28/06/17

La crisi dell’UE e le memorie divise dell'Europa

Pubblichiamo la traduzione di alcuni estratti da un’intervista di Carlo Spagnolo (Università di Bari) con Geoff ELEY, Università del Michigan (G.E.), Leonardo PAGGI, Università di Modena (L.P.), e Wolfgang STREECK, Max-Planck-Institut für Gesellschaftsforschung, Colonia (W.S.), già pubblicati in lingua inglese sul Blog di Sergio Cesaratto (Università di Siena). L'intervista sarà prossimamente pubblicata integralmente su “Le memorie divise dell’Europa dal 1945”, volume monografico della rivista "Ricerche Storiche", n. 2/2017. Questo eccezionale documento è un dialogo illuminante sulle cause dell'attuale crisi europea, e sui possibili scenari che si prospettano per l'Unione, i paesi membri, ed i popoli europei.

 

 

 

 

1. Fin dai suoi inizi, l’integrazione europea ha incontrato resistenze e attraversato fasi di stasi e di involuzione, ma la crisi odierna presenta caratteristiche inedite e ben più gravi. A partire dalla bocciatura del trattato costituzionale in Francia e Olanda nel 2005 abbiamo assistito alla crescita di movimenti “populisti” nazionali contrari all’immigrazione e alla deregolamentazione del mercato del lavoro, ad una rinascita del nazionalismo in diversi paesi ed al voto a favore della Brexit del 23 giugno (2016). Questa crisi di rigetto è forse legata alla quasi innaturale e incredibilmente rapida espansione delle dimensioni e delle competenze dell’UE dopo il Trattato di Maastricht del 1991-92? È questo il prezzo da pagare per le eccessive ambizioni dell’UE o per il “deficit democratico” sul quale è stata costruita?

 

 

(W. S.) Oggigiorno è ormai quasi scontato rispondere affermativamente ad entrambe le domande: ambizioni eccessive e deficit democratico allo stesso tempo. Certamente l’integrazione ha superato i limiti oltre i quali inizia ad avere ripercussioni sulla vita quotidiana, in particolare dal momento che i paesi membri sono divenuti quanto più eterogenei. Il “nazionalismo”, come lo definisci tu, è sempre esistito, tranne in Germania e, probabilmente, in Italia – due paesi i cui cittadini sono stati per lungo tempo disposti a scambiare la loro identità nazionale con una europea. Altrove è rimasto circoscritto all’interno dei confini nazionali, che erano ancora rilevanti. Tutto questo è cambiato con il simultaneo allargamento ed approfondimento dell’Unione. Inoltre, per quanto riguarda il nazionalismo, si ricordi che il Mercato Interno e l’unione monetaria, e in particolare le “operazioni di salvataggio” di governi e banche, contrappongono i paesi membri l’uno contro l’altro, facendoli competere a livello economico e scontrarsi sia sul tema dell’austerità che della “solidarietà”.

 

 

(G. E.) Entrambe le spiegazioni sono rilevanti, a mio parere. Ovviamente, è importante ricordare che l’identificazione popolare con l’”Europa” è sempre stata significativamente variabile tra regioni diverse, a seconda dei periodi, ed in ciascuna delle numerose divisioni sociali interne, da paese a paese – a seconda se l’”Europa” sia intesa come l’UE in sé stessa, il “progetto europeo” in qualche accezione politicamente coerente, un insieme di ideali generalmente diffusi ma comunque significativi, una sorta di eurocentrismo definito in senso negativo, o l’effetto cumulativo di un’elaborata serie di convenienze e riconoscimenti pratici (ossia il processo di “crescita comune” nel tempo tramite incontri collettivi, circuiti di comunicazione, scambi nel settore dell'istruzione, interconnessione professionale ed amministrativa, mercati del lavoro integrati, movimenti pan-europei delle persone sempre più frequenti,  apparati normativi europei ramificati e, da ultimo ma non meno importante, il calcio). Nella prima fase (1957-anni Settanta) il Mercato Comune si è basato su un ostinato pragmatismo economico e geopolitico (una sorta di internazionalismo imbastardito), sviluppato lungo l’asse principale Francia-Germania Ovest e fermentato da elementi di intellettualismo europeista in grado di esercitare un’influenza sproporzionata. Fu solo durante gli anni Ottanta che l’”Europa” acquisì un’attualità pratica genuinamente popolare, con le conseguenze “oggettive” di processi integrativi cumulativi, la coalizione tra meccanismi istituzionali e legislativi, e l’emergenza di un progetto europeo più coerente. In tal senso, l’Atto Unico Europeo e Maastricht consolidarono una presenza europea la cui penetrazione verso il basso nelle rispettive società europee divenne incredibilmente efficace. Nel contempo, importanti processi di mutamenti destabilizzanti hanno continuato a minare tale potenziale. Due di questi sono quelli espressi nella sua domanda. Per prima cosa, l’inarrestabile campagna di espansione ha reso ingovernabile la coesione ed efficienza politica della stessa UE, sia come edificio istituzionale di negoziazione politica che come modello identitario popolare. Secondariamente, il carattere irrimediabilmente anti-democratico dell’assetto istituzionale dell’Unione (banalmente riassunto nel concetto di “deficit democratico”), che pure era evidente fin dagli inizi, è adesso esacerbato al punto da diventare una disfunzione cronica. Aggiungerei inoltre che, in terzo luogo, nonostante negli anni Ottanta vi siano stati segnali promettenti in direzione di politiche operative di miglioramento collettivo e promozione di servizi pubblici a livello europeo (l’”Europa sociale”), ogni parvenza di impegno social-democratico o persino social-liberale per politiche redistributive è stato da tempo sacrificato all’interesse del progetto economico neoliberista prevalente. Quarto, dopo il 2008, la rigida adesione a politiche di austerità ha clamorosamente contraddetto ogni eventuale residuo retorico di un progetto comune europeo. Per finire, l’incapacità politica dell’UE a fronte del perpetuarsi della crisi dei rifugiati non ha soltanto posto gli stati membri e le popolazioni sotto specifiche e sempre più intollerabili pressioni, ma ha anche continuamente evidenziato l’inefficienza politica dell’UE.

 

 

(L. P.) Le ragioni della crisi sono molto più profonde e sono da ricondursi al progetto di governance economica adottato al momento della creazione della moneta unica. Trovo sempre particolarmente illuminante rileggere il modo in cui Guido Carli, all’indomani della firma del Trattato di Maastricht (alla quale aveva partecipato in quanto ministro del Tesoro del governo italiano nel febbraio 1992) commentava nei suoi appunti personali il significato e le conseguenze di quella scelta:

 

l’Unione Europea implica la concezione dello ‘Stato Minimo’, l’abbandono dell’economia mista, l'abbandono della pianificazione economica, la ridefinizione delle modalità di ricomposizione della spesa, una redistribuzione delle responsabilità che restringa i poteri delle assemblee parlamentari a favore dei governi, l'autonomia impositiva per gli enti locali, il ripudio del principio della gratuità diffusa (con la conseguente riforma della sanità e del sistema previdenziale), l’abolizione della scala mobile, la drastica riduzione delle aree di privilegio, la mobilità dei fattori produttivi, la riduzione della presenza dello Stato nel sistema del credito e dell’industria, l’abbandono di comportamenti inflazionistici non soltanto da parte dei lavoratori, ma anche dei produttori di servizi, l’abolizione delle normative che stabiliscono prezzi amministrati e tariffe. In una parola: un nuovo patto tra lo Stato e i cittadini a favore di questi ultimi.


 

Siamo dinanzi a un quadro brutale ma estremamente nitido che riassume in poche righe il significato e la direzione di marcia di un processo politico che sta per investire l’Europa nel suo insieme: drastica riduzione dei poteri dello Stato sia in termini di politica economica che di politica industriale, smantellamento della mano pubblica e dei poteri di orientamento del mercato ad essa connessi, manomissione del sistema assistenziale e pensionistico,  riduzione dei poteri di contrattazione del sindacato, trasferimento dei poteri dal parlamento all'esecutivo.  A distanza di un quarto di secolo siamo in grado di apprezzare i risultati di un sistema di scelte che hanno eroso sistematicamente e quasi scientemente le basi economiche e sociali su cui si è ricostruita la democrazia in Europa dopo il 1945.

 

(…)

 

 

6. La “fine della storia”, di cui scriveva Fukuyama nel 1992, sembra oggi più applicabile all’Europa che agli Stati Uniti, nel senso che la frase non si riferisce solo ad una crisi che incide sull’idea di progresso, ma anche alla fiducia che l’UE offra una stabile soluzione ai conflitti politici. Lo si può vedere, ad esempio, nella trasformazione della politica in amministrazione, e nelle illusioni sull’eliminazione della guerra e sulla fine dei conflitti ideologici. Perché la politica oggi sembra avere così poca necessità della storia e così tanto bisogno di memorie?

 

Ci troviamo in un periodo di trasformazione del politico che tende a separare la politica dall'economia e dalla storia, oppure il dibattito emergente sulla memoria è solo un sintomo di invecchiamento demografico, una febbre intellettuale che si estende anche alle scienze sociali?

 

 

(G. E.) In linea generale sono molto d’accordo con il pensiero espresso in questa domanda. Ma allora, lungi dal confermare un’eventuale separazione della politica e dell’economia dalla storia, gli appelli politici decisamente efficaci della destra populista non finiscono piuttosto con il dimostrare il contrario? L’idea che “ci troviamo in un periodo di trasformazione della sfera politica” è certamente affascinante, ma necessita di ulteriori declinazioni.

 

 

(L. P.) In una notevole analogia con gli eventi dell’inizio del XX secolo, quando la teoria dell’imperialismo fu elaborata grazie al contributo di analisti politici di diverso orientamento (Hobson, Hilferding, Lenin, ecc.), i protagonisti della globalizzazione sono ancora una volta i grandi Leviatani, gli stati nazionali ricchi non solo di risorse economiche, ma anche di storia e identità. È questo il vero motivo della competizione tra Stati Uniti e Cina, per non parlare della rinata influenza geopolitica della Russia post-Sovietica, che da tante parti si vorrebbe esorcizzare attribuendone le colpe al “cattivo” Putin; e la straordinaria crescita dell’economia indiana non è forse dovuta anche alla massiccia struttura statale ereditata dal colonialismo britannico? Anche i periodi più positivi delle economie sudamericane coincidono sempre con un rafforzamento dello stato con l’emergere di una forte leadership populista. Nella crisi mediorientale, infine, la crescente influenza di stati forti di tradizione antica, come l’Iran e la Turchia, si contrappone alla permanente frammentazione politica del popolo arabo, che non è riuscito ad andare oltre il Califfato.

 

 

Tanto più singolare risulta dunque il contrasto tra un tale assetto globale e un’Unione Europea definita da un sistema insensato e auto-distruttivo di “moneta senza stato” (pare che questa frase sia stata coniata dal nostro Tommaso Padoa-Schioppa!), che viene in ogni caso tenuto insieme dalla supremazia e arroganza della Germania. Per abbandonare il cosmopolitismo gerarchico di Maastricht e tornare ad una prospettiva realmente federale sarà necessario sbarazzarsi di un’intera cultura, una cultura di subalternità che ha consegnato il destino di un continente al capitale finanziario, con il rischio di cancellare un’intera civiltà. Ecco la ragione principale della grande crisi identitaria che attualmente affligge la nostra Europa.

 

 

(W. S.) Trovo questa domanda talmente complessa da poter soltanto fornire una serie di aspetti, più o meno scollegati tra loro, di quella che potrebbe alla fine risultare una risposta sufficientemente esauriente. Esiste nell’Europa contemporanea un bisogno di memoria distinta dalla storia? Chiaramente c’è bisogno di storie selettive fittizie, o memorie, che travestano una politica economica post-democratica, consumistica, neoliberista e hayekiana, da modello accettabile di società. Ci saranno abbastanza persone disposte a crederci così da renderle generalmente accettate e riconosciute? Centinaia di migliaia di esperti in pubbliche relazioni ci stanno lavorando e si industriano a vendere i diritti LBGTIQ, le frontiere aperte e le comunità artificiali di Facebook e Twitter come pietre miliari della storia. Che la politica diventasse amministrazione era infatti un ideale storico (marxista) di progresso – che nell’Europa di oggi si è materializzato nell’incubo di una tecnocrazia al riparo dalla politica, in modo da proteggere l’elettorato dalla tentazione del “populismo”. Riuscirà la gente a riconoscere che si tratta di un imbroglio, a capire quale tragedia discende dall'accettare quest’ideale come oro colato? Anche la presunta sparizione della guerra viene presentata come un progresso, ma principalmente in termini di fine dell’obbligo per i giovani di servire nell’esercito del proprio paese, il che riduce ulteriormente gli obblighi tradizionalmente associati ai diritti di cittadinanza (diritti che nel frattempo sono divenuti beni di consumo, in un contesto generale in cui il progresso è ridotto e concepito esclusivamente in termini di incremento delle libertà individuali). La guerra è stata da tempo delegata agli Stati Uniti e a Forze Speciali altamente specializzate, mantenute da tutti i paesi dell’Europa occidentale ma operanti in assoluta segretezza, cosicché nessuno nota niente – e in assenza della leva obbligatoria tradizionale, a nessuno interessa granché. Lo stesso vale per le gli armamenti tecnologici moderni, come i droni. Al momento, ovviamente, la storia in quanto guerra ritorna in forme nuove, con Stati al collasso nella periferia del capitalismo, flussi di rifugiati che esportano la loro miseria verso le aree prospere dell’Europa, ed il fondamentalismo religioso a portare violenza nelle sue città.

 

 

L’assenza diffusa di coscienza storica e gli sforzi spesso riusciti di colmare i vuoti con “memorie” immaginarie – ad esempio, il fatto che la pace in Europa sarebbe dovuta all’Unione Europea – potrebbero essere causati da un fenomeno forse senza precedenti, ossia da cambiamenti rivoluzionari che si susseguono in modo lento, ma graduale, senza forti sbalzi, da almeno due generazioni politiche, senza che se ne riesca a intravedere la fine. Se la dimensione storica di quella che viene chiamata una rivoluzione neoliberale è solo raramente evidenziata, e può esserlo solo con grande sforzo, ciò si potrebbe spiegare con il fatto che essa si è evoluta nell’arco di così tanto tempo, senza drammatiche rotture o interruzioni. Dunque ciascuna generazione vede solo una piccola parte dell’imponente processo di crisi e mutamento in corso dagli anni ‘70, e dunque può percepire soltanto differenze minime o nulle tra l’inizio e la fine del periodo storico in osservazione. Poiché la reale dinamica storica dei nostri tempi si può riconoscere solo a distanza, essa non è visibile da tutti coloro che non possono o non sono disposti a prendere le distanze dalla loro vita quotidiana. Per questo è così urgente che oggi le scienze sociali abbandonino i loro vezzi accademico-sistemici e ritornino a un approccio che riconosca adeguatamente la natura storica del mondo sociale.

 

 

 

7. Con la riunificazione della Germania e l’apertura dell’Europa dell’Est, la narrazione prevalente si è concentrata sul superamento della Guerra Fredda e sull’idea che la Vergangenheitsbewältigung (superamento del passato) fosse ormai completa; ogni capitolo oscuro nella storia nazionale, a cominciare dalla Germania, doveva essere portato alla luce, e illuminare l’Olocausto come base di una cultura comune dei diritti umani. Come rilevava Walser nel 1998, la Monumentalisierung der Schande (Monumentalizzazione della vergogna) sembra quasi chiamata a garantire la moralità della odierna politica.

 

Sembra che quel progetto, che forse non è mai stato perseguito con coerenza, stia naufragando: paradossalmente, la costruzione di una inclusive memory, perseguita con la diffusione di giornate della memoria  intitolate alle vittime dei “totalitarismi”, non ha prodotto una “memoria europea” quanto memorie di gruppi o nazioni che rivendicano lo status di vittima e contestano radicalmente le “verità ufficiali” precedenti. Per contro, le storiografie post-nazionali si rifugiano in un “patriottismo moderato” – non privo di autocompiacimento – che mira ad una "normalizzazione" del passato nazionale.  È possibile una “memoria europea”, e quali caratteristiche dovrebbe avere per salvaguardare la democrazia dal ritorno di identità escludenti e conflittuali?

 

 

(G. E.) Anche stavolta condivido pienamente il pensiero espresso in questa domanda. Il “linguaggio del trauma” ha acquisito una posizione di dominanza talmente pervasiva che una ferita traumatica di ingiustizie passate è oggi la motivazione più forte per avanzare efficacemente richieste politiche, anzi, quanto più tragica la propria storia tanto meglio – schiavitù, spoliazioni coloniali, espulsioni, genocidi, qualsiasi tipo di discriminazione, sofferenza collettiva o violazione di diritti. Il ricorso ad un linguaggio della memoria identitaria traumatizzata non solo si sostituisce al richiamo a più tradizionali ideali universali, ma spettacolarizza anche la sofferenza e l’ingiustizia, cosicché qualsiasi esperienza drammatica di eccezionale violenza viene implicitamente privilegiata quale motivo principale per legittimare e rafforzare richieste politiche che divengono ora necessarie. Nel contempo, gli altri motivi principali dell’azione democratica – ad esempio, gli ideali positivi di auto-realizzazione ed emancipazione sociale o la banale sofferenza per povertà e sfruttamento quotidiani, divengono molto meno convincenti. In tal senso, una politica della “memoria” tende a condizionare più che ad aiutare. Il lavoro sulla memoria – l’elaborazione di un passato difficile e compromesso – dal 1945 è sempre stato fondamentale per la ricostruzione della cultura politica democratica in Europa, e in modo particolarmente straordinario in Germania (dove è alla base del processo di Vergangenheitsbewältigung fin dagli anni Sessanta). Inoltre, come continuano a mostrare gli attuali avvenimenti in Germania, ciò rimane necessariamente in evoluzione, le motivazioni continuano a complicarsi e risistemarsi, talvolta in modi pericolosi e inaspettati. Ma quel lavoro politico sulla memoria era sempre guidato da visioni utopiche di una società migliore, orientate al futuro ed inevitabilmente contestate, sia che si trattasse del 1968, della metà degli anni Ottanta o dell’indomani dell’unificazione. Senza una visione equivalente di un futuro democratico che sia desiderabile, concepito con generosità, e realisticamente fattibile – dolorosamente assente al centro dell’attuale discorso politico all’interno dell’UE – non è possibile avere una “memoria europea” che sia degna di questo nome.

 

 

(W. S.) La Germania Ovest fu riorganizzata come paese democratico-capitalista negli anni Cinquanta e Sessanta, quando l’Olocausto non era ancora altrettanto presente nella memoria pubblica di quanto lo sia oggi. Anche qui la NATO e l’americanizzazione della vita sociale hanno giocato un ruolo molto più significativo della storia e della memoria. Oggi la Shoa ed in generale i crimini nazisti hanno largo spazio nella coscienza della Germania scolarizzata, o della Germania della cultura in generale: non è possibile, in quanto tedeschi, aderire ad un tipo di patriottismo sciovinista. Al contrario, c’è la consapevolezza, o la costante possibilità che venga ribadito, che un intero popolo, persino uno che che si vanti di essere stato l’avanguardia della civiltà, può essere portato, o può portare sé stesso, a ricadere nella peggiore barbarie. E tuttavia, la conoscenza della storia non può essere insegnata facilmente alla generazione Twitter, nemmeno in Germania, e per i giovani che stanno crescendo oggi, la prima metà del XX secolo è un’epoca remota quanto il Medio Evo. Per di più, la memoria collettiva, persino quella tedesca, non è politicamente molto istruttiva. Ad esempio, il genocidio commesso dalla Germania contro il popolo ebraico non dice quanti immigrati la Germania odierna dovrebbe accogliere annualmente, o da quali paesi – né tantomeno che tipo di istituzioni sovranazionali europee la Germania dovrebbe contribuire a costruire e sostenere. Non prevede neanche precise istruzioni sulla politica della Germania verso Israele: è più appropriato per la Germania sostenere qualsiasi azione del governo israeliano per difendere l’esistenza dello Stato di Israele, oppure sarebbe meglio impegnarsi rigorosamente per i diritti umani e il diritto internazionale, anche se ciò significherebbe schierarsi con i palestinesi di Gaza nella loro lotta contro l’attuale governo israeliano? Particolarismo o universalismo?

 

 

Per quanto riguarda il “patriottismo”, il suo significato cambia da paese a paese e tra individui, e si evolve nel tempo. Basta guardare come la squadra italiana di calcio canta l’inno nazionale prima di una partita, e confrontarla con il modo in cui lo cantano i tedeschi, se pure lo fanno. Da un lato, come sanno bene i sociologi, gli uomini si identificano come membri di un gruppo e sviluppano fedeltà ai gruppi con i quali si identificano. I tedeschi non sono sostanzialmente diversi sotto questo aspetto, per quanto il loro attaccamento al loro paese tende ad essere temperato dalla memoria del Nazismo e del genocidio, come prima evidenziato. Ma può durare? Certamente è diverso per il gran numero di immigrati che si stanno attualmente insediando in Germania. I tedeschi di origine turca, palestinese o eritrea non sembrano molto propensi a considerarsi partecipi di qualsiasi tipo di responsabilità storica per l’Olocausto. Ed è anche vero che, rispetto alla generazione che li ha preceduti, i giovani tedeschi di oggi quando si trovano all’estero sono meno inclini a tacere quando vengono accusati personalmente per il passato nazista tedesco. In poche parole, ritengo che un legittimo sistema europeo di pace e cooperazione non può essere costruito su memorie storiche, né sull’accettazione da parte della Germania della sua responsabilità per il peggior crimine contro l’umanità del XX secolo, se non di sempre. E ritengo anche che una “memoria europea” che abbracci l’intera esperienza storica dalla Norvegia alla Sicilia e dall’Irlanda alla Romania non sia altro che una chimera.

 

 

(L. P.) Fino agli anni Settanta, la coscienza storica europea si è caratterizzata per una somma di memorie nazionali che in qualche misura hanno ignorato, nelle loro separazione, il declassamento geopolitico che alla fine della seconda guerra mondiale ha colpito il continente nel suo insieme. Sono memorie divise, e anzi spesso contrapposte, ma tutte egualmente anti-tedesche. E ancora, memorie segnate da fenomeni di omissione e insieme di autoesaltazione. La memoria inglese celebra la dura sconfitta inflitta alla Germania nazista, ma dimentica la fine dell’Impero. La memoria francese mette tra parentesi Vichy per esaltare la continuità ininterrotta della tradizione repubblicana. La memoria italiana dilata oltre misura il consenso acquisito dalla Resistenza per sostenere un programma di rinnovamento democratico e di modernizzazione del paese che si scontra con tenaci residui feudali. Non si può tuttavia trascurare che proprio in ragione della loro parzialità (ma quando mai una memoria è stata riproduzione fedele  del leopardiano ’”arido vero”?), queste memorie sono contrassegnate da una inequivocabile volontà democratica e antifascista, quella stessa che viene scritta (ad eccezione della Germania) nelle costituzioni postbelliche che predicano non solo la libertà e l'eguaglianza, ma anche l'esistenza di condizioni e strumenti concreti per la loro attuazione.

 

 

Cultura dell'antifascismo, stato sociale e politiche keynesiane sono i tre tratti distintivi dell’equilibrio ideologico e politico degli stati nazione europei prima che la grande bufera della cultura liberista imponga con ladi forza il nuovo orizzonte della globalizzazione, con politiche economiche aggiogate al pareggio di bilancio, e una crescente limitazione delle sovranità nazionali imposta dai capitali finanziari in libera uscita. Si origina in questo nuovo contesto  ufficializzato da Maastricht il progetto Ue di una memoria europea, che abbandonando il richiamo tradizionale, e in qualche modo d'obbligo, alla seconda guerra mondiale, assume l’Olocausto come tema comune che si soprammette alla molteplicità e la diversità dei contesti nazionali. Si tratta di un’operazione burocratica che ha lo stesso carattere astratto e impositivo di tutta la  legislazione della governance europea. Prende forma una memoria/dispositivo, sganciata da qualsiasi esperienza storica reale, che si impone attraverso la proliferazione di leggi (nel 2009 arriva anche l'obbligo della memoria del patto Molotov-Ribbentrop), con le relative sanzioni per i trasgressori.

 

 

Del resto la memoria dell’Olocausto, isolata dal contesto della seconda guerra mondiale in cui si poduce, diventa  simbolo di un Male assoluto, oblitera Stalingrado e il ruolo svolto dall’Unione sovietica nella determinazione della sconfitta del nazismo, per approdare alla piena affermazione di una teoria dei due totalitarismi che soprattutto in Europa orientale finisce con l’alimentare la ripresa di memorie apertamente fasciste.

 

 

 

8. La gestione del debito della Grecia e dei PIGS, il problema dell'Ucraina, l’emergenza dei profughi, il rapporto con la Turchia, mostrano un'assenza di elaborazione politica comune, e quindi accrescono il peso dei singoli stati e soprattutto della Germania. Quest'ultima si sforza di mediare ed è anche disposta a pagare qualche prezzo ma non sembra in grado di elaborare una visione politica adeguata  alle diversità e allo spessore storico dei conflitti tra gli stati membri. A cosa si deve ricondurre il disinteresse delle classi  dirigenti ad una politica di crescita comune dell'UE? Pesa forse nella cultura della Germania o di altri paesia cultura del paese più importante, la Germania, troppo influenzata da una sorta di autoreferenzialità seguita per gli uni ai successi della riunificazione e dell’allargamento e per gli altri alla nostalgia della guerra fredda? È possibile che la carenza di visione abbia a che fare con la complessiva perdita di cultura storica delle classi dirigenti europee e della loro capacità di pensare il conflitto?

 

 

(L. P.) La crisi del 2008 ha fatto piena chiarezza sulla posizione di comando che la Germania ha realizzato per vie di fatto  nella Europa di Maastricht. Dietro il paravento del governo impersonale delle regole si è prodotta un’aperta politicizzazione di tutti i rapporti interstatuali. Le crisi che scuotono la Grecia nel 2010 e poi ancora nel 2015 testimoniano in modo plateale l’esistenza di una struttura rigidamente oligarchica dotata di un ferreo potere di controllo non solo sul terreno della politica economica, ma anche su quello degli equilibri politici. In Italia il governo Monti del novembre 2011 è stato caratterizzato da una forte limitazione del potere di controllo del bilancio pubblico da parte del presidente del consiglio che si perpetua poi con i governi successivi.

 

 

A partire da questo dato di fatto ha preso corpo la rappresentazione, a mio parere fuorviante, della Germania come “egemone riluttante” su cui è tornato più volte Jugen Habermas, e di cui si è fatto interprete anche in Italia un rispettabile studioso di cose tedesche come Gian Enrico Rusconi.

 

 

L’economia tedesca è oggi strutturalmente incapace di svolgere quella funzione di locomotiva che si continua ad ipotizzare in astratto.   La storia dello sviluppo capitalistico ha già esibito compiutamente i tratti di un modello di egemonia sovranazionale con il  ruolo di traino che il mercato interno Usa ha svolto fino alla metà degli anni Settanta  per l’intero sistema occidentale. Il modello tedesco, di contro, basato sull’aumento esponenziale delle esportazioni e il conseguente contenimento della domanda interna non solo non offre alcuna possibilità di espansione al resto dei paesi europei, ma chiede anzi loro di perseguire lo stesso obbiettivo della crescita della competitività con l'abbassamento dei salari e lo smantellamento dei sistemi previdenziali e pensionistici. Queste "riforme interne" hanno provocato quelle massicce perdite di potere di acquisto che ostacolano oggi pregiudizialmente  qualsiasi tentativo di rilancio delle economie europee. La parola d’ordine di questo modello economico è: crescita senza eguaglianza. Nel suo libro Buying Time: The Delayed Crisis of Democratic Capitalism, Wolfgang Streeck ha sottolineato opportunamente il significato delle “riforme interne” imposte dalla Germania e le enormi perdite in potere d’acquisto da esse provocato, che oggi rischia di vanificare qualsiasi tentativo di resuscitare le economie europee.

 

 

E tuttavia non intendo con questo demonizzare il ruolo della Germania che si avvale indiscutibilmente del consenso di una vasta “coalizione di volenterosi”. Occorre prendere atto che la linea tedesca della austerità può perpetuarsi solo nella misura in cui aggrega  in Europa una vasta area di consenso, non solo tra le clasi politiche conservatrici (che dominano incontrastate dopo il suicidio commesso dalla socialdemocrazia negli anni Novanta), ma anche tra i ceti imprenditoriali. La politica di austerità ostacola sicuramente la crescita della torta e quindi l'occasione di investimenti remunerativi. E tuttavia, nello stato di prostrazione in cui versa ovunque la rappresentanza sindacale e politica del lavoro, di questa torta è possibile appropriarsi in quote sempre crescenti. I profitti possono aumentare senza che ci si debba sobbarcare il rischio politico del conflitto redistributivo  che inevitabilmente si riaprirebbe in una situazione di crescita. La Germania è oggi il punto di riferimento di un vasto schieramento di forze europee apertamente conservatrici che sostengono equilibri economici e politici di carattere neomaltusiano.

 

 

Non è un caso che la richiesta di stanziamenti europei per finanziare gli investimenti e stimolare la crescita, fatta da Macron subito dopo la sua elezione, sia già stata rifiutata. Come al solito, l’accusa è stata di voler trasformare l’unione monetaria in un’unione di trasferimenti, contro l’interesse della Germania. La Germania si contende ancora una volta il primato in Europa sulla base di un modello gerarchico e coercitivo.

 

 

(G. E.) Ciascuno dei gravi problemi appena menzionati ha causato l’inasprimento di quei particolarismi nazionali che l’UE avrebbe storicamente dovuto trascendere, o quantomeno trovare i mezzi per mediare e contenere in maniera costruttiva. Non vi è dubbio che le rispettive crisi, anche a causa della loro convergenza e interconnessione, hanno raggiunto livelli di gravità che complessivamente consolidano la crisi generale in corso del “progetto europeo” tout court. Certo, la Germania ha talvolta fornito una guida lungimirante. Ma all’iniziativa della Merkel sulla questione dei rifugiati, sorprendentemente ardita quanto arbitraria, ha abbondantemente corrisposto l’attaccamento spietato di Schäuble alle misure di austerità richieste dalle ortodossie prevalenti. La visione tedesca della politica si potrebbe magistralmente descrivere come una “sorta di auto-referenzialità”. Ma proprio l’inflessibilità politica di Schäuble arriva a suggerire una sorta di rinnovata ambizione verso un’idea di Mitteleuropa, non manu militari ma comunque di concezione comparabile a quella dell’inizio del XX secolo, sospetto che viene tragicamente confermato dall’arroganza che ha accompagnato la crisi del debito greco. Questa crisi ha messo a nudo la sempre minore validità morale e politica di ciò che resta degli ideali “europeisti”, poiché se tali ideali conservassero un qualche significato affidabile, efficace e nettamente internazionalista, la difficile situazione greca avrebbe dovuto essere un’opportunità per avviare un dibattito più costruttivo, e uno stimolo per un intervento realmente europeo. Proprio l’estrema debolezza della Grecia all’interno dei rapporti di forza complessivi dell’UE e dell’economia globale più ampia (elemento che condivide con altri paesi PIGS) avrebbe sicuramente dovuto costituire un impellente invito ad un’azione morale-politica e a porre rimedio socio-politico in modo costruttivo, invece che all’imposizione di correzioni di disciplina fiscale. E tuttavia, non solo “i greci” sono stati umiliati e penalizzati (all’interno di un dibattito pubblico vergognosamente intriso di disprezzo e quasi di razzismo), ma per di più la loro stessa situazione di indebitamento strutturale e di dipendenza era stata originata proprio dal meccanismo fiscale dell’UE e dagli interessi capitalistici dominanti. La crisi politica sarebbe già abbastanza grave anche in assenza del quadro normativo sempre più rigido e inflessibilmente punitivo dell’UE. Ma l’effetto di quel quadro normativo effettivamente esistente nell’Unione è di massimizzare il rigore delle misure di austerità tanto sistematicamente richieste ed applicate dal governo tedesco e dai suoi alleati dell’Est e Nord Europa. All’interno di un tale contesto politico dominante, dov’è lo spazio per un’azione di cooperazione basata su principi esplicitamente internazionalisti (cioè comunitari)? Invocare ad ogni piè sospinto la storia europea ante-1945 e la fine delle divisioni della Guerra Fredda non è il modo migliore di costruire questo spazio. Si nota infatti un deplorevole fallimento politico al centro del processo decisionale nel complesso istituzionale europeo: non si riesce ad individuare nessuna prospettiva costruttiva per il futuro capace di mobilitare un entusiasmo autenticamente popolare o che contenga un richiamo che vada oltre il pragmatismo e l’egoismo economico. Al contrario, lo spazio per una militanza politica appagante a livello emotivo è stato ceduto quasi interamente alle destre populiste, e ai loro richiami sempre efficaci, per quanto pretestuosi, alla nazione e ad una presunta sovranità, a prescindere dagli aspetti xenofobi, razzisti ed islamofobi. Dopo tutto, la sempre minor presa degli argomenti esclusivamente economici, in un clima politico-economico prevalente di austerità, è diventata catastroficamente chiara col fiasco del referendum nel Regno Unito. Purtroppo, però, la leadership europea ufficiale mostra ben pochi segnali di volersi lasciare alle spalle il suo sperimentato autocompiacimento. Un eventuale rilancio del progetto europeo richiederebbe la rinuncia all’attuale ordinamento amministrativo, legislativo e tecnocratico, sempre ostinatamente ribadito.

 

 

(W. S.) La Germania non è l’unico paese a mancare di “visione politica”. I paesi “sonnambuli” sono ovunque nell’Europa odierna, e parrebbe opportuno chiedersi se aspettarsi dai nostri leader politici una tale capacità di visione non sia chiedere troppo. Perché non esiste una politica di crescita comune europea? Invece di spiegare questa carenza in relazione alla cultura tedesca, all’unificazione tedesca o all’autoreferenzialità tedesca dopo la fine della Guerra Fredda, si dovrebbe ricordare che viviamo in un mondo dove il fatiscente capitalismo è in crisi profonda ed è ormai da tempo al di fuori di ogni controllo. Perché dare per scontato che esista, o che possa esistere, una strategia di crescita comune e unica per un gruppo di paesi fortemente eterogenei quanto a strutture sociali, culture politiche, istituzioni socio-economiche, livelli di sviluppo ecc., se solo la Germania è stata capace di inventarne una? Perché aspettarsi che proprio la Germania, fra tutti i paesi, si senta in obbligo di agire come se il capitalismo fosse già stato superato, ossia “altruisticamente”? Non credo che l’incompetenza dei nostri politici necessiti di essere spiegata con la perdita di cultura storica o con un deficit intellettuale. Entrambi potrebbero comunque essere presenti, sia la perdita che il deficit. Ma ritengo che sia molto più importante il fatto che la capacità di crescita del capitalismo contemporaneo si sta esaurendo, ed è in esaurimento già da tempo – e che la struttura istituzionale plasmata dalle élite europee per la loro casa comune, l’Unione Europea, si dimostra particolarmente inadeguata quando si tratta di trovare soluzioni comuni. Paradossalmente, anche la sinistra, generalmente molto scettica sul tema del capitalismo, quando si affronta l’argomento Europa spesso tende a credere che l’attuale disagio sia essenzialmente un problema cognitivo, quando non soltanto un problema cognitivo tedesco.

 

 

Personalmente ritengo che il tempo dei grandi stati internamente diversificati, ed ancor più dei super-stati sovranazionali, sia finito – e che il futuro sia dalla parte dei paesi piccoli, come Svezia, Danimarca, Svizzera e, possibilmente, Scozia e Catalogna, capaci di utilizzare gli strumenti della sovranità nazionale per ritagliarsi una nicchia nel mercato globale nella quale sia possibile, nel bene e nel male, prosperare. A differenza di un’Europa unita, questi sarebbero capaci di coniugare intelligenza strategica e partecipazione democratica, e di rispondere agilmente in modo flessibile ai cambiamenti dell’ambiente internazionale circostante. Perché ciò accada la Germania dovrebbe rinunciare all’Euro, e paesi come la Francia e l’Italia dovrebbero decentralizzarsi e delegare poteri alle regioni, che a loro volta dovrebbero dare più voce ai cittadini, abbandonando quelle strutture sociali pre-moderne, oligarchiche e basate sulla rendita, che ostacolano un equo benessere economico – è la rivoluzione che avremmo dovuto completare negli anni Settanta, se non fossimo stati troppo pigri, codardi o miopi per farlo.

 

 

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26/06/17

Sapir e Bloomberg - Dall'Italia un colpo mortale all'Unione bancaria?

24/06/17

The Guardian: perché finora l'Italia è stata risparmiata da attacchi terroristici di massa?

L'Italia, contrariamente agli altri paesi europei, negli ultimi anni non ha subìto attacchi terroristici di massa legati al radicalismo musulmano. Un articolo di The Guardian analizza le possibili cause: l'abilità e l'esperienza acquisita da polizia e intelligence italiane negli anni di lotta a terrorismo e mafie, certo. Ma anche il fatto che in Italia non è presente un'ampia popolazione di immigrati di seconda generazione, dotati di cittadinanza e passibili di radicalizzarsi. Né enormi periferie di tipo parigino, territori difficili da controllare. I soggetti a rischio di terrorismo sono meno, per lo più non italiani, e quindi più facili da tenere sotto sorveglianza. Un articolo che spinge a riflettere sulla direzione che vogliamo prendere e sulle sue potenziali conseguenze.

 

 

  1. di Stephanie Kirchgaessner e Lorenzo Tondo, 23 giugno 2017


 

 

Ogni volta che Youssef Zaghba atterrava a Bologna c’era qualcuno che lo aspettava appena sceso dall’aereo. Non era un segreto, in Italia, che il 22enne italiano nato in Marocco, identificato come uno dei tre terroristi dietro l'attacco al London Bridge, fosse sotto stretta sorveglianza.

 

All’aeroporto gli parlavano. Poi, durante la sua permanenza, i funzionari di polizia venivano un paio di volte al giorno a controllarlo”, ha raccontato sua madre, Valeria Collina, in un’intervista al Guardian. “Erano amichevoli con Youssef. Gli dicevano: ‘Ehi figliolo, dimmi cos’hai fatto. Che cosa stai facendo adesso? Come stai?' 

 

Nelle settimane dopo l’attacco, il ruolo di Zaghba ha gettato una luce sulle differenze tra come i sospettati di terrorismo sono trattati in Italia e nel Regno Unito. All'arrivo a Londra, ha raccontato la madre di Zaghba, suo figlio non era mai stato fermato all’aeroporto né interrogato, nonostante i funzionari italiani avessero informato le loro controparti britanniche che quell’uomo poteva rappresentare una minaccia.

 

Franco Gabrielli, capo della polizia italiana, si è espresso così riguardo agli sforzi dell’Italia per avvertire il Regno Unito: “Abbiamo la coscienza pulita”. Scotland Yard, dal canto suo, ha detto che Zaghba “non era un elemento di interesse per la polizia o il MI5”.

 

L’Italia è stata colpita, nei decenni passati, dalla sua dose di violenza politica, incluso l’omicidio di due importanti giudici anti-mafia negli anni ’90. Ma al contrario di quasi tutti gli altri grandi paesi europei, non è stata il teatro di rilevanti attacchi terroristici [di massa] dopo gli anni ’80.

 

L’Italia è semplicemente un paese fortunato? Oppure le politiche anti-terrorismo adottate dal paese – nate da anni di investigazioni e intelligence anti-mafia e da un decennio insanguinato di violenza politica negli anni ’70 – hanno dato all’Italia un vantaggio oggi, negli anni dell’ISIS? O ci sono altri fattori in gioco?

 

"La differenza maggiore è che l’Italia non ha un’ampia popolazione di immigrati di seconda generazione che si sono radicalizzati o che potrebbero potenzialmente farlo”, dice Francesca Galli, professore associato all’Università di Maastricht ed esperta di politiche anti-terrorismo.

 

Ci vogliono circa 20 persone per sorvegliare a tempo pieno un sospetto terrorista, spiega Francesca Galli. Ovviamente l’abbondanza di risorse necessarie per sorvegliare strettamente qualcuno diventa problematica quando i sospettati sono molti.

 

Due incidenti recenti – il caso di Zaghba, e un altro, un episodio di terrorismo senza esiti mortali, a Milano, in cui un militare e un funzionario di polizia sono stati accoltellati da un italiano il cui padre era nordafricano – suggeriscono un potenziale cambiamento in corso nel profilo di rischio dell’Italia. Ma la Galli dice che, in generale, la polizia italiana e le forze anti-terrorismo non si sono trovate alle prese con numeri molto ampi di persone che erano potenzialmente a rischio di radicalizzazione, come è invece in Francia, Belgio e Regno Unito.

 

Questo non significa che in Italia non ci sia stata alcuna attività terroristica. Anis Amri, il tunisino che lo scorso anno aveva attaccato con un camion le bancarelle di Natale a Berlino, e che è stato poi ucciso dalla polizia alla periferia di Milano, si è probabilmente radicalizzato in carcere in Sicilia. Mohamed Lahouiaej-Bouhlel, il tunisino dietro l’attacco mortale a Nizza dello scorso anno, era stato identificato dalla polizia italiana per aver passato del tempo nella città di frontiera di Ventimiglia.

 

Alcuni esperti dicono che l’Italia è stata in grado di combattere la minaccia dell’ISIS al proprio interno gestendo gli strumenti legali e investigativi sviluppati durante gli anni di esperienza nelle investigazioni anti-mafia, che a loro volta erano stati creati durante i cosiddetti “anni di piombo” – il periodo tra gli anni ’60 e gli anni ’80 segnato da atti di terrorismo politico da parte di militanti sia di destra sia di sinistra.

 

Secondo i dati divulgati dal ministero dell'Interno italiano le autorità anti-terrorismo hanno fermato e interrogato 160.593 persone tra il marzo 2016 e il marzo 2017. Hanno fermato e interrogato circa 34.000 persone negli aeroporti e arrestato circa 550 sospetti terroristi, di cui 38 sono stati poi condannati. Più di 500 siti internet sono stati chiusi e quasi mezzo milione sono stati monitorati.

 

Giampiero Massolo, che è stato direttore dell’intelligence italiana dal 2012 al 2016, dice che non esiste un particolare “stile italiano” di combattere il terrorismo.

 

Abbiamo imparato una lezione molto dura durante i nostri anni di terrorismo”, spiega. “Da allora abbiamo tratto l’esperienza di quanto sia importante mantenere un dialogo costante a livello operativo tra l’intelligence e le forze giudiziarie. In effetti la prevenzione è cruciale per essere efficaci nell’anti-terrorismo”.


 

E aggiunge:

 

un’altra caratteristica è quella di avere un buon controllo del territorio. Da questo punto di vista l’assenza di ‘banlieues’ [in stile francese] nelle grandi città italiane e …[la prevalenza di] città piccole e medie rende più facile tenere la situazione sotto controllo”.


 

Ci sono anche pratiche più specifiche. Arturo Varvelli, ricercatore ed esperto di terrorismo all’ISPI, sostiene che l'assenza di italiani [immigrati ndVdE] di seconda e terza generazione, che potrebbero essere suscettibili alla propaganda dell’ISIS, implica che le autorità si possano concentrare sui cittadini non italiani, che eventualmente possono essere  espulsi al primo segnale di allarme. Da gennaio a oggi 135 persone sono state espulse, dice. Le autorità italiane possono affidarsi anche alle intercettazioni telefoniche, che, al contrario delle autorità britanniche, possono portare in tribunale come evidenza probatoria e – in casi collegati alla mafia e al terrorismo – possono essere effettuate anche sulla base di semplici sospetti, e non solo di prove forti.

 

Un po’ come nella lotta contro la criminalità organizzata in Italia – la Camorra attorno a Napoli, Cosa Nostra in Sicilia, la ‘Ndrangheta al Sud – per spezzare le reti del terrorismo è necessario intromettersi e rompere legami sociali e perfino familiari.

 

Le persone sospettate di essere jihadiste vengono incoraggiate a rompere i ranghi e collaborare con le autorità italiane, che utilizzano permessi di soggiorno e altri incentivi, spiega la professoressa Galli. C’è anche la consapevolezza del pericolo rappresentato dal detenere in carcere i sospetti terroristi, i quali, un po’ come i boss della mafia prima, vedono il carcere come il proprio territorio principale di reclutamento e di costruzione di reti di legami.

 

Penso che abbiamo acquisito esperienza nel modo di affrontare la rete criminale. Abbiamo molti agenti sotto copertura che fanno un gran lavoro di intercettazione delle comunicazioni”, dice.


 

Se può sembrare che le autorità italiane abbiano poteri molti ampi, in realtà la polizia non ha poteri speciali per detenere sospetti terroristi senza che ci sia un’accusa precisa. I sospettati di terrorismo possono essere detenuti per un massimo di quattro giorni senza un’accusa, proprio come qualsiasi altro sospettato. Nonostante ciò, l’Italia è stata accusata dalla Corte Europea per i diritti umani di detenere gli imputati per periodi troppo lunghi dopo che sono stati ufficialmente accusati e sono in attesa di un processo.

 

Francesca Galli afferma che la preoccupazione che i sistemi adottati in Italia possano rappresentare una violazione delle libertà civili non ha fondamento. L’ampio uso delle tecniche di sorveglianza – tra cui l’intercettazione delle comunicazioni – è considerata sufficientemente mirata sui sospetti terroristi e mafiosi, a differenza dei casi di Regno Unito e Stati Uniti, dove c’è invece una critica diffusa sui metodi di raccolta massiva dei dati.

23/06/17

Counterpunch: gli Stati Uniti sono in guerra contro la Siria

Dopo l’abbattimento di un aereo siriano nel proprio spazio aereo, non ci sono più dubbi: l’America ha fatto un atto di guerra con la Siria. L’analisi di Counterpunch è impietosa: non esiste alcuna giustificazione al comportamento del governo americano, che va condannato dai suoi cittadini e dalla comunità internazionale.

 

 

di Jim Kavanagh, 21 giugno 2017

 

 

Gli Stati Uniti sono in guerra con la Siria. Anche se pochi americani vogliono ammetterlo, è implicitamente così da quando l'amministrazione Obama ha iniziato la costruzione di basi e l’invio di truppe speciali americane - che-ci-sono-e-non-ci-sono - ed è così in modo esplicito dal 3 agosto 2015, quando l'amministrazione Obama ha annunciato che avrebbe "consentito attacchi aerei per difendere i ribelli siriani addestrati dagli Stati Uniti da eventuali aggressori, anche se i nemici provengono da forze fedeli al presidente siriano Bashar al-Assad". Da quando la U.S. Air Force — sotto Trump, ma seguendo la politica dettata da Obama — ha tirato giù un aereo siriano nello spazio aereo siriano, questo è innegabile. Gli Stati Uniti hanno intrapreso esplicitamente un'altra aggressione di un paese sovrano che non poneva alcuna minaccia possibile, figuriamoci effettiva o imminente, per la nazione. Questo è un atto di guerra.

 

Come atto di guerra, esso è incostituzionale e avrebbe richiesto una dichiarazione da parte del Congresso. Trump la chiederà? Qualche partecipante democratico o repubblicano del congresso la chiederà? Il Papa è un indù?

 

Cambierebbe qualcosa? Perché Trump dovrebbe preoccuparsene? Obama aveva dato il via a tutto questo quando ha completamente ignorato il War Powers Act, la Costituzione, il Congresso e il suo stesso procuratore generale e i consulenti legali ed ha proseguito imperterrito verso la guerra alla Libia, sostenendo che, se facciamo finta che le truppe americane non sono sul suolo libico, non si tratta davvero di una guerra o di un atto di "ostilità". Quindi significa che se l'aeronautica cinese cominciasse ad abbattere gli aerei americani nello spazio aereo americano per difendere l’assalto di Black Lives Matter alla Casa Bianca, non sarebbe davvero impegnata in un atto di guerra.

 

Non sottolineeremo mai abbastanza la pericolosità di queste pratiche che Obama ha normalizzato — con la connivenza irresponsabile dei suoi groupies progressisti, che fingevano di non sapere dove questo avrebbe portato: nel 2012, riferendosi al precedente che le politiche di Obama avevano creato, Mitt  Romney disse: "Non credo quindi che a questo punto, se sono il Presidente, io abbia bisogno di avere una approvazione dei poteri di guerra o un'autorizzazione speciale per l’uso della forza militare. Il Presidente ora ha questa capacità". Dopo Obama, per Trump, e per ogni futuro presidente repubblicano e democratico, ora questa cosa è scontata.

 

Poiché questa è una guerra aggressiva, non provocata, essa è anche illegale secondo il diritto internazionale, e tutte le autorità politiche e militari coinvolte sono criminali di guerra, e sarebbero perseguibili in quanto tali, se ci fosse un regime giuridico internazionale ancora non compromesso dagli Stati Uniti.

 

Ora la Siria è sotto esplicito attacco delle forze armate degli Stati Uniti, della Turchia e di altri paesi della NATO. Sedici Paesi hanno ora aerei da combattimento che si aggirano nello spazio aereo siriano sotto il comando effettivo degli Stati Uniti, e alcuni di loro hanno attaccato l'esercito della Siria.

 

Gli americani e certamente coloro che si autodefiniscono "progressisti", devono essere chiari su questo: le forze armate americane non hanno alcun diritto di essere in Siria, non hanno alcun diritto di limitare il governo siriano utilizzando il suo spazio aereo, o di impedirgli di riprendere il controllo di parte del proprio territorio contro le armate jihadiste appoggiate dagli stranieri.

 

Lo stato siriano e i suoi alleati (l’Iran e la Russia), d'altra parte, sono impegnati nella legittima autodifesa di uno stato sovrano e hanno il diritto di rispondere con la piena forza militare a qualsiasi attacco contro le forze siriane o qualsiasi tentativo dagli Stati Uniti di balcanizzare o di occupare il territorio siriano, o di rovesciare il governo siriano.

 

Quindi, per cortesia, non fate finta di essere sconvolti, scioccati, se la Siria e i suoi alleati rispondono al fuoco, infliggendo perdite agli americani. Non fate le vittime moralmente superiori quando gli americani vengono uccisi dal popolo che stanno attaccando. E non predicate che ognuno dovrebbe sostenere le nostre truppe in questo attacco criminale, incostituzionale, aggressivo, di un paese che non ha minacciato il nostro in alcun modo. I soldati americani e i piloti che eseguono queste politiche non sono eroi e non si battono per proteggere l'America o la democrazia; sono criminali aggressori e obiettivi legittimi. In risposta all'aggressione americana, l'esercito siriano ha tutto il diritto di colpire di nuovo l'apparato militare americano, ovunque. Ogni vittima di questa guerra, per quanto grande, cade sotto la responsabilità etico-politica di coloro che hanno attaccato – gli Stati Uniti. La prima responsabilità di ogni americano è non di "sostenere le nostre truppe", ma di fermare questa guerra. Subito. Prima che le cose peggiorino.

 

È abbastanza ovvio, infatti, che gli Stati Uniti stanno rendendo deliberatamente le proprie truppe degli obiettivi, nella speranza di provocare una reazione da parte delle forze armate siriane o dei loro alleati, che potrebbero uccidere qualche americano. Così l’avvenimento verrebbe proprio utilizzato per aumentare il supporto popolare per un attacco militare completo alla Siria, alla Russia o all'Iran, che il popolo americano altrimenti rifiuterebbe con disgusto. Chi professa preoccupazione per le "nostre truppe" dovrebbe invece fermare questo gioco.

 

È inoltre abbastanza chiaro, ora, che la guerra all’ISIS è una farsa, che l’ISIS è sempre stata solo un pretesto per coinvolgere direttamente i militari americani ad attaccare l'esercito siriano e distruggere l’integrità dello stato siriano. Se gli Stati Uniti avessero voluto sconfiggere l’ISIS, avrebbero potuto farlo facilmente coordinando le proprie azioni con, e non contro, le forze che lo hanno combattuto in modo più efficace: l'esercito arabo siriano, la Russia, l’Iran ed Hezbollah.

 

Al contrario, gli Stati Uniti stanno attaccando l'esercito siriano proprio perché stava sconfiggendo l’ISIS e altre forze della Jihad e riconquistando il proprio territorio e il controllo della propria frontiera con l'Iraq. Gli Stati Uniti non vogliono che ciò accada. Come minimo — se non si può costruire a breve una massiccia offensiva per rovesciare il governo baathista — gli Stati Uniti vogliono controllare parte del confine con l'Iraq e ad occupare parte della Siria orientale. Vogliono stabilire basi permanenti da cui rifornire e proteggere gli eserciti jihadisti, ottenendo un partizionamento de facto dello stato siriano, mantenendo un costante stato di attacco armato contro il governo di Damasco e riducendo la Siria a uno stato debole, che mai potrà presentare alcuna resistenza efficace ai disegni americani, israeliani o sauditi sulla regione.

 

Questo è estremamente pericoloso, poiché i siriani, i russi, e gli iraniani sembrano determinati a non lasciare che questo accada. Trump sembra avere dato autorità ai suoi generali di prendere decisioni dalle enormi conseguenze politiche. Forse è per questo che azioni aggressive come l'abbattimento dell'aereo siriano sono avvenute più frequentemente, e perché è improbabile che finiscano. C'è una dinamica in movimento che inevitabilmente porterà entrambe le fazioni ad affrontare la scelta se fare marcia indietro o rilanciare. I generali non sono bravi a tirarsi indietro. Una guerra regionale o globale è una possibilità reale e diventa più probabile ad ogni incidente simile.

 

Anche se la maggior parte degli americani e delle trasmissioni politiche e dei media non vogliono ammetterlo (e di conseguenza, la maggior parte dei cittadini non può rendersene conto abbastanza chiaramente), questa guerra è l'obiettivo di una potente fazione dello stato profondo che è stata persistente e determinata nella sua ricerca. Se i generali sono restii a tornare in battaglia, i neocons sono irremovibili nel non arretrare riguardo i loro piani per il Medio Oriente. Non si faranno fermare se non da una schiacciante resistenza popolare e dall'indignazione internazionale.

 

L'aspetto positivo di questi attacchi contro le forze siriane è che gettano la maschera sul progetto americano in Siria. Tutti — i paesi europei che professano preoccupazione per il diritto e la stabilità internazionale e il popolo americano che è stufo di continue guerre che non hanno alcun beneficio per loro — possono vedere esattamente che tipo di palese aggressione si sta svolgendo e decidere se vogliono appoggiarla.

 

A questo proposito, ogni americano che si considera "liberale" o "progressista" — e in particolare ogni politico di questo tipo — che ha speso (e magari spende ancora) la propria energia politica per attaccare Bush per quella folle guerra in Iraq, ma che appoggia, o anche solo esita a denunciare immediatamente ed energicamente, questa guerra che è già in corso, è un politico ipocrita, che non si oppone a niente, tranne all'ovvio.

20/06/17

Sapir: il voto, la crisi, il futuro


  1. Jacques Sapir commenta il risultato del secondo turno delle elezioni legislative francesi, da cui è emersa la frattura drammatica tra la soverchiante maggioranza raggiunta da Macron e il paese reale, che per la stragrande parte ha votato altri partiti o non ha votato. La "nuova" (in realtà perfetta prosecuzione ideologica della precedente) maggioranza dovrà dunque governare con un potere ancora maggiore e una crisi di legittimità ancora più grave. Sapir esorta tutte le forze dell'opposizione "sovranista" a combattere una comune battaglia politica nelle piazze - là dove i numeri ci sono.


 

 

di Jacques Sapir, 19 giugno 2017

 

Il consolidarsi dei risultati del secondo turno delle elezioni legislative mostra ancora di più l’ampiezza con cui si è manifestato il rifiuto del voto. Se si sommano astensione, schede bianche e schede nulle – voti, questi ultimi, in forte aumento dal primo al secondo turno (da 500.000 a 2 milioni) – si supera il 61,5%, cifra data dal 57,36% delle astensioni più il 4,20% di schede bianche o nulle. Questo significa che appena il 38,5% degli elettori aventi diritto (ossia 18,31 milioni su 47,58 milioni) ha espresso effettivamente un voto al secondo turno. L’ampiezza del rifiuto del voto, a prescindere da quale forma abbia assunto, spinge a porsi alcune domande sul senso stesso di queste elezioni.

 

Paese “legale” contro paese "reale"?

 

Se non avessimo già abusato della contrapposizione maraussiana tra "paese legale" e "paese reale", dovremmo utilizzarla proprio per descrivere la situazione attuale. Certo, la situazione non è assimilabile a quella in cui Charles Maurras aveva espresso questa dicotomia. Essa indicava aspetti diversi e non può essere ridotta alla sola cifra dei non-votanti. Eppure oggi abbiamo un “paese legale” nel quale il movimento “Republique en Marche” ha ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi all’Assemblea Nazionale tramite l’ultima tornata di elezioni, di cui nessuno contesta la legalità, ma questa maggioranza assoluta di deputati non può far dimenticare la maggioranza, questa volta davvero schiacciante al confronto, di francesi che non hanno votato o che hanno rifiutato di esprimere una scelta nel momento in cui hanno compilato la scheda di voto. È questa la discrepanza che giustifica, nonostante le remore storiche e politiche, il riutilizzo della dicotomia tra “paese legale” e “paese reale”. L’Assemblea Nazionale, per quanto sia legalmente autorizzata, ha un enorme problema di legittimità.

 

Una conseguenza di questo è che non c’è alcuna onda di consensi dietro al presidente e al suo partito. Il sistema elettorale francese, come sappiamo e abbiamo ripetuto a sufficienza, non fa altro che amplificare i risultati di una singola elezione. Tuttavia, nel 1981, durante la famosa “onda rosa”, l’astensione era stata solo del 24,9% (al secondo turno). Analogamente, nel 1993 durante “l’onda blu” ci fu un’astensione del 32,4%. Ora siamo in una situazione ben diversa. Ed è questa la situazione che dobbiamo considerare, al di là dei successi degli uni e dei fallimenti degli altri.

 

Crisi di legittimità e fratture politiche

 

Se anche – per miracolo – l’elezione fosse avvenuta secondo le regole del sistema proporzionale, - e allora, vorrei ricordare, “France Insoumise” avrebbe ottenuto 84 deputati (anziché solo 19) e il “Front National” ne avrebbe ottenuti 80 (anziché appena 8) - la legittimità dell’Assemblea Nazionale sarebbe stata comunque fragile. Naturalmente si può sempre dire che, in caso di rappresentanza proporzionale, l’astensione sarebbe stata meno marcata. Questo è possibile, ma è da dimostrare. È quindi necessario distinguere il problema della rappresentanza delle forze politiche all’interno dell’Assemblea Nazionale -problema che riguarda ovviamente la rappresentanza delle due forze di opposizione reale, e che potrebbe essere ridotto da un sistema elettorale un po’ diverso - dal problema della legittimità complessiva dell’Assemblea Nazionale, che deriva dall’ampiezza dell’effettivo “sciopero del voto” a cui abbiamo assistito da parte degli elettori francesi.

 

Questo “sciopero del voto”, che ha coinvolto il 61,5% degli iscritti, dimostra che la crisi politica in Francia, crisi che covava già dal 2012 e dalla rinnegazione europeista di François Hollande, e poi diventata crisi aperta dal 2013, non è ancora terminata. Gli incensatori di Emmanuel Macron e i propagandisti al soldo di “Republique en Marche” possono pure strombazzare in giro che con questa elezione si apre una nuova era. Ma sappiamo tutti che non è così. La società francese resta ancora spaccata in modo duraturo, a causa della disoccupazione, della disuguaglianza, del peso degli interessi delle grandi imprese e delle banche sugli ambienti politici e mediatici, ma anche a causa della crisi della scuola repubblicana, del modello di integrazione francese e del rischio terroristico. Di queste fratture ci ha dato un quadro più attendibile il primo turno delle elezioni presidenziali, che ha dimostrato come di fronte al campo del capitale - un campo che oggi si confonde con quello degli interessi “europeisti” - le diverse forze sovraniste nell’insieme potevano fare il loro gioco e ottenere la maggioranza.

 

Che futuro si prospetta?

 

Il grande rischio è di vedere il “paese legale” convincersi di avere tutti i diritti, e mettere in atto le riforme e le misure che aggraverebbero le fratture della società francese. Nei fatti questo rischio può assumere forme concrete differenti. La prima riguarda l’anomia, con una società che si disferebbe progressivamente sotto i colpi sempre più violenti che le vengono inferti, e frammenti di questa società che ricorrono alla violenza per cercare di far valere i propri diritti. Entreremmo allora in un mondo come quello di cui parla Hobbes, il mondo di una “guerra di tutti contro tutti”, con il più grande vantaggio - e la più grande felicità, si è costretti ad aggiungere - di quell’1% che ci comanda. La seconda strada, decisamente preferibile, vedrebbe i francesi unire le proprie forze contro le istituzioni occupate da una minoranza priva di legittimità, per far valere le proprie richieste. È stato questo l’appello rivolto domenica sera ai francesi da Jean-Luc Mélenchon.

 

Verso quale delle due forme di reazione penderà la bilancia è della più grande importanza. Ciò determinerà il nostro futuro. Bisogna quindi che le forze di opposizione, nel loro insieme, capiscano che non c’è soluzione possibile alla crisi politica se non nelle lotte collettive all’interno delle quali dovrà emergere, ancora una volta, l’idea del bene comune. Perché, e questo deve essere compreso da tutti, il “bene comune” non esiste al di sopra e al di là delle lotte sociali. Il bene comune va costruito all’interno di esse. Pertanto la nostra partecipazione alle lotte collettive sarà importante per definire il futuro che ci attende.

 

Allora e solo allora potrà essere trovata una soluzione alternativa a quello che alcuni colleghi hanno chiamato giustamente il “blocco borghese” o, più precisamente, il “blocco liberale”. Queste forze, senza rinunciare a ciò che costituisce la loro identità politica, dovranno capire che forme di unità sono necessarie, se un giorno vogliono veder trionfare le proprie idee.

 

Articolare “il” politico e “la” politica

 

Questo implica una riflessione seria sui campi del politico e della politica. Il politico, come sappiamo, si definisce attraverso la contrapposizione tra amico e nemico. È lo spazio dei confronti antagonistici. Ma avere più avversari alla volta implica assumersi il rischio di essere sconfitti, soprattutto quando gli avversari sono a conoscenza del problema. La politica è invece lo spazio dei conflitti non-antagonistici, delle opposizioni e delle divergenze che possono legittimamente emergere tra le forze politiche, e che ad un certo punto dovranno essere risolte, ma la cui soluzione può passare temporaneamente in secondo piano rispetto ai confronti antagonistici prima menzionati. Chantal Mouffe ha definito questo lo spazio del “confronto agonistico”, secondo una distinzione che molti di quelli che si riferiscono al suo pensiero, ma evidentemente non lo hanno letto, farebbero bene a meditare.

 

Così, ci sono differenze importanti, persino radicali, tra i vari sovranisti, ma questo non dovrebbe impedire ai sovranisti di formare un fronte comune contro lo stesso avversario. È comprensibile che ci siano molti punti che in questi anni hanno contrapposto i militanti del Front National agli attivisti saldamente radicati nella sinistra di France Insoumise. Ci sono differenze nei punti di vista e nell’identità politica. Queste differenze continueranno a esserci anche nelle battaglie che si dovranno condurre. Ma gli uni e gli altri devono capire che queste differenze potranno essere espresse solo quando la sovranità del popolo, cioè la sovranità della Francia, sarà stata ripristinata. Ciò non implica affatto che le contrapposizioni che ci sono tra loro siano superficiali o poco importanti. Non lo sono, se si considera il campo economico, per esempio la questione fiscale. Queste contrapposizioni ci sono, devono essere rispettate e sono legittime, in quanto rappresentano posizioni sociali differenti.

 

Ma queste contrapposizioni non devono oscurare quella, al contrario irriducibile, tra i sovranisti e i loro avversari. Questo lo aveva capito Eric Dillies, candidato perdente del Front National per la circoscrizione Nord, dove è stato recentemente eletto Adrien Quatennens, candidato di France Insoumise. Eric Dillies aveva dichiarato a un giornale locale, la “Voce del Nord”: “Voterò per lui e ho invitato i miei elettori a seguire il mio esempio (…). Ho incontrato Adrien Quatennens ed è una brava persona. Di fronte a una maggioranza strabordante lui difenderà il popolo, non sarà uno yes-man” [1]. Eric Dillies è stato ascoltato dai suoi elettori e questo può aver contribuito al successo di Quatennens. Questo è un esempio di realizzazione della distinzione tra “il politico" e “la politica", che i sovranisti dovranno imperativamente mettere in atto in futuro, se vorranno sperare di prevalere.

 

[1] http://www.lavoixdunord.fr/177015/article/2017-06-12/le-front-national-appelle-voter-pour-l-insoumis-adrien-quatennens

17/06/17

Perché la Grecia è ormai di fatto una colonia della Germania

Un articolo di Politico riporta la situazione della Grecia, alle prese con l’ennesimo capitolo del suo salvataggio fatto di tagli, sudore, sangue e concessioni ai creditori. Quando al ministro degli esteri polacco è stata chiesta la ragione della sua riluttanza ad aderire all’euro, la sua risposta è stata semplice: non vogliamo fare la fine della Grecia, che grazie all’euro è diventata una colonia tedesca.

 

 

 

Di Mattew Karntschnig, 14 giugno 2017

 

BERLINO — Povero Alexis Tsipras.

 

Da giorni ormai, il leader greco sta attaccato al telefono per cercare di ottenere le migliori possibili condizioni per il suo Paese, in vista dell’ultimo capitolo dell’infinito ciclo di salvataggi. Per ora, i suoi sforzi gli sono valsi più sberleffi che rispetto – specialmente in Germania.

 

Lui continua a chiamare, e il cancelliere continua a ripetergli:  'Alexis, questa faccenda devono deciderla i ministri delle finanze’”, ha dichiarato il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schäuble martedì, riferendosi ai tentativi del Primo Ministro ellenico di portare Angela Merkel dalla sua parte.

 

Giovedì i ministri delle finanze dell’eurozona avranno un incontro in Lussemburgo per decidere se concedere altri 7 miliardi di euro di aiuti alla Grecia. Nessuno mette in dubbio che Atene avrà questi soldi. Schäuble martedì l’ha praticamente promesso. Ma Tsipras vuole qualcosa di ancora più prezioso: una riduzione del debito.

 

Nessun economista degno di questo nome crede davvero che la Grecia sarà mai in grado di uscir fuori dai 300 miliardi di debito che la opprimono senza una significativa riduzione del debito da parte dei suoi creditori. Ciò significa convincere la Germania, il maggior creditore.

 

Per gran parte del decennio di depressione della Grecia, il paese è rimasto in ostaggio della sua politica interna. Ora, è ostaggio della politica interna tedesca.

 

Berlino, che a lungo si è opposta al taglio del debito, si rifiuta di capitolare. Il prossimo Settembre ci saranno le elezioni generali in Germania, e di conseguenza la Merkel e Schäuble fino a quel momento non ammorbidiranno la loro posizione. Il salvataggio della Grecia è un argomento politicamente tossico in Germania, e qualsiasi accordo che preveda un taglio del debito verrebbe visto internamente come un’ammissione che lo sforzo per salvare la Grecia è fallito – a spese dei contribuenti tedeschi.

 

Nel corso degli anni, la Germania ha accettato silenziosamente forme più nascoste di taglio del debito, come l’estensione delle scadenze del debito greco e la riduzione dei tassi di interesse. Ma un taglio vero e proprio, come chiede il Fondo Monetario Internazionale, sarebbe inaccettabile. Quantomeno fino al giorno delle elezioni.

 

Sfortunatamente per Tsipras, c’è poco che lui possa fare. Una delle principali ragioni per cui desidera il taglio del debito è che questo consentirebbe alla BCE di includere la Grecia nel suo programma di acquisto di titoli di stato, noto come QE.

 

Questo aiuterebbe molto ad accrescere la fiducia degli investitori nella stabilità greca. Ma la Grecia non può essere inclusa nel programma finché il peso del suo debito è ritenuto insostenibile. E dato che il QE della BCE dovrebbe presto cessare, la Grecia potrebbe non vederne mai i benefici.

 

Tsipras potrebbe tentare di non raggiungere un accordo questa settimana, portando la questione la prossima settimana sul tavolo del summit dei leader Europei a Bruxelles. Ma non farebbe nessuna differenza.

 

La verità è che l’Europa non ascolta più la Grecia da molto tempo.

 

 

Sono finiti i tempi in cui le voci di “Grexit” rendevano nervosi gli operatori finanziari. Oggi, menzionare la Grecia al massimo può suscitare uno sguardo vitreo, oppure uno sbadiglio. Il debito del paese ormai è fuori dal mercato del credito, è nei depositi della BCE e dei Ministeri del Tesoro europei, pertanto Atene non può più minacciare il sistema finanziario globale.

 

Tsipras non ha capito questa dinamica finché lui e la sua coalizione di sinistra non sono stati eletti, all’inizio del 2015. Syriza ha vinto promettendo di invertire la maggior parte dell’austerità che i creditori avevano imposto alla Grecia negli anni. Rincuorato dalla vittoria, Tsipras ha tenuto un referendum per chiedere agli elettori se il governo dovesse accettare i termini del salvataggio negoziati dal suo predecessore. La risposta degli elettori è stata chiara: Oxi, no.

 

A questo punto, è intervenuta la realtà. Messo di fronte alla prospettiva del collasso del sistema bancario greco, dell’uscita dall’eurozona e di un futuro ancora peggiore del presente, Tsipras e la sua banda di agitatori sinistrorsi sono stati messi in ginocchio. Yanis Varoufakis, il ministro delle finanze “rockstar” che aveva chiesto di “ puntare il dito contro la Germania” è stato cacciato via.

 

Da quel momento, Tsipras ha in larga parte accettato le richieste dei creditori di ulteriori tagli al bilancio e riforme dell'economia. Berlino e i suoi partner hanno affrontato i suoi sporadici attacchi con semplice pazienza. Alla fine, sapevano che il leader greco non avrebbe avuto altra scelta che arrendersi.

 

Più e più volte, hanno avuto ragione. Proprio lo scorso mese, Tsipras ha imposto tagli alle pensioni, qualcosa di inimmaginabile solo poco tempo fa.

 

Dall’inizio della crisi, parte della strategia tedesca nell’affrontare la Grecia consisteva nel non rendere il processo troppo semplice. Anche se i funzionari tedeschi non lo ammetteranno in pubblico, fare della Grecia un esempio è sempre stata una  parte del piano.

 

Ed ha funzionato. In tutta Europa, la Grecia è diventata sinonimo di incompetenza economica. I funzionari delle altre capitali europee si riferiscono ad Atene come al parente ribelle e impenitente. Nessuno vuole essere come la Grecia.

 

“La Grecia è di fatto una colonia”, ha detto il ministero degli esteri polacco Witold Waszczykowski in un’intervista a POLITICO, spiegando la resistenza del suo paese ad adottare l’euro. “Non vogliamo ripetere la sua esperienza”.

 

Nonostante il peso della sua cattiva reputazione, la Grecia spera di poter ottenere quello che desidera, alla fine.

 

Anzitutto, il FMI sta dalla sua parte da più di un anno: si è rifiutato di partecipare al salvataggio a meno che non includesse anche un taglio del debito. Il parlamento tedesco ha approvato nel 2015 il salvataggio ponendo come condizione la partecipazione del FMI, che secondo i parlamentari era una garanzia che il processo non sarebbe stato troppo favorevole ad Atene.

 

Ciò ha portato a una lunga situazione di stallo. La scorsa settimana, il capo del FMI, Christine Lagarde, ha proposto un gioco di prestigio che permetterebbe di procedere al salvataggio. Il FMI si unirebbe formalmente al salvataggio, ma non concederebbe alcun finanziamento fino a quando gli europei non esplicitano che tipo di taglio del debito sono disposti ad accettare.

 

Sempre che questo accada, non sarebbe prima delle elezioni tedesche. Nel frattempo, Tsipras non ha altra scelta se non esaudire i desideri dei suoi padroni “coloniali”.

 

 

16/06/17

NYT: Gli sforzi per salvare i migranti hanno avuto conseguenze inattese e fatali

Il New York Times pubblica un articolo critico sugli sforzi adottati finora per affrontare la crisi dei migranti in mare. Le cause profonde che stanno alla base dello spostamento di masse di persone, e gli interessi che lo favoriscono, non vengono quasi neanche accennati, ma l'articolo, che proviene da una fonte mainstream, chiarisce pregevolmente come tutti i provvedimenti adottati finora - come avvicinare i salvataggi sempre di più alle coste libiche - siano stati fallimentari e abbiano solo contribuito a peggiorare le cose, come ammettono anche gli esponenti delle organizzazioni coinvolte nei salvataggi.

 

 

di Stuart A. Thompson e Anjali Singhvi, 14 giugno 2017

 

Le strategie per salvare i migranti nel Mar Mediterraneo e interrompere le reti dei trafficanti di esseri umani hanno avuto conseguenze inattese e fatali, secondo i gruppi di assistenza che monitorano la crisi.

 

È un circolo vizioso disastroso: qualsiasi sforzo per ridurre la crisi dei migranti può diventare controproducente, perché  i trafficanti escogitano in risposta delle strategie sempre più pericolose. Ecco come queste strategie hanno spinto i disperati migranti in situazioni ancora più disperate.

 

I trafficanti reagiscono agli sforzi di salvataggio

 

Sabato scorso, al largo della costa libica, i corpi di 10 migranti sono stati recuperati, e almeno altri 100 migranti sono risultati dispersi. Otto corpi sono stati ritrovati su un gommone gonfiabile nel Mar Mediterraneo, in una pericolosa area tra la Libia e l'Italia nota come rotta del Mediterraneo centrale. Ogni anno i gruppi di salvataggio pattugliano l'area e recuperano migliaia di migranti a rischio di annegamento.

 



 

Prima del 2014 i salvataggi avvenivano più vicino all'Italia, con le barche dei migranti che arrivavano a raggiungere le acque territoriali italiane. Nel 2014 molti salvataggi sono avvenuti in luoghi relativamente più a sud nel Mar Mediterraneo.


Nel 2015 i salvataggi si sono spinti sempre più vicino al versante libico del Mar Mediterraneo.


Più recentemente ancora i salvataggi hanno avuto luogo a ridosso delle acque territoriali libiche.


 

Il salvataggio dei migranti vicino alla costa libica ha salvato centinaia di persone in mare. Ma i critici dicono che questo ha introdotto un incentivo mortale che ha spinto ancora più migranti a rischiare il viaggio, e ancora più trafficanti a imbarcare persone.

 

"Migranti e rifugiati, incoraggiati dalle storie di quelli che in passato ce l'hanno fatta, tentano la pericolosa traversata perché sono consapevoli che otterranno assistenza umanitaria, e contano su di essa, per raggiungere l'Unione Europea", ha sostenuto un'analisi di rischio di Frontex, l'agenzia europea di guardia costiera e di confine.

 



 

I trafficanti utilizzano imbarcazioni sempre più fragili e a stento dotate del carburante sufficiente per uscire dal confine delle acque territoriali libiche. I conducenti possono poi togliere il motore dalla barca e ritornare indietro, verso la Libia, con un'altra imbarcazione, lasciando i migranti andare alla deriva fino a che non arrivano i salvataggi.

 

I gruppi che monitorano la crisi si aspettano che il bilancio delle vittime quest'anno superi quello dell'anno precedente. Finora è andata così per ogni singolo mese dell'anno, fino a tempi recenti. Nel maggio 2016 una serie di annegamenti nel giro di tre giorni hanno ucciso un totale di 700 persone.

 



 

Joel Millman, portavoce dell'Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, ha messo in guardia dal concludere che la situazione sia migliorata.

 

"La situazione è molto più frammentata", ha detto, riferendosi al lento ma costante aumento degli annegamenti. "È molto più pericolosa. Stanno mettendo sempre più persone in imbarcazioni sempre più piccole".

 

Se le condizioni terribili della Libia e di altri paesi africani hanno avuto il ruolo maggiore nel motivare i migranti a fuggire [verso l'Europa], i gruppi coinvolti nei salvataggi hanno riconosciuto che i propri sforzi hanno finora contribuito ad accrescere il business dei trafficanti.

 

"Sappiamo che quello che stiamo facendo non è la soluzione", ha detto Stefano Argenziano, coordinatore delle operazioni sulle migrazioni per Medici Senza Frontiere, che dal 2015 recupera migranti a ridosso delle coste libiche. "Non è la fonte del problema, non è nemmeno la soluzione. È la pura e semplice necessità di salvare delle vite adesso, quando le vite sono in pericolo".

 

Nonostante le critiche, non è dimostrato che la riduzione degli sforzi di salvataggio potrebbe ridurre il numero dei morti. Dopo che l'Unione Europea ha smesso di finanziare i pattugliamenti italiani in mare e il programma di salvataggio Mare Nostrum, nel 2014, un numero record di persone ha tentato il viaggio, e un numero record di persone è annegato. Anche le Nazioni Unite sono a favore dell'aumento degli sforzi di salvataggio, affermando che altrimenti il bilancio delle vittime sarebbe ancora più elevato.

 

Se le barche vengono distrutte, i trafficanti ne usano di peggiori

 

I funzionari hanno iniziato a distruggere le barche di legno che venivano usate dai trafficanti, nella speranza di interrompere la loro rete criminale. Ma questa azione ha avuto effetti inattesi: i trafficanti hanno iniziato a usare gommoni gonfiabili, ancora più economici.

 



 

Il Consiglio Europeo ha iniziato nel 2015 ad affondare le barche, distruggendone da allora più di 400.

 

"L'avvio delle operazioni anti-trafficanti ha accelerato il ritmo del peggioramento delle barche che vengono usate" in termini di qualità e sicurezza, ha detto Argenziano.

 

I gommoni più economici utilizzati sono responsabili di un ulteriore aumento dei morti in mare, perché sono inadatti a lunghi viaggi e sono vulnerabili a perforazioni e rovesciamenti, secondo l'Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati.

 



 

Lunghe appena come due automobili berline messe in fila, queste imbarcazioni sono progettate per contenere circa 60 passeggeri. Ma Frontex ha visto oltre 150 persone su ciascuna imbarcazione. E questi numeri, secondo Europol, dal 2015 a oggi sono aumentati.

 

"Un gommone con 170 persone a bordo si può rovesciare nel giro di pochi secondi", ha detto Izabella Cooper, portavoce di Frontex. "E ci vogliono pochi secondi perché le persone anneghino. Molte persone che vengono dall'Africa non hanno nemmeno mai visto il mare nella loro vita".

 



 

Tutti concordano che la soluzione in definitiva sarebbe da trovarsi in Libia e nell'Africa profonda, dove il miglioramento delle condizioni e delle prospettive di vita eviterebbe che le persone si imbarcassero per intraprendere questi viaggi fatali.

I governi hanno considerato strategie che possano dissuadere i migranti dall'imbarcarsi, come un accordo tra l'Italia e la Guardia Costiera Libica affinché quest'ultima pattugli e recuperi i migranti prima che essi raggiungano le acque internazionali, per riportarli indietro.

 

"Non c'è dubbio che la situazione in Libia sia pessima, per migliaia e migliaia di stranieri e migranti", ha detto Federico Soda, direttore dell'Ufficio di Coordinazione per il Mediterraneo con l'Organizzazione Internazionale per le Migrazioni.

 

"È proprio tempo di cominciare a individuare delle politiche a lungo termine", ha aggiunto. "L'Africa e l'Europa saranno sempre vicine. Gli spostamenti di persone tra i due continenti saranno una realtà per tutto il prossimo decennio".

 



 

14/06/17

Bloomberg: Il problema più grosso è l'esportazione tedesca di capitali, non di automobili

Un articolo di Bloomberg denuncia il lato più "oscuro" del surplus tedesco: quello dell'accumulo ed esportazione esorbitante di risparmi. Come accadeva già prima della grande crisi finanziaria dei mutui subprime, il grande capitale tedesco si sta muovendo, nell'ansiosa ricerca di rendimenti, gonfiando bolle finanziarie. Questo dovrebbe essere preso di mira da Trump, nella sua contrapposizione alla Germania, ancor prima di preoccuparsi del surplus commerciale.

 

 

di Chris Bryant, 09 giugno 2017

 

Donald Trump si cruccia per il massiccio surplus commerciale della Germania e in particolare per le automobili che Volkswagen, BMW e Daimler esportano negli Stati Uniti.

 

Trump ha ragione su una cosa: lo squilibrio delle partite correnti tedesche è un problema. Ma c'è un tipo di esportazione tedesca che è meno scontata e potenzialmente più problematica di quella delle automobili: l'esportazione del denaro.

 

È un po' sciocco accusare la Germania di vendere cose che il resto del mondo vuole comprare. Ma il fatto che la Germania poi non acquisti a sua volta una quantità equivalente di cose la costringe a esportare i propri risparmi, diventando così un enorme creditore netto verso il resto del mondo.

 



 

Dunque, poiché i suoi risparmi nazionali superano di gran lunga gli investimenti, la Germania non è solo il più grande esportatore al mondo di automobili, ma anche il più grande esportatore netto al mondo di capitali.

 

Dato che la sua popolazione sta invecchiando (e ha scarse prospettive di crescita demografica) non c'è da sorprendersi che la Germania generi un surplus di risparmi che poi investe in asset redditizi al fine di assicurarsi entrate con cui pagare le pensioni [1].

 



 

Questo approccio, tuttavia, secondo HSBC [2], comporta dei rischi. L'eccesso di risparmi della Germania potrebbe contribuire all'aumento dell'indebitamento e dell'instabilità finanziaria nei paesi che hanno grossi deficit di partite correnti (come gli USA e il Regno Unito). L'ossessione della Germania per il risparmio (che il resto dell'eurozona sta cercando sempre più di imitare, si veda il grafico sotto) potrebbe ostacolare l'uscita dell'intero continente da una ormai prolungata crisi economica. E d'altra parte l'accumulo di attività estere da parte della Germania potrebbe non renderle alla fine i redditi sperati (ma di questo Trump non sembra preoccuparsi molto).

 

L'anno scorso il surplus di partite correnti della Germania ha raggiunto i 261 miliardi di euro [3], che corrispondono a circa 230 miliardi di euro di esportazione netta di capitali. Questi deflussi sono stati esacerbati dal programma di acquisto titoli condotto dalla Banca Centrale Europea (BCE), che ha schiacciato i rendimenti dei bund tedeschi e ha costretto i gestori degli asset a cercare altrove titoli che garantissero rendimenti migliori. (Deutsche Bank ha definito questa tendenza come "euroglut" ["eurosaturazione"] [4].)

 



 

Gli Stati Uniti sono stati il paese di destinazione di oltre 60 miliardi di dollari di capitali tedeschi, di cui circa la metà sono stati investiti in azioni. Il denaro tedesco ha contribuito ad aumentare i prezzi delle azioni statunitensi (rendendo così gli americani più ricchi), a finanziare nuovi impianti manufatturieri (creando posti di lavoro) e ha contribuito a finanziare il deficit del bilancio pubblico [5].

 

Cosa ci sarebbe di male in tutto questo, da una prospettiva americana? Be', l'abbondanza di risparmi tedeschi ha anche abbassato i tassi di interesse di equilibrio, rendendo più difficile per i fondi pensione americani mantenere i rendimenti promessi (e, per la Federal Reserve, normalizzare la politica sui tassi) [6].

 

Nel frattempo perfino il governo tedesco ammette che "i capitali in cerca di investimenti possono contribuire a creare boom del credito e/o bolle finanziarie in altri paesi".

 

Bisogna sapere che prima del 2008 il surplus di acquisti di titoli ipotecari da parte tedesca ha contribuito a gonfiare la bolla statunitense dei mutui subprime, determinando, alla fine, perdite per le banche tedesche. I risparmi interni hanno contribuito anche a investimenti poco efficienti verso le economie periferiche dell'eurozona, come la Grecia e la Spagna [7].

 

La Storia non si ripete, ma spesso fa la rima. Negli Stati Uniti il crollo dei mutui subprime sembra sul punto di essere sostituito da nuove bolle del credito al consumo in prestiti agli studenti e per acquisti di automobili. È possibile che il surplus dei risparmi tedeschi stia contribuendo a gonfiare alcuni di questi eccessi [8].

 

E se le banche tedesche hanno drasticamente ridimensionato la propria esposizione verso la periferia dell'eurozona ora in crisi, la banca centrale non ha fatto altrettanto. A causa del programma di acquisto titoli da parte della BCE, la Bundesbank ha accumulato quasi 860 miliardi di euro di esposizione verso la BCE tramite il cosiddetto sistema Target2. Si tratta di quasi la metà del proprio patrimonio netto verso l'estero. Per ora questo sembra solo un tecnicismo contabile. Ma se una banca nazionale dell'Europa del sud dovesse decidere di non onorare le proprie passività su Target2 verso la BCE, i contribuenti tedeschi potrebbero soffrire delle perdite molto concrete [9].

 

Quindi dimenticate le automobili, Trump dovrebbe concentrare i propri sforzi al fine di deviare gli investimenti tedeschi pubblici e privati quanto più possibile verso la Germania, in modo da incrementare la sua crescita potenziale e rendere più semplice per la BCE mettere fine ai propri esperimenti monetari di indebolimento dell'euro, che consolidano sempre di più il surplus tedesco delle partite correnti. Il governo tedesco ha promesso di incrementare la spesa in infrastrutture, ma chiunque conosca la precaria condizione delle strade e dei ponti in Germania sa che potrebbe fare ben di più (a dire il vero gli Stati Uniti non sono messi molto meglio, da questo punto di vista).

 

Ma nel timore che Trump possa leggere questo pezzo ed essere tentato di fare subito il bullo su Twitter, non voglio dimenticare di sottolineare un'altra debolezza nella retorica anti-tedesca del Presidente.

 

Trump ha definito "un errore catastrofico" la decisione della Germania di accogliere centinaia di migliaia di rifugiati in fuga dalla Siria e da altrove. Eppure un afflusso di giovani immigrati è il tonico perfetto per rimediare all'invecchiamento della popolazione tedesca e alla scarsità di domanda interna (gli immigrati tendono a comprare cose e ad avere bisogno di un posto dove vivere). Se Trump fosse coerente dovrebbe contestare l'esportazione tedesca di capitali ma al tempo stesso approvare la politica delle porte aperte. Ma a Trump piacciono i soldi. Anche i rifugiati? Non altrettanto.

 

 

Questo articolo non rispecchia necessariamente le opinioni di Bloomberg LP e dei suoi proprietari.

 

[1] Questo equivale a un deficit nel conto finanziario di un paese.

 

[2] Janet Henry, capo economista di HSBC, ha esaminato il rischio di "saturazione" degli investimenti tedeschi, cinesi e giapponesi, in una nota lo scorso anno.

 

[3] Secondo la Bundesbank.

 

[4] A dire il vero la Germania non è una gran sostenitrice dell'acquisto di titoli da parte della BCE e la accusa di aver causato la debolezza dell'euro e il proprio surplus di conto corrente.

 

[5] La Cina, comunque, è il maggiore acquirente di titoli pubblici americani.

 

[6] Si vedano questi commenti del presidente della BCE, Mario Draghi, sui surplus di partite correnti della Germania e dell'eurozona.

 

[7] C'è un dibattito su quanta ricchezza tedesca sia andata distrutta.

 

[8] Per esempio il braccio finanziario delle case automobilistiche tedesche hanno prestato una grande quantità di soldi agli americani affinché acquistassero automobili di lusso che i consumatori avrebbero altrimenti fatto fatica a comprare. Con la rapida discesa dei prezzi delle automobili di seconda mano, aumenta il rischio di perdite creditizie.

 

[9] Per ulteriori informazioni si veda qui e qui.