il 40% del denaro generato dalla prima espansione di credito QE della Fed (‘QE1’) si è spostato all’estero - in particolare nei cosiddetti ‘mercati emergenti’ del sud del mondo - e circa un terzo durante il QE2. Tuttavia, contrariamente alle apparenze questo non è necessariamente un vantaggio. Gran parte del denaro, come si è visto, è stato utilizzato per acquistare scorte di materie prime (rendendo così beni essenziali come il cibo esorbitanti per i poveri) invece di essere investito in attività di produzione, ed un’altra buona parte è servita per acquistare scorte valutarie, causando ancora una volta un apprezzamento nocivo alle esportazioni. Per di più, un afflusso di ‘hot money’ (capitali speculativi erranti, in contrapposizione al capitale per gli investimenti di lungo termine) accentua la volatilità e vulnerabilità delle valute in caso, ad esempio, di aumenti dei tassi esteri.

 

Se, ad esempio, i tassi d’interesse dovessero nuovamente salire in USA ed in Europa, ciò rischierebbe di scatenare una fuga di capitali dai mercati emergenti, che potrebbe innescare un tracollo valutario. Fu infatti proprio un afflusso di ‘hot money’ nei mercati valutari asiatici, molto simile a quello visto durante il QE, a precedere la crisi valutaria asiatica del 1997.

 

La prossima fine del QE, con il conseguente innalzamento dei tassi d’interesse, rischia di riproporre proprio questa vulnerabilità come una possibilità - se non addirittura come un’opportunità speculativa.

 

 

 

*Dan Glazebrook è un giornalista politico freelance che collabora, fra gli altri, con RT, Counterpunch, Z magazine, il Morning Star, il Guardian, il New Statesman, l’Independent e Middle East Eye. Il suo primo libro “Divide and Ruin: The West’s Imperial Strategy in an Age of Crisis” è edito da Liberation Media nell’ottobre 2013. Include una collezione di articoli a partire dal 2009, che esaminano i legami tra la crisi economica, l’ascesa dei BRICS, la guerra in Libia e Siria e l’”austerità”. Attualmente conduce ricerche per un libro sull’impiego di squadroni della morte contro stati sovrani e movimenti politici, dall’Irlanda del Nord e dall’America Centrale negli anni ‘70 e ‘80 fino al Medio Oriente e all’Africa di oggi.

25/07/17

Foreign Policy - Stiamo (ancora) vivendo in un mondo orwelliano

Foreign Policy pubblica un estratto dell'ultimo libro di Thomas Ricks, che spiega come dopo l'anno 1984 il celebre romanzo di Orwell non abbia visto scemare, ma al contrario aumentare, il suo carattere di attualità. Se nei tanti totalitarismi del mondo il riferimento a Orwell è evidente, è nei paesi occidentali, e soprattutto negli Stati Uniti post-11 settembre, che Ricks ritrova le corrispondenze più sottili: il perenne stato di guerra, combattuta in territori lontani, con qualche sporadico "missile" che piomba sulle città; l'idea che la guerra dovrà essere combattuta per sempre senza che possa essere vinta definitivamente; il controllo invasivo del pensiero e dell'opinione, tramite algoritmi sempre più automatici, lontani e inappellabili.

 

 

 

di Thomas E. Ricks, 24 luglio 2017

 

Alcuni critici sostenevano che dopo l'anno 1984 la rilevanza di George Orwell sarebbe andata diminuendo. Nel 1987 Harold Bloom scriveva che il più grande romanzo di Orwell sul totalitarismo, 1984, rischiava di diventare un libro storico, un po' come la Capanna dello Zio Tom. Anche il critico letterario Irving Howe, un grande sostenitore di Orwell, pensava che 1984 avrebbe presentato per le future generazioni "un interesse più che altro storico".

 

Eppure, invece di affievolirsi, la popolarità di Orwell sta crescendo in tutto il mondo. Il fatto che il contesto storico di 1984 sia ormai trascorso sembra avere "liberato" il romanzo, rendendo chiaro che il suo messaggio si riferisce a un problema universale dell'umanità moderna.

 

Negli anni recenti le sue parole hanno suscitato un notevole interesse presso la nuova generazione post-Guerra Fredda. "Sono sicuro che George Orwell non pensava: 'Devo scrivere una storia istruttiva per un ragazzo iracheno', mentre scriveva 1984", ha sottolineato lo scrittore iracheno Hassan Abdulrazzak nel 2014. "Ma questo libro mi ha spiegato cosa fosse l'Iraq di Saddam meglio di chiunque altro, prima o dopo".

 

L'anno successivo, 1984 entrava nella classifica dei 10 libri più venduti in Russia. Nel 2014, 1984 è diventato un simbolo delle proteste anti-governative in Thailandia, ad un punto tale che, secondo i resoconti, nei voli della Philippine Airlines i passeggeri venivano avvertiti che portare una copia del libro a bordo avrebbe potuto causare problemi con i funzionari di frontiera e le altre autorità.

 

Dal 1984 sono state pubblicate almeno 13 traduzioni in cinese del romanzo. Sia 1984 che La Fattoria degli Animali sono stati tradotti anche in tibetano. Per spiegare la rilevanza di Orwell in Cina, uno dei suoi traduttori, Dong Leshan, ha scritto che "Il ventesimo secolo finirà presto, ma il terrore politico vive ancora, e questo è il motivo per il quale 1984 rimane valido ancora oggi".

 

Le prime meditazioni di Orwell sugli abusi del potere politico hanno trovato ascolto perfino nei contesti più inaspettati. Mentre era imprigionato in Egitto, il radicale islamico Maajid Nawaz si rese conto che La Fattoria degli Animali esprimeva i suoi stessi dubbi: "Ho iniziato a unire i puntini e ho pensato 'Mio Dio, se questa gente con cui mi trovo adesso dovesse mai arrivare al potere, si tratterebbe dell'equivalente islamico della Fattoria degli Animali'". In Zimbabwe, un giornale di opposizione ha fatto circolare una versione a puntate della Fattoria degli Animali - dopo che la sede del giornale era stata distrutta da una mina anticarro - con delle illustrazioni del maiale Napoleon coi grandi occhiali tipici del "presidente a vita" dello Zimbabwe, Robert Mugabe. Un artista cubano nel 2014 è stato incarcerato senza processo per aver progettato di mettere in scena una versione della Fattoria degli Animali. Per essere proprio sicuro che le autorità avessero capito, aveva scritto i nomi "Fidel" e "Raul" sopra due maiali.

 

Ma 1984 sta trovando nuova rilevanza soprattutto tra i lettori occidentali, per tre motivi interconnessi.

 

Per gli americani di oggi, 1984, con il suo stato di guerra permanente sullo sfondo, è un sinistro avvertimento. Nel libro, proprio come nella vita quotidiana degli Stati Uniti di oggi, il conflitto è fuori dalla scena, viene udito solo occasionalmente per l'esplosione di qualche missile lontano. "Winston non riusciva a ricordare precisamente un momento nel quale il paese non fosse stato in guerra", scriveva Orwell in 1984 (lo stesso si può dire di tutti gli adolescenti americani di oggi).

 

In un'epoca nella quale le guerre americane sono combattute con missili di precisione lanciati dai droni, nelle quali sono coinvolte solo poche unità speciali in operazioni di terra, in luoghi remoti del Medio Oriente, con qualche sporadico attacco in città come Londra, Parigi, Madrid e New York, questi passaggi del romanzo suonano di una preveggenza inquietante:

 

"È uno stato di guerra dagli obiettivi limitati, tra combattenti che non sono in grado di distruggersi a vicenda, e non hanno cause materiali per le quali combattere ... Coinvolge un piccolo numero di persone, per lo più specialisti altamente addestrati, e causa relativamente pochi morti. I combattimenti, quando hanno luogo, avvengono in remoti luoghi di frontiera la cui ubicazione è pressoché ignota all'uomo comune ... Nei centri abitati la guerra non significa altro che ... la caduta occasionale di un razzo che causa qualche decina di vittime."


 

La seconda ragione che spiega la rinnovata attualità di Orwell è la crescita dell'intelligence dopo l'11 settembre. Viviamo con uno Stato intrusivo, invadente, sia in Occidente che in Oriente. All'inizio degli anni 2000 il governo americano uccideva regolarmente persone in paesi con i quali non era ufficialmente in guerra usando mezzi aerei controllati da remoto. Questa tattica è conosciuta come "attacco all'impronta" [signature strike], e colpisce uomini in età da servizio militare che mostrano comportamenti minacciosi che possono essere associati al terrorismo, come ad esempio parlare al telefono con terroristi noti o partecipare con loro a una riunione. Molte centinaia di queste uccisioni hanno avuto luogo in Pakistan, Yemen e Somalia. Una raccolta di metadati, che mettono insieme migliaia di miliardi di bit di informazioni esaminati dall'intelligence, permette ai governi di elaborare silenziosamente dei dossier sul comportamento di milioni di individui.

 

Certo, il governo americano ha agito in questo modo letale e intrusivo dopo gli attacchi dell'11 settembre. Orwell avrebbe probabilmente denunciato senza mezzi termini sia quegli attacchi che la reazione di panico del governo USA. La luce che lo guidava era la libertà di coscienza, libertà sia dal controllo del governo che dagli estremismi, fossero essi religiosi o ideologici. Come egli stesso ha detto: "Se la libertà significa qualcosa, è il diritto di dire alle persone ciò che esse non vogliono ascoltare". Da questo punto di vista è significativo che la più grande minaccia alla libertà percepita da Winston, il protagonista di 1984, non provenisse da altri paesi, ma dal suo stesso governo.

 

Il terzo e forse più scioccante motivo è che l'uso della tortura descritto in 1984 prefigura i modi in cui essa viene utilizzata dagli stati di oggi nella loro interminabile "guerra al terrore". Dopo l'11 settembre e per la prima volta nella storia americana la tortura è diventata una politica ufficiale. (Prima di allora veniva usata occasionalmente, ma sempre contro la legge, e talvolta come tale veniva punita.)

 

Per capire meglio l'anno 2017 tornate ai tre più celebri libri di Orwell. Il primo è Omaggio alla Catalogna, nel quale mostra come la sinistra possa mentire esattamente come fa la destra, e diventa scettico verso qualsiasi esercizio del potere. Secondo, La Fattoria degli Animali, che lui definisce una favola, una versione per adulti di una storia di disincanto. E infine 1984, nel quale Orwell aggiorna il racconto dell'orrore. Il suo mostro non è Frankestein, ma lo Stato moderno.

 

Corbyn: l'immigrazione di massa ha distrutto le condizioni dei lavoratori britannici

Il leader del Labour Jeremy Corbyn dichiara esplicitamente quello che nel nostro paese una "sinistra" allo sbando non vuole ammettere: che l’immigrazione incontrollata serve a distruggere le condizioni del lavoro, sostituendo con manodopera sottopagata i lavoratori locali. A vantaggio unicamente delle imprese. Corbyn, immediatamente accusato di essere "ukippista" (e, si può immaginare, lo sarebbe di essere leghista qui da noi), fa una proposta razionale: l’immigrazione deve essere basata sui posti di lavoro disponibili e sulle capacità di svolgere quel lavoro. Per questo, ritiene indispensabile che con l’uscita dall’UE la Gran Bretagna esca anche dal mercato unico, che prevede la libera circolazione delle persone. Insomma, la Brexit a quanto pare ha schiarito le idee ai Labour, che pure erano per il Remain: meglio tardi che mai (a parte i molti lavoratori che ci hanno già rimesso il posto).

 

 

 

Di Helen Lewis, 23 luglio 2017

 

Il leader del Labour ha dichiarato ad Andrew Marr che il suo partito vuole lasciare il mercato unico.

 

L'immigrazione di massa dall'Unione Europea è stata utilizzata per "distruggere" le condizioni dei lavoratori inglesi, ha dichiarato oggi Jeremy Corbyn.

 

Il leader del Labour è stato incalzato a proposito della posizione del suo partito nei confronti dell'immigrazione durante il programma televisivo di Andrew Marr. E ha ribadito la sua convinzione che la Gran Bretagna debba lasciare il mercato unico, sostenendo che "il mercato unico dipende dall'adesione all'UE... le due cose sono inestricabilmente legate".

 

Corbyn ha dichiarato che il Labour sostiene invece un "accesso al libero commercio senza dazi". Tuttavia, altri paesi che hanno stretto questo tipo di accordo, come la Norvegia, hanno accettato le "quattro libertà" del mercato unico, che includono la libera circolazione delle persone. Il parlamentare laburista Chuka Umunna ha condotto un tentativo in parlamento di far restare la Gran Bretagna nel mercato unico, sostenendo che il 66 per cento dei membri del Labour vogliono rimanere. Nicola Sturgeon, del SNP (partito nazionale scozzese, ndT), ha affermato che "l'incapacità del Labour di schierarsi dalla parte del buon senso sulla questione del mercato unico li renderà colpevoli del disastro della Brexit quanto i Tories".

 

Perorando la causa dell’uscita dal mercato unico, Corbyn ha usato un linguaggio che raramente gli abbiamo sentito usare - accusando l'immigrazione di avere delle ripercussioni sulla vita dei lavoratori britannici.

 

Il leader del Labour ha affermato che anche dopo l’uscita dall'Unione europea, comunque resterebbero lavoratori europei in Gran Bretagna e viceversa. E ha aggiunto: "Quella che cesserebbe sarebbe l'importazione all'ingrosso di lavoratori sottopagati dall'Europa centrale, per distruggere le condizioni del lavoro, in particolare nel settore edile".

 

Corbyn ha affermato che proibirebbe alle agenzie di pubblicizzare offerte di lavoro in Europa centrale - chiedendo loro di "pubblicizzarle prima nella loro zona". Questa idea si basa sul  “modello Preston”, adottato in questa località dalle autorità locali, nell'intento di dare la priorità alle imprese locali per i contratti del settore pubblico. Le norme dell'UE impediscono questo sistema, considerandolo una forma di discriminazione.

 

In futuro, i lavoratori stranieri "verrebbero da noi in base ai posti di lavoro disponibili e alla loro capacità di svolgerli. Quello che non permetteremmo più è questa pratica delle agenzie, svolta in modo piuttosto vergognoso – reclutare forza lavoro a salario basso e portarla qui, per licenziare la forza lavoro già esistente nell'industria edile, e poi sottopagarla. È spaventoso, e le uniche a trarne vantaggio sono le imprese".

 

Corbyn ha anche affermato che un governo guidato da lui "garantirebbe il diritto dei cittadini dell'UE a rimanere qui, incluso il diritto al ricongiungimento familiare" e spererebbe in una disposizione reciproca da parte dell'UE per i cittadini britannici all'estero.

 

Matt Holehouse, corrispondente UK / UE per MLex, ha dichiarato che il modo di parlare di Corbyn era "Ukippista”.

 

Quando Andrew Marr gli ha chiesto se avesse simpatizzato per gli euroscettici - dopo avere votato in passato contro i precedenti trattati dell'UE, come quello di Maastricht - Corbyn ha chiarito la sua posizione sull'UE: è contrario a un "mercato libero senza regole in Europa", ha affermato, ma ha sostenuto gli aspetti "sociali" dell'UE, come il sostegno ai diritti dei lavoratori. Tuttavia, non ha apprezzato il divieto di dare aiuti di Stato all'industria.

 

 

Sulle tasse universitarie, è stato chiesto a Corbyn: "Cosa intendeva quando ha detto che se ne occuperà?”. La risposta è stata che "riconosceva" che i laureati devono affrontare un enorme fardello per pagare le loro tasse, ma che non si impegnava a cancellare tutti i debiti degli anni precedenti. Tuttavia, il Labour una volta al governo abolirebbe le tasse universitarie. Se avesse vinto le elezioni del 2017, gli studenti nel 2017/18 non avrebbero pagato le tasse universitarie (o sarebbero stati rimborsati).

 

L'intervista ha anche riguardato il divario legato al genere negli stipendi della BBC. Corbyn ha affermato che il Labour punta a esaminare il problema del divario di stipendio legato al genere con audit in tutte le imprese e a introdurre una proporzione salariale – in un’impresa nessuno può ricevere uno stipendio più di 20 volte maggiore di quello del dipendente con il salario più basso. "La BBC deve guardare a se stessa... il divario retributivo è astronomico", ha aggiunto.

 

Ha aggiunto che non pensava fosse "sostenibile" per il governo assegnare al DUP (partito politico protestante di estrema destra dell’Irlanda del Nord, ndT) un miliardo e mezzo di sterline  e di aspettare con impazienza un'altra elezione.

24/07/17

EHOC - Gli squilibri dell'eurozona e le guerre commerciali globali - I Parte

 

È passato più di un anno dalla pubblicazione di European House of Cards, ma tutte le cause strutturali del fallimento dell'eurozona e le previsioni descritte in questo articolo di Stefan Kawalec rimangono tutt'ora in piedi, ugualmente inascoltate dai decisori politici europei. Sicché, mentre si materializzano le paventate guerre valutarie e commerciali causate dagli squilibri globali innescati dall'euro, e il dollaro americano continua a svalutarsi sulla moneta unica, l'eurozona rimane intrappolata nelle sue false speranze, di volta in volta artatamente rinvigorite o sgonfiate nel dibattito pubblico con l'intento strumentale di portare avanti le politiche deflazionarie che favoriscono i paesi più forti, quelli creditori, e le classi sociali vincenti, i rentier della finanza con i loro sostenitori. Fino a che il gioco potrà andare avanti.

 

 

 

di Stefan Kawalec

 

L'euro è un problema non solo per l'Europa, ma anche per i suoi partner commerciali e per l'intera economia mondiale. L'incapacità dell'eurozona di risolvere gli squilibri interni, insieme a una situazione sociale e politica molto tesa nei paesi colpiti dalla crisi, la costringe a cercare disperatamente di generare surplus commerciali e di partite correnti. Si tratta probabilmente di una situazione permanente che, data la posizione leader dell'area dell'euro nell'economia mondiale, avrà un impatto negativo sugli altri paesi e potrà quindi scatenare guerre valutarie mondiali e inibire il commercio internazionale.

 

Uno smantellamento controllato dell'eurozona sarebbe vantaggioso per i paesi membri colpiti dalla crisi e per i partner commerciali dell'Europa e - contrariamente alle apparenze - anche per la Germania.[1]

 

 

 

La stagnazione prolungata nei paesi membri del Sud dell'eurozona e il pericolo di guerre valutarie globali

 

Le disastrose conseguenze delle politiche di svalutazione interna

Nel 2010, quando è esplosa la crisi della zona euro, è stato stimato che, per far sì che i paesi del sud dell'UE (come la Grecia, l'Italia, il Portogallo e la Spagna) riconquistassero la competitività e riequilibrassero le loro bilance commerciali e le partite correnti, questi dovessero abbattere i salari del 20-30% rispetto ai loro partner commerciali.  Purtroppo, i paesi in crisi della zona euro non possono migliorare la loro competitività attraverso il deprezzamento delle valute. Invece, hanno cercato di attuare una cosiddetta "svalutazione interna", che è l'equivalente contemporaneo della politica di deflazione applicata durante la Grande Depressione negli anni Trenta per difendere il sistema del gold standard. La dimensione e la durata del crollo economico nei paesi dell'eurozona colpiti dalla crisi sono paragonabili e, in alcuni casi, anche più profondi rispetto a quanto accaduto durante la Grande Depressione.

 

Confidiamo nell'indebolimento dell'euro

Molti osservatori hanno sottolineato che un indebolimento dell'euro potrebbe essere lo strumento macroeconomico più efficace attraverso cui la Banca centrale europea (BCE) potrebbe aiutare i paesi membri in difficoltà della zona euro. In molte occasioni, gli economisti e i politici hanno invitato la BCE a indebolire l'euro per migliorare la situazione nei paesi in crisi. In definitiva, a metà del 2014, una combinazione di fattori, quali l'alleggerimento quantitativo (QE) europeo, l'introduzione di tassi di interesse negativi sui depositi da parte della BCE, il rallentamento (tapering) del QE negli USA, il prolungarsi della crisi dell'area euro e la ripresa dell'economia statunitense, hanno dato il via al deprezzamento dell'euro. Il tasso di cambio dell'euro è diminuito dalla media mensile di 1,37 dollari nel maggio 2014 a 1,08 dollari nel mese di marzo 2015, e nei mesi successivi ha oscillato vicino a questo livello più basso.

 

Il surplus delle partite correnti è più alto che in Cina

Nel 2010, quando è scoppiata la crisi dell'eurozona, la Francia e i paesi meridionali della zona euro come la Grecia, l'Italia, il Portogallo e la Spagna avevano un disavanzo cumulato delle partite correnti di 159 miliardi di euro. Questo deficit era controbilanciato da un avanzo di 145 miliardi di euro in Germania, nonché da eccedenze nei Paesi Bassi e in Irlanda. Complessivamente, la zona euro registrava un surplus di partite corrente di 36 miliardi di euro (48 miliardi di dollari) pari allo 0,4% del suo PIL. Negli anni successivi, i disavanzi delle partite correnti nei paesi meridionali della zona euro sono diminuiti o scomparsi a seguito della recessione economica e di un euro più debole. Allo stesso tempo, i surplus delle partite correnti in paesi come la Germania sono aumentati, facendo crescere il surplus complessivo dell'area euro. Nel 2015, l'eccedenza di partite correnti della zona euro, pari a 330 miliardi di euro (366 miliardi di dollari) ed equivalente al 3,6% del suo PIL, è stata la più grande tra le economie mondiali, compresa la Cina, per il terzo anno consecutivo. La zona euro è diventata una fonte importante di squilibri globali.

 

Il pericolo di conflitti commerciali globali

Nell'intera economia globale, sia le partite correnti che gli scambi commerciali sono per definizione equilibrati. Pertanto, mantenere enormi surplus nell'area euro significa che le altre economie del mondo devono avere notevoli deficit di partite correnti e commerciali, il che comporta una crescita economica più lenta e una maggiore disoccupazione. Tenuto conto della grande dimensione dell'economia dell'eurozona e della scala delle sue eccedenze internazionali, i partner commerciali dell'Europa non possono tollerare a lungo tale situazione. Se i surplus della zona euro continueranno, prima o poi i suoi partner scateneranno una guerra commerciale internazionale con conseguenze terribili per l'Europa, per loro stessi e per l'intera economia globale.

 

 

 

Le false speranze di risolvere gli squilibri interni dell'eurozona

 

È improbabile che la Germania distrugga volontariamente la sua sudata competitività

Un problema irrisolvibile per la BCE è che l'euro rimanga troppo forte per i paesi del Sud e troppo debole per la Germania. Anche se consentire all'euro di apprezzarsi contribuirebbe a ridurre i surplus di partite correnti, ciò aggraverebbe anche lo stress economico nei paesi del Sud. Questo, a sua volta, rafforzerebbe ulteriormente i movimenti politici populisti e anti-europei che hanno capitalizzato sulle difficoltà sociali per ottenere consensi.

 

Alcuni osservatori ritengono che gli squilibri interni della zona euro possono essere ridotti se la Germania aumenta la spesa in infrastrutture e permette che i suoi salari crescano più velocemente. Ma per molti tedeschi, che hanno subito le difficili riforme sociali e del mercato del lavoro nel 2003-2005, uno sforzo deliberato per ridurre gli incrementi di competitività così  duramente guadagnati non è un'opzione. Il fatto che il 63% delle esportazioni tedesche vada in paesi al di fuori della zona euro - vale a dire che le imprese tedesche devono essere in grado di competere con le loro omologhe in tutto il mondo, non solo nell'unione monetaria - rende la questione ancora più delicata.

 

I progressi verso l'unione fiscale non aiuterebbero

Altri osservatori sostengono che un'ulteriore integrazione, in particolare dei passi avanti verso un'unione fiscale e politica, fornirebbe all'eurozona strumenti alternativi - cioè trasferimenti di ricchezza - per migliorare la competitività dei paesi depressi. Ma, come hanno imparato l'Italia e la Germania nei loro sforzi in gran parte falliti (ed estremamente costosi) per stimolare regioni non competitive, tali aspettative sono ingiustificate. Infatti, nonostante l'enorme spesa di denaro dei contribuenti - che equivale annualmente al 16% del PIL regionale dell'Italia meridionale e al 25% del PIL regionale della Germania orientale - le economie italiana e tedesca ne hanno guadagnato ben poco.

 

Infatti, il tentativo di migliorare la competitività delle aree depresse all'interno di un'unione monetaria attraverso i trasferimenti fiscali è una contraddizione in termini. L'afflusso di fondi verso i paesi che cercano di riconquistare competitività attraverso una politica di svalutazione interna pregiudica questa stessa politica. Mentre una politica di svalutazione interna si pone l'obiettivo di diminuire la domanda interna al fine di ridurre i prezzi e i salari, i trasferimenti fiscali in entrata aumentano la domanda interna e contribuiscono ad aumentare i salari e i prezzi, rendendo quindi più difficile riconquistare la competitività.

 

Nemmeno l'esperienza americana infonde speranza

I sostenitori dell'euro spesso menzionano gli Stati Uniti, simili all'Unione europea (UE) in termini di superficie totale, popolazione e livello di sviluppo economico. Concludono che, poiché l'economia statunitense può operare con successo con una sola moneta, la stessa cosa potrebbe succedere in Europa, a condizione che l'architettura della zona euro sia adeguatamente migliorata.

 

Tuttavia, il modo americano di trattare gli squilibri regionali sarebbe difficilmente accettabile per i paesi europei. Alcuni stati e territori USA sono destinatari permanenti di trasferimenti federali netti che superano annualmente il 10% del PIL locale. Questi trasferimenti non aiutano a risolvere i problemi di non-competitività degli Stati e dei territori beneficiari, ma semplicemente forniscono risorse per finanziare i disavanzi derivanti da tali problemi. Come dimostrato nello studio classico di Olivier Jean Blanchard e Lawrence F. Katz [2], il fattore che risolve il problema della disoccupazione più elevata nelle regioni sottosviluppate dell'America non è la "svalutazione interna", cioè l'aggiustamento salariale locale, ma l'emigrazione delle persone in età lavorativa in altre parti del paese. I punti di forza del meccanismo di aggiustamento americano (nonché alcuni dei suoi effetti estremi) si possono vedere nei casi di Detroit e Puerto Rico, come descritto da "The Economist" [3].

 

Detroit, l'ex capitale dell'industria automobilistica americana, ha perso migliaia di posti di lavoro. Tuttavia il livello di disoccupazione in città (5,7% nel 2015) è solo leggermente superiore alla media americana e sostanzialmente inferiore a quello dell'area euro (10,9% nel 2015). Questo perché gli abitanti hanno lasciato la città. La popolazione di Detroit è diminuita del 62%, da 1.850.000 abitanti nel 1950 a 700.000 nel 2013. Il problema della città non è la disoccupazione, ma un basso numero di abitanti, che non è in grado di finanziare le infrastrutture locali. Di conseguenza, nel 2013 Detroit ha dichiarato fallimento.

 

A Puerto Rico, un territorio dipendente dagli Stati Uniti, la disoccupazione è da lungo tempo limitata dall'emigrazione. Il territorio è ora abitato da 3,5 milioni di persone, mentre 5 milioni di portoricani, cioè il 59% del totale, vivono in altre parti degli Stati Uniti. Tuttavia, l'economia in contrazione e la popolazione in calo non sono più in grado di finanziare gli impegni di spesa di Puerto Rico. "The Economist" sostiene che prima o poi il governo federale dovrà assumersi alcuni dei debiti dell'isola.

 

 

 

All'interno dell'Unione Europea, l'area valutaria ottimale è al livello degli stati membri

 

Né la stagnazione di lungo periodo né l'emigrazione di massa sono soluzioni accettabili per gli Stati nazionali europei

L'Europa è costituita da paesi con lingue diverse, caratterizzati da diverse tradizioni storiche e culturali. Gli Stati nazionali costituiscono la principale fonte di identità dei cittadini; fungono anche da fonte di legittimità democratica dei governi. Per la coesione dell'Unione europea e dei suoi Stati membri, è importante che i cittadini europei dispongano delle migliori opportunità possibili per lo sviluppo personale e il benessere all'interno dei propri paesi. Né la stagnazione a lungo termine né l'emigrazione di massa sono soluzioni accettabili per le nazioni europee. Inoltre, nemmeno dei trasferimenti fiscali permanenti che finanzino i disavanzi di alcuni stati nazionali possono rappresentare una soluzione accettabile per la zona euro, come testimonia una relazione dei presidenti delle cinque principali istituzioni europee. [4]

 

Nelle emergenze, il tasso di cambio è un meccanismo di regolazione efficace e sostanzialmente insostituibile che migliora la competitività di una data area valutaria. Pertanto, è razionale che il potere di utilizzare questo strumento dovrebbe essere localizzato al livello comunitario, con il quale i cittadini si identificano maggiormente e al quale sono disposti a delegare la responsabilità del loro destino. Nel caso dell'Unione europea, il livello di comunità ottimale per un'area valutaria è lo Stato membro. All'interno di uno Stato nazionale, sia la migrazione che i trasferimenti fiscali permanenti non sono politicamente distruttivi e potrebbero essere accettabili.

 

Privare i paesi membri delle loro valute può, contrariamente alle intenzioni, minacciare il futuro dell'UE invece che promuovere un'ulteriore integrazione europea.

 

 

 

Note

 

[1] Questo articolo si basa sui seguenti testi:
•  S. Kawalec and E. Pytlarczyk, Controlled Dismantlement of the Eurozone: A Strategy to Save the European Union and the Single European Market, “German Economic Review”, 14 (1), February 2013, p. 31-49.
•  S. Kawalec and E. Pytlarczyk, Controlled Dismantlement of the Eurozone: A Proposal for a New European Monetary System and a New Role for the European Central Bank, National Bank of Poland Working Paper No 155, Warsaw 2013. http://www.nbp.pl/publikacje/materialy_i_studia/155_en.pdf.
• S. Kawalec, Europe’s Currency Manipulation, „Project Syndicate”, http://www.project-syndicate.org/commentary/euro-currency-manipulation-by-stefan-kawalec-2015-04, 2 April 2015.
•  S. Kawalec, The permanent necessity to undervalue the euro endangers Europe’s trade relations, Paper for 12th EUROFRAME Conference on Economic Policy Issues in the European Union „Challenges for Europe 2050”, organized by the EUROFRAME group of research institutes, Vienna, Austria, 12 June 2015.
•  S. Kawalec, The Euro as a Threat to European Integration, “That Sinking Feeling”, New Direction – the foundation for European reform, Autumn 2015, p. 6-9.
•  S. Kawalec and E. Pytlarczyk, Paradoks euro. Jak wyjść z pułapki wspólnej waluty (The Euro Paradox: How to Break Out of the Trap of a Common Currency?), Poltext, Warszawa 2016.

 

[2] O. J. Blanchard, L. F. Katz, Regional Evolutions, "Brookings Papers on Economic Activity", 1:1992.

 

[3] "The Economist", For richer, for poorer: One way or another, America’s government will end up bailing out Puerto Rico, November 28, 2015.

 

[4] I presidenti della Commissione Europea, del Summit Europeo, dell'Eurogruppo, della Banca Centrale Europea, e del Parlamento Europeo, hanno presentato idee preliminari su un bilancio comune dell'eurozona sotto il termine eufemistico di "funzione di stabilizzazione fiscale dell'eurozona". In ogni caso, hanno affermato che: "non dovrebbe condurre a trasferimenti permanenti tra paesi o a trasferimenti in un'unica direzione... non dovrebbe essere nemmeno concepito come un mezzo per bilanciare i redditi tra i paesi membri". Si veda: The Five Presidents’ Report: Completing Europe’s Economic and Monetary Union, report by: Jean-Claude Juncker in close cooperation with Donald Tusk, Jeroen Dijsselbloem, Mario Draghi, and Martin Schulz, The European Commission, 22 June 2015, p. 15.

 

23/07/17

La Germania alza barriere contro le acquisizioni estere delle proprie imprese

Mentre in Italia continua lo shopping di brand nazionali da parte di investitori esteri, in tutta l'Unione europea i governi stanno diventando sempre più ostili agli scenari di acquisizione di imprese ritenute strategiche da parte di gruppi esteri. Caso esemplare è quello dell' "europeista" Macron con Fincantieri. E anche in Germania il governo della Merkel, indicato dalla stampa globalista come ultimo campione del liberoscambismo, ma sempre attento ad anteporre l'interesse nazionale agli interessi del resto d'Europa, ha alzato le barriere contro le acquisizioni da parte di paesi non-UE: lo riporta questo articolo di CNBC. Nel mezzo della crisi del sistema liberale, i paesi più forti mettono da parte la retorica liberista e fanno ricorso esplicito al protezionismo e alla difesa dell'interesse nazionale, termine misconosciuto dalla nostra classe dirigente, che - sempre più sottomessa - ne fa scempio. Come dimostrano le non-scelte degli ultimi anni e la recente crisi degli immigrati.

 

 

 

di Gemma Acton, 13 luglio 2017

 

La Germania ha reagito alla frenesia di acquisizioni estere dello scorso anno alzando l'asticella sugli standard per gli acquirenti stranieri che cercano di accaparrarsi imprese tedesche ad alta tecnologia.

 

Una nuova direttiva adottata mercoledì amplia il mandato di una legge esistente che consente attualmente al governo di bloccare un acquirente non appartenente all'Unione europea (UE) nell'acquisizione di oltre il 25 per cento di una società tedesca, se si ritiene che tale mossa possa mettere a rischio l'ordine pubblico o la sicurezza nazionale.

 

I ministri dispongono ora di maggiori poteri di indagine sugli accordi che riguardano imprese considerate fornitrici di "infrastrutture critiche", in particolare quelle che producono software per servizi pubblici, sistemi di pagamento, di trasporto o sanitari.

 

Il rafforzamento della regolamentazione giunge subito dopo una serie di acquisizioni nel 2016 da parte di imprese cinesi, che cercano di incrementare le loro capacità tecnologiche comprando imprese straniere con competenze avanzate in questo settore.

 

Secondo i dati di mergermarket, lo scorso anno gli acquirenti cinesi hanno speso complessivamente 9,1 miliardi di euro (10,4 miliardi di dollari) in 35 acquisizioni di imprese tedesche.

 

Dato il crescente protezionismo economico all'interno dell'Europa, in combinazione con i controlli sui capitali e le restrizioni imposte negli ultimi mesi dalle autorità nazionali ai potenziali acquirenti cinesi di imprese straniere, le acquisizioni che coinvolgono questi paesi hanno già rallentato, giungendo alla cifra molto più contenuta di 2,4 miliardi di euro nel primo semestre di quest'anno.

 

Eppure, nonostante il quadro sempre più difficile, l'appetito cinese per gli obiettivi europei e specialmente tedeschi rimane elevato, secondo Yi Sun, leader dei servizi alle imprese cinesi per la Germania, la Svizzera e l'Austria presso la società di servizi professionali, EY.

 

"La regolamentazione più stringente sulle acquisizioni da parte di investitori stranieri in Germania comporterà innanzitutto una pausa [nelle acquisizioni, ndt] perché gli investitori non europei dovranno rispettare l'attuazione delle nuove regole. La preparazione degli accordi dovrà essere più meticolosa in futuro, ma gli investitori cinesi sono diventati più professionali negli ultimi anni", ha detto il signor Sun a CNBC via email giovedì.

 

"A lungo termine, gli accordi commerciali tra la Cina e la Germania rimarranno elevati, tenendo presente che la Cina è già il principale partner commerciale dell'Unione europea, una realtà che non può essere ignorata", ha aggiunto.

 

Negli ultimi mesi abbiamo assistito ad altri tentativi coordinati di proteggere le imprese europee dalle acquisizioni straniere, con due esempi salienti: lo smantellamento della fusione tra la Borsa di Londra e la Deutsche Boerse e l'azzeramento del tentativo di acquisto da parte di PGG, un produttore di vernice degli Stati Uniti, del più piccolo rivale olandese  Akzo Nobel, operazioni avvenute entrambe dopo un intenso dibattito politico.

 

Secondo Jonathan Klonowski, redattore della ricerca EMEA presso il mergermarket,  non si tratta esclusivamente di una tendenza del governo tedesco, perché sono molti i leader europei che hanno recentemente chiesto una maggiore protezione per le imprese nazionali in una vasta gamma di settori,

 

"Andando avanti, se questo nazionalismo economico dovesse crescere, probabilmente vedremo le imprese svolgere ulteriori attività durante la fase della due diligence e potremmo vedere i negoziatori diventare più selettivi sui loro obiettivi futuri", ha dichiarato Klonowski a CNBC via email giovedì.

 

"Abbiamo già visto una caduta delle acquisizioni cinesi in Europa, ed è probabile che nei prossimi mesi si andrà nella direzione di un'ulteriore riduzione ", è la sua previsione.

 

22/07/17

#MIA17 Goofynomics è candidato tra i migliori siti politici-d'opinione: facciamoci sentire!

Sono uscite le nomination ai Macchianera Internet Awards, i goliardici (ma anche ambiti) premi per i migliori siti e personaggi della rete italiana.

 

Goofynomics, di Alberto Bagnai, è nella rosa dei candidati al premio per il Miglior sito politico - d'opinione. Come ricorderete, Goofynomics ha vinto negli ultimi due anni consecutivi (2015 e 2016) il Macchianera Internet Awards come Miglior sito di Economia, battendo il sito del Sole24ore e molti altri, ma quest'anno la categoria dei siti di Economia è stata (abbastanza inspiegabilmente) abolita. Meglio così: come chi lo segue ben sa, Goofynomics è un sito che offre una analisi non solo economica, ma anche - e forse soprattutto - politica, e lo dimostra il fatto che non solo presenta una linea di interpretazione complessiva e coerente di quanto sta avvenendo da anni nel nostro Paese e in Europa, ma anche che è tra le pochissime fonti di informazione che sono state più volte in grado di anticipare le tendenze politiche in atto e l'esito dei processi politici in corso. Esiti, non c'è da stupirsene, che l'informazione di regime non ha un particolare interesse a illustrare, ma al contrario cerca in ogni modo di confondere e coprire. Sottolineare l'importanza dell'operazione informativa, culturale e politica condotta da Goofynomics ora sta anche a noi, votandolo come Miglior sito politico-d'opinione.

 

Per farlo, basta compilare la scheda qui sotto, facendo attenzione a seguire le indicazioni necessarie per esprimere un voto valido.  Per chi preferisce, è possibile anche votare direttamente sul sito dei MIA. Chi legge su un telefono cellulare, si troverà meglio votando a questo link.

 

Come giustamente dice Alberto Bagnai, il megafono siete voi!

 

 

 

Ricordiamo che, affinché la scheda di votazione per i Macchianera Internet Awards sia valida, bisogna votare in almeno 10 delle categorie presenti.

 

L'ultimo giorno in cui si può votare è venerdì 15 settembre 2017.

 

 

21/07/17

FT - Con la Brexit la UE rischia una contrazione del mercato dei capitali

Un articolo del Financial Times fa cadere un altro caposaldo della propaganda "eurista" e chiarisce quale sia la parte più vulnerabile nella Brexit dal punto di vista finanziario: l'Unione Europea. Oggi, con una sicumera che rasenta l'arroganza, i funzionari UE fanno mostra di indifferenza, ma la verità è che Londra rimane l'insostituibile capitale finanziaria d'Europa, con collegamenti verso i mercati mondiali. Le banche europee continueranno dunque ad avere la necessità di operare con le proprie sedi a Londra. Una linea dura contro il Regno Unito durante le trattative andrebbe dunque a tutto svantaggio della stessa UE, che non saprebbe oggi sostituire il ruolo che ha la capitale britannica.

 

 

 

di Reza Moghadam, 20 luglio 2017

 

Il fatto che i funzionari UE ignorino gli avvertimenti sul probabile colpo al mercato dei capitali che arriverà dalla Brexit, potrebbe essere semplicemente una questione di fiducia.  Dopotutto ultimamente le ragioni di ottimismo non sono mancate: una maggiore ripresa dell'economia, la sconfitta degli euroscettici nelle ultime elezioni e la speranza di riforme più incisive portate avanti da Francia e Germania, oltre a posizioni più unitarie su alcuni punti fondamentali, tra cui la Brexit.

 

Ma la tranquillità dell’Europa sulle prospettive del mercato dei capitali riflette qualcosa di più che un semplice ottimismo. È fondata su due assunzioni di base. La prima è che le banche di investimento globali della City di Londra, non avendo un “passaporto” normativo per fornire servizi ai clienti UE da Londra dopo la Brexit, possano agevolmente svolgere la loro attività nel continente, con poche differenze  nella gamma e nel prezzo dei servizi forniti. La seconda è che, laddove ci fossero delle differenze, queste possano essere colmate dalle banche europee. Entrambe queste assunzioni sono erronee.

 

Si consideri per prima cosa lo spostamento delle maggiori banche di investimento della City, soprattutto quelle statunitensi e britanniche, verso il continente europeo. Se devono rispondere direttamente alle autorità di vigilanza europee, devono fondare delle società controllate nella UE. Ma una società sussidiaria, come soggetto distinto sotto il profilo giuridico, è costosa, raddoppiando non solamente i costi fissi di gestione e dei sistemi di informazione, ma anche i costi in conto capitale.

 

Una sussidiaria necessita di un maggior capitale, perché sul piccolo mercato del continente non può diversificare il rischio con la stessa efficacia che a Londra. La società principale ha bisogno di maggior capitale perché i prestiti da Londra verso la società controllata sono considerati esposizioni verso l'estero. Risultato: minore redditività e remunerazione del capitale, e di conseguenza pressioni per ridimensionare i servizi o alzare i prezzi.

 

Si considerino poi le banche europee. Non potrebbero, queste, intervenire facilmente al posto delle banche londinesi? No. Le branche di investment banking delle banche europee hanno sede a Londra, da dove hanno accesso ad un mercato globale di volume maggiore a costi minori. In quanto succursali sono soggette alla vigilanza delle autorità europee e capitalizzate nel bilancio consolidato, senza dover duplicare i costi fissi e senza la necessità di capitale richiesto per le società sussidiarie.

 

Non è ancora chiaro se le banche europee potranno continuare a operare come succursali a Londra anche dopo la Brexit – il Regno Unito ha lasciato questo quesito aperto per le trattative. Ciò che è chiaro è che se il Regno Unito dovesse fare come l’Unione Europea, e pretendere che le banche dell’altra parte accedano ai suoi mercati solamente in qualità di società sussidiarie [anziché come succursali], allora anche le banche europee soffrirebbero di un rialzo dei costi.

 

Alcuni di questi problemi di costi si ridurrebbero certamente con una crescita e maturazione dei mercati continentali. Ma il giorno in cui ciò potrà avvenire è ancora abbastanza lontano: l’ecosistema necessario di banchieri, traders, avvocati e tecnologia ancora non esiste in Europa. Per adesso l’unica città in gioco è Londra. Se non viene fatto appositamente qualcosa, per l'Europa si prospetta una crisi da carenza di accesso ai capitali.

 

Un modo di procedere sarebbe che sia UE che Regno Unito permettano all’altra parte di operare con delle succursali nella propria giurisdizione – anziché costringerlasi a fondare delle società sussidiarie. Per quanto la distinzione tra succursali e sussidiarie possa sembrare puramente tecnica, resta il fatto che il capitale e i costi di gestione di una succursale sono contabilizzati a livello della società principale, il che riduce sostanzialmente i costi ed evita spaccature nei mercati dei capitali.

 

Due cambiamenti nel quadro normativo sarebbero di aiuto. Primo, se le autorità di vigilanza della UE e del Regno Unito non sono pronte, dopo la Brexit, a lasciare la supervisione delle succursali all’altra parte, può essere necessario un accordo di collaborazione. Secondo, la UE dovrà armonizzare le normative  nazionali che regolamentano le succursali delle banche non-europee.

 

Queste proposte non significano voler passare dalla porta di servizio. Ad esempio, alla succursale di Francoforte di una banca con sede in UK  non sarebbe consentito di svolgere la sua attività anche a Parigi. Ma queste proposte potrebbero alleggerire il colpo inferto da una “hard Brexit”.

 

Una contrazione del mercato dei capitali a seguito della fine del “passaporto bancario” con Londra non sarebbe la fine del mondo per il sistema bancocentrico dell’Unione Europea, ma assesterebbe un brutto colpo allo sviluppo del mercato dei capitali sul continente, con tutto ciò che ne consegue in termini di crescita economica e stabilità. Sarebbe meglio per tutti se alle succursali delle banche fosse permesso di aprire sedi da entrambi i lati del Canale della Manica.

 

19/07/17

Una risata li seppellirà?

Di fronte a certi paradossi logici, come l'idea che tra le nazioni "vinca" sempre chi esporta di più (realizzabile solo se alla fine esportano tutti su Marte), può succedere che l'umorismo sia più efficace di una spiegazione razionale. Proponiamo qui l'intelligente satira politica della trasmissione televisiva tedesca Die Anstalt, che discute a modo suo di economia, presentando un acuto operaio che cerca invano di spiegare a un CEO sociopatico che nel commercio internazionale non necessariamente si deve vincere o perdere: si può anzi collaborare, con vantaggio di tutti. E mettendo in luce le molteplici assurdità di cui è intessuta la narrazione tedesca (e non solo) della crisi dell'UE. 

 

16 maggio 2017

 

 

18/07/17

Die Welt - I destinatari dell'Hartz IV restano disoccupati sempre più a lungo

Di recente le principali testate economiche internazionali sembrano voler dare finalmente spazio a contributi che mettano in luce le falle dell'economia tedesca e le loro dirette conseguenze sulla crisi europea. Ora lo stesso Die Welt, giornale di vedute conservatrici, riporta nuovi preoccupanti dati sugli effetti dell'Hartz IV: i beneficiari della riforma - costantemente proposta come esempio ai governi del Sud Europa - starebbero sperimentando periodi sempre più lunghi di disoccupazione.

 

 

 

11 luglio 2017

 

In Germania le persone coinvolte nel sistema Hartz IV, destinatarie dei relativi sussidi, restano disoccupate sempre più a lungo.
Secondo il Passauer Neuer Presse, tra le persone in grado di svolgere un'attività lavorativa che l'anno scorso erano dipendenti da questo sistema di sostegno al reddito la durata della disoccupazione è stata in media di 629 giorni.

 

Si tratta di 74 giorni in più rispetto al 2011, il che significa un aumento del 13,3%.

 

Il giornale bavarese ha ripreso una ricerca elaborata dall'Agenzia Federale del Lavoro su una richiesta esplicita di Sabine Zimmermann, del partito Die Linke.

 

"La mancanza di prospettive per chi è costretto a richiedere l'Hartz IV è aumentata negli ultimi anni", ha dichiarato Sabine Zimmermann.
Da qualche anno i servizi per facilitare l'integrazione dei disoccupati nel mondo del lavoro hanno subito una drastica riduzione. In questo modo il governo federale ha scelto di abbandonare milioni di persone al loro destino.

L'Eurozona è condannata, non importa cosa facciano Francia e Germania, avverte un funzionario della Bank of America

Il britannico Daily Mail intervista un funzionario della Bank of America Merrill Lynch, che espone dei punti molto semplici sull'insostenibilità dell'eurozona, punti che la stampa extra-UE e le banche d'affari danno per assodati, ma che nei nostri media sono ancora tabù: l'euro ha essenzialmente prodotto divergenze tra i paesi dell'eurozona fin dal momento in cui è stato creato; nell'attuale scenario di totale assenza di solidarietà intra-eurozona i paesi della periferia sono sulla traiettoria dell'uscita, ma in uno scenario ipotetico di trasferimenti interni sarebbero i paesi centrali a dover probabilmente uscire per ragioni di insostenibilità politica.

 

 

di James Salmon, corrispondente del Daily Mail - 15 luglio 2017

 

L'eurozona è probabilmente destinata a crollare, non importa quanti tentativi vogliano fare la Francia e la Germania per cercare di salvarla: così avverte una delle più grandi banche di investimento del mondo.

 

Un impiegato di alto grado della Bank of America Merrill Lynch ha detto che il blocco di paesi della moneta unica ha iniziato a cadere a pezzi fin dal momento stesso in cui è stato fondato quasi 20 anni fa.

 

Nonostante diversi paesi tra cui Grecia e Portogallo abbiano ricevuto aiuti di emergenza durante la crisi finanziaria, i paesi più ricchi come la Germania non hanno affatto redistribuito la ricchezza in modo permanente verso i paesi più poveri dell'eurozona.

 

Athanasios Vamvakidis, che ha lavorato a Londra per il Fondo Monetario Internazionale per 13 anni prima di essere assunto dalla banca americana, ha detto che questo ha spinto i paesi membri a divergere e ha accresciuto la disuguaglianza.
Sebbene questa situazione sia temporaneamente mutata durante la crisi finanziaria globale, ha detto che "le divergenze sembrano essere la normalità fin dal momento in cui l'eurozona è stata creata".

 

Descrivendola come una "bandiera rossa di allarme sulla sostenibilità dell'eurozona", ha avvertito che i paesi più poveri potrebbero decidere di separarsi dal blocco dell'eurozona nel momento in cui dovessero cadere ancora più a fondo nel tunnel del debito.

 

Ha detto: "Questi paesi non vorrebbero, a un certo punto, poter disporre della propria politica monetaria? Il populismo non troverebbe nella moneta unica un facile bersaglio – come sta già accadendo in alcuni paesi?"
Ha poi aggiunto: "Senza la crescita, il debito si potrebbe dimostrare insostenibile per alcuni paesi e il populismo contro l'eurozona potrebbe trovare sostegno, fino a portare all'uscita di quei paesi che sono stati lasciati indietro.

 
"La probabilità che un paese, sia esso del centro o della periferia, possa a un certo punto nel futuro decidere di abbandonare l'eurozona sotto un governo populista non è bassa, a nostra avviso."

 

Emmanuel Macron, il presidente francese pro-Bruxelles, ha proposto riforme incisive per salvaguardare il blocco della moneta unica, tra cui l'introduzione di un nuovo bilancio comune.

 

La Germania, che in tal caso dovrebbe finanziare cifre spropositate di spesa extra, ha reagito in modo cauto alla proposta.

 

Ma Vamvakidis ha detto che anche uno dei paesi più ricchi potrebbe a sua volta decidere di uscire dall'eurozona, perché il trasferimento di ricchezza verso i paesi più poveri potrebbe non essere "politicamente fattibile".

 

Ha aggiunto che "perfino in uno scenario ideale", in cui queste riforme venissero introdotte, "l'eurozona potrebbe essere ancora a rischio, in caso di persistente mancanza di convergenza".

 

La prognosi fa eco a quella dell'ex governatore della Banca d'Inghilterra, Mervyn King, che ha detto che una moneta "a taglia unica" è destinata al fallimento.

 

16/07/17

MPI - Il crescente legame tra migrazioni e microcredito

In anni recenti una pletora di ricerche ha cercato di documentare gli impatti sulla riduzione della povertà del microcredito (il prestito di piccole somme di denaro a tassi agevolati a famiglie povere, per lo sviluppo di microimprese sostenibili a livello locale). Molto meno conosciuti sono gli studi, come quello che qui traduciamo, che evidenziano un'altra realtà: il microcredito, in un'incredibile eterogenesi dei fini, in anni recenti sta incrementando l'emigrazione dai paesi in via di sviluppo verso quelli ricchi. Fornisce infatti accesso al credito alle famiglie che prima non lo avevano e che lo usano per coprire i costi dell'emigrazione nell'aspettativa di future, preziose rimesse dai propri familiari nei paesi di destinazione. Indebitarsi per l'emigrazione è una strategia sviluppata dalle stesse famiglie, per ottenere accesso a nuovo credito e mitigare i rischi di insuccesso dell'impresa locale o mantenere costanti le possibilità di investimento e consumo. Gli istituti di microfinanza sono stati cooptati in questa strategia e iniziano a supportarla per espandere i propri servizi finanziari, in alcuni casi aiutati da programmi governativi che vedono nelle rimesse un mezzo alternativo o complementare agli investimenti diretti esteri per lo sviluppo del proprio paese. Tutti questi fattori creano una forte pressione verso l'emigrazione, rendendo raramente possibile ciò che molti emigranti (e gli istituti di microcredito con loro) affermano di volere: la possibilità di guadagnarsi da vivere a casa propria.

 

di Maryann Bylander, 13 giugno 2013

 

 

 

Negli ultimi tre decenni, il mondo in via di sviluppo ha visto una rivoluzione nell'accesso al credito. Ciò è avvenuto in gran parte attraverso l'espansione del microcredito - prestiti relativamente piccoli, accessibili principalmente alle famiglie povere per realizzare investimenti e microimprese. Il microcredito è cresciuto sensibilmente e costantemente in tutto il mondo in via di sviluppo: oggi circa 100 milioni di persone in più di 90 paesi prendono prestiti dagli istituti di microfinanza (IMF). La maggioranza di questi prestiti è rivolta alle donne nelle zone rurali, e ai poveri.

 

L'emigrazione tipicamente trova poco spazio nei ragionamenti sulla microfinanza, poiché ciò che questa dovrebbe fare è proprio consentire alle persone di rimanere a casa. La maggior parte degli IMF afferma che i prestiti di microcredito sono sia impiegati sia restituiti dalle microimprese locali - e molte istituzioni hanno strategie esplicite in questo senso per la concessione dei prestiti. Tutte queste strategie e aspettative riguardano il modo in cui la microfinanza si propone di ridurre la povertà: permettendo alle famiglie povere di investire in attività che generano reddito a casa loro.

 

Tuttavia, sempre più spesso ci sono fili del discorso che legano l'emigrazione alla microfinanza. Gli IMF (talvolta con il sostegno delle istituzioni per lo sviluppo) si rivolgono alle famiglie degli emigrati con una varietà di servizi di microfinanza, inclusi i prestiti. Queste organizzazioni, nonché alcuni accademici e decisori politici, considerano gli istituti di microfinanza attori ideali attraverso i quali emancipare le famiglie degli emigrati.

 

Inoltre, c'è la crescente consapevolezza che l'emigrazione e la microfinanza stiano già interagendo in modi inaspettati e talvolta problematici. Alcune famiglie utilizzano il microcredito come anticipo sulle rimesse attese da parte dei familiari all'estero; altre utilizzano prestiti per finanziare i costi dell'emigrazione. Ci sono anche prove che l'emigrazione viene utilizzata come meccanismo di copertura per gestire il debito quando le microimprese falliscono, spingendo all'estero chi ha preso il prestito, alla ricerca di migliori opportunità economiche. Queste connessioni evidenziano che il collegamento tra emigrazione e microfinanza può espandere le opportunità degli emigranti e delle loro famiglie, ma anche generare o aggravarne le vulnerabilità.

 

Questo articolo esplora le connessioni tra microcredito ed emigrazione, analizzando nei suoi diversi risvolti il suggerimento che il microcredito possa supportare l'emigrazione all'interno di una strategia di sviluppo e sviscerando le domande che dovrebbero essere poste riguardo a questa possibilità. Aggiornato con uno studio qualitativo condotto in una comunità rurale cambogiana con forti legami con la Thailandia, l'articolo descrive come le famiglie stiano già utilizzando il microcredito in combinazione con l'emigrazione e affronta domande critiche su chi benefici di questo legame - e quali vulnerabilità potrebbe creare per gli emigranti.

 

Microfinanza: sfruttare l'emigrazione internazionale per lo sviluppo?

 

L'ottimismo sulla microfinanza, come mezzo per sostenere gli emigranti (e la emigrazione come strategia di sviluppo), si basa sulle rimesse - gli utili che gli emigranti mandano nei loro paesi d'origine.

 

Negli ultimi dieci anni, i paesi in via di sviluppo, inclusa la Cambogia, hanno visto un notevole aumento delle rimesse ricevute dagli emigrati all'estero. Le stime della Banca Mondiale suggeriscono che il livello dei flussi di rimesse nei paesi in via di sviluppo (in aumento di 400 miliardi di dollari nel 2012) è grande quasi quanto gli investimenti diretti esteri e più del doppio rispetto ai flussi di aiuti verso questi paesi. Questa straordinaria crescita, unitamente al dominio delle idee neoliberiste, ha portato a un rinnovato interesse politico intorno all'idea di sfruttare l'emigrazione per lo sviluppo. Di conseguenza, i politici, i governi e le istituzioni internazionali hanno investito in una serie di strategie volte a utilizzare le rimesse per generare uno sviluppo sostenibile.

 

Gli IMF vengono percepiti come attrezzati unicamente per supportare i programmi di sviluppo basati sulle rimesse. Tendono infatti ad essere localizzati nelle stesse aree povere rurali dove l'emigrazione è comune, e stanno già fornendo servizi finanziari in questi contesti. Per questo motivo sono adatti a diventare fornitori di prodotti finanziari destinati alle famiglie degli emigranti.

 

Lo strumento principale attraverso cui gli IMF si stanno già impegnando nello sviluppo basato sulle rimesse sono i prodotti per il trasferimento di denaro. In gran parte del mondo in via di sviluppo gli emigrati inviano denaro attraverso reti informali, pagando commissioni elevate e con poca sicurezza nel garantire che il denaro arrivi a destinazione. Dove gli emigrati possono utilizzare istituti di microfinanza per trasferire il denaro a casa, l'ipotesi è che il trasferimento sia più economico, più facile e più affidabile, consentendo così a chi è emigrato di tenersi una maggior parte dei suoi risparmi.

 

Gli IMF sono sempre più interessati a lavorare con gli emigranti in modo maggiormente significativo, in particolare con i sistemi riferibili al credito. La maggior parte degli IMF è interessata a continuare ad espandere i suoi portafogli di prestiti, sfruttando nuovi mercati e offrendo una gamma più ampia di prodotti. Gli emigranti - e le potenziali rimesse che rappresentano - offrono un nuovo mercato lucrativo.

 

Di conseguenza, gli IMF stanno prendendo in considerazione non solo i servizi di trasferimento di denaro per chi emigra, ma anche prodotti di credito fatti specificatamente su misura per le famiglie degli emigranti. Programmi di questo tipo sono già stati testati in America Latina con il sostegno di istituzioni internazionali per lo sviluppo, e sono presi in considerazione altrove. In questi tipi di programmi di credito mirati agli emigranti, le rimesse vengono considerate come una fonte stabile di reddito e sono essenzialmente trattate come prova del merito di credito. Gli IMF possono quindi sia aiutare gli emigrati a inviare denaro a casa sia aspettarsi che queste rimesse siano utilizzate come mezzo per rimborsare i prestiti.

 

Questi tipi di programmi di microcredito mirati agli emigranti sono relativamente nuovi e ancora molto rari. Tuttavia, gli IMF sono già in linea di principio collegati alla emigrazione in modi meno evidenti, spesso trascurati e che sollevano domande decisive sul microcredito come strategia di utilizzo dell'emigrazione per ottenere lo sviluppo. In tutto il mondo in via di sviluppo, le prove suggeriscono che almeno alcuni istituti di microfinanza prestano regolarmente a famiglie che già hanno un familiare che lavora all'estero o intendono inviare qualcuno all'estero poco dopo aver ricevuto il prestito. In entrambi i casi, i prestiti che sembrano destinati ad essere rimborsati attraverso l'impresa locale vengono in realtà rimborsati grazie alle rimesse. Presi insieme, li si può considerare come migra-prestiti - prestiti ottenuti da istituti di microfinanza che vengono poi utilizzati insieme a strategie di emigrazione internazionale.

 

Migra-prestiti: emigrazione e microfinanza in Cambogia

 

Uno studio condotto in Cambogia dall'autore, dal 2008 al 2010, ha indagato in dettaglio i modelli e le pratiche dei migra-prestiti. La Cambogia è un caso di studio rivelatore per capire come il settore in espansione del microfinanziamento abbia incontrato (e forse modellato) schemi di emigrazione internazionale, perché si tratta di un paese in cui sia la emigrazione internazionale sia la microfinanza sono cresciute sensibilmente negli ultimi due decenni.

 

Sia i microfinanziamenti sia gli schemi contemporanei di emigrazione internazionale possono essere ricondotti all'inizio degli anni '90, quando la Cambogia cominciò finalmente a riprendersi dalla devastazione lasciata dal regime dei Khmer Rossi (1975-79), concluso con un numero stimato tra 1,5 e 2 milioni di cambogiani morti per esecuzioni, fame e malattie.

 

La successiva occupazione vietnamita è durata il decennio successivo, fino a quando nel 1991 è arrivata nel paese un'autorità di transizione sostenuta dalle Nazioni Unite, che ha promosso elezioni democratiche, organizzate due anni dopo. La maggior parte delle istituzioni sociali e finanziarie contemporanee, e molti dei modelli demografici che si vedono oggi in Cambogia, hanno mosso i primi passi in questo periodo di nuova stabilità. Prima di questo periodo, le istituzioni finanziarie ufficiali erano praticamente inesistenti: i Khmer Rossi durante il loro breve governo abolirono anche i soldi (così come la proprietà privata, i mercati, i sistemi sanitari ed educativi).

 

La microfinanza in Cambogia è iniziata nel 1992, inizialmente come piccolo progetto sostenuto a livello internazionale, finalizzato alla creazione di posti di lavoro per i soldati smobilizzati. I modelli contemporanei (più commerciali), oggi prevalenti, si sono evoluti nel tempo, ma fin dai primi anni 2000 la microfinanza ha avuto una crescita veramente esplosiva (vedi tabella 1). Oggi la Cambogia è tra i primi cinque paesi al mondo per numero totale di mutuatari verso istituti di microfinanza come percentuale della popolazione e le dimensioni medie dei prestiti degli IMF superano il livello del reddito nazionale lordo (RNL) pro capite, secondo le statistiche del MIX Market, la piattaforma Microfinance Information Exchange per la trasmissione delle informazioni sulla microfinanza.

 

[caption id="attachment_12033" align="alignnone" width="829"] L'espansione del microcredito in Cambogia, 1997-2011. Colonne da sinistra a destra: anno di riferimento; numero di IMF nel paese; numero di uffici/filiali delle IMF; numero di persone che hanno ricevuto prestiti; prestito medio per mutuatario (in dollari); prestito medio per mutuatario come percentuale del RNL pro-capite.[/caption]

 

Accanto all'espansione del credito formale, anche la emigrazione internazionale è cresciuta in importanza e portata. Circa 250.000 cambogiani vivono e lavorano in Thailandia (la destinazione principale dell'emigrazione per i cambogiani), un numero aumentato significativamente nel corso degli ultimi dieci anni. La maggior parte sta emigrando da aree rurali emarginate, luoghi in cui la recente crescita dell'economia cambogiana non ha avuto ricadute tali da migliorare sostanzialmente i mezzi di sussistenza.

 

Gli emigranti partono a causa di povertà, disoccupazione, emergenza ambientale, desiderio di mobilità o semplicemente per la mancanza di scelte migliori. In molte comunità l'emigrazione è diventata normale, di modo che i giovani che raggiungono la maggiore età crescono con gli occhi rivolti verso la Thailandia - immaginando che il proprio futuro comporti necessariamente dover andare a lavorare all'estero.

 

Lo studio qualitativo dell'autore (in una comunità cambogiana rurale in cui l'emigrazione in Thailandia è comune) ha evidenziato come le famiglie utilizzano l'emigrazione e la microfinanza in combinazione. Alcune famiglie hanno utilizzato esplicitamente prestiti di microfinanza per finanziare i costi dell'emigrazione; per gli altri, l'emigrazione era una strategia di copertura del rischio per gestire gli shock che causano un indebitamento eccessivo. Più comunemente, i prestiti di microfinanza sono stati ottenuti dalle famiglie che ricevono rimesse o da quelle che se le aspettano. In questo caso le rimesse sono state considerate come un mezzo stabile per rimborsare i prestiti a basso costo recentemente disponibili, utilizzati per svariati scopi, tra cui la costruzione di abitazioni e l'acquisto di articoli di consumo di grandi dimensioni, come le moto. Questi migra-prestiti costituivano una specie di strategia di risparmio autoimposto, che garantiva alle famiglie di essere in grado di acquistare o di investire a casa, prima ancora di avere i soldi in mano per farlo.

 

L'uso di prestiti di microfinanza in coordinamento con l'emigrazione internazionale è stato sia normale sia percepito come strategico. Al contrario, i prestiti erano considerati rischiosi se utilizzati per la microimpresa locale. Poiché era difficile ottenere un profitto consistente attraverso i sistemi di sostentamento locale, per ottenere un prestito spesso l'emigrazione è stata vista come necessaria. Un ex emigrante ha descritto il legame in questo modo: "Il problema più grande è che qui non possiamo guadagnarci da vivere... se non guadagniamo abbastanza, la nostra unica scelta è di prendere in prestito denaro da banche private, e poi come facciamo a ripagarlo? Così emigriamo". Un non-emigrante, non-mutuatario ha risposto più semplicemente: "Possiamo farcela al villaggio, se non siamo indebitati. Se però abbiamo debiti, non c'è via di uscita".

 

I legami tra microcredito ed emigrazione sono stati visti dai soggetti intervistati sia come fonte di maggiori possibilità sia come problematici. Ad esempio, l'uso dei prestiti come anticipo sulle rimesse è stato visto come una strategia innovativa che ha cooptato creativamente gli obiettivi e le politiche stabilite dagli IMF (presumibilmente orientati a microimprese localmente sostenibili). Inoltre hanno sia incoraggiato il risparmio (nelle parole di un intervistato, questa strategia "ha fatto spendere poco per la birra") sia incrementato il consumo delle famiglie nei momenti per loro importanti.

 

Tuttavia, questi prestiti generavano spesso anche pressioni sui membri della famiglia, spingendoli a inviare più soldi dall'estero, spendere meno o emigrare, poiché l'imperativo di pagare il debito era significativamente più potente del desiderio di risparmiare. Di conseguenza, i giovani sono stati spinti molto presto ad abbandonare la scuola ed emigrare per rimborsare i debiti contratti con gli IMF.

 

Inoltre nei casi in cui l'emigrazione non va a buon fine per qualche motivo (ad esempio perché gli emigranti vengono espulsi, ingannati e privati del salario, o fermati dalla polizia), il debito delle famiglie verso gli IMF può  rapidamente diventare problematico, ispirando una serie di strategie di copertura alternativa che riducono le risorse delle famiglie.

 

Emigrazione e microcredito oltre la Cambogia: libertà in espansione o esasperazione delle debolezze?

 

Recenti osservazioni suggeriscono che i legami tra emigrazione e microfinanza sono presenti anche in altri paesi. Nel 2012 l'antropologo David Stoll ha pubblicato un ampio esame etnografico su come il microcredito abbia aiutato l'emigrazione clandestina dal Guatemala negli Stati Uniti. Similmente ai risultati dell'autore in Cambogia, il lavoro di Stoll evidenzia che le famiglie in Guatemala utilizzano il microcredito in modi sia inaspettati sia non intenzionali da parte di chi lo promuove, e che i migra-prestiti generano nuove vulnerabilità e pressioni sulle famiglie che li ottengono. È importante notare che ciò non riguarda solo la necessità di rimborsare i debiti, ma anche le vulnerabilità inerenti alla posizione degli emigranti nei paesi di destinazione, soprattutto quando arrivano senza i regolari permessi.

 

Un certo numero di studi recenti ha accennato a simili modelli in altri paesi. Ad esempio, la geografa Amelia Duffy-Tumasz, attraverso il lavoro etnografico in Senegal, descrive come le famiglie utilizzino il microcredito come anticipo in contanti sulle rimesse dei parenti che vivono all'estero. La studiosa suggerisce che il microcredito in questo contesto non è visto come una fonte di credito a basso costo per l'espansione dell'impresa finanziata, ma piuttosto come un mezzo per sostenere la famiglia quando le rimesse sono irregolari.

 

Marcus Taylor, sociologo che studia la microfinanza nell'Andhra Pradesh, in India, nota anche la predominanza delle famiglie che utilizzano le rimesse per rimborsare i prestiti degli IMF e sostiene che il microcredito può anche diventare il motivo  dell'emigrazione, dato che le famiglie devono fare fronte all'onere del debito e all'incapacità di rimborsare i prestiti attraverso le strategie di sostentamento locale.

 

Anche i volontari di Kiva, una piattaforma online entrata in servizio nel 2005 che funziona come intermediario per i prestiti da pari a pari, hanno documentato - anche in blog pubblici - i collegamenti tra emigrazione e microcredito. Meg Gray, che ha lavorato a Nagarote, in Nicaragua, come Socio Kiva, ha raccontato nel suo blog, nel novembre 2009, che occasionalmente gli IMF hanno persino clienti che inviano direttamente le rimesse agli agenti di prestito, con istruzioni per usare i soldi per ripagare i prestiti a carico dei familiari. Rosalind Piggot, lavorando in Tagikistan anche in questo caso come Socio Kiva, ha notato nel giugno 2010 che, durante il periodo peggiore della recente crisi finanziaria, solo i mutuatari degli IMF con membri della famiglia che inviavano rimesse dalla Russia potevano permettersi di ripagare le loro rate mensili.

 

Questi e altri studi suggeriscono che il microcredito, anche se ha il fine di porsi come strategia autonoma di sviluppo, può essere considerato dai potenziali mutuatari più utile se utilizzato in combinazione con l'emigrazione, non come un suo sostitutivo. In altre parole, il contesto conta. In aree caratterizzate da scarse infrastrutture, mancanza di accesso ai mercati e/o precarietà ambientale, è improbabile che il credito da solo (o le rimesse da sole) porterà a opportunità di investimento redditizie o ad uno sviluppo sostenibile basato su risorse locali.

 

Da una prospettiva di microfinanza, l'utilizzo dell'emigrazione in combinazione con il prestito non è problematico, finché i prestiti sono rimborsati. Infatti, molti agenti di prestito intervistati dall'autore in Cambogia consideravano l'emigrazione come il mezzo ideale per il rimborso del prestito, poiché era molto più facile guadagnare denaro in Thailandia che in zone povere rurali della Cambogia. Chiaramente ciò rende problematici gli obiettivi di sviluppo locale che gli IMF spesso rivendicano.

 

Tuttavia, i migra-prestiti pongono domande dalla prospettiva dell'emigrante: cosa succede quando l'emigrazione è l'unico (o il miglior) mezzo sicuro di rimborso dei prestiti di microcredito? I debiti portano spesso a turbolenze emigratorie? Dove gli emigranti rimborsano i prestiti tramite lavoro salariato all'estero, i posti di lavoro all'estero offrono protezione, sicurezza, un livello minimo di diritti e stabilità? Gli emigranti che detengono prestiti rischiano di essere espulsi, riducendo così la loro capacità di rimborsare il debito con successo?

 

Poiché molti IMF sono sovvenzionati da fondi per lo sviluppo, sembra particolarmente importante chiedersi come questi prestiti stiano promuovendo lo sviluppo sostenibile e come potrebbero generare o esacerbare vulnerabilità tra coloro che intendono aiutare.

 

Impatti della rivoluzione del credito sull'emigrazione e la mobilità

 

L'espansione dell'accesso al credito attraverso la microfinanza - che ormai è un settore che vale molti miliardi di dollari - ha portato a cambiamenti profondi in tutto il mondo in via di sviluppo. Eppure, mentre una pletora di ricerche ha cercato di documentare gli impatti del microcredito sulla riduzione della povertà, si sono esplorati poco gli impatti sociali della rivoluzione del credito - o in particolare il suo impatto sulla mobilità.

 

La ricerca dell'autore ha evidenziato che le famiglie di emigranti cambogiani in gran parte hanno visto il credito recentemente disponibile come un modo per integrare l'emigrazione - il modo più redditizio e sicuro per garantire il rimborso del debito. Sebbene in alcuni casi questo abbia funzionato abbastanza bene, molti cambogiani hanno sentito gli effetti della dipendenza migratoria: lunga separazione dai membri della famiglia; pressioni intense alla emigrazione per garantire il benessere delle loro famiglie; e problemi di rimborso del debito quando la strategia di emigrazione è fallita. La microfinanza è stata considerata utile, ma solo in una certa misura. È stata considerata anche potenzialmente pericolosa, perché crea un rischio finanziario tanto spesso quanto lo media. La cosa più importante è che raramente ha reso possibile ciò che molti emigranti hanno affermato di volere: la possibilità di guadagnarsi da vivere a casa propria.

 

L'espansione dell'accesso al credito può spostare, modellare, limitare e generare opportunità di emigrazione. Può aumentare le possibilità di investimento o mettere gli emigranti in situazioni rischiose. Di conseguenza è necessario indagare ulteriormente come l'espansione dell'accesso al credito interagisce con modelli di emigrazione preesistenti e quali tutele dovrebbero essere istituite per garantire che i programmi destinati ad utilizzare la microfinanza per sfruttare le rimesse lo facciano in modo che aiuti e protegga gli emigranti.

 

Fonti

 

Duffy-Tumasz, Amelia. 2009. Paying back comes first: why repayment means more than business in rural Senegal. Gender and Development 17(2):243-54.

 

Piggot, Rosalind. 2010. How Useful is Microfinance (Migration v. Microfinance). Hosted on Kiva Fellows Blog: Stories from the Field. June 28 2010. Disponibile online.

 

Gray, Meg. 2009. Microfinance, Migration, and a Constant Stream of Remittances. Hosted on Kiva Fellows Blog: Stories from the Field. November 24, 2009. Disponibile online.

 

O'Connell Davidson, Julia. 2013. Troubling freedom: migration, debt and modern slavery. Migration Studies 1(1): doi:10.1093/migration/mns002

 

Shaw, Judith. 2005. Ed. Remittances, Microfinance and Development: building the links. Brisbane: The Foundation for Development Cooperation.

 

Stoll, David. 2012. El Norte or Bust. How Migration Fever and Microcredit Produced a Financial Crash in a Latin American Town. Rowman & Littlefield.

Taylor, Marcus. 2011. Freedom from Poverty is Not for Free: Rural Development and the Microfinance Crisis in Andhra Pradesh, India. Journal of Agrarian Change 11(4):484-504.

USAID. 2008. Remittances and Microfinance in Latin America and the Caribbean: Steps forward on a long road ahead. Microreport #118: USAID.