30/08/19

Foreign Policy – La Germania è un masochista economico

Le cose si mettono nuovamente male per la Germania e Foreign Policy riepiloga tutto quello che non va nell’approccio economico tedesco: la compressione della domanda interna, la troppa dipendenza dalle esportazioni (per un paese di tali dimensioni), le riforme Hartz, l’enorme accumulo di risparmio, gli scarsi investimenti interni e il pareggio di bilancio. La Germania confonde il successo economico (e la produttività) con la competitività di prezzo, e sbandiera orgogliosamente questa sua confusione. A nostro parere mancano due punti nell’analisi. Il primo, madornale ma comprensibilmente assente, è la menzione del ruolo della moneta unica (che come sappiamo paralizza proprio gli aggiustamenti della competitività di prezzo tra paesi). Il secondo è che forse alla classe dominante tedesca il successo economico potrebbe interessare relativamente poco rispetto all’imposizione delle condizioni che permettano il loro dominio politico sull’intera Europa.

 

 

di Simon Tilford, 21 agosto 2019

 

Durante la maggior parte degli ultimi 10 anni la Germania è stata lodata per la sua capacità di adattamento alla globalizzazione, la sua oculata gestione delle finanze pubbliche e la sua stabilità politica. Alcuni si sono perfino lanciati a parlare di un nuovo Wirtschaftswunder (miracolo economico). Oggi stanno crescendo i timori che un aggravarsi delle tensioni nel commercio globale e un rallentamento della Cina mettano in seri guai l’economia del tedesca, così dipendente dalle esportazioni, minacciando di riportare il paese alla condizione di “malato d’Europa” che aveva all’inizio degli anni 2000.

 

La realtà è meno esagerata di così. L’economia tedesca negli ultimi 10 anni non è andata così bene come si dice di solito, e d’altra parte il governo tedesco potrebbe facilmente intraprendere delle mosse per rafforzare la propria economia, se lo volesse. Tuttavia ci sono ben pochi segnali che indichino una sua volontà di fare quanto necessario; questo a causa di una radicata convinzione in Germania (in tutto lo spettro politico) che la spesa in deficit sarebbe economicamente controproducente e politicamente impopolare.

 

Nel corso degli ultimi 10 anni l’economia tedesca è andata abbastanza bene in confronto a economie europee simili, come quella francese e quella britannica, tuttavia non ha fatto meglio rispetto agli Stati Uniti. In più, nel corso degli ultimi 20 anni la Germania è cresciuta complessivamente in linea con le altre grandi economie europee (a eccezione dell’Italia, che è stata un disastro), e per molti aspetti è andata peggio rispetto agli Stati Uniti. Di sicuro non c’è stato alcun Wirtschaftswunder.

 

In aggiunta a tutto questo, l’economia tedesca nel corso dello stesso periodo è diventata fortemente dipendente dalle esportazioni. La Germania già da tempo tendeva ad accumulare surplus commerciali, ma mai della dimensione attuale. Il paese accumula surplus commerciali in media di quasi l’8 percento del PIL dal 2005, e del 6.5 percento dal 2004. Con una somma vicina ai 300 miliardi di dollari nel solo 2018, il surplus commerciale tedesco è indubbiamente il più grande al mondo. La forte attenzione dell’economia tedesca verso il commercio estero spiega perché la Germania abbia avuto un rimbalzo più rapido delle altre economie europee dopo la crisi finanziaria, ma spiega anche perché le prospettive della Germania si siano deteriorate in modo molto netto negli ultimi 12 mesi, periodo in cui il contesto internazionale è rapidamente peggiorato.

 

C’è la tendenza, in Germania e altrove, a parlare degli squilibri commerciali in termini di competitività, per cui i paesi coi surplus sarebbero “competitivi” e quelli coi deficit sarebbero “non competitivi”. In risposta alle critiche del presidente statunitense Donald Trump nel 2017 sulla dimensione del surplus tedesco, l’allora ministro dell’economia del paese, Sigmar Gabriel (socialdemocratico), scherzò dicendo che gli Stati Uniti dovevano preoccuparsi solo di costruire automobili migliori. Gli economisti tedeschi e i rappresentanti dei ministeri dell’economia e delle finanze, dal canto loro, tendono ad alzare le mani e dire che il surplus commerciale tedesco non è altro che l’esito delle decisioni del settore privato, e che il governo tedesco non ci può fare nulla. Entrambi i punti sono, nel migliore dei casi, fuorvianti.

 

La bilancia commerciale di un paese è la differenza tra ciò che il paese produce e quello che consuma. La Germania produce molto più di quello che consuma, perché è un paese che risparmia molto più di quanto investa. Questo non è dovuto in modo determinante all’invecchiamento della popolazione (il tasso di risparmio delle famiglie è sempre stato alto e non è cresciuto in modo determinante nel corso degli ultimi 15 anni), ma è dovuto al gonfiarsi dei risparmi del settore imprenditoriale e del settore pubblico, dato che la Germania accumula surplus fiscali dal 2013. Gli Stati Uniti, al contrario, consumano più di quanto producano. Vale a dire che i risparmi interni sono insufficienti a finanziare gli investimenti. Questo ci dice poco sul successo delle due rispettive economie, quantomeno se per successo intendiamo i livelli di produttività e, di conseguenza, gli standard di vita. Ci dice molto, invece, sulla competitività dei prezzi dei due paesi sui mercati globali.

 

È decisamente inusuale, per un’economia grande come la Germania, essere così sensibile ai cambiamenti della domanda estera. Di solito un’economia di quelle dimensioni è guidata principalmente dalla domanda interna. Ma non c’è nulla di inevitabile nella dipendenza della Germania dalle esportazioni. Essa riflette le scelte politiche fatte dal paese negli ultimi 15 anni. Lungi dall’essere alla mercé di forze globali oltre il proprio controllo, il governo tedesco potrebbe intraprendere delle misure per ribilanciare l’economia del proprio paese.

 

La ragione principale per la quale i risparmi tedeschi sono cresciuti e gli investimenti si sono indeboliti è un grande trasferimento del reddito nazionale dalle famiglie alle imprese. Questo riflette una crescita molto modesta dei salari per quelli che hanno un basso reddito, e una politica fiscale che ha favorito il settore commerciale a discapito delle famiglie. Secondo il Fondo Monetario Internazionale, i consumi delle famiglie tedesche sono crollati da circa il 63 percento del PIL nel 2005 al 51 percento del PIL nel 2018. Se il trasferimento dei redditi verso il settore imprenditoriale ha aumentato i profitti e la competitività di prezzo delle esportazioni tedesche, non ha fatto nulla per potenziare gli investimenti e, quindi, la crescita della produttività dell’economia tedesca nel suo insieme. La ragione è che la debolezza dei consumi ha minato gli incentivi delle aziende a investire all’interno del paese, preferendo invece sedersi su una montagna di liquidità.

 

La domanda estera di beni tedeschi si sta contraendo, portando l’economia del paese alla paralisi. Ma non c’è motivo di pensare che la Germania stia tornando a essere il malato d’Europa. La maggiore sfida alla quale il paese si trova di fronte è quella delle proprie politiche, non quella del peggioramento del contesto internazionale. La Germania potrebbe facilmente intraprendere delle misure per potenziare i consumi interni e compensare l’indebolimento della domanda estera. Il governo tedesco potrebbe ridurre le tasse sui redditi medio-bassi, aumentare i salari nel settore pubblico, lanciare un grande programma di investimenti pubblici e rovesciare gli elementi fondamentali della riforma Hartz del mercato del lavoro implementata tra il 2003 e il 2005, che ha minato il potere contrattuale dei lavoratori e contribuito a creare un’ampia economia di bassi salari.

 

Molti economisti tedeschi, e non solo quelli di sinistra, stanno chiedendo al governo di riformare l’impegno del paese, costituzionalmente sancito, sul pareggio di bilancio del governo federale nel ciclo economico. Affermano giustamente che questo impegno sta impedendo al paese di rinnovare le sue infrastrutture progressivamente fatiscenti. In una situazione in cui il costo del debito è addirittura negativo (vale a dire che gli investitori sono disposti a pagare pur di prestare soldi al governo tedesco), l’indebitamento si pagherebbe da solo. Molti economisti conservatori e molti uomini d’azienda, però continuano a sostenere che ciò di cui il paese ha bisogno sono tagli alle tasse per le aziende e ulteriore flessibilità nel mercato del lavoro.

 

Esiste un compromesso: un allentamento delle regole fiscali del paese e un aumento degli investimenti pubblici, ma anche l’abolizione della cosiddetta tassa di solidarietà, una sovrattassa del 5,5 percento sul reddito e sulle impsote societarie introdotta dopo la riunificazione per finanziare la ricostruzione della Germania orientale. Una maggiore spesa pubblica, specialmente in investimento, darà certamente stimolo all’economia, specialmente ora che il governo può prendere soldi in prestito gratuitamente. Maggiori investimenti pubblici stimolerebbero la produttività, per esempio alleviando i colli di bottiglia nei trasporti all’interno del paese e migliorando la scarsa infrastruttura di telecomunicazioni, senza con questo sostituirsi a maggiori investimenti privati. Al contrario delle affermazioni degli economisti conservatori, abolire la tassa di solidarietà farà ben poco per stimolare gli investimenti, perché servirà in modo sproporzionato a beneficiare chi sta già bene e le aziende e i gruppi che hanno un’alta propensione al risparmio. Con una tassazione sui profitti già ampiamente ridotta, le aziende siedono già su una montagna di liquidità che non ha precedenti. Ciò che un ulteriore taglio delle tasse sui profitti farebbe è di aumentare ancora di più i risparmi e, con essi, la dipendenza del paese dalle esportazioni.

 

28/08/19

Negli USA una mamma fa causa alla contea per aver dato il permesso al suo figlio minorenne di cambiare sesso senza il suo consenso

Mentre i fatti di Bibbiano in Italia lanciano un avvertimento inquietante alle famiglie italiane su cosa può succedere ai bambini se i genitori vengono giudicati “non idonei”, negli Stati Uniti il processo è purtroppo molto più avanzato. I diritti di genitori “idonei” vengono completamente ignorati quando i figli vengono convinti a fare “la cosa giusta™”, come per esempio un’operazione di cambio di sesso quando sono ancora minorenni.

 

 

Di Lisa Bourne, 24 luglio 2019

 

 

Una mamma del Minnesota, il cui figlio è stato convinto a sottoporsi a “cambio di sesso” dai funzionari della sua contea, ha chiesto alla Corte Suprema USA di rivedere il suo caso. Accusa il governo di aver usurpato i suoi diritti genitoriali in quanto un agente governativo ha fornito a suo figlio i servizi transgender e gli stupefacenti contro la volontà della madre.

 

Mercoledì la Thomas More Society ha presentato una petizione all'Alta Corte  per conto di Anmarie Calgaro, sostenendo che i diritti al giusto processo della Calgaro sono stati "calpestati" quando la contea di St. Louis e i suoi operatori sanitari "hanno posto fine alla sua potestà genitoriale sul figlio minore senza alcuna ordinanza di emancipazione di un tribunale”.

 

E’ il peggior incubo di un genitore” ha detto il consigliere speciale Erick Kaardal della Thomas More Society. “Il figlio di Anmarie Calgaro, mentre era minorenne, è stato avviato a un processo permanente di modificazione del corpo fisico, capace di determinare un cambiamento dell'intera vita, che lo ha reso una pedina dell’agenda sociopolitica di qualcun altro, influenzato da persone che non hanno alcun diritto giuridico o morale di usurpare il ruolo di un genitore”.

 

Nel 2016 la Calgaro ha citato in giudizio le agenzie statali e gli operatori sanitari davanti al tribunale federale per aver posto fine ai suoi diritti parentali senza il necessario processo, in quanto il suo figlio minore ha ricevuto assistenza medica per il cosiddetto “cambio di sesso” senza il consenso della madre o una sentenza legale di emancipazione.

 

Nella sua causa afferma che le autorità statali hanno deciso autonomamente che il ragazzo allora diciassettenne fosse emancipato.

 

La dichiarazione della “Thomas More” dice che gli imputati hanno gestito il caso del figlio della Calgaro come se fosse un minore emancipato, anche se non c’era stata alcuna azione giudiziaria in tal senso. Né il distretto scolastico, né la contea, né nessuna delle agenzie mediche indicate nella causa diedero alla Calgaro alcun preavviso o udienza prima di porre fine ai suoi diritti genitoriali sul figlio minore.

 

Un giudice distrettuale ha respinto la causa della Calgaro nel maggio 2017, ammettendo che il ragazzo non era legalmente emancipato da una sentenza del tribunale, ma ritenendo che tuttavia i diritti genitoriali della Calgaro “erano rimasti intatti”. La Thomas More Society dice che il giudice ha decretato che l’emancipazione de facto del figlio minore della Calgaro da parte della contea, della scuola e degli operatori sanitari non ha costituito una violazione dei diritti genitoriali costituzionalmente garantiti.

 

Il caso è andato in appello nel luglio 2017 e la sentenza la sentenza del tribunale distrettuale è stata confermata della Corte di Appello dell’8° Circuito nel marzo di quest’anno.

 

La Contea di St. Louis ha deciso senza alcuna base che il figlio della Calgaro era emancipato e poteva ricevere queste prestazioni sociali, anche se la Calgaro era un “genitore idoneo” non in accordo con le loro azioni, secondo la dichiarazione legale della Corte Suprema.

 

Secondo Kardaal: “Incredibilmente, lo Statuto del Minnesota autorizza una contea a ritenere un minore “emancipato” e in diritto di ricevere sussidi statali per vivere in proprio e permette agli operatori sanitari di ignorare il parere dei genitori se risulta che il minore vive in un luogo diverso dai genitori e gestisce personalmente le proprie finanze”.

 

Ed è prassi corrente del distretto scolastico della contea di St. Louis in Minnesota di impedire a un genitore di essere conivolto nell’istruzione di un ragazzo per più di due anni dopo che il ragazzo è ritenuto, dal preside della scuola e non da una sentenza del tribunale, ‘emancipato’”. “Si tratta di una situazione inaccettabile per qualsiasi genitore e una seria violazione dei diritti genitoriali e del giusto processo”.

 

I termini dell’emancipazione in Minnesota sono vaghi, e la legge di stato non prevede alcun diritto procedurale per i “genitori idonei”, secondo Kaardal, sebbene li preveda per quelli non idonei.

 

Perché non dovrebbe valere lo stesso per i genitori idonei?” ha chiesto.

 

Kaardal ha detto di essere particolarmente preoccupato per la contraddizione interna alle disposizioni giuridiche del Minnesota.

 

La Corte di Appello USA ha ignorato la grande contraddizione nella decisione della Corte Distrettuale, in cui i diritti dei genitori sono ammessi ma non onorati, e la ridicola affermazione che le agenzie hanno violato i diritti della Calgaro, ma non hanno fatto nulla di male”. “La Corte Suprema USA ha ora l’opportunità di scongiurare questo scenario incompatibile e insostenibile; così che i genitori di tutti gli Stati Uniti possano continuare a fare i genitori senza interferenze governative”.

 

Secondo la legge federale, il diritto dei genitori è considerato un diritto implicito, protetto dalle interferenze governative dalle Clausole del Giusto Processo del Quinto e Quattordicesimo Emendamento”, ha detto Kaardal. “La ‘garanzia’ delle clausole del Giusto Processo salvaguarda quei diritti sostanziali “così radicati nelle tradizioni e nella coscienza da essere classificati come fondamentali”.

 

La Corte Suprema USA si riunirà a ottobre.

 

 

 

 

23/08/19

Il nuovo ambientalismo: meno cambiamenti climatici, più controllo delle masse

 Un articolo del Daily Signal analizza il nuovo ambientalismo - proveniente dagli USA - alla luce delle dichiarazioni e degli strumenti di coloro che lo propongono. L’analisi costi-benefici è impietosa: a fronte di effetti ambientali insignificanti, le “ricette” proposte avrebbero costi economici stratosferici. Il nuovo ambientalismo non serve a tutelare l’ambiente, serve a dare una giustificazione alle élite per imporre ricette economiche che altrimenti nessuno accetterebbe.

 

 

Di Nicolas Loris e Kevin Dayaratna, 20 agosto 2019

 

 

Se qualcuno vi chiedesse di descrivere il Green New Deal (Nuovo Patto Verde, NdVdE), che cosa direste?

 

Secondo il senatore Bernie Sanders, è una "idea coraggiosa” che “creerebbe milioni di posti di lavoro ben pagati” e aiuterebbe a “ricostruire le comunità dell’America rurale che sono state distrutte”.

 

Ah, ma voi pensavate che il Green New Deal servisse a combattere i cambiamenti climatici? Be’, ripensateci.

 

In realtà si tratta di un cavallo di Troia dipinto di verde, progettato per aumentare il controllo del governo sull’economia.

 

Chiedete pure a Saikat Chakrabarti, capo dello staff di Alexandra Ocasio-Cortez, che ne è l’autrice: “La cosa interessante riguardo al Green New Deal è che in origine non riguardava affatto il clima” ha detto Chakrabarti. “In realtà noi lo intendiamo come un modo per cambiare l’intera economia”.

 

Ma in che misura il Green New Deal cambierebbe l’economia? In parole povere, la metterebbe in ginocchio.

 

Lo sappiamo, perché quando abbiamo tentato di usare il Modello Energetico Nazionale dell’Energy Information Administration per valutare in che modo il piano avrebbe influenzato l’economia, il modello è andato in crash.

 

Il Green New Deal è generoso in quanto a visione, ma avaro di dettagli. Per esempio, richiede di ridurre le emissioni di gas serra del 60% rispetto ai livelli del 2010 entro il 2030, mentre l’obiettivo finale è di raggiungere emissioni nette nulle entro il 2050. Ma non dice come fare.

 

Una cosa è chiara: per raggiungere questi obiettivi, Washington dovrebbe imporre a tutti gli americani di ridurre il loro consumo energetico e/o rivolgersi a fonti di energia “verde” – e in fretta. E l’unica maniera di farlo è imporre tasse e regole coercitive.

 

Per valutare gli effetti economici di uno schema del genere, abbiamo iniziato guardando alla carbon tax – la raccomandazione più popolare tra coloro che chiedono al governo di rinunciare ai combustibili fossili.

 

Utilizzando il modello della Energy Information Administration, abbiamo fatto qualche prova per vedere quanto dovrebbe essere alta questa tassa per raggiungere gli obiettivi del Green New Deal. Abbiamo fatto impennare la tassa fino a 300 dollari per tonnellata, cosa che ha fatto diminuire le emissione del 58% rispetto ai livelli del 2010 – ma solo nel 2050.

 

Questo risultato è ancora molto distante dagli obiettivi del Deal, ma quando abbiamo tentato di spingere la tassa a valori ancora più alti, il modello è andato in crash. Chiaramente, gli obiettivi di emissioni del Green New Deal non sono realistici. Ma il pericolo che pongono all’economia è fin troppo reale.

 

Prima che il modello andasse in crash, abbiamo scoperto che una carbon tax di 300 dollari a tonnellata e le leggi relative costerebbero ad ogni famiglia di quattro persone quasi 8.000 dollari all’anno tra mancati redditi e maggiori costi energetici, maggiori prezzi al consumo e salari minori. Il costo totale a 20 anni è di 165.000 dollari.

 

Durante gli stessi 20 anni, la tassa farebbe sparire in media 1,1 milioni di posti di lavoro all’anno e farebbe diminuire il PIL di un totale di più di 15.000 miliardi.

 

Sembra un prezzo molto caro per raggiungere a mala pena la metà dell’obiettivo di emissioni-zero. Ne vale la pena? Dopo tutto, coloro che propongono l’eliminazione dei combustibili convenzionali sostengono che il costo del cambiamento climatico è molto superiore al costo delle politiche riguardanti il clima.

 

Tuttavia, in termini di “assicurazioni climatiche”, l’eliminazione delle emissioni di gas serra non porta molto lontano.

 

Per vedere se questo è vero, ci siamo rivolti a un altro strumento: il Modello per la Valutazione dei Cambiamenti Climatici Indotti dai Gas Serra. Sviluppato presso il Centro Nazionale per la Ricerca Atmosferica, questo modello valuta quanto gli aumenti e le diminuzioni negli andamenti dei gas serra influenzeranno le temperature globali e i livelli dei mari.

 

Se facciamo funzionare questo modello, troviamo che rifondare completamente l’economia americana – come prevede il Green New Deal – ridurrebbe il riscaldamento globale di circa 0,2 gradi Celsius nell’anno 2100. La riduzione nell’innalzamento dei mari sarebbe minore di due centimetri.

 

In altre parole, il Green New Deal offre minimi vantaggi climatici a fronte di costi incredibilmente alti.

 

Chakrabarti ha ragione. Il Green New Deal non riguarda i cambiamenti climatici proprio per niente. E certamente cambierebbe l’economia – in peggio.

 

 

22/08/19

WSJ - Un "pass Matteo" per l'Italia

Sul Wall Street Journal un'analisi pacata e lucida della situazione italiana giunge alla conclusione che la soluzione preferibile sia consentire agli elettori di esprimersi su Matteo Salvini, il vincitore più probabile di nuove elezioni. Un'Italia scontenta e priva delle riforme di cui ha bisogno rappresenta una minaccia peggiore per la stabilità europea di un possibile governo Salvini. 


 

 

 

 

Della redazione, 20 agosto 2019

 

 

Il governo di coalizione italiano è caduto martedì, e va bene così.

La difficoltosa intesa tra la Lega, di destra, e il Movimento Cinque Stelle, orientato a sinistra, ha funzionato a fatica per la maggior parte dei suoi 14 mesi al potere e se nuove elezioni aprono la strada a qualcuno che si possa proporre per tenere la barra più saldamente - e autonomamente - , è molto meglio.
In caso di elezioni, il vincitore più probabile sarebbe il leader della Lega, Matteo Salvini. Il sostegno alla Lega è salito a quasi il 40% secondo la maggior parte dei sondaggi d'opinione, dal 18% che il partito ha ottenuto alle elezioni dell'anno scorso. Ciò è in parte dovuto alla linea dura del partito sull'immigrazione, una questione sulla quale Salvini ha assunto un ruolo guida come ministro dell'Interno nell'attuale governo.

Ma anche il suo orientamento in campo economico ha avuto un ruolo nella sua ascesa politica. La Lega si è guadagnata la reputazione di partito pro-business e Salvini propone un taglio delle aliquote fiscali sulle società come elemento centrale del suo piano per rilanciare l'economia italiana.


Questa mossa fiscale è alla radice delle recenti lotte di Roma contro l'Unione Europea. I ragionieri di Bruxelles si aggrappano a previsioni economiche largamente inventate per opporsi alla volontà di Salvini di sperimentare la riforma fiscale. I partner della coalizione di Salvini hanno peggiorato le cose con le grandiose promesse dei Cinque Stelle di espandere la spesa sociale, una sconsideratezza che l'UE dovrebbe scoraggiare.
Questi contrasti creano un'incertezza che non piace ai mercati. I timori di una uscita dell'Italia  dall'eurozona o dalla UE sembrano esagerati, finché gli Italiani appoggiano l'appartenenza all'eurozona e si fidano dell'UE più di quanto si fidino del loro governo nazionale, secondo un recente sondaggio Eurobarometro.
La principale minaccia per la stabilità politica e per l'UE ora è che Bruxelles faccia cambiare idea agli italiani, contrastando gli sforzi di riforma di Salvini.


Salvini ha di fronte a sé una strada abbastanza dura per diventare presidente del Consiglio. Le dimissioni, martedì, del presidente del Consiglio di facciata Giuseppe Conte aprono un periodo di lotte, con i Cinque Stelle che cercano di salvarsi alleandosi con qualche altro partito. Ma se il tentativo fallisce, gli elettori avranno un'altra possibilità di scommettere su Salvini.


È una scommessa che Bruxelles dovrebbe consentire loro di fare, a prescindere da quanto prescrivono le regole dell'UE. Un'Italia non riformata e scontenta non rappresenta in misura minore una minaccia per la stabilità politica ed economica europea rispetto a un'Italia che Salvini sta cercando di rilanciare con un taglio di tasse e alcune riforme politiche. Chiamiamolo un "Matteo pass", una mossa a lungo termine per vincere la partita.


I mandarini di Bruxelles devono lasciare agli italiani lo spazio necessario per verificare se sia questo quello che sceglieranno gli elettori.


21/08/19

Il Segretario alla Brexit firma l’ordine di cancellare il Bruxelles Act – ponendo fine al diritto UE nel Regno Unito

Mentre la stampa mainstream si affanna a denigrare il nuovo governo del Regno Unito, descrivendolo come un branco di incapaci e prevedendo catastrofi in caso di Brexit, il governo di Boris Johnson procede tranquillamente nel completare i passi necessari a separare il Regno Unito dall’UE. Uno snodo fondamentale è certamente l’abrogazione del meccanismo che permette alle leggi UE di entrare automaticamente nel diritto inglese – si tratta infatti di una delle motivazioni più sentite da parte degli inglesi.

 

Dipartimento del Regno Unito per l’Uscita dall’Unione Europea, 18 agosto 2019

 

 

Il Bruxelles Act del 1972 è il canale attraverso cui le norme fluiscono direttamente dagli organi legislativi UE al diritto britannico.

 

L’annuncio dell’abrogazione dell’Act è un passo storico nel restituire i poteri legislativi da Bruxelles al Regno Unito. Stiamo riprendendo il controllo delle nostre leggi, in accordo con il voto popolare del 2016.

 

L’abrogazione dell’European Communities Act (ECA) del 1972 avrà effetto quando la Gran Bretagna lascerà formalmente l’UE il 31 di ottobre.

 

Parlando dopo avere firmato la legge che cristallizzerà giuridicamente l’imminente abrogazione dell’ECA, il Segretario di Stato per l’Uscita dalla UE, Steve Barclay, ha detto:

 

“Questo è un chiaro segnale ai cittadini di questo paese che non si torna indietro – lasceremo la UE come promesso il 31 ottobre,  qualsiasi siano le circostanze – ottemperando alle indicazioni che ci sono state date nel 2016.”

 

“Il voto di 17,4 milioni di persone che hanno deciso di lasciare la UE è il più grande mandato democratico che sia mai stato dato a un governo del Regno Unito. I politici non possono scegliere quale voto pubblico desiderano rispettare. Il Parlamento ha già votato in favore dell’uscita il 31 di ottobre. La firma di questa legislazione assicura che l'EU Withdrawal Act cancellerà l’European Communities Act del 1972 nel giorno dell’uscita.”

 

“L’ECA ha permesso a un numero incalcolabile di regole UE di fluire direttamente nel diritto del Regno Unito per decenni, e qualsiasi governo che voglia seriamente uscire dalla UE il 31 ottobre deve mostrare il suo impegno ad abrogarlo”.

 

“Ecco quello che stiamo facendo, mettendo in moto questa abrogazione. Si tratta di un momento fondamentale per riprenderci da Bruxelles il controllo delle nostre leggi.”

 

 

20/08/19

Salvini frenato non significa Salvini battuto

L’analista americano Tom Luongo analizza su Strategic Culture gli ultimi eventi politici italiani. Al di là degli incredibili resoconti e ricostruzioni proposti sui nostri media, la verità è che il movimento Cinque Stelle è stato messo all’angolo da Salvini. Il partito che poco più di un anno fa aveva una larga maggioranza relativa si ritrova a dover scegliere tra prendere atto di essere stato sopravanzato dalla Lega, consentendo subito nuove elezioni, oppure manipolare gli eventi per rimanere al potere con il decrepito PD, tradendo ulteriormente la fiducia dei propri residui elettori. Più probabilmente, il leader Di Maio farà la scelta peggiore: tenterà un accordo con i Democratici, crollando ulteriormente nei sondaggi, per poi rassegnarsi a tornare al voto, certificando il suicidio politico del proprio partito.

 

 

Di Tom Luongo, 18 agosto 2019

 

 

Il ministro dell'Interno italiano e leader della Lega Matteo Salvini è stato recentemente frenato nel suo tentativo di prendere il controllo della frammentata scena politica italiana. Salvini ha chiesto nuove elezioni, dopo avere dichiarato che il governo di coalizione con il Movimento Cinque Stelle non funziona più.

 

La sua mozione per un voto di sfiducia contro il presidente del Consiglio Giuseppe Conte è stata bocciata al senato italiano, dopo che i suoi precedenti alleati di coalizione hanno appoggiato una proposta degli ex-potenti Democratici.

 

Alla fin fine, non avrebbe dovuto essere una sorpresa vedere i Cinque Stelle scegliere come strano compagno di letto il partito e l’apparato politico che erano stati creati per combattere. Perché, se avessero sostenuto Salvini, avrebbero dovuto accettare lo status di spalla della Lega, visto che i sondaggi sono diventati in enorme misura loro sfavorevoli nei quattordici mesi del loro governo comune.

 

Ne emerge che, a prescindere da quanto si sia considerati rivoluzionari, in politica mantenere l’accesso al potere rimane la preoccupazione fondamentale. In generale, il primo obiettivo di qualsiasi organizzazione è la sua sopravvivenza e i Cinque Stelle hanno compiuto la Scelta di Hobson di schierarsi con i Democratici di Matteo Renzi, per restare al potere piuttosto che mantenersi saldi sui loro princìpi e rispettare la volontà del popolo italiano, che ora sostiene chiaramente Salvini e la sua Lega.

 

Come ho fatto notare nel mio articolo precedente, la Lega secondo i sondaggi è arrivata a percentuali che i Cinque Stelle non hanno mai raggiunto, 38-40%, mentre il sostegno ai Cinque Stelle è crollato sotto il venti per cento, dopo essere stato superiore al 28% (in realtà superiore anche al 32%, NdVdE) nelle elezioni di marzo 2018.

 

Quindi, il “tradimento” da parte di Salvini dei Cinque Stelle, che si sono impuntati a non attuare tutte le parti del loro contratto di governo volute da Salvini, ha portato direttamente al tradimento di Salvini da parte dei Cinque Stelle.

 

Ma se guardiamo ai sondaggi, è chiaro che il populismo di centro-destra marchiato Salvini è molto popolare. E la decisione del leader dei Cinque Stelle, Luigi di Maio, di andare contro il suo ex alleato non è destinata a portare buoni risultati al suo partito per il futuro.

 

È chiaro che Salvini viene seguito dalla popolazione italiana sulle riforme, sui tagli alle tasse, sulle spese per nuove infrastrutture e sulla fine dell’austerità imposta dalla UE e guidata dalla Germania.

 

Per il futuro prossimo, sembra che Di Maio abbia avuto la meglio sul suo ex partner di coalizione. Il presidente Sergio Mattarella benedirà con gioia un’alleanza PD / Movimento Cinque Stelle, per assicurare che non accada nulla di radicale nei prossimi, decisivi, due anni, durante i quali l’Unione Europea deve affrontare le più grandi sfide per il suo futuro.

 

Questo è particolarmente vero, visto che sembra sempre più probabile che il Regno Unito lascerà la UE la notte di Halloween, anche in assenza di accordi.

 

Ma Di Maio si ritrova ora nella stessa posizione in cui si è trovato un altro riformatore diventato leccapiedi dopo aver tradito il suo paese nel 2015: il greco Alexis Tsipras.

 

Giusto per ricordarlo, Tsipras è stato mandato a casa ed è ora una delle persone più odiate in Grecia. Il suo tradimento del popolo greco è stato così completo, che ha spinto al potere un governo di centro-destra lo scorso luglio.

 

I Cinque Stelle erano nati dal disgusto degli italiani per la loro leadership politica a Roma e per il rovesciamento tecnocratico del governo di Silvio Berlusconi nel 2011.

 

Si trattava di un partito di pura protesta, specialmente quando Beppe Grillo ne era la figura principale. Ora, fa accordi con gli stessi tecnocrati, pur di rimanere al potere.

 

Di Maio farebbe bene a pensare molto attentamente a come si evolveranno le cose da qui in poi. Ricordiamoci che erano stati i Democratici a rifiutare di allearsi con i Cinque Stelle lo scorso anno, portando all’alleanza nominalmente euroscettica tra loro e la Lega che ha cercato di governare dal giugno dello scorso anno.

 

È vero che i Cinque Stelle hanno sofferto da quando si sono alleati con la Lega, ma si è trattato di ferite auto-inflitte, dato che Salvini li ha surclassati, accusandoli di non sostenerlo mentre la sua popolarità cresceva.

 

Quello che sta avvenendo è che se i Cinque Stelle fanno un accordo con Renzi e i Democratici, si tratterà di un tradimento dello stesso ordine di grandezza di quanto Syriza ha fatto in Grecia con Tsipras. E Salvini, che si troverebbe all’opposizione, avrebbe gioco facile a impallinare il governo a ogni occasione mentre Conte, Mattarella e la loro mascotte, il ministro delle Finanze Giovanni Tria, vendono l’Italia a Bruxelles.

 

E sarebbe Salvini a ridere per ultimo, mentre i Cinque Stelle non otterrebbero nulla in cambio dell'essersi venduti, l’Italia verrebbe ulteriormente distrutta, e la carovana di migranti di George Soros riprenderebbe. Di Maio e i Cinque Stelle hanno avuto la loro opportunità di opporsi alla UE mentre questa era in difficoltà, con la crisi dei debiti sovrani e con il sistema finanziario e politico tedesco sotto stress estremo.

 

E hanno fallito.

 

La politica a questo livello è dominata dagli ego. Di Maio non è stato in grado di opporsi al malcontento interno dell’ala di sinistra del suo partito, e a causa di questo non ha potuto onorare le promesse fatte quando la coalizione si è formata.

 

Ora, ha messo il suo partito sulla strada che porta alla distruzione, mentre Salvini se ne va senza avere perso nulla di importante. Le sue politiche in una coalizione con i Cinque Stelle e Conte come presidente del consiglio non sarebbero state implementate.

 

Ora, che lo volesse o meno, ha rivelato tutti loro, inclusi i suoi ex alleati, come gli inutili arrampicatori sociali che sono, invece dei patrioti e ribelli che ostentano di essere, di fronte al popolo italiano.

 

La mossa migliore di Salvini ora è di continuare con i suoi piani e chiedere le elezioni. Forzare i Cinque Stelle e metterli ancora di più in contrasto con l’elettorato. E dopo, aspettare il suo tempo, lavorando sulla posizione della Lega al Parlamento Europeo.

 

Perché, anche si possono manipolare gli eventi nel breve periodo, non si può cambiare la tendenza generale (qualcuno direbbe che non si può fermare il vento con le mani… NdVdE).  Si tratta di un aspetto che sia l’UE sia i “poteri forti” italiani devono ancora imparare.

 

 

02/08/19

L’altra periferia dell’Unione Europea

L’Off-Guardian racconta la storia della periferia europea meno nota, quella dei paesi dell’Europa Centrale e Orientale. Si tratta di una storia che ricorda quella raccontata in un libro a noi molto caro. L’ingresso dei paesi ex-comunisti all’interno dell’Unione Europea non serve ad elevare lo standard di vita di questi al livello dei paesi occidentali: serve a sfruttarne tutte le risorse, in primis una manodopera qualificata a basso costo, a costo di impoverire e desertificare paesi già più deboli.

 

 

Di Frank Lee, 27 luglio 2019

 

 

Partiamo dai dieci paesi più poveri per reddito pro capite dell’Europa, in ordine crescente:

 



 

La media generale di reddito pro capite in Europa è di 37.317 dollari (dati 2018).

 

Quello che salta all’occhio è che la maggior parte di questi paesi è o nei Balcani o nel Sud-Est Europa. Ma questo non è tutto.

 

Il Portogallo, il paese più povero dell’Europa occidentale, con un PIL di 238 miliardi di dollari, è di poco superato dalla Repubblica Ceca (che è in realtà al centro dell’Europa), la migliore esponente dell’Est e il cui reddito nazionale è di 240 miliardi di dollari.

 

Pertanto, in termini di reddito pro-capite, la Repubblica Ceca è l’unico rappresentante dei paesi ex-sovietici in Europa. Questa scissione geopolitica non potrebbe essere più marcata. Queste due eurozone replicano la divisione tra il Sud e il Nord esistente in America con gli USA e il Canada da una parte e l’America Centrale e Latina dall’altra.

 

Gran parte dell’attenzione allo sviluppo europeo – o della sua assenza – si è concentrata sul divario tra l’Europa dell’Est e del Sud. La scissione attuale è attribuibile a strategie economiche provate, testate e fallite promulgate dalle varie istituzioni pro-globalizzazione: il FMI, la World Bank, il WTO eccetera.

 

La moneta unica, l’euro, è diventata a corso legale il primo gennaio 1999 ed è stata adottata dalla maggior parte dei paesi dell’Europa. Ma si è rivelata una rovina per la economia politica del Sud.

 

Quando stati sovrani differenti sono responsabili delle loro stesse strategie economiche e sono in grado di stampare e dare corso alla loro propria moneta sui mercati mondiali, ogni distorsione e cattiva allocazione delle bilance commerciali viene compensata da cambiamenti del tasso di cambio – in breve, dalla svalutazione. Questo si spera aggiusti gli sbilanciamenti e riporti all'equilibrio commerciale.

 

Tuttavia, questa strategia oggi non è più disponibile per gli stati europei del Sud, dal momento che non hanno più la loro propria moneta e, inoltre, sono sotto tutela della BCE. La periferia del Sud usa ora la stessa moneta del blocco del Nord, l’euro, e la BCE le chiede di adottare una politica economica che vada bene per tutti.

 

Pertanto, le svalutazioni sono escluse.

 

Dati i livelli più alti di produttività e i costi più bassi della Germania, dell’Olanda, della Svezia, della Francia eccetera, gli stati della periferia del Sud hanno iniziato ad accumulare cronici deficit di bilancia dei pagamenti. L’unica via d’uscita per loro disponibile è quella che viene definita “svalutazione interna” – vale a dire l'austerity.

 

Questo provoca bassa crescita, alta disoccupazione, intensa emigrazione, spopolamento, tagli alla spesa pubblica e tutte le altre strategie di aggiustamento strutturale del FMI – strategie fallite praticamente ovunque.

 

Se ci occupiamo dell’Europa dell’Est, facciamo luce su un differente ordine di problemi. La maggior parte dei paesi europei dell’Est, Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Ungheria e Polonia hanno mantenuto la loro moneta; salvo casi specifici come la Lettonia il cui governo, a differenza del suo popolo, è entrata dove osano le aquile – nell’eurozona e nell’euro

 

(NB Alcuni paesi europei occidentali, come per esempio il Regno Unito, la Danimarca, la Svizzera e la Norvegia, hanno – saggiamente – mantenuto le loro monete).

 

Escludendo la Russia, ovviamente, questi Stati Europei dell’Est – chiamate “economie di transizione” – si sono impantanati nella stagnazione economica che è stata molto spesso difficile se non impossibile da superare. Questi ostacoli sono specifici della periferia dell’Est.

 

L’Unione Europea ora è composta da 28 stati. Non meno di 10 di questi erano ex stati del Blocco dell’Est, e questa proporzione è destinata a crescere con l’imminente adesione di alcune nazioni balcaniche minori. Sebbene la Georgia e l’Ucraina siano in lista per aderire alla UE, dovrebbero anche aderire alla NATO, come è diventata consuetudine per gli stati aspiranti UE.

 

Tuttavia, che ottengano l’adesione è materia di congetture, in quanto questo significherebbe quasi certamente violare una linea rossa con la Russia, risultando un una importante crisi geopolitica. Il centro di gravità dell’Europa si sta spostando. E mentre il processo di adesione all’Unione Europea sta guidando il cambiamento all’interno di questi paesi, sta anche modificando la natura stessa dell’Europa.

 

DOV'È LA MIA PORSCHE?


 

Questi stati dell'Europa orientale emersi dalla disgregazione dell'Unione Sovietica sono stati indotti a credere che venisse loro offerto un nuovo mondo luminoso, con tenore di vita pari a quello dell'Europa occidentale, livelli salariali più elevati e alti tassi di mobilità sociale e consumi (somiglia molto a “con l’euro lavoreremo un giorno in meno guadagnando come se lavorassimo un giorno in più”, NdVdE).

 

Purtroppo, è stata venduta loro un'illusione (un fogno? NdVdE): il risultato della transizione finora sembra essere stato la creazione di un territorio con salari bassi, un'economia di confine ai margini del nucleo europeo altamente sviluppato; una versione in euro del NAFTA e delle maquiladora, ossia unità di produzione a bassa tecnologia, bassi salari e basso costo che si trovano in Messico, appena varcati i confini meridionali degli Stati Uniti.

 

Questo ha avuto conseguenze politiche e sociali più ampie per l'intero progetto europeo. Il Brave New World previsto non aveva altri principi guida o progetti se non le solite prescrizioni neoliberali di privatizzazione-deregolamentazione-liberalizzazione; la triade politica ben collaudata del manuale neoliberale.

 

Al centro dell’attuazione di queste politiche c'era una controversa prescrizione, chiamata "shock-therapy". Il fatto che questa politica fosse già stata tentata in Russia e avesse fallito in modo spettacolare non sembrava preoccupare i passacarte. Con le credenze religiose accade sempre così.

 

La dottrina stessa era diventata popolare tra gli ingenui e gli opportunisti delle vecchi "repubbliche dei lavoratori". La terapia d'urto è stata progettata per eliminare tutte le vecchie nozioni fuori moda come l'interventismo dello stato, lo stato sociale, la protezione sociale e nazionale; le misure comprendevano l'improvvisa rimozione delle sovvenzioni statali, la svendita di beni statali (privatizzazione) e la brusca eliminazione dei controlli e delle sovvenzioni che in precedenza erano stati applicati ai salari e ai prezzi.

 

Ma i militanti neoliberisti insistettero su una politica di "liberazione" dei mercati che, secondo loro, massimizzerebbe la crescita e lo sviluppo. Come era prevedibile, naturalmente, queste strategie politiche spalancarono questi paesi alla massima penetrazione e influenza occidentale, spesso predatoria.

 

Lo shock fu programmato per avvenire prima della creazione di mercati finanziari all'interno della regione e, in assenza di capitale d'investimento, gli sforzi di ristrutturazione si concentrarono sulla manodopera, sulla riduzione del costo unitario del lavoro, per diventare "competitivi". Si deve comprendere che nell'economia neoliberale, dal lato dell'offerta, la strada verso la ricchezza e la prosperità comportava politiche che in realtà rendono le loro popolazioni più povere. Sembra esserci un sentore leggermente orwelliano in questo. "La povertà è ricchezza."

 

L'ondata di disoccupazione di massa che questa ha generato all'inizio degli anni '90 va ben oltre le esperienze delle recessioni britanniche degli anni '80, con la disoccupazione che  in alcune regioni raggiunse l'80%. La terapia d'urto ha deliberatamente progettato un crollo nelle economie della regione, distruggendo i legami economici della regione e creando poi una massiccia recessione interna.

 

LA SHOCK-THERAPY – TUTTO SHOCK E NIENTE TERAPIA


 

In ogni caso, lo spettacolo deve continuare. La religione neoliberale adottata da molti di questi stati, spesso da ex membri della nomenklatura comunista, che ha portato ad alti livelli di disoccupazione strutturale, era in realtà destinata a farlo, almeno a breve termine. Pur dolorosa che fosse, questa è stata la scossa necessaria ad una forza lavoro inefficiente e confusa e quindi la precondizione assoluta che avrebbe trasformato queste economie precedentemente arretrate in concorrenti agili ed efficienti sui mercati europei e sarebbe stato il preludio ad un ingresso nelle economie sviluppate sul modello dell'Europa occidentale e degli Stati Uniti. Sì, come no.

 

Nel mondo reale Michael Hudson[1] ha analizzato come questo processo ha funzionato in Lettonia.

 

Come altre economie post-sovietiche, i Lettoni volevano raggiungere la prosperità che vedevano nell'Europa occidentale. Se la Lettonia avesse seguito le politiche che hanno costruito i paesi industrializzati, lo Stato avrebbe tassato progressivamente ricchezza e reddito, per investire nelle infrastrutture pubbliche.

 

Invece, il miracolo baltico della Lettonia assunse forme in gran parte predatorie di ricerca di rendite e di privatizzazioni privilegiate. Accettando il consiglio degli Stati Uniti e della Svezia di applicare le politiche fiscali e finanziarie neoliberali più estreme al mondo, la Lettonia ha imposto le tasse più pesanti sul lavoro. I datori di lavoro dovevano pagare una tassa del 25% sui salari più un 24% dell'imposta sui servizi sociali, mentre i salariati pagano un'altra tassa dell'11%. Queste tre imposte arrivavano al 60% di tasse prima delle detrazioni personali.

 

Inoltre, al fine di rendere il lavoro costoso e non competitivo, i consumatori devono pagare un'IVA del 21% (aumentata bruscamente dal 7%) dopo la crisi del 2008. Nessuna economia occidentale tassa salari e consumi a questo livello.

 

Se da una parte abbiamo una forte tassazione del lavoro in Lettonia, dall’altra c’è invece appena il 10% di tassazione sui dividendi, sugli interessi e su altre rendite e l'aliquota fiscale più bassa sulla proprietà di qualsiasi altra economia. Pertanto, la politica fiscale lettone ha ritardato la crescita e l'occupazione, sovvenzionando contemporaneamente una bolla immobiliare che è la caratteristica principale del "miracolo baltico" lettone.

 

Ora la Lettonia doveva aprire la sua economia agli afflussi di capitale esteri – denaro bollente – da filiali bancarie straniere, principalmente scandinave, il cui interesse principale era quello di finanziare il boom immobiliare. Naturalmente, questi flussi di cassa dovevano essere remunerati e così divennero una tassa finanziaria sul lavoro e sull'industria della nazione. Altre fonti per remunerare i soldi esteri sono state le privatizzazioni delle aziende del settore pubblico lettone. La Svezia è diventata una fonte importante di questi afflussi di denaro in cerca di rendita.

 

Ma nonostante tutto il denaro che fluiva in Lettonia, non è stato fatto alcuno sforzo per ristrutturare l'industria e l'agricoltura, per generare attivi con l’estero per l'importazione di capitali e beni di consumo non prodotti in patria. Dopo aver perso le potenzialità di esportazione durante il periodo COMECON, i legami di produzione esistenti sono stati sradicati, gli impianti industriali sono stati smantellati per il loro valore catastale o trasformati in speculazione immobiliare.

 

Il miracolo del Baltico non è stato altro che una bolla di debito immobiliare finanziata dagli afflussi di capitali esteri. Quando i flussi hanno invertito la direzione, l'entità della deflazione del debito, la deindustrializzazione e lo spopolamento (vedi sotto) sono diventati evidenti.

 

Il programma di austerità... che la Lettonia aveva subito aveva comportato il più rapido crollo dei prezzi delle case al mondo nel giro di un anno, prezzi che avevano raggiunto il picco nel 2007. Nonostante nel 1991 fosse priva di debiti, la Lettonia era diventata il paese più indebitato d'Europa, senza aver utilizzato parte del credito preso in prestito per modernizzare la sua industria o l'agricoltura. [2]"

 

Ciò che era vero per la Lettonia, lo era in generale anche nel resto dell'Europa orientale. Così nel 2008 era diventato evidente che le economie post-sovietiche non erano realmente cresciute, ma erano state finanziarizzate e indebitate.

 

L'economista di Forbes Adomanis ha calcolato nel 2014 che se la convergenza di queste economie con quelle occidentali...

 

...continuasse allo stesso ritmo del periodo 2008-13 (circa lo 0,37% all'anno) ci vorrebbero oltre 100 anni perché i nuovi membri dell’UE raggiungano il livello medio di reddito dei maggiori paesi... considerando che la più rapida e sostenuta convergenza dell'Europa centrale ha coinciso con una bolla del credito che è altamente improbabile si ripeta, sembra più probabile che la convergenza delle regioni sarà più lenta in futuro rispetto al passato." [3]

 

AMICO, MI ALLUNGHI UN EURO?


 

Con la decimazione dell'industria autoctona, il ruolo della finanziarizzazione e del debito è diventato cruciale, in quanto le nuove economie capitalistiche richiedevano un'industria dei servizi finanziari che potesse sostenere le crescenti tendenze verso la speculazione immobiliare e la manipolazione degli asset.

 

Diverse vulnerabilità sono nate dalle azioni di diverse istituzioni, ma l'effetto complessivo è stato quello di creare dipendenza statale dagli investimenti diretti esteri (IDE), e dal sostegno della Banca mondiale, del FMI e della Banca Europea appositamente creata per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BERS).

 

La finanziarizzazione generale della regione ha portato a un enorme aumento del debito, sia personale che istituzionale. Le banche occidentali di un certo numero di Stati più piccoli, in particolare Austria e Svezia, hanno cercato di aumentare i loro profitti aumentando la loro quota di mercato nella regione dell'Europa centrale e orientale (PECO), con prestiti aggressivi alle famiglie.

 

Basandosi sull'aspettativa generale dell'adesione dei PECO all'UE sui mercati monetari all'ingrosso e approfittando della deregolamentazione finanziaria e degli standard di protezione dei consumatori nella regione, le banche prestavano denaro denominato in euro, franchi svizzeri e yen giapponesi. Ciò ha permesso loro di offrire ai consumatori tassi di interesse più bassi rispetto a quelli disponibili per il prestito in valute nazionali. E questo prestito ha causato un enorme aumento nei livelli di debito personale delle famiglie, in particolare in Ungheria, Romania, Bulgaria e negli stati baltici.

 

Un'altra conseguenza della terapia d'urto è stata la pressione che avrebbe generato sull'Unione Europea verso un'apertura dei mercati dell'Europa occidentale ai PECO. Il modello adottato dagli Stati periferici, di economie a basso salario basate sulle esportazioni, dipendeva dall'accesso ai mercati dell'UE.

 

Tuttavia, per vendere sui mercati dell'UE, è necessario avere qualcosa da esportare. Ma questi Stati semplicemente non avevano e non hanno la capacità industriale e/o finanziaria di competere con gli Stati dell'Europa occidentale e non l’avranno probabilmente nel prossimo futuro. L’essere subordinato a una serie di regole imposte da istituzioni globali, il FMI, il WB, l’OMC – neoliberali – rende impossibile questo sviluppo.

 

Naturalmente, c'è stato qualche investimento occidentale nei PECO, ma senza voler essere cinici – Io? Non sia mai! – non tutto è stato a beneficio dei PECO, la maggior parte era puramente predatorio.

 

Ad esempio, il Conglomerato transnazionale degli Stati Uniti, la General Electric, dopo avere fiutato opportunità utili per fare soldi facili ha deciso di acquistare una società di illuminazione, la Tungsram, in Ungheria. Ha quindi rapidamente chiuso le linee di prodotti redditizi, riuscendo così a rimuovere una fonte di concorrenza interna dal mercato.

 

Analogamente, l'industria del cemento ungherese è stata acquistata da proprietari stranieri, che hanno poi impedito ai loro affiliati ungheresi di esportare; e un produttore siderurgico austriaco ha acquistato un importante impianto siderurgico ungherese solo per chiuderlo e conquistare il suo ex mercato ex-sovietico per la casa madre austriaca. Per un appetito vorace vediamo invece il caso Volkswagen.

 

VW ha preso il controllo di SEAT nel 1986, rendendola il primo marchio non tedesco dell'azienda, e il controllo di Skoda (vedi sotto) nel 1994, di Bentley, Lamborghini e Bugatti nel 1998, Scania nel 2008 e di Ducati, MAN e Porsche nel 2012.

 

Ma lo shopping di VW non si è fermato qui.

 

Studio di un caso: l’acquisizione VW di Skoda


 

Cinque mesi dopo la caduta del comunismo e prima che la shock therapy iniziasse, Citroen, General Motors, Renault e Volvo volevano intensamente impadronirsi di Skoda. VW vinse l'offerta offrendo 7,1 miliardi di marchi, promettendo di aumentare la produzione a 450.000 auto all'anno entro il 2000. Le parti del motore dovevano essere prodotte in Boemia e si promise di utilizzare fornitori cechi. La forza lavoro ceca doveva essere mantenuta. Il governo ceco fu favorevole a questo tipo di investimenti diretti esteri (IDE) e diede a VW una posizione protetta nel mercato interno, oltre a un bonus fiscale di due anni che cancellava i debiti di Skoda.

 

Le cose però si misero al peggio, quando VW ripudiò i suoi debiti e le sue promesse. L'investimento iniziale di 7,1 miliardi di marchi fu ridotto a 3,8 miliardi, non ci sarebbe stato un impianto per motori cechi e nessun impegno a produrre 450.000 automobili entro il 2000. La forza lavoro si sarebbe ridotta a 15.000 persone a seguito di un aumento degli esuberi, e VW si sarebbe sempre più rivolta a fornitori di ricambi tedeschi piuttosto che a filiali ceche, portando 15 imprese di questo tipo a sostituire i loro concorrenti cechi. [4]

 

Questi sono esempi dei modi in cui è stato imposto lo status di "economia periferica" della regione PECO (Paesi dell’Europa Centrale e Orientale). Un rapporto di sfruttamento tra Oriente e Occidente. L'esperienza Skoda con il risultato negativo derivante dall'apertura dei principali settori dell'apparato produttivo del paese target (Repubblica Ceca) alla strategia globale di una multinazionale occidentale non è unica ed è una caratteristica comune dei flussi di Investimenti Diretti Esteri.

 

Dopo appena un paio di anni di "shock-therapy", gran parte dell'infrastruttura industriale di base degli stati periferici era caduta nelle mani di società multinazionali, dalle catene di negozi, agli impianti di produzione di energia elettrica alle acciaierie. Due fenomeni politici/sociali sono risultati dell'accaparramento di asset (scusate, volevo dire investimenti produttivi).

 

POLITICO


 

Dall'avvento della terapia d'urto, ci si sarebbe aspettato che gli elettori dell'Europa orientale avrebbero votato in massa per i partiti di sinistra per le solite ragioni. Vale a dire per mitigare i peggiori effetti sociali ed economici della transizione capitalista.

 

Ma questi stessi partiti avevano seguito la linea di Blair, si erano cioè fortemente impegnati nella "terza via" pseudo-riformista in linea con le ortodossie dell'economia neoliberale, in quanto questo era visto come parte del loro impegno per l'adesione all'Europa. Nel vuoto ideologico sono emersi nella regione i movimenti populisti e di destra, in Polonia e Ungheria, in particolare, nonché semifascisti nei paesi baltici, dove hanno sempre avuto un presidio.

 

Questi gruppi hanno cercato di sfruttare il malcontento della gente. Le forze politiche che fiorivano ai tempi dell'impero austro-ungarico sono riemerse – come il "socialismo cristiano" antisemita e il "liberalismo nazionale" patriottico. E, forse più importante, è arrivata la migrazione di massa e lo spopolamento in tutta l'area...

 

SPOPOLAMENTO


 

“Lo spopolamento dell'Europa orientale è collegato non solo al deflusso dei lavoratori: dopo il 1989, negli ex "paesi socialisti" è iniziata l'era del capitalismo selvaggio, accompagnata dal crollo dei sistemi sociali e medici, da un forte aumento della mortalità, soprattutto tra gli uomini, con un simultaneo calo del tasso di natalità..."

 

Il giornale francese Le Monde diplomatique in giugno ha descritto la catastrofe demografica senza precedenti che ha colpito i paesi dell’Europa dell’Est dopo il collasso del sistema comunista.

 

Il processo è iniziato alla fine del 1989, appena dopo la caduta del Muro di Berlino. A seguito dell’evento, ci furono esodi di massa della popolazione della Germania dell’Est, della Polonia e dell’Ungheria verso i paesi dell’Europa Occidentale, in cerca di redditi più alti, esodi che continuano ancora oggi, e che coprono praticamente tutti i paesi che appartenevano al campo socialista.

 

Come risultato della nuova “riallocazione delle persone”, le perdite umane dell’Europa dell’Est sono state molto maggiori di quelle registrate durante entrambe le guerre mondiali. Negli ultimi 30 anni, la Romania ha perso il 14% della popolazione, la Moldavia il 16,9%, l’Ucraina il 18%, la Bosnia il 19,9%, la Bulgaria e la Lituania il 20,8%, la Lettonia il 25,3%. Lo spopolamento ha inoltre riguardato le ex regioni della Germania dell’Est, che sono state letteralmente svuotate.

 

Una sorta d’eccezione è stata la Repubblica Ceca, dove è stato possibile preservare i principali “benefici del socialismo” sotto forma di supporto sociale alla popolazione, di un sistema sanitario gratuito e assistenza.

 

Lo spopolamento dell'Europa orientale non è collegato solo al deflusso dei lavoratori: dopo il 1989 negli ex "paesi socialisti" è iniziata l'era del capitalismo selvaggio, accompagnata dal crollo dei sistemi sociali e medici, da un forte aumento della mortalità, soprattutto tra gli uomini, con un calo simultaneo del tasso di natalità.

 

Tuttavia, il principale crollo demografico è stato causato dall’emigrazione della popolazione, specialmente tra le persone più giovani, più attive, più qualificate. Nella terra d’origine sono rimasti i bambini, i pensionati e le persone incapaci di cercare attivamente lavoro all’estero. Tutto ciò nonostante il fatto che per 40 anni dopo la fine della guerra nei paesi dell’Europa dell’Est c’era stata una lenta ma costante crescita della popolazione.

 

Secondo le Nazioni Unite, tutti i 10 paesi più “a rischio di estinzione” sono nell’Europa dell’Est: Bulgaria, Romania, Polonia, Ungheria, Repubbliche baltiche e l’ex Jugoslavia, così come la Moldavia e l’Ucraina. Secondo le previsioni demografiche, nel 2050 la popolazione di questi paesi si ridurrà di un altro 15-23%.

 

Questo significa, in particolare, che la popolazione della Bulgaria passerà da 7 a 5 milioni di persone, la Lituania da 2 a 1,5 milioni. Secondo gli esperti del centro demografico internazionale Wittgenstein a Vienna, “è uno spopolamento senza precedenti in un periodo di pace”.

 

Tra le ragioni principali c’è la combinazione fatale di tre fattori – basso tasso di natalità, alta mortalità ed emigrazione di massa. Ma se nei paesi dell’Europa Occidentale il calo del tasso di natalità è compensato da nuove ondate migratorie, i paesi dell’Europa dell’Est si rifiutano categoricamente di accettare il “sangue fresco” rappresentato dagli immigrati, e questa questione ha acquisito una straordinaria rilevanza politica.

 

Nel punto di massima crisi migratoria nel 2015, la Slovacchia e la Repubblica Ceca hanno accettato rispettivamente 16 e 12 rifugiati, l’Ungheria e la Polonia nemmeno uno.

 

Nel frattempo, l’Europa dell’Est continua a perdere i “quadri d’oro” – i migliori specialisti e i giovani. Nella sola Ungheria, da quando essa ha aderito alla UE nel 2004, 5.000 medici hanno lasciato il paese, la maggior parte di loro prima dei 40 anni. C’è carenza di tecnici e meccanici che sono anche loro emigrati verso l’Austria, la Germania e altri paesi dell’Europa Occidentale.

 

È un processo perfettamente comprensibile, dal momento che in Ungheria vengono pagati 500 euro al mese per lavori manuali pesanti, mentre in Austria per fare lo stesso lavoro ricevono 1.000 euro a settimana.

 

In alti paesi, l’emigrazione di specialisti di qualifica media si fa sentire anche di più: centinaia di migliaia di infermieri, carpentieri, fabbri e lavoratori qualificati si sono spostati dalla Polonia, dalla Romania, dalla Serbia e dalla Slovacchia verso Ovest. In Romania, l’emigrazione della popolazione viene chiamata una “catastrofe nazionale”. La popolazione di questo paese nel periodo post-comunista è scesa da 23 a 20 milioni di abitanti.

 

Il trasferimento di lavoratori da Est non è stato solo spontaneo, ma anche sistematicamente predatorio. Molte compagnie tedesche e britanniche di “cacciatori di teste” hanno iniziato in gran numero ad attirare specialisti dell’Est appena dopo l’accesso dei paesi dell’Est nella UE. Come scrive la tedesca Die Welt, qualifiche, gioventù e denaro escono dai paesi dell’Europa dell’Est, mentre gli anziani e i bambini rimangono profondamente delusi dalla “libertà” e “democrazia”.

 

A partire dai primi anni ’90, la Bosnia ha perso 150.000 abitanti, la Serbia circa mezzo milione. Tuttavia, la perdita più significativa è stata osservata in Lituania: più di 300.000 persone su un totale di 3 milioni di abitanti ha lasciato il paese.

 

Ma le conseguenze più tragiche del “disastro post-comunista” si sono fatte sentire in Ucraina – che una volta era una delle Repubbliche più sviluppate dell’URSS. Se agli inizi degli anni '90 nella Repubblica c’erano 52 milioni di persone, ora la popolazione non supera i 42 milioni. Secondo le previsioni dell’istituto demografico di Kiev, nel 2050 la popolazione della Repubblica sarà di 32 milioni di abitanti.

 

Questo significa che l’Ucraina è il paese che sta morendo più velocemente in Europa e, forse, nel mondo. Secondo fonti ucraine, il paese è stato abbandonato da 8 milioni di persone (gli esperti credono che il numero sia in realtà tra i 2 e i 4 milioni), che sono andate a lavorare in paesi dell’Unione Europea o nella vicina Russia. Secondo recenti sondaggi, il 35% degli ucraini dichiarano di essere pronti ad emigrare. Il processo è accelerato dopo che l’Ucraina ha ottenuto il regime privo di visti con la UE: circa 100.000 persone hanno lasciato il paese ogni mese.

 

È in Ucraina che i tre fattori hanno coinciso in maniera più estrema: caduta del tasso di natalità, aumento della mortalità (il tasso è al doppio della natalità) ed emigrazione di massa della popolazione. Confrontiamo le rispettive dinamiche della Francia e dell’Ucraina. Se prima del 1989 i tassi di crescita delle popolazioni in questi due paesi erano confrontabili, successivamente la popolazione in Francia è aumentata di 9 milioni di persone, e l’Ucraina ha perso lo stesso numero di abitanti.

 

Gli esperti credono che la crisi demografica nell’Est Europa non possa continuare indefinitamente. Il sistema di sostegno sociale e di sanità non può fisicamente funzionare nelle condizioni in cui la maggioranza della popolazione è composta da pensionati e bambini, a un certo punto ci sarà inevitabilmente un collasso dell’entità statale.

 

Ma non dovremmo essere troppo ottimisti a riguardo dell’Europa Occidentale, dove il tasso di natalità è comunque estremamente basso. Mentre la parte più sviluppata del continente beneficiava temporaneamente delle risorse umane provenienti dall’Europa dell’Est, un influsso molto più rapido di immigrati dal Medio Oriente e dall’Africa cambierà inevitabilmente l’immagine socioculturale dei paesi dell’Europa Occidentale, dove stanno già nascendo conflitti etnici e religiosi.

 

Se il tasso di fertilità delle donne francesi autoctone è di 1,6 bambini a donna, per gli adulti invece che vengono dal Medio Oriente e dall’Africa questo numero è di 3,4 bambini o più. Gli attuali asili francesi sono già per tre quarti composti da rappresentanti di minoranze etniche, e in futuro grandi cambiamenti socio-culturali attendono il paese. Questo aspetto è già stato esposto dallo scrittore francese Michelle Houellebecq nel suo best-seller Sottomissione.

 

Esiste una soluzione? È possibile stimolare il meccanismo di natalità tra gli Europei? I demografi credono che sia impossibile sia nell’Europa dell’Est che dell’Ovest. Nell'Ovest del continente gli standard di consumo sono così alti che l’arrivo di un nuovo figlio significa automaticamente una diminuzione dello standard di vita. Nell’Est opera un altro meccanismo: la povertà, la mancanza di prospettive e la distruzione delle relazioni familiari rendono la nascita di un figlio indesiderabile. Nel frattempo, la proporzione di Europei sulla popolazione totale mondiale è in diminuzione. Se nel 1900 l’Europa rappresentava il 25% degli abitanti mondiali, ora è intorno al 10%. [5]

 

CONCLUSIONi


 

Come in altri esempi precedenti di convergenza verso la modernizzazione e le relative politiche di sviluppo, l’Europa dell’Est rappresenta un esempio classico di sviluppo del sottosviluppo.

 

La teoria generale liberista della graduale evoluzione fu descritta da W.W. Rostow, un economista americano, professore e teorico politico che ricoprì il ruolo di Assistente speciale alla Sicurezza nazionale del presidente USA Lyndon B. Johnson dal 1966 al 1969.

 

La sua teoria delle cinque fasi di crescita sostiene che tutte le società progrediscono attraverso stadi simili di sviluppo, e che le aree oggi sottosviluppate sono quindi in una situazione simile a quella in cui erano in passato le aree ora sviluppate; quindi il compito di aiutare le aree sottosviluppate per uscire dalla povertà consisterebbe nell’accelerare il loro cammino sul presunto sentiero comune verso lo sviluppo, con vari mezzi come gli investimenti, i trasferimenti di tecnologia e un’integrazione più stretta con il mercato mondiale.

 

Questa visione, tuttavia, è stata sottoposta a forti critiche. La teoria della dipendenza (vedi Immanuel Wallerstein, Andre Gunder-Frank, Samir Amin e Paul Baran) è essenzialmente un corpo di teorie di scienza sociale che punta alla nozione che le risorse fluiscono da una “periferia” di stati poveri e sottosviluppati a un “nucleo” di stati ricchi, arricchendo gli ultimi a spese dei primi.

 

Una dei concetti chiave della teoria della dipendenza è che gli stati poveri vengono impoveriti, mentre i ricchi vengono arricchiti dal modo in cui gli stati poveri vengono integrati nel “sistema-mondo”. I teorici della dipendenza sostengono che i paesi sottosviluppati non sono semplicemente delle versioni primitive dei paesi sviluppati, ma hanno caratteristiche e strutture uniche proprie; e, fatto cruciale, sono nella condizione di essere i membri deboli di una economia di mercato mondiale, mentre le nazioni sviluppate non sono mai state in una posizione analoga; non hanno mai dovuto coesistere con un blocco di paesi più potenti di loro.

 

Al contrario degli economisti del libero mercato (vedi sopra), la scuola della dipendenza sostiene che i paesi sottosviluppati hanno bisogno di ridurre la loro apertura ai mercati mondiali in modo da poter perseguire un cammino più finalizzato a preoccuparsi dei loro bisogni, e meno esposto a pressioni esterne.

 

Direi che hanno ragione.

 

Gli stati periferici e semi-periferici che vengono integrati nel sistema-mondo vengono “dominati”, se mi passate il termine, da élite avide che fanno parte di una classe sociale superiore cosmopolita in un sistema mondiale globalmente finanziarizzato. Le fughe di capitale dalla periferia al nucleo sono una caratteristica comune del sistema-mondo, così come delle materie prime e di altri prodotti energetici dal mondo “in via di sviluppo”. L’Europa dell’Est e le sue élite si integrano perfettamente in questo schema, in quando forniscono di materie prime, lavoratori e turismo così come di fughe di capitale da Est a Ovest.

 

Come abbiamo visto il concetto che gli Investimenti Diretti Esteri portino crescita e sviluppo è il modo sbagliato di vedere la questione. Nessuna economia sviluppata è diventata tale aprendo la sua economia alla competizione e a investimenti in ingresso (inevitabilmente predatori) da economie e paesi più avanzati. Sono state le politiche mercantiliste e nazionaliste dello stato capitalista ad avere sempre rappresentato la strada verso lo sviluppo. Il Regno Unito è stato il primo, seguito velocemente dalla Germania e dagli Stati Uniti nel diciannovesimo secolo, e nel ventesimo secolo da un gran numero di stati dell’Asia orientale in questo ordine: Giappone, Corea del Sud e Cina, e diversi altri.

 

Nel caso della Russia, questo stato ha una posizione globale semi-periferica, sia in termini politici sia economici. Troppo grande e troppo piccola in termini economici con un PIL basso, ma con un rapporto debito/PIL molto basso (15%). La Russia è sia semi-sovrana sia semi-periferica e una guerra in qualche modo sotterranea è in corso tra gli Euroasiatici sovranisti e gli integrazionisti Atlantici con Putin che è in una posizione intermedia.

[La Russia] non è esattamente un esempio classico di capitalismo periferico, ma piuttosto semi-periferico.

 

La Russia è caratterizzata, da una parte, dalla sua dipendenza dal nucleo, ma dall’altra dalla sua capacità di sfidare la dominazione del nucleo in alcune aree specifiche. Questa posizione semi-dipendente della Russia è condizionata dal suo passaggio al capitalismo, mentre la sua posizione semi-indipendente  è dovuta alla sua eredità sovietica.

 

In particolare, questa eredità ha trovato manifestazione in un arsenale nucleare importante, tuttora paragonabile a quello degli Stati Uniti. Se questo non fosse esistito, la Russia si sarebbe trovata soggiogata agli interessi Occidentali molto tempo fa, proprio come l’Ucraina”. [6]

 

Il futuro della Russia e del mondo devono ancora essere decisi.

 

Per quello che riguarda l’Europa dell’Est, non è un esagerato dire che ormai è soggiogata, finita dritta nella trappola del sottosviluppo, dove rimarrà probabilmente nel prossimo futuro.

 

NOTE

  • [1] Michael Hudson – Killing the Host – The Financial Conquest of Latvia, Chapter 20.

  • [2]Ibid – page 289

  • [3]Ibid, footnote, 308 Forbes January 24, 2014.

  • [4]Peter Gowan – Global Gamble – Washington’s Faustian Bid for World Domination – 1999 – p.225

  • [5]Dmitriy Dobrov – Novinite Insider 5 July 2018 – A Bulgarian publication.

  • [6]Ruslan Dzarasov – Ukraine, Russia and Contemporary Imperialism – Semi-Peripheral Russia and the Ukraine Crisis – p.87


 

01/08/19

Vi presento il nuovo capo (ma è lo stesso di prima)

Un articolo di Jacobin Mag punta il dito contro l'Unione Europea, e più in generale contro le strutture neoliberali del potere sovranazionale, che si sono costruiti un board di dirigenti fedeli e totalmente dediti alla "lotta di classe" a senso unico dei ricchi contro i poveri, un board di alfieri del neoliberalismo che si riciclano continuamente attraverso infinite porte girevoli, con la scusa della "competenza" e dell'esperienza, con la pretesa di essere gli unici capaci di gestire la complessità dell'economia del presente. Ma le porte girevoli attraverso cui passano diventano muri contro la democrazia e contro ogni tentativo di cambiamento ideologico. (Unico difetto dell'articolo può essere considerato il presentare gli esponenti di Syriza come sinceri oppositori dello status quo durante la crisi greca). 

 

 

di Pawel Wargan, luglio 2019

 

L’Unione europea è così ostile alla democrazia che la sua nuova leadership è composta esclusivamente da persone già al potere da anni. Non importa se le loro politiche hanno rovinato la vita a milioni di persone. L’unico requisito è stare dalla parte di chi detiene la ricchezza.

 

C’è una forma particolare di sadismo nel ricompensare un torturatore dandogli il potere. Ma per i greci, gli italiani, i ciprioti, gli irlandesi e i portoghesi – e per le tante altre vittime delle politiche di austerità del Fondo monetario internazionale (FMI) e dei suoi alleati della troika – questo spettacolo sta per cominciare proprio ora.

 

Nell'ultimo, notevole tentativo di riciclare i tecnocrati ai posti di vertice del potere, i leader dell’Unione europea hanno concluso un accordo dietro le quinte per nominare quattro candidati alla leadership UE.

 

Ursula von der Leyen, già ministro della difesa di Angela Merkel, coinvolta in uno scandalo per pagamenti di decine di milioni di euro di consulenze come nel caso McKinsey, è stata nominata a capo della Commissione europea. È stata votata dal Parlamento europeo con una maggioranza  risicata.

 

Ma la scelta decisamente più interessante è stata quella della managing director del FMI, nonché pregiudicata, Christine Lagarde. È stata portata a capo della Banca centrale europea (BCE), il ruolo più potente nella UE e uno dei più influenti sulla politica mondiale. (Lo scorso anno la Lagarde si era auto-dichiarata fuori dai giochi per la candidatura a questa posizione.)

 

La sua nomina ha avviato una corsa alla leadership anche all'interno delo stesso FMI. L’elenco finale dei contendenti deve ancora apparire, ma i primi nomi ad aver fatto il giro sembrano usciti da una squadra di fantacalcio dei neoliberali. I nomi vanno dall’ex di Goldman Sachs e presidente uscente della BCE, Mario Draghi, al Conservatore ed ex cancelliere britannico George Osborne, all’ex ministro delle finanze olandese Jeroen Dijsselbloem, i cui prodigi come capo dell’Eurogruppo includono le fasi più critiche e controverse della crisi del debito greco.

 

Assieme alla Lagarde questi uomini sono stati tra gli architetti di un decennio di austerità europea. Nonostante i danni devastanti causati dalle loro politiche, si trovano ancora nelle posizioni di vertice.

 

Il “Fantasy Team” dell’austerità

 

Al cuore dell’architettura istituzionale e legale dell’Europa sta l’insistenza sulla disciplina fiscale, il dogma neoliberale secondo il quale le spese di uno stato non possono superare il gettito fiscale. Quando il sistema bancario globale è crollato nel 2008, scatenando la crisi dei debiti sovrani in Europa, l’establishment politico europeo è accorso a salvare le banche. Nella perversa logica dei falchi del deficit, l’enorme mobilitazione di fondi pubblici che questo salvataggio ha richiesto doveva essere compensata da tagli altrove.

 

L’austerità è diventata lo strumento per fatturare ai poveri il costo del fallimento dei ricchi.

 

Nel caso delle economie europee periferiche, che sono state colpite in modo particolarmente forte dalla crisi, la troika, cioè la coalizione di FMI, BCE e Commissione europea, ha iniziato a somministrare dosi di pacchetti di salvataggio.

 

I salvataggi assomigliavano ai classici programmi di aggiustamento strutturale della Banca Mondiale e del FMI: programmi per trasferimenti su ampia scala verso i ricchi, mascherati da pacchetti di sostegno finanziario. Ecco come funzionano: al picco della crisi economica il FMI e la Banca Mondiale si intromettono e offrono un prestito: un finanziamento direttamente al governo o un sostegno per il servizio del debito privato.

 

Questi prestiti sono generalmente condizionati all’implementazione di riforme neoliberali di mercato, un retaggio dei tentativi di rallentare l’espansione del socialismo durante la Guerra Fredda. Quando i paesi debitori falliscono il tentativo di ripagare il debito, FMI e Banca Mondiale li costringono a implementare ulteriori riforme: privatizzazioni, tagli alle pensioni, riduzioni degli stipendi pubblici e profondi tagli ai servizi sociali.

 

Questo non solo azzoppa le economie nazionali – un fatto che lo stesso FMI ha riconosciuto nel 2016, quando i suoi ricercatori ammettevano che l’austerità aumenta le disuguaglianze e minaccia le prospettive future di sviluppo economico di un paese (l’antropologo Jason Hickel lo spiega in modo più brutale, definendo i programmi di aggiustamento strutturale come “la principale causa di povertà dai tempi del colonialismo”.)

 

Questo mina anche la democrazia. Il FMI, in tempo di crisi, diventa a tutti gli effetti un surrogato del ministero delle finanze, costringendo i governi a imporre sanzioni economiche gravose ai suoi cittadini. La crisi economica diventa così crisi della legittimazione democratica.

 

Così è andata in Grecia. Il paese gravato dal debito non è mai stato aiutato a uscire dalla sua situazione di crisi. Al contrario, la troika lo ha costretto a finanziare i salvataggi delle banche francesi e tedesche impoverendo i propri cittadini. L’accordo firmato con l’Eurogruppo è un sogno thatcheriano: ha alzato le tasse ai lavoratori, ridotto le pensioni, distrutto i sindacati e, sotto la supervisione delle istituzioni UE, ha privatizzato i beni pubblici. Ci sono volute poche settimane per riuscire a far passare le riforme.

 

La Lagarde ha simpaticamente suggerito che,  per i greci dissoluti ed evasori fiscali, era “tempo di rimborsare i loro debiti”.

 

Mario Draghi, allora governatore della Banca d’Italia, ha portato questo modello in patria. Nel 2011, al culmine della crisi dei debiti sovrani, lui e l’allora presidente della BCE, Jean-Claude Trichet, hanno mandato una lettera segreta al primo ministro Silvio Berlusconi chiedendo profonde riforme politiche, tra cui la “liberalizzazione” delle condizioni di lavoro, la privatizzazione di massa dei servizi pubblici, il taglio dei salari degli impiegati pubblici, tasse più elevate e riforma delle pensioni, tutto in cambio di un bailout. È stato suggerito che questo fosse parte di un complotto per costringere Berlusconi alle dimissioni.

 

Jeroen Dijsselbloem, come capo provvisorio dell’Eurogruppo, è diventato il principale rappresentante dei falchi fiscali europei. È stato strumentale nel costringere Grecia, Portogallo e Cipro ad adottare tagli in cambio di pacchetti di salvataggio, il tutto mentre lavorava per trasformare i Paesi Bassi in un paradiso fiscale nel proprio ruolo di ministro delle finanze olandese. Nel 2017 ha detto che i paesi colpiti dalla crisi sprecavano i loro soldi in “alcool e donne”.

 

Cosa più notevole, l’austerità è stata implementata volontariamente, senza necessità di una celata costrizione da parte delle élite economiche europee. George Osborne, che ha aumentato i tagli già fatti sotto il New Labour, è generalmente riconosciuto come l’architetto dell’austerità nel Regno Unito, una politica che anche il suo successore Conservatore, Philip Hammond, ha ammesso essere stata guidata da scelte politiche più che da necessità economiche. Nel Regno Unito i profondi tagli ai servizi pubblici hanno inaugurato livelli dickensiani di deprivazione sociale.

 

A livello di intero continente europeo, gli effetti combinati di queste politiche sono difficili da immaginare. I senzatetto sono in aumento, la percentuale di lavoratori che vivono in povertà è in crescita, i servizi sociali (un tampone fondamentale contro la disuguaglianza) sono in diminuzione. Un europeo su dieci non può permettersi di riscaldare la casa e 118 milioni sono a rischio di povertà o esclusione sociale.

 

E nelle convulsioni sistemiche di questa “zombie economy”, supportata da interventi pubblici senza precedenti che hanno favorito i ricchi, la destra reazionaria si sta alimentando dell'ansia diffusa tra la popolazione.

 

La logica dell’espropriazione

 

In un articolo del 2007, Neoliberalismo e distruzione creativa, il teorico David Harvey aveva descritto la logica del capitalismo globalizzato come una lotta di classe a senso unico: la lotta dei ricchi contro i poveri. “Se il principale successo del neoliberalismo è stato quello redistributivo anziché produttivo”, scrive, “allora ci devono essere dei modi di trasferire i beni e redistribuire la ricchezza e il reddito dalla massa della popolazione verso le classi più agiate, o dai paesi più vulnerabili a quelli più ricchi”.

 

Harvey, ovviamente, ha ragione. I suoi "quattro pilastri" della lotta di classe globale neoliberale – privatizzazione, finanziarizzazione, gestione e manipolazione delle crisi, redistribuzione dei beni pubblici verso i ricchi – si stanno manifestando sotto i nostri occhi. FMI, BCE e Banca Mondiale sono la catena logistica dell’espropriazione neoliberale. E Lagarde, Dijsselbloem, Osborne, and Draghi, sono tra i principali rappresentanti di questo sistema.

 

La struttura di potere del capitalismo finanziarizzato, quindi, è mantenuta attraverso la riproduzione dei loro ruoli, e l’esclusione degli altri attraverso la nozione artificiosa di “professionalità” o “esperienza”.

 

La nostra economia politica opera sotto l’assunzione implicita che ci sia una sfera economica troppo tecnica – o troppo noiosa – per essere soggetta a un qualsiasi livello di responsabilità democratica. Pertanto le decisioni economiche ricadono nelle mani dei tecnocrati: gente con decenni di esperienza – che sia alla Goldman Sachs o come ministri dei governi – che colludono per sviluppare regole sempre più bizantine per cose complicate come valutare il rischio di mercato, potenziare la “competitività” e sostenere la crescita economica.

 

La crescita della complessità sistemica – e, con essa, del potere dei tecnocrati – riduce lo spazio per la responsabilità democratica. Solo coloro che hanno i curricula più impressionanti, o le più profonde connessioni nella politica e negli affari, possono ambire alle posizioni di vertice e così influenzare gli esiti delle decisioni economiche.

 

Ma l’esperienza dei tecnocrati segnala qualcosa di più della competenza. Decenni di gavetta ai margini del sistema economico sono un segno di fedeltà ideologica. È poco probabile che vogliate capovolgere il sistema se avete speso quindici noiosi anni a strutturare i derivati – guadagnandovi intanto l’accesso alla classe dei ricchi.

 

A un certo livello la Lagarde è una pessima scelta per la BCE. Non è un’economista ma un avvocato diventato politico. Ha prestato servizio nel gabinetto di Jacques Chirac e poi di Nicolas Sarkozy. Ed è pregiudicata: nel 2016 è stata condannata per negligenza in un caso di frode riguardante un pagamento di 403 milioni di euro a un amico di Sarkozy. Un verdetto di colpevolezza che però non è stato seguito da una pena.

 

Ma, come Dijsselbloem, Osborne, e Draghi, la Lagarde è una neoliberale in carriera. È un agente fidato del sistema capitalista di espropriazione. In questo senso è una scelta ovvia per un centro politico il cui potere sta declinando, e il cui sistema economico – che è ancora soggetto ad attacchi e convulsioni, un decennio dopo essere stato screditato – è sotto attacco. La frode è la sua naturale conseguenza.

 

Per tirarci fuori dalle crisi globali della disuguaglianza e del tracollo climatico, le istituzioni come FMI, Banca Mondiale e BCE devono abbandonare il loro impegno verso le politiche di austerità, sfidare le tendenze della finanza internazionale all’espropriazione, e immettere nuova vita nelle istituzioni pubbliche.

 

Ma la decisione di passare a una nuova politica richiede radicalismo. E il radicalismo, a sua volta, richiede una sfida democratica all’egemonia dei tecnocrati.

 

Forse questo è il motivo per il quale i tecnocrati non possono sopportare i radicali. Provate a ricordare i parossismi di Dijsselbloem il quale, costretto a negoziare il bailout greco con Syriza e il ministro delle finanze Varoufakis, si è trovato di fronte a una politica che era tutto il contrario di quello che lui rappresentava: fresca, lungimirante, socialista, radicale. Quello che veniva offerto era una possibilità – ma esattamente quel tipo di possibilità che i nostri governanti non possono ammettere.

 

Un approccio radicale sfiderebbe la sacralità di un sistema nel quale intere vite – e intere carriere – vengono prestabilite. Gli avvocati, i banchieri di investimento, i consulenti di management, e i loro compagni di viaggio le cui carriere sono simbioticamente legate a uno status quo fallimentare. Le porte girevoli che loro attraversano diventano barriere contro il cambiamento: per i tecnocrati la democrazia stessa viene al secondo posto, dopo la loro paura di diventare obsoleti.