31/05/19

Le elezioni UE non contano molto. Ma la rabbia che hanno portato alla luce conterà

Riassumiamo nelle sue parti essenziali un articolo apparso sul Washington Post sul risultato delle elezioni europee. Secondo la giornalista, il risultato molto frammentato si presta a infinite letture, da destra e da sinistra. Tuttavia, esiste un tratto comune: i cittadini vogliono cambiare la situazione attuale, che sia con il ritorno alle nazioni sovrane o con la realizzazione di un’utopia ambientalista. Questo comune sentimento di rigetto verso lo status quo europeo influenzerà la vita politica futura dell'Europa.

 

 

 

Di Megan McArdle, 28 maggio 2019

 

 

Arrivata in Europa per assistere alle elezioni del Parlamento europeo, la giornalista del Washington Post afferma che ha trovato difficile conciliare le storie che venivano raccontate in Europa prima delle elezioni con i loro risultati.

 

In Francia, la notizia è il primo posto ottenuto dal nuovo partito di Marine Le Pen, che relega in seconda posizione En Marche del Presidente Macron. Questo segnale, unito alle continue proteste dei Gilet Gialli, non promette bene per il futuro del governo francese. Tuttavia, osserva la giornalista, il consenso della Le Pen non è molto diverso da quello registrato alle precedenti politiche, né alle precedenti europee. Globalmente, secondo la McArdle, la situazione francese non è poi molto instabile. Più confusa la situazione nel resto d'Europa.

 

Fuori dalla Francia tuttavia, i risultati dipingono una situazione più caotica. I partiti populisti hanno ottenuto grandi consensi in Italia, Polonia e Ungheria, ma sono molto lontani dal poter formare una maggioranza parlamentare a livello europeo. In Inghilterra, il nuovo partito della Brexit è risultato vincitore con la sua piattaforma basata su un’uscita non concordata dalla UE, tuttavia i partiti del “remain” hanno complessivamente ottenuto una percentuale più alta. In Germania AfD ha visto addirittura una riduzione del proprio consenso rispetto alle elezioni del 2017, mentre hanno ottenuto un grande risultato i Verdi. In Spagna, hanno guadagnato consensi addirittura i noiosi social democratici.


 

Insomma, risultati così frammentati, rendono possibili interpretazioni divergenti. In dieci anni i populisti di destra sono passati dall’essere quasi invisibili a diventare una forza sostanziale, e non sembra che la tendenza sia in diminuzione: questa potrebbe essere la lettura di chi vede loro come futuro. Ma guardando ai Verdi, che hanno aumentato i propri seggi di un terzo, si può parlare di rivincita della sinistra.

 

Un modo per interpretare queste elezioni, secondo la McArdle, è considerare che nessuno dà loro molta importanza, anche perché il parlamento europeo è un simbolo del deficit di democrazia e di responsabilità delle istituzioni europee – cosa che rende più acceso il conflitto tra sovranità nazionale e decisioni collegiali.

 

A marzo la giornalista era in Inghilterra, dove racconta che un manifestante pro-Brexit le disse “volevamo un mercato comune, e ci hanno dato un governo comune”.

 

Si potrebbe ribattere in modo convincente che un mercato comune vasto e profondo come quello UE richiede un qualche tipo di governo comune. Qualcuno deve fissare tutto, dalle regole finanziarie agli standard lavorativi comuni. Sottomettersi a un governo di questo tipo comporta una certa perdita di sovranità nazionale: il proprio voto, e quello dei tuoi vicini, vale di più se si è uno dei 4,8 milioni di irlandesi, rispetto a essere uno dei 512 milioni di persone all’interno della UE.


 

Ma dopo questa riflessione, la giornalista aggiunge che il deficit democratico del potere ceduto alla UE viene alimentato dalla struttura bizantina dell’Unione, in cui le decisioni vengono prese molto al di sopra del livello sottoposto al controllo democratico. E questo non può che essere vissuto come un peggioramento se nella propria nazione si ha una democrazia ancora funzionante.

 

Non è ancora chiaro, insomma, che cosa significhino questi risultati, sia a livello nazionale, sia di governance europea. Però, secondo la giornalista, si può concludere con grande chiarezza che gli elettori non ne possono più dello status quo. E così conclude:

 

Alcuni vogliono ritornare a un passato di cui hanno nostalgia, di forza e unità nazionale, altri spingono per un paradiso ambientalista, ma tutti sono d’accordo che, sempre di più, odiano coloro che hanno governato fin qui, le politiche che hanno perseguito e le istituzioni da cui le hanno applicate. Anche se le elezioni del Parlamento UE non contano molto, la rabbia verso lo status quo conterà eccome.


 

 

30/05/19

Juncker contro Salvini – La battaglia esistenziale della politica europea

Wolfgang Munchau commenta su EuroIntelligence l’attuale scenario europeo post-elezioni. La Commissione europea sta avviando una procedura per debito eccessivo contro l’Italia. Questa è riferita, a dire il vero, all’anno fiscale 2018, quando era in vigore la legge finanziaria del governo Gentiloni. Tuttavia, l’attuale scena politica italiana appare molto meno incline al compromesso di quanto lo fosse con il governo precedente, rendendo la situazione potenzialmente esplosiva alla luce degli equilibri in campo. Inoltre, a questa potrebbe aggiungersi a breve una procedura per deficit eccessivo.

 

 

 

Di Wolfgang Munchau, 30 maggio 2019

 

Nella battaglia in corso tra la Commissione europea e il governo italiano la posta in gioco è alta: il futuro della coalizione italiana, la credibilità delle regole fiscali UE, la solvibilità dello stato italiano e forse il futuro stesso dell’eurozona. Appare come l’ultima grande battaglia politica dell’uscente presidente di commissione Juncker.

 

Ieri Valdis Dombrovskis e Pierre Moscovici hanno inviato una lettera a Giovanni Tria, dandogli due giorni di tempo per giustificare il fatto che l’Italia non abbia ridotto il debito pubblico. Se Roma non dovesse produrre argomenti soddisfacenti - e non lo farà - rischia di esporsi al primo passaggio della procedura per deficit eccessivo.

 

La procedura si compone di diversi passaggi, di cui il primo è il report che la Commissione presenterà all’Ecofin per ulteriori procedimenti. Ciò che ne consegue è una procedura molto dettagliata, che potrebbe terminare con l’imposizione di penalità fiscali contro lo stato membro in questione. Questo finora non era mai successo. Abbiamo già sostenuto varie volte che l’eurozona si sottoporrebbe a un grave rischio, se dovesse intraprendere questa procedura.

 

Il casus belli, stavolta, non  è il deficit eccessivo, ma il debito pubblico. Nel 2018 il rapporto debito/PIL dell’Italia è aumentato dal precedente 131% al 132%. Secondo l’ultima previsione sull’Italia formulata dalla Commissione, nel 2020 si arriverebbe a un ulteriore aumento, fino al 135%. La richiesta di Matteo Salvini di realizzare una forte riduzione delle tasse sui redditi non viene ancora nemmeno presa in considerazione in questi numeri. La previsione per il deficit di bilancio, corretto per il ciclo economico, è del 3,4% nel 2020, rispetto al 2,1% di adesso. Il punto, in questo momento, è il debito, ma nel bilancio 2020 il grande nodo sarà lo sforamento del limite del deficit.

 

Qualsiasi argomento Roma utilizzi, verrà incluso nel report iniziale stilato secondo l’articolo 126 del trattato della UE. La Commissione sottoporrà quindi il report alla Commissione Economia e Finanza. Questo costituirà l’atto di inizio del procedimento.

 

Non abbiamo idea di quali argomenti Tria potrebbe avanzare per cercare di convincere la Commissione e gli altri governi dell’eurozona che la sua politica fiscale rispetta la lettera o lo spirito delle regole fiscali. Dato l’isolamento politico di Roma nella UE che conta, e dati gli organismi di sorveglianza dell’eurozona, ci aspettiamo che il procedimento faccia il suo corso. Questo, a meno che il governo italiano non abbandoni la sua attuale politica di aumento del debito e del deficit e concordi tagli alla spesa, aumenti delle tasse, o entrambe le cose.

 

Data la forza politica di Salvini, questo non accadrà in alcuno scenario concepibile. Poniamo l'attenzione su un paio di scenari simulati, circolati sui media italiani, che hanno cercato di tradurre i risultati delle elezioni europee a livello nazionale. Secondo queste simulazioni Salvini avrebbe la maggioranza con una piccola coalizione formata in alleanza con i post-fascisti di Fratelli d’Italia. Viene ipotizzato che per formare un governo non ci sia nemmeno bisogno dell’anemica Forza Italia guidata da Silvio Berlusconi.

 

Sommandosi alla controversia sul trattamento dei migranti, la radicalizzazione della politica italiana è a nostro parere il risultato diretto del tentativo dei precedenti governi di osservare le regole fiscali alla lettera, in particolare durante la presidenza di Mario Monti. È importante anche notare che la paventata procedura per deficit eccessivo è in realtà riferita all’anno fiscale 2018, per il quale la legge finanziaria fu redatta dal precedente governo, sotto la presidenza del Consiglio di Paolo Gentiloni. Questo conflitto sarebbe perciò sorto anche sotto un governo centrista.

 

L’attuale tendenza della politica italiana non favorisce il compromesso. Luigi di Maio, leader del Movimento Cinque Stelle, verrà sottoposto a un voto di fiducia online da parte dei membri del suo partito. Ma se anche la coalizione dovesse durare ancora per alcuni mesi, non riusciamo a immaginare come possa raggiungere un compromesso compatibile con i parametri di Maastricht in vista della prossima legge finanziaria. Siamo di fronte a un prevedibile sforamento di deficit significativo, ben oltre la soglia del 3%, in qualsiasi scenario. Un governo decisamente di destra sarebbe meno elastico dal punto di vista fiscale rispetto all'attuale grande coalizione, perché non si impegnerebbe a mantenere l’attuale costoso sistema di welfare voluto dal Movimento Cinque Stelle. Ciononostante, un’amministrazione guidata da Salvini sarebbe puro veleno per la UE. Più la UE preme contro il governo italiano, maggiore sarà il contraccolpo da parte dell'Italia stessa. Questo è il motivo per cui non mi unisco al sollievo per la presunta debolezza dei populisti. Penso che un trionfo di Salvini abbia un impatto sulle politiche della UE ben maggiore di 10 o 20 europarlamentari “radicalisti” in più.

 

Al tempo stesso non c’è molto che la Commissione possa fare ora. Il Trattato pone un obbligo legale alla Commissione affinché agisca in queste circostanze, e lettere simili sono già state recapitate al Belgio e a Cipro. La questione è ovviamente meno esplosiva nel caso di questi ultimi paesi, benché la missiva belga potrebbe rappresentare un fattore di complicazione nelle difficili trattative post-elettorali che stanno avendo luogo in Belgio in questo momento per formare una maggioranza di governo.

29/05/19

La lettera di Julian Assange dal carcere

Da The Canary, una lettera attribuita ad Assange e indirizzata ai suoi sostenitori: il fondatore di WikiLeaks denuncia l'enorme quantità di risorse messe in campo dai suoi nemici all'interno dell'amministrazione americana per metterlo a tacere, e invita i suoi sostenitori ad aiutarlo nell'imminente processo che lo vede imputato di 17 capi d'accusa collegati all'Espionage Act del 1917, in quello che viene definito il più grande attacco alla libertà di stampa dai tempi della guerra in Vietnam. Una battaglia che tutti dovrebbero sostenere, se vogliamo continuare a chiedere conto ai potenti dei loro misfatti.

 

 

di John McEvoy, 24 maggio 2019

 

 

The Canary ha avuto accesso esclusivo a una lettera scritta a mano, presumibilmente di Julian Assange, nella prigione di Belmarsh. La lettera, datata 13 maggio 2019, rivela le condizioni di prigionia di Assange e le sue difficoltà nel costruire la propria difesa. È anche una critica ai tentativi di Washington di soffocare la libertà di stampa, ed è una chiamata all'azione per i suoi sostenitori.

 

17 nuovi capi d'imputazione

 

Il governo statunitense oggi ha incriminato Assange di 17 nuovi capi d'imputazione riferibili al Espionage Act. Daniel Ellsberg, l'informatore che nel 1971 rilasciò al New York Times e ad altri giornali i Pentagon Papers sulla guerra del Vietnam, ha dichiarato al proposito a Democracy Now!:

 

"Non c'era stato un attacco così sostanziale alla libertà di stampa... dal 1971, quando ci fu il mio caso dei Pentagon Papers ".

 

Il direttore esecutivo del Reporters Committee for Freedom of the Press (RCFP) [Comitato dei giornalisti sulla libertà di stampa, ndt] Bruce Brown, nel frattempo, ha dichiarato:

 

"Ogni uso governativo dell'Espionage Act per criminalizzare la ricezione e la pubblicazione di informazioni classificate pone una terribile minaccia ai giornalisti che cercano di pubblicare tali informazioni nell'interesse pubblico, indipendentemente dall'affermazione del Dipartimento di Giustizia secondo cui Assange non è un giornalista."

 

Assange attualmente sta scontando 50 settimane di prigionia a Belmarsh per violazione della cauzione - una sentenza che WikLeaks descrive come "scioccante e vendicativa". Anche il gruppo di lavoro dell'ONU sulla detenzione arbitraria ha dichiarato che è "una sentenza sproporzionata" per quella che viene descritta come una "violazione di minore entità".

 

La lettera

 

La lettera attribuita ad Assange è stata mandata al giornalista indipendente Gordon Dimmack, che è uno dei tanti ad aver scritto ad Assange nelle ultime settimane. Dimmack spiega di aver avuto una certa riluttanza a condividere la lettera prima delle ultime imputazioni del governo contro Assange.

 

Altri sostenitori di Assange hanno recentemente confermato che le loro lettere gli sono state recapitate. Ciononostante è difficile autenticare completamente la lettera, data l'attuale situazione di Assange, detenuto in una prigione di massima sicurezza. The Canary è stata informata che Dimmack non è l'unica persona ad aver ricevuto una risposta, e che la caligrafia sembra essere quella di Assange.

 

"La verità, in definitiva, è tutto ciò che abbiamo"

 

La lettera - che è stata inviata dall'ufficio postale di Mount Pleasant a Londra - è stata scritta a mano su fogli a righe. E dopo la descrizione delle condizioni in carcere, rivolge un appello:

 

"L'altro lato? Una superpotenza che si è preparata per 9 anni, con centinaia di persone e milioni di dollari spesi su questo caso. Sono senza difese e conto su di te e altre brave persone per salvarmi la vita. Sono integro, anche se letteralmente circondato da assassini, ma i giorni in cui potevo leggere, parlare e organizzarmi per difendere me stesso, i miei ideali e il mio popolo, sono finiti, finché non sarò di nuovo libero! Tutti gli altri devono sostituirmi. Il governo statunitense, o piuttosto, quei deprecabili elementi al suo interno che odiano la verità, la libertà e la giustizia, vogliono barare per portarmi all'estradizione e alla morte, piuttosto che permettere al pubblico di ascoltare la verità, per la quale ho vinto il più alto riconoscimento del giornalismo e sono stato nominato per 7 volte al Nobel per la Pace. La verità, in definitiva, è tutto ciò che abbiamo."

 

Qui sotto la lettera originale.

 



 

"Tutti gli altri devono sostituirmi"

 

L'accanimento contro Assange non dovrebbe allarmare soltanto i difensori della libertà di stampa. Deve preoccupare sicuramente tutti. Perché il nostro diritto all'informazione è in pericolo. E se vogliamo continuare a chiedere conto al potere, dobbiamo tutti difendere questo diritto.

28/05/19

Sapir - Elezioni europee: le rovine dopo la battaglia

Lucido e dettagliato come sempre, Jacques Sapir analizza i risultati delle elezioni europee in Francia. Per molti aspetti una lezione utile anche alle forze politiche italiane: mostra per esempio l'irrilevanza cui si sono condannate le diverse, microscopiche liste sovraniste, divise tra loro e ferme a percentuali insignificanti, utili solo alla dispersione del voto. Il crollo di La France Insoumise al 6,5% rappresenta inoltre il prezzo da pagare  per una linea politica confusa, in cui ci si è voluti separare dai sovranisti di sinistra e ora tentata di condannarsi definitivamente all'ininfluenza se, a fronte della buona affermazione del RN, cederà a quell'antifascismo retorico e farlocco che conosciamo bene, in tutta la sua vacuità, anche in Italia. Nel complesso, la vera forza di Emmanuel Macron, punito dagli elettori, sta nella dispersione e frammentazione delle opposizioni.

 

 

di Jacques Sapir, 27 maggio 2019

 

 

Successo non pienissimo per il Rassemblement National, sconfitta attenuata per En Marche, una mezza sorpresa per gli ambientalisti e opposizione per il resto atomizzata, sia a destra che a sinistra: ecco il panorama politico che sta emergendo dopo le elezioni europee. Se gli avversari di Macron vogliono contare qualcosa, dovranno avviare cambiamenti radicali.

 

Le elezioni europee in Francia si sono basate principalmente su temi francesi. Questa è la prima lezione che se ne può trarre: erano un voto sul Presidente.

 

Questo spiega perché il numero di astensionisti è stato molto inferiore rispetto al 2014. Sebbene le classi lavoratrici, e anche i giovani, si siano ampiamente astenuti, il tasso di partecipazione è aumentato di quasi otto punti percentuali rispetto al livello eccezionalmente basso del 2014.

 

Il fallimento di Emmanuel Macron


 

Queste elezioni hanno visto il relativo successo del Rassemblement National (RN), che batte la lista La République En Marche (LREM) - Mouvement Democrate (MoDem)- Renaissance, guidata da Nathalie Loiseau. Il relativo insuccesso di questa lista, nonostante il sostegno attivo ricevuto da parte del presidente, è degno di nota. Emmanuel Macron aveva appoggiato oltre ogni decenza, visto il suo ruolo, la lista LREM. Questo sostegno, per molti aspetti scandaloso, non ne ha evitato il fallimento. È quindi una sconfitta personale e inciderà sulla capacità del presidente di rianimare la sua politica. Emmanuel Macron ora è costretto in una posizione difensiva e un po' più screditato, sia a livello nazionale che a livello europeo.

 

Il successo della lista RN, guidata da Jordan Bardella, è innegabile, ma non si tratta affatto di un trionfo. L'RN fatica a riconquistare la percentuale del 24% ottenuta nel 2014.

 

L'insuccesso della lista Loiseau è comunque relativo, per due motivi: il primo è la percentuale ottenuta, superiore al 22% della lista LREM. Quindi non si tratta di un crollo.

 

La seconda ragione è il vero collasso, invece, del partito Les Républicains (LR), guidato da François-Xavier Bellamy. Con poco più dell'8% e il quarto posto, la lista LR subisce una vera e propria disfatta, che può solo mettere in discussione la direzione esercitata da Laurent Wauquiez. Una sconfitta che può essere spiegata dalla polarizzazione tra RN e LREM che si è imposta nelle ultime settimane della campagna.

 

Un certo numero di elettori di LR sono passati a uno di questi due partiti, e probabilmente più verso LREM che su RN. Questo non è sorprendente. Emmanuel Macron è diventato, a causa del movimento dei gilet gialli, il simbolo del partito dell'ordine. È quindi naturale che una parte dell'elettorato della destra legittimista, come una parte degli elettori di François Fillon nel primo turno della presidenziale 2017, si sia ritrovato tra gli elettori che hanno votato per la lista LREM.

 

Le conseguenze di questa situazione sono contraddittorie. Emmanuel Macron ha sicuramente limitato i danni e può cantare vittoria a breve termine. Ma il suo potenziale serbatoio di voti si è ridotto e ha esaurito le sue riserve. Ciò avrà conseguenze sulle prossime elezioni amministrative del 2020, perché i Repubblicani possono sperare di recuperare solo schierandosi apertamente all'opposizione, contro Emmanuel Macron. Liste unitarie ora sono meno probabili a livello locale. Tuttavia, è attraverso queste elezioni che la capacità di LREM di mettere radici a livello locale sarà persa o vinta, il che è la condizione della sua sopravvivenza e quindi della capacità di Emmanuel Macron di ripresentarsi nel 2022.

 

Il successo di EELV, il fallimento di France Insoumise


 

Il successo di Europe Écologie Les Verts (EELV) è indiscutibile. La lista dell'EELV arriva terza, con oltre il 12% dei voti. Ma bisogna ricordare che le elezioni europee sono sempre state favorevoli alle formazioni ecologiste. Le percentuali di domenica sera non sono il risultato più alto mai raggiunto dagli ambientalisti. Inoltre, questo risultato è collegato all'altra sorpresa di queste elezioni: il crollo, non c'è altra parola, della lista di La France Insoumise (LFI), guidata da Manon Aubry, così come il cattivo risultato registrato dalla lista del Partito Comunista Francese (PCF), guidata da Yan Brossat, con il 2,4% circa.

 

Per La France Insoumise il problema è più grave. Con poco più del 6,5%, alla pari con la lista di PS - Place Publique, LFI registra una sconfitta che è un vero disastro. Le cause sono note. Proprio come in Spagna, dove Podemos paga a caro prezzo le sue esitazioni e la sua politica confusa, LFI paga fino all'ultimo spicciolo il suo cambio di linea, che si è verificato a partire dalla fine della primavera 2018, e che ha provocato manovre interne indegne e l'esclusione o l'abbandono volontario dei cosiddetti "sovranisti di sinistra".

 

L'abbandono della linea di "assemblea del popolo", che ha portato Jean-Luc Mélenchon a quasi il 20% nel primo turno delle elezioni presidenziali del 2017, è la causa di questo collasso. Lo testimoniano le dichiarazioni di Jean-Luc Mélenchon, rilasciate nella serata di domenica 26: nelle frasi esitanti, nel vocabolario che si voleva gollista, appariva l'estrema confusione di quello che è il leader di fatto di LFI. La France Insoumise non potrà risparmiarsi una profonda autocritica, che implichi un raddrizzamento della linea politica - che dovrebbe tornare alle posizioni della primavera 2017 - e una istituzionalizzazione democratica, con strutture di funzionamento chiare e trasparenti.

 

Il problema principale è quello della linea politica. Alcuni, che sognano solo di riportare LFI sulle sterili posizioni di una unione delle sinistre, lo hanno capito bene. Abbiamo potuto vederlo durante la serata post-elettorale. Ma anche la questione della democrazia interna e della trasparenza ha giocato un ruolo in questa sconfitta. LFI non ha certo mostrato il suo volto migliore negli ultimi nove mesi. C'è tuttavia da temere che la vittoria del RN spinga alcuni dei quadri in una logica di farlocco antifascismo da operetta, mentre la logica dovrebbe essere quella di sfidare la presa di RN sulle masse rispondendo alle loro aspirazioni e rilanciando il tema della sovranità.

 

Sovranisti, il prezzo della divisione


 

Bisogna analizzare inoltre il fallimento delle diverse formazioni che rivendicano anche la sovranità. Pagano tutti la mancanza di maturità politica. Il partito di Nicolas Dupont-Aignan, Debout la France (DLF), a fronte della drammatica caduta della lista LR, a rigor di logica avrebbe dovuto progredire. E invece ha fatto marcia indietro rispetto al risultato del primo turno delle elezioni presidenziali. Un'analisi seria della strategia, ma anche dello stile di leadership, è essenziale come condizione per la sopravvivenza stessa di questo partito.

 

Questo vale anche per l'Union Populaire Républicaine (UPR) e Les Patriotes. L'UPR supera di poco l'1% e Les Patriotes si è fermata allo 0,7%. Eppure la loro esposizione mediatica è stata superiore a quella del partito animalista, arrivato circa al 2,4%. Siamo ben oltre il momento in cui bisogna smetterla con le esclusioni reciproche, con il comportamento settario degli uni verso gli altri. L'esistenza di tanti micropartiti non è giustificata e li condanna a vegetare, come avviene oggi. Si pone la questione di una fusione tra DLF, UPR e Les Patriotes, tanto più importante quanto è evidente il fallimento della strategia di DLF, che aveva moderato le sue posizioni sull'UE nella speranza di strappare qualche voto ai repubblicani. La legittimità dell'esistenza di questi tre partiti è posta direttamente in questione, dopo le elezioni europee del 26 maggio. E quando si rivendicano gollismo e sovranità, si dovrebbe dare una certa importanza alla questione della legittimità.

 

Un'opposizione in briciole?


 

Resta vero che, nonostante la RN, l'opposizione a Emmanuel Macron è a pezzi. La sua forza deriva dalla debolezza dei suoi avversari. Possono solo sperare di rifondare la loro legittimità e costruire le condizioni della loro unità attraverso i comitati per raccogliere i 4,7 milioni di voti necessari per il referendum sulla privatizzazione dell'Aéroports de Paris. L'impegno per questa campagna, senza alcun calcolo di bottega e senza esclusioni, sarà quindi nelle prossime settimane il test per capire se un'opposizione a Emmanuel Macron è in grado di ricostituirsi, ripartire e lavorare insieme, chiave per il suo successo.

 

 

* Le opinioni espresse in questo contenuto sono di esclusiva responsabilità dell'autore.

24/05/19

L’establishment UE sarà sonoramente bocciato alle elezioni

Come ci ricorda l'editoriale di Strategic Culture, il successo dei partiti cosiddetti populisti non è dovuto a una congiura, a un nemico esterno o alla diffusione di notizie false. L’establishment europeo nega la più semplice delle spiegazioni: si tratta della bocciatura delle sue politiche da parte dei cittadini. L’UE e gli eurocrati che l’hanno governata hanno conseguito una lunga serie di fallimenti politici ed economici. Se l’élite si ostinerà ancora una volta a negare la realtà, la ribellione del popolo non potrà che aumentare e portare ulteriore disgregazione.

 

 

 

Editoriale, 24 maggio 2019

 

 

Durante questo fine settimana, i 28 stati membri dell’Unione Europea andranno alle urne, in un impressionante esercizio di democrazia. Le elezioni si svolgeranno durante quattro giorni e termineranno domenica. I risultati completi non saranno disponibili fino alla prossima settimana. Ma è già ampiamente previsto che i partiti cosiddetti populisti otterranno successi significativi in tutta l’Unione e avranno un maggior numero dei 751 posti del Parlamento Europeo.

 

Un’evidente anomalia è la partecipazione del Regno Unito a queste elezioni, a dispetto del fatto che, in teoria, avrebbe dovuto lasciare l'unione europea a marzo. Le discussioni sulla Brexit si sono protratte senza un risultato chiaro, il che significa che il Regno Unito è obbligato a partecipare alla elezioni parlamentari UE come gli altri 27 stati membri. I parlamentari europei eletti oltremanica potrebbero di fatto non occupare i loro posti a Bruxelles e Strasburgo, perché il processo della Brexit, una volta completato – quando sarà completato – renderà i loro posti eccedenti.

 

Un’altra anomalia è che le elezioni del 2019 sono state oscurate da affermazioni politiche e dei media, all’avvicinarsi della data del voto, secondo cui la Russia avrebbe lanciato una “campagna di interferenza” per convincere gli elettori a votare i partiti politici che avversano lo status quo UE.

 

Tuttavia, alla vigilia del voto, i media occidentali e diversi esperti di sicurezza UE hanno dovuto ammettere che non c'è stata alcuna prova della prevista “campagna di influenza del Cremlino”.

 

Questa ipotesi di una campagna russa nella UE riecheggia la vecchia e screditata favoletta applicata alle elezioni presidenziali USA del 2016. Non è mai stata prodotta alcuna prova che desse credibilità a questo scenario.

 

La Russia ha sempre negato con forza di avere tentato un’influenza di qualche tipo sugli elettori occidentali. Ma la grande anomalia è che i media occidentali e le agenzie di sicurezza UE hanno dovuto ammettere che non esiste alcuna prova che la Russia abbia messo nel mirino le elezioni UE con una campagna di interferenza sui media.

 

L’aumento dei movimenti politici nazionalisti, anti-immigrazione, euroscettici, anti-austerità, pacifisti, anti-capitalisti in tutta Europa è dovuto semplicemente a questo: un’ondata di consenso verso i partiti anti-establishment. La marea di proteste tra i cittadini europei contro l’establishment neoliberista non ha nulla a che vedere con la presunta “interferenza russa” e molto a che fare con il deficit democratico strutturale dell’Unione dei 28 membri.

 

Tentare di incolpare la Russia di avere “influenzato negativamente” i cittadini UE e avere foraggiato “partiti anti-UE”, come si è tentato di fare con lo scandalo governativo in Austria questa settimana, è un atto disperato di negazione della realtà politica da parte dell’establishment UE sui propri tremendi fallimenti politici ed economici. Questa negazione ufficiale della realtà e il tentativo di fare di Mosca un capro espiatorio sta solo alimentando ulteriormente le proteste popolari e l’instabilità interna della UE.

 

Il presidente francese Emmanuel Macron questa settimana ha incolpato come di consueto “la collusione tra i partiti nazionalisti e gli interessi stranieri che minacciano l’esistenza dell’Europa”. Le visioni elitiste di Macron sono sintomatiche del malessere dell’establishment, in realtà il nocciolo del problema della coesione e della autorevolezza della UE, che vanno collassando.

 

Il referendum inglese sulla Brexit, tenuto nel 2016, è stato un campanello di allarme sul dissenso popolare in tutta la UE nei confronti di un establishment di Bruxelles che viene considerato anti-democratico, ostaggio della grande finanza e dalla austerità neo-liberista capitalista e prono a un consenso guerrafondaio guidato da Washington e orientato verso guerre illegittime in terre straniere e all’espansionismo della NATO.

 

Lo status-quo UE ha portato a enormi problemi di immigrazione legati all’appoggio al bellicismo illegittimo USA in Medio Oriente e in Nord Africa. I cittadini europei si sono resi conto di questi problemi e si oppongono alla degenerazione dell’Europa in un vassallo dell’imperialismo di Washington. Il dissenso è inoltre evidente nella contrarietà di molti cittadini europei verso l'adesione UE alle sanzioni e all’ostilità verso la Russia imposte degli USA. Questo non significa che la Russia stia in qualche modo influenzando i movimenti di opposizione. È semplicemente un fatto che i cittadini europei si stanno rivoltando contro uno status quo anti-democratico che è troppo frequentemente servile verso l’asse transatlantico che non rispecchia i suoi fondamentali interessi democratici, così come molte altre politiche a cui lo status quo UE aderisce supinamente.

 

Emmanuel Macron e altre figure dell’establishment europeo possono anche pompare la fandonia che l’Unione sia sotto attacco da parte dei “partiti nazionalisti di estrema destra collusi con il Cremlino”.

 

Ma la realtà è che l’UE è semplicemente considerata da un numero crescente dei suoi 512 milioni di cittadini come un monolite che non risponde ai bisogni democratici. Ecco perché questi si ribellano contro lo status quo, votando per una serie di partiti anti-establishment. Se la UE non può riconoscere l’impulso verso la democrazia che arriva dal suo interno, allora il suo futuro prevede altri eventi disgreganti, come il movimento della Brexit fa presagire. Dare la colpa a “nemici esterni” come la Russia dei propri problemi politici interni si sta dimostrando una disperata negazione della realtà.

 

Questa settimana i popoli si esprimeranno. L’establishment UE farebbe meglio ad ascoltare.

 

 

FT e Telegraph - Cosa c'è in gioco nelle elezioni europee e la rotta dello stato profondo UE

Sul tema delle imminenti elezioni per il Parlamento europeo, alcuni spunti di riflessione ci vengono dagli articoli pubblicati da due importanti quotidiani europei: "Cosa c'è in gioco nelle elezioni europee 2019" del Financial Times e "Nessuna elezione europea potrà mai deviare di un millimetro dalla sua rigida rotta lo stato profondo dell'UE"  del Telegraph. Di entrambi  riportiamo ampi stralci.

 

Secondo il Financial Times, il risultato di queste elezioni, dalle quali dovrebbe emergere una nuova e forte ondata euroscettica e nazionalista, anche se ancora minoritaria, contribuirà a dare forma all'agenda politica di Bruxelles per i prossimi cinque anni, aprendo la strada a un cambiamento delle politiche europee.

 

A questo proposito, è  risaputo che il Parlamento europeo non dispone di grandi poteri, in quanto condivide l'approvazione di regolamenti e direttive con il Consiglio dei Ministri, senza nemmeno avere l'iniziativa legislativa, di cui la Commissione detiene il monopolio. Oltre a questo, il Parlamento europeo ratifica i trattati e ha il potere di approvare la nomina del Presidente della Commissione e incidere sulla nomina dei vari Commissari.

 

In che modo dunque le elezioni del 2019 cambieranno il corso dell'Unione? Così risponde il FT:

 

"I deputati sono eletti a livello nazionale e in seguito vengono assegnati ai diversi gruppi del Parlamento europeo. I due principali gruppi pro-UE, il PPE e i Socialisti, rischiano di perdere terreno. Per la prima volta potrebbero perdere la loro maggioranza congiunta. Potrebbero non arrivare alla maggioranza nemmeno con l'appoggio dei Liberali. Il Parlamento europeo sta diventando più frammentato, come la politica nazionale in tutta Europa. I Verdi potrebbero acquistare potere di influenza grazie a un aumento dei consensi in Germania, ma lo stesso potrebbero fare i nazionalisti e gli euroscettici. 

 

Si prevede che i nazionalisti e gli euroscettici conquistino peso, in particolare in Italia, in Spagna e, in misura minore, in Germania. Già nelle ultime elezioni del 2014 in Francia, Polonia, Ungheria e Regno Unito o sono arrivati primi o ci si sono avvicinati molto, e probabilmente riaccadrà. Gli euroscettici di sinistra e di destra potrebbero aggiudicarsi un terzo dei seggi, rafforzati dalla temporanea presenza degli eurodeputati britannici pro-Brexit.

 

Al di fuori del contingente britannico pro Brexit, nessun partito euroscettico sostiene apertamente l'uscita dall'UE. Vogliono invece portare l'UE in una direzione più conservatrice, con meno interventi da Bruxelles. Ci sono grandi differenze tra i vari partiti nazionalisti. Ma insieme potrebbero ostacolare l'agenda del Parlamento e quindi dell'UE. I nazionalisti possono assumere il controllo di alcune Commissioni e formare minoranze di blocco contrastando l'azione dell'UE in alcune aree, per esempio le procedure di infrazione nei confronti degli Stati in caso di violazione delle regole. Se i partiti mainstream sono divisi, una minoranza nazionalista potrebbe spingere il Parlamento a essere più duro sulla migrazione o sui trattati di liberalizzazione del commercio."

 

L'altro aspetto non secondario, anzi forse di prioritaria importanza, sottolineato dal Financial Times è che i risultati delle elezioni per il Parlamento europeo potrebbero anche avere importanti ripercussioni nella politica interna di alcuni paesi, come ad esempio l'Italia, dove, a prescindere da quanto possa essere realistica la previsione di elezioni anticipate formulata dal quotidiano, certamente una forte affermazione della Lega potrebbe modificare gli equilibri di potere all'interno della compagine di governo, rinforzando le posizioni più euroscettiche che erano nel programma della Lega prima del cosiddetto contratto di governo con i 5 Stelle, stipulato come alleato di minoranza col 17%.

 

"La Gran Bretagna non è l'unico paese in cui potrebbero esserci grandi ripercussioni politiche interne. Si prevede che la Lega di Matteo Salvini riporterà una decisa vittoria in Italia, superando il Movimento Cinque Stelle, suo partner nella coalizione di governo. La vittoria potrebbe incoraggiarlo a uscire dalla coalizione e provocare le elezioni anticipate, per cementare il suo vantaggio politico. Un pessimo risultato per i socialdemocratici in Germania potrebbe accelerare la fine del governo della grande coalizione di Angela Merkel. La sconfitta per il partito di governo Law and Justice in Polonia potrebbe danneggiare le sue possibilità nelle prossime elezioni politiche che si terranno in autunno. Emmanuel Macron sta affrontando il suo primo test elettorale da quando è diventato Presidente, due anni fa, mentre il partito Popolare di centro-destra in Spagna potrebbe entrare in crisi."

 

L'altro articolo di Ambrose Evans Pritchard sul Telegraph, "Nessuna elezione europea potrà mai deviare di un millimetro dalla sua rigida rotta lo stato profondo dell'UE", pone seri argomenti su cui riflettere. Il giornalista infatti afferma che se anche l'elezione al Parlamento europeo di un nutrito gruppo di euroscettici può senz'altro rappresentare una scossa per la politica interna della Francia o dell'Italia, non cambierà assolutamente nulla nella "governance" dell'UE. Lo stesso Steve Bannon, questa settimana, ha parlato delle elezioni del Parlamento europeo qualificandole come "una delle elezioni più importanti di sempre", e tuttavia, secondo Pritchard, una volta che il clamore si sarà calmato l'inesorabile macchina della UE riprenderà il suo ferreo controllo.

 

Seguiamo il suo ragionamento.

 

Il gruppo degli euro-ribelli non ce la farà mai a capire dove si trovano gli interruttori della luce dell'Espace Leopold a Bruxelles. Non padroneggiano le procedure e non sono capaci di stringere d'assedio le potenti commissioni che "co-decidono" —vale a dire, possono porre il veto o riscrivere – il 60 per cento delle nuove normative che calano dall'alto sui Parlamenti nazionali. La loro vocazione è la critica.

 

Le questioni quotidiane vengono lasciate alla squadra tedesca e ai suoi satelliti. Con questo non voglio portare avanti un argomento anti-tedesco, ma semplicemente affermare un fatto della vita europea. I deputati tedeschi sono legislatori di carriera. L'elezione è il primo passo di un incarico permanente.

 

Sono promossi attraverso un sistema di liste di partito per anzianità e diligenza. Quando si arriva al dunque, operano come una sola coorte, superando le differenze che separano socialdemocratici e democristiani. La Grande Coalizione di oggi a Berlino è già stata a lungo operativa a Strasburgo.

 

Questa professionalità è il motivo per cui i due gruppi principali sono entrambi gestiti dai tedeschi. Manfred Weber guida il blocco del centro-destra (EEP) e Udo Bullmann guida i socialisti. Klaus Welle gestisce la sala macchine come segretario generale del parlamento, mentre il suo connazionale Martin Selmayr opera in tandem come capo dell'apparato della Commissione. I punti nodali sono nelle competenti mani tedesche.

 

Quello che mi ha colpito durante la crisi bancaria dell'eurozona — se la si chiama "crisi di debito" ci si arrende alla falsa narrazione dei creditori — è come Berlino abbia silenziosamento assunto il controllo di ogni organismo che contava. Klaus Regling ha guidato i fondi di salvataggio (EFSF e ESM). Un diligente esecutore agli ordini di Wolfgang Schauble è stato messo alla guida dell'Eurogruppo."

 

Per mostrare questa inesorabile resilienza dello stato profondo della UE, Pritchard ripercorre l'episodio da molti dimenticato della Convenzione di Laeken. All'inizio del secolo, ricorda Pritchard,  si era diffusa un'ondata di sfiducia e di protesta nei confronti delle istituzioni europee:  i danesi e gli svedesi avevano votato no all'euro, e gli irlandesi con referendum avevano rifiutato la ratifica al trattato di Nizza, i vertici europei erano il bersaglio di veementi proteste e iI vertice di Laeken  si era svolto dietro una fortezza di filo spinato:

 

"In quel momento di ricerca dell'anima i leader europei flirtarono brevemente con la ritirata. I popoli europei ormai vedevano l'UE come una "minaccia alla loro identità" - leggi la Dichiarazione di Laeken - e non c'era alcun desiderio di "un superstato europeo e di istituzioni europee che si insinuassero in ogni aspetto della vita".

 

I leader promisero di abbandonare la brutta abitudine di ricorrere ai trattati. Avrebbero restituito il potere agli stati membri. Una Convenzione, ispirata alla Convenzione di Filadelfia del 1787 e composta in parte da deputati dei Parlamenti nazionali, avrebbe scritto una costituzione europea per ripristinare la "legittimità democratica".

 

Menziono questo episodio dimenticato perché quanto è successo rappresenta una lezione. Gli addetti ai lavori hanno dirottato il processo. I propositi dissidenti dei sostenitori degli stati nazione furono annullati nei gruppi di lavoro. Il potere era affidato alla regale presidenza di Valéry Giscard d'Estaing. Egli impiegò gli avvocati della Commissione per redigere il documento. Le volpi hanno preso il controllo del pollaio.

 

"Era un gruppo auto-selezionato dell'élite politica europea", dichiarò Gisela Stuart, l'inviato di Tony Blair al praesidium. Quella dura esperienza l'ha resa un Brexiteer.

 

Come temeva, il testo finale proponeva un Presidente dell'Unione europea, un ministro degli Esteri, un dipartimento per la giustizia e soprattutto un tribunale supremo europeo competente per la prima volta su tutti i settori della politica (vale a dire, diritto dell'Unione e diritto comunitario, con la carta dei diritti che apre le porte a tutto). Praticamente l'impalcatura di un aspirante stato. Laeken era stato capovolto." 

 

Anche se la costituzione fu respinta dai referendum francesi e olandesi, il processo non si fermò, perché come disse Giscard d'Estaing a Le Monde nel 2007: "L'opinione pubblica sarà guidata, senza rendersene conto, ad adottare le proposte che non osiamo presentare direttamente". Infatti la Merkel ripropose lo stesso testo della costituzione europea come trattato di Lisbona e il trattato fu ratificato senza referendum grazie a un golpe dell'esecutivo e con la complicità delle élite filo-europee nei parlamenti nazionali. Solo agli irlandesi fu necessariamente concesso un voto popolare — perché previsto dalla loro Costituzione —e avendo bocciato il trattato furono poi costretti a votarlo di nuovo con la pistola alla tempia del crollo post-Lehman del 2009.

 

Questa volta sarà diverso? si chiede Pritchard.

 

Pritchard è convinto della posizione autenticamente euroscettica di Salvini, il quale, dice "ha compreso la sfida e sa benissimo che per rompere la morsa della Curia politica dell'UE l'intera sovrastruttura gramsciana deve essere sovvertita"  E tuttavia si dice purtroppo  abbastanza scettico sulla possibilità di vincere questa guerra di trincea europea, che dura da quasi trent'anni, e pensa che nulla di sostanziale cambierà fino a quando non sarà la stessa Germania a perdere fiducia nel progetto dell'euro, magari a causa del debito italiano che alla fine costringerà la Bundesbank a tagliare il sostegno Target2 alla Banca d'Italia.

 

Su Salvini, afferma che lui e Orban non si possono più considerare degli sprovveduti outsider, e tuttavia dice che "l'uomo forte della Lega ha troppa fretta. La lunga e lenta marcia attraverso le istituzioni non fa per lui."

 

Sicuramente Pritchard non è un ingenuo e ha capito perfettamente come sia difficile muoversi all'interno delle istituzioni di uno stato profondo, sia questo uno stato nazionale occupato da amministratori pubblici e dirigenti fedeli al vecchio regime, sia e a maggior ragione quando si tratta delle imperscrutabili entità europee.

 

A tutto questo si possono però aggiungere alcune osservazioni.

 

La prima è che ora ci troviamo in un momento storico in cui torna possibile riprendere la guerra di trincea e finalmente imboccare l'uscita da questo meccanismo mostruoso. Occorre in primo luogo dare una scossa ai governi nazionali dei singoli paesi, e del nostro in particolare, perché possa meglio difendere e portare avanti con decisione l'interesse del popolo.  La guerra dentro la UE non sarà facile né breve, ma se Pritchard potrebbe anche avere ragione  nel dire che Salvini non ha la vocazione alla lunga marcia dentro le istituzioni,  è pur vero che comunque ha avuto la capacità di circondarsi dei migliori intellettuali di cui oggi il paese dispone, di una straordinaria competenza e capaci di agire con intelligente prudenza ed efficacia. Non facciamo loro mancare il nostro appoggio. Se lo stato profondo UE non si smuoverà, e molto probabilmente non lo farà, saranno forti abbastanza da porre argini e guidarci verso una via d'uscita. Il momento è adesso, dobbiamo sfruttarne ora le potenzialità, perché queste condizioni non si ripresenteranno, o comunque non certo prima di aver dovuto attraversare un lunghissimo e duro inverno, ancora peggiore di quello in cui ci troviamo.

 

 

23/05/19

Aumento dell'età pensionabile e disoccupazione giovanile: una generazione perduta

Trattenere i lavoratori anziani sul posto di lavoro provoca davvero un aumento della disoccupazione dei giovani, riducendone le assunzioni: e questo è stato anche l'effetto della legge Monti-Fornero, che ha causato 36.000 dei 160.000 posti di lavoro persi nel relativo periodo. Lo dimostra questa ricerca pubblicata su Vox, portale del CEPR - Center of Economic Policy Research, a prima firma di uno studioso prestigioso come Tito Boeri. Non è dunque peregrina l'affermazione secondo cui l'abolizione della legge Fornero favorisce le possibilità dei nostri figli di trovare un impiego. Ma ormai il danno è fatto: come ricorda l'articolo, il Portogallo nel 2007, la Spagna nel 2011, la Grecia in varie fasi tra il 2010 e il 2016 e l'Italia nel 2011 hanno tutti aumentato l'età pensionabile durante la recessione. L'aumento della disoccupazione giovanile in Europa minaccia di creare una "generazione perduta". Di fronte a questi dati sconvolgenti, la propaganda che imperversa in questi giorni sulle magnifiche sorti e progressive donateci dall'Unione europea diventa ancora più insopportabile.

 

 

 

di Tito Boeri, Pietro Garibaldi, Espen Moen, 8 settembre 2016

 

 

 

 

Il forte aumento della disoccupazione giovanile nella zona euro, a partire  dal 2008, minaccia di creare una "generazione perduta". Questo articolo mostra dati che sostengono  che l'aumento è, in parte, una conseguenza involontaria delle riforme pensionistiche nell'Europa del sud, che hanno trattenuto sul posto di lavoro i lavoratori più anziani. In futuro, riforme che creino età pensionistiche flessibili legate all'ammontare variabile della pensione potrebbero minimizzarne l'impatto sulla disoccupazione giovanile senza aumentare il deficit pubblico legato alle pensioni sul lungo periodo.

 

La maggior parte dei paesi europei ha registrato un drastico aumento della disoccupazione giovanile dall'inizio della Grande recessione, nell'aprile del 2008. Per l'Eurozona nel suo insieme, l'occupazione nelle persone di età compresa tra i 15 e i 24 anni è diminuita di quasi il 17% in sei anni. Nell'Europa del sud, il calo minore è stato del 34% in Italia, quello maggiore del 57% in Spagna. Altre fasce di età hanno sofferto meno: per l'Eurozona nel suo complesso e per tutte le fasce di età più anziane in tutti i paesi il calo è stato del 3%: tra un terzo e un sesto del calo occupazionale per i lavoratori giovani.

 

Nell'area dell'euro nel suo insieme, l'occupazione per le persone nella fascia di età 55-65 è aumentata di circa il 10%. I fattori demografici non spiegano questi cambiamenti. Sia i livelli occupazionali che i tassi di occupazione si sono mossi in direzioni opposte per i lavoratori giovani e senior (Figura 1).

 

Il forte aumento della disoccupazione giovanile era stato previsto da una ricerca sul dualismo contrattuale (Saint-Paul 1993, Boeri 2011). Questa prevede che la disoccupazione giovanile reagirà in modo più accentuato alle fluttuazioni cicliche nei paesi caratterizzati da una forte protezione dell'occupazione nei contratti a tempo indeterminato unita alla possibilità di "licenziare a volontà" per i lavoratori a tempo determinato (Boeri et al 2015). Boeri e Garibaldi (2007) avevano previsto che il calo immediato della disoccupazione giovanile dopo le riforme del mercato del lavoro a due livelli, anche in scenari di crescita lenta, sarebbe stato seguito da disoccupazione giovanile al deteriorarsi delle condizioni macroeconomiche. La ricerca sul dualismo contrattuale, tuttavia, non spiega perché i tassi di occupazione abbiano avuto un andamento divergente tra giovani e anziani.

 

Figura 1 . Tasso di occupazione per lavoratori giovani e anziani nell'UE15



 

 

Il Portogallo nel 2007, la Spagna nel 2011, la Grecia in varie fasi tra il 2010 e il 2016 e l'Italia nel 2011 hanno tutte aumentato l'età pensionabile durante la recessione. Se ne può dedurre che il calo dell'occupazione giovanile è correlato ai cambiamenti delle regole sulle pensioni? La ricerca in campo pensionistico è in genere focalizzata sul lato dell'offerta. Di conseguenza, ignora la sostituzione tra lavoratori giovani e vecchi dal lato della domanda. Vestad (2013) ha utilizzato dati amministrativi per stimare l'impatto di un programma di prepensionamento sull'occupazione giovanile in Norvegia, ma ci sono poche altre ricerche su questo argomento.

 

Conseguenze economiche della riforma delle pensioni e domanda di lavoro


 

Le conseguenze economiche di una riforma pensionistica e della domanda di lavoro sono più sottili di un semplice spostamento esogeno dell'offerta di lavoro. La maggior parte delle persone coinvolte è già impiegata e non può essere licenziata facilmente. Nell'ambito di una riforma delle pensioni che costringe le imprese a tenere i lavoratori più anziani, sul lavoro vi sono due effetti.

 

- Innanzitutto, vi è un effetto di economia di scala negativo, a causa della diminuzione dei rendimenti di scala. La riforma costringe alcuni dei lavoratori più anziani a rimanere al lavoro invece di andare in pensione. Questo tende ad aumentare la produzione, ma con la diminuzione dei rendimenti marginali di scala nella produzione, il prodotto marginale dei lavoratori giovani diminuisce e così anche l'assunzione di giovani.

 

-  In secondo luogo, vi è un effetto che dipende dal grado di complementarietà tra giovani e vecchi lavoratori: maggiore è la complementarietà, più è probabile che la riforma possa incidere positivamente sull'occupazione giovanile.

 

Quale dei due effetti - effetto scala o effetto di sostituzione - prevale è in definitiva una questione empirica.

 

 

L'Italia e la riforma Monti-Fornero


 

L'Italia fornisce un eccellente caso di studio sul fatto che aumenti inattesi dell'età pensionabile possano avere effetti negativi sull'occupazione giovanile. Nel mezzo di una recessione, il mercato del lavoro è in genere guidato dal lato della domanda. In Italia, i tassi di occupazione per i gruppi di età 15-24 e 55-64 nel 2005 erano quasi gli stessi. Dieci anni dopo, il tasso di occupazione per la fascia di età 55-64 anni era del 45%, mentre il tasso di occupazione giovanile era di circa il 12%. In questo periodo, l'età normale di pensionamento è aumentata, così come i requisiti di contribuzione minima per l'accesso al prepensionamento. Nel dicembre 2011, la riforma Monti Fornero ha aumentato l'età pensionabile fino a cinque anni per alcune categorie di lavoratori. Abbiamo usato questo esperimento di politica per stimare l'impatto degli aumenti dell'età pensionabile sulla domanda di lavoro giovanile.

 

Figura 2. Tasso di occupazione dei lavoratori giovani e anziani in Italia



 

 

Abbiamo avuto accesso a un set di dati sulle imprese italiane prima e dopo la riforma elaborata dall'ente italiano per la sicurezza sociale (INPS). Abbiamo verificato se un aumento improvviso e inaspettato dei requisiti contributivi e di età per la pensione, che ha costretto le imprese a mantenere a libro paga i lavoratori che avevano in precedenza diritto alla pensione, ha influito sulla domanda di lavoro rivolta ai giovani lavoratori. Abbiamo identificato la popolazione colpita dal cambiamento delle regole di pensionamento in ciascuna impresa e abbiamo esaminato le dinamiche delle assunzioni nette nelle stesse imprese.

 

I risultati sono chiari. Prima e dopo la riforma, le imprese che erano più esposte all'aumento obbligatorio dell'età pensionabile hanno ridotto significativamente le assunzioni giovanili rispetto a quelle meno esposte alle riforme (grassetto nostro, ndt). Non possiamo escludere che queste ultime imprese abbiano potuto aumentare le assunzioni a causa della riforma, a causa degli effetti generali di equilibrio. Tuttavia, sosteniamo che era probabile che la riforma avrebbe ridotto le prospettive del mercato del lavoro dei giovani lavoratori.

 

Stimiamo che cinque lavoratori bloccati sul posto di lavoro per un anno significano che l'azienda assume circa un giovane in meno. Le imprese con oltre 15 dipendenti hanno perso 160.000 posti di lavoro per i giovani in questo periodo. Di questi, 36.000 possono essere attribuiti alla riforma. Abbiamo eseguito controlli di robustezza, incluso fare altre regressioni cambiando la dimensione della distribuzione, propensity score matching e test di falsificazione sugli anni pre-riforma.

 

Implicazioni politiche


 

Cautamente, proponiamo due punti.

Ridurre la generosità delle pensioni in piena crisi del debito sovrano europeo era probabilmente inevitabile, nonostante la grave recessione verificatasi nelle economie dell'Europa meridionale. Ma questo restringimento avrebbe potuto essere fatto riducendo le pensioni per i lavoratori che andavano in pensione prima della normale età pensionabile. Ciò avrebbe consentito alle imprese di favorire il pensionamento dei lavoratori anziani meno produttivi. Ragionando a posteriori (così come mostrano le prove esposte sopra), i politici europei avrebbero dovuto fare molto di più per aiutare e sostenere i giovani lavoratori che stavano per entrare nel mercato del lavoro. L'equilibrio tra lavoratori giovani e anziani nel mercato del lavoro dell'Europa meridionale non è stato quello che queste politiche intendevano raggiungere. In Europa rischiamo una generazione perduta.

 

Inoltre, l'età pensionabile dovrebbe essere il più flessibile possibile. Per quanto riguarda l'Italia, il sistema a contribuzione definita a lungo termine è fattibile e sostenibile. Un sistema come questo, tuttavia, ha una fase di transizione prolungata. Durante l'aggiustamento di medio periodo del nuovo sistema, la politica dovrebbe seriamente tentare di aumentare la neutralità attuariale della flessibilità del pensionamento. Dal punto di vista di un più ampio coordinamento fiscale, i nostri risultati suggeriscono che le miopi regole di bilancio che impongono improvvisi aumenti dell'età pensionabile durante crisi importanti potrebbero avere effetto opposto. Possono causare un congelamento prolungato e quasi totale delle nuove assunzioni, in particolare quando i lavoratori più anziani sono bloccati sul posto di lavoro dall'aumento dell'età pensionabile.

 

Le regole fiscali dovrebbero concentrarsi piuttosto sulla sostenibilità fiscale a lungo termine. Una riforma del 2005 del Patto di stabilità e crescita ha tentato di farlo, ma a parole, non nella pratica. Ha affermato che un deterioramento di breve periodo del deficit di bilancio potrebbe essere tollerato se, allo stesso tempo, un governo riduce le sue passività a lungo termine. In pratica, tuttavia, questo principio può essere applicato solo includendo esplicitamente nel patto qualsiasi sforzo che riduca le passività nascoste associate ai diritti previdenziali, le passività a lungo termine più importanti nelle nostre società che invecchiano.

 

Ciò significa che a un cittadino potrebbe essere data la possibilità di andare in pensione quando lo desidera, a condizione che l'entità della pensione rifletta l'età e l'aspettativa di vita. Più pensioni potrebbero essere pagate nei periodi di crisi senza incidere sulle passività a lungo termine, perché le pensioni aggiuntive per chi anticipa la pensione sarebbero inferiori a quelle pagate alle persone che andranno in pensione dopo. Pertanto questo sistema potrebbe essere neutrale rispetto al bilancio e operare come uno stabilizzatore automatico. Un patto che consenta una flessibilità sostenibile nel pensionamento aiuterebbe anche i paesi di fronte all'enorme shock demografico associato all'attuale crisi dei rifugiati.

 

 

 

Bibliografia


Boeri, T. (2011) "Institutional reform and dualism", Handbook of Labor Economics 4b ed. D. Card and O. Ashenfelter. Elsevier.

Boeri, T. e Garibaldi P. (2007) “Two Tier Reforms of Employment Protection: a Honeymoon Effect?" The Economic Journal 117 (521), F357-F385

Boeri, T., Garibaldi, P. e E. R. Moen (2015) “Graded security from theory to practice”, VoxEU.org, 12 June.

Boeri, T. Garibaldi, P. e E. R. Moen (2016) “A Clash of Generations? “Increase in Retirement Age and Labor Demand for Youth”, CEPR Discussion Paper 11422 and WorkInps Paper 1.

Saint Paul, G. (1993) “On the Political Economy of Labor Market Flexibility", NBER Macroeconomic Annual 151-192

Vestad, O. L. (2013) “Early Retirement and Youth Employment in Norway", Statistic Norway.

 

22/05/19

Perché l’Occidente dovrebbe onorare il Giorno della Vittoria della Russia

Anche se molti lo ignorano, quella che noi chiamiamo la Seconda Guerra Mondiale è invece per i Russi la Grande Guerra Patriottica – e a buona ragione. Nonostante in Occidente vengano magnificati eventi come lo sbarco in Normandia, Martin Sieff ricorda su Strategic Culture che la guerra si decise quasi unicamente sul fronte orientale, nello scontro tra forze dell’Asse e Unione Sovietica. La stragrande maggioranza delle truppe tedesche combatté – e morì – sul fronte orientale. I tentativi dell’Occidente di rimuovere il contributo dell’Armata Rossa alla sconfitta nazista – oltre a essere un insulto alla storia e ai popoli coinvolti - compromettono le possibilità di pace tra NATO e Russia, rischiando di provocare un conflitto tra due potenze nucleari.

 

 

Di Martin Sieff, 12 maggio 2019

 

 

Il Giorno della Vittoria – il 9 maggio – è appena trascorso. Come sempre è stata una festa enorme e fiera in tutta la Russia e in molte altre ex repubbliche sovietiche, come il musulmano Kazakistan: ma in Europa e in Nord America è passata in completo silenzio.

 

Nemmeno un americano o un inglese su 100.000 oggi si rende conto o ricorda che il 90 per cento dei soldati nazisti uccisi nella Seconda Guerra Mondiale sono stati uccisi dall’Armata Rossa. Al contrario, come ha fatto notare Tim Kirby su questo sito, in Lettonia oggi è permesso liberamente dal governo indossare le uniformi delle SS, mentre indossare le uniformi dell’Armata Rossa è pesantemente sanzionato. Tuttavia 320 milioni di americani vivono in grave pericolo di una inutile guerra nucleare per difendere questi nostalgici Nazi e negazionisti dell'Olocausto, ansiosi di sfruttare e pervertire la protezione del loro scudo NATO sull’Europa dell’Est.

 

Nessuno oggi potrebbe immaginare, dato lo sbarramento implacabile di scherno e disprezzo nei confronti della Russia, che durante la Seconda Guerra Mondiale i Russi e l’Unione Sovietica erano molto più apprezzati nella tormentata Inghilterra rispetto agli Stati Uniti e agli Americani.

 

Eppure i sondaggi di opinione dall’inizio del 1942 durante tutta la guerra mostravano molti più inglesi che ammiravano le vittorie e i sacrifici del Popolo Russo e si risentivano per la prosperità, la tranquillità, la fiducia in sé stessi e – ai loro occhi – l’arroganza dei soldati Usa che inondavano il loro paese.

 

Dal loro ingresso in guerra dal D-Day fino alla vittoria, milioni di soldati Usa hanno combattuto coraggiosamente e bene per tutta l’Europa continentale, ma dal punto di vista strategico perfino le loro più grandi vittorie non erano che piccoli spettacolini rispetto alle titaniche battaglie che avvenivano a Est.

 

Ironicamente, oggi gli storici britannici rimangono molto più obiettivi di quelli Usa. Eccellenti storici e accademici come Richard Overy, Andrew Roberts e Max Hastings sottolineano liberamente e ripetutamente che la colossale battaglia sul Fronte Orientale è stata il perno strategico di tutta la guerra e che tutto il resto impallidisce a suo confronto.

 

Ma negli Stati Uniti, perfino gli storici teoricamente acclamati come famosi continuano ad avere una visione miope e rifiutano puerilmente i fatti più evidenti. Gli studiosi specialisti scrivono studi di grande livello, ma tra gli storici più famosi e nei documentari televisivi l’ignoranza è imbarazzante.

 

Questa cosa è vergognosa e ha implicazioni gravissime per la pace mondiale. Il comunismo se ne è andato da tempo e il Popolo russo sotto il Presidente Vladimir Putin continua a lavorare duramente e in maniera impressionante per ricostruire la propria società. Ma tutti gli anni, quando arriva il Giorno della Vittoria, i leader, gli studiosi e coloro che modellano l’opinione pubblica ad Ovest continuano a ignorarlo fermamente.

 

Facendolo, non solo disonorano la memoria di milioni di soldati dell’Armata Rossa che sono morti combattendo i Nazisti. Rifiutano anche l’opportunità di allentare le tensioni tra l’Est e l’Ovest.

 

Eppure, l’Armata Rossa si è opposta praticamente da sola ai nazisti dal 22 giugno 1941 fino all’invasione della Normandia, e il ruolo dell’URSS nello stesso D-Day è stato enorme. Il successo del D-Day è stato possibile solo grazie alla spinta straordinaria dell’Armata Rossa da Stalingrado fino al fiume Elba nei due anni che sono seguiti alla vittoria di Stalingrado del 2 febbraio 1943.

 

Solo 11 divisioni della Wehrmacht hanno combattuto gli alleati in Normandia, ma contemporaneamente 228 divisioni naziste stavano combattendo l’Armata Rossa ad Est. Mentre avveniva la Battaglia della Normandia, l’Armata Rossa otteneva una vittoria molto più importante con l’Operazione Bagration, quando l’ultima grande concentrazione di armate di Hitler veniva annientata in quella che oggi è la Bielorussia.

 

È stata inoltre l’Armata Rossa a liberare i più grandi e terribile campi di sterminio nazisti, inclusi Auschwitz, Majdanek, Treblinka e Sobibor. Ma i leader occidentali e gli alleati NATO rimangono unanimemente zitti a riguardo di questo dato cruciale (ricordiamo purtroppo che l’italiano Benigni è riuscito a fare di peggio nel suo film-capolavoro La vita è bella, dove sono gli americani - e non l’Armata Rossa - a liberare Auschwitz, NdVdE).

 

Nel 2015, il governo Polacco ha vergognosamente escluso il Presidente Putin dalla cerimonia per il 70° anniversario della liberazione di Auschwitz. L’ex Primo Ministro ucraino Arseniy Yatsenyuk ha perfino sostenuto che l’Ucraina è stata invasa sia dalla Germania Nazista che dall’Unione Sovietica (la verità è che l’Armata Rossa ha liberato Kiev) e che le forze ucraine avevano liberato i campi di morte per conto loro. Si tratta di una grande bugia, degna del Ministero della Verità di George Orwell.

 

Questi atti provocatori e meschini, accolti con uguale entusiasmo dai neoliberisti e dai neoconservatori americani, sono serviti solo a inasprire ulteriormente i Russi nei confronti dell’occidente.

 

Un sincero e generoso riconoscimento del ruolo di leader che i sovietici hanno avuto nella vittoria del 1945 servirebbe a ricordare quanto gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica sono stati in grado di realizzare insieme nel loro trionfo congiunto sul fascismo. Ricorderebbe agli Americani e ai Russi quanto vitale sia per le due nazioni essere ancora alleate contro il terrorismo, il crimine internazionale, il traffico di droga, la schiavitù sessuale, i cambiamenti climatici e la proliferazione nucleare.

 

Onorare il grande e solenne anniversario del Giorno della Vittoria è semplicemente la cosa giusta da fare – dal punto di vista storico, morale e politico. Il Popolo Russo e i suoi alleati hanno pagato il prezzo colossale in termini di vite umane e sangue che richiedeva la vittoria della Seconda Guerra Mondiale. Disonorare la loro memoria è vergognoso.

 

Martin Sieff è stato per 24 anni corrispondente estero per il Washington Times e per United Press International, lavorando in 70 nazioni e raccontando 12 guerre. È specializzato in questioni economiche USA e globali.

 

 

20/05/19

Adam Tooze - Il nonsenso dell'output gap

In un articolo pubblicato su Social Europe lo storico britannico  Adam Tooze, professore alla Columbia University, spiega l'assurdità della regola del "pareggio di bilancio strutturale" che informa le manovre di bilancio dei paesi dell'eurozona. Come già ampiamente noto da chi segue il dibattito italiano (per esempio senza essere esaustivi se ne tratta ampiamente qui e anche qui), tale regola non solo è assurda perché impone un obiettivo di pareggio del bilancio di per sé insensato e risalente a una concezione ottocentesca della finanza pubblica, ma anche per la famigerata misurazione dell'output gap, che se in teoria dovrebbe ammorbidire la rigida regola del pareggio adeguandola alle diverse fasi del ciclo economico, in realtà per come è concepita arriva addirittura ad approfondire gli squilibri invece che attenuarli. Pur senza rinunciare a battere un colpo a favore della narrazione liberista della crisi e della "indisciplinatezza" dei nostri conti pubblici (per una più corretta visione rimandiamo alle basi), Tooze ha l'onestà di denunciare come le istituzioni europee utilizzino modelli tecnici falsamente neutrali per giustificare scelte politiche di parte. Di conseguenza l'Italia sarebbe assolutamente nella ragione a pretendere di intervenire con una manovra espansiva anticiclica.

 

 

Adam Tooze, 30 Aprile 2019 

 

Adam Tooze spiega come una falsa precisione in economia abbia portato nell'UE a una pessima politica

 

Le idee economiche, se collegate alla misurazione e alla definizione delle politiche economiche, hanno potere. La conoscenza determina le decisioni e aiuta a giustificare in pubblico le politiche adottate. Nella fase attuale questa concezione razionale della politica economica deve essere difesa dalla politica della "post-verità".

 

Confrontarsi apertamente con l'irrazionalità e l'ignoranza è cosa facile. Ma che dire del ruolo che l'economia stessa gioca nel sostenere l'ordine esistente delle cose, con tutti i suoi problemi? Sin dal loro inizio nel XVIII secolo, le idee e le statistiche economiche hanno avuto una profonda valenza politica. E non sono solo le grandi idee, come la "libertà di scelta" e la "razionalità del mercato". Concetti apparentemente innocui possono avere effetti significativi nel limitare la politica e plasmare la realtà sociale ed economica. Sostengono la negazione normalizzata. La nozione dell'output gap (differenza tra Pil effettivo e Pil potenziale, ndt), un concetto e una misura statistica che stanno al cuore della politica economica europea, è una di queste variabili.

 

L'idea alla base dell'"output gap" è abbastanza chiara. La politica monetaria e fiscale deve essere valutata in rapporto a qualcosa. Non è sufficiente dire che la politica fiscale è espansiva o la politica monetaria è restrittiva. Quello che dobbiamo conoscere è lo stato dell'economia su cui agisce la politica. In risposta a una recessione sarà opportuno uno stimolo fiscale. Ma in che misura? La risposta dipende da quanto è depressa l'economia: quanto il suo attuale livello ciclico è lontano dal suo potenziale strutturale. Viceversa, in risposta a un boom, ci si aspetterebbe una stretta della politica economica, tanto più che un boom tenderà a migliorare la posizione fiscale generando maggior gettito. Ma, ancora, in che misura?

 

Nel formulare tali giudizi, la nostra valutazione dipende dal divario tra il livello attuale di produzione e quel valore che non è direttamente osservabile: l'output potenziale. La domanda è come valutare il valore di riferimento del prodotto potenziale.

 

L'industria del calcolo dell'output gap

 

Dagli anni '60, da quando l'economista di Yale 'Art' Okun formulò per la prima volta l'idea di base, è cresciuta una vera e propria industria del calcolo dell'output gap. Il Fondo monetario internazionale, l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico e l'Unione europea pubblicano stime per tutte le principali economie avanzate.

 

E non si tratta di semplici e innocui esercizi statistici. Le stime dell'output gap sono al centro delle cosiddette previsioni dei Greenbook fornite al Consiglio direttivo della Federal Reserve statunitense. Nel quadro di bilancio dell'UE, gli "output gap" servono da base per la stima dei "pareggi di bilancio strutturali", che definiscono gli obiettivi fiscali per ciascuno Stato membro della zona euro. Ai paesi che sono al di sotto del loro potenziale è lasciato un più ampio margine di manovra fiscale. Avviene il contrario per i paesi con output gap 'positivi'. Secondo il Fiscal Compact, operativo dal 2013, i disavanzi strutturali dovrebbero essere ridotti al tasso dello 0,5 per cento all'anno.

 

Ma come viene calcolato il massimo prodotto potenziale? Non solo è un valore ipotetico, ma, se la nozione di potenziale viene presa sul serio, implica anche la formulazione di ipotesi sul futuro. La questione ha preoccupato gli esperti fin dall'inizio. Nel contesto della Commissione europea, il prodotto potenziale è definito come il livello di produzione in cui capitale e lavoro sono impiegati a "livelli non inflazionistici". La stabilità dei prezzi è quindi il parametro fondamentale per determinare la produzione sostenibile e la crescita del prodotto.

 

I dati relativi allo stock di capitale derivano da un database noto come AMECO. Nel calcolo sono un elemento relativamente stabile. Ciò che realmente determina le stime sono i dati sull'occupazione e la crescita della produttività. Per stimare i loro percorsi di crescita sostenibili a lungo termine, gli economisti della Commissione impiegano una tecnica statistica nota come filtro di Kalman. Per esprimersi con parole comprensibili ai profani, si tratta approssimativamente di una media mobile delle prestazioni passate. Ciò significa che l'output potenziale deriva dalle sue stesse tendenze storiche, continuamente aggiornate con le ultime informazioni disponibili.

 

Estrapolare sulla base dei dati passati significa che le stime dell'output potenziale sono ancorate all'esperienza storica. Ma significa anche che le stime del potenziale non sono, di fatto, indipendenti dai risultati della produzione effettiva. Se combinate con rigide regole fiscali, le stime retrospettive dell'output potenziale possono avere effetti veramente perversi.

 

Se un'economia cresce rapidamente, come la zona euro prima del 2008, il prodotto potenziale sarà rivisto al rialzo. Quando economie come l'Irlanda e la Spagna erano in piena espansione, le stime del loro output potenziale risultavano più generose, così che la loro crescita effettiva risultava meno evidente. Ciò a sua volta faceva sì che la loro posizione fiscale fosse giudicata sufficientemente restrittiva. La "competenza tecnica" ha contribuito a rafforzare l'eccessivo ottimismo.

 

Dal 2008 ci siamo trovati davanti all'effetto opposto. A causa del modo di lavorare dell'econometria, la prolungata recessione nell'eurozona ha depresso le stime della Commissione sulla produzione potenziale, provocando l'effetto di ridurre il divario tra l'output effettivo e quello potenziale stimato. Poiché le aspettative erano diminuite e di conseguenza la minor crescita e la più elevata disoccupazione erano ridefinite come valori normali, lo stimolo correttivo della politica fiscale era considerato meno necessario e quindi lo spazio di manovra fiscale è diminuito.

 



 

Nel caso italiano l'effetto è stato drammatico. Nel 2018, a dieci anni dall'inizio della crisi, con l'alta disoccupazione e la bassa crescita divenuti norma, le stime della produzione potenziale in Italia sono state riviste al ribasso di un valore tra il 15 e il 20 per cento – di conseguenza anche una modesta crescita economica è stata sufficiente a spingere l'Italia al di sopra del suo limite di produzione potenziale e far registrare un output gap positivo. Con la disoccupazione ancora vicina all'11 per cento, la sua economia è stata dichiarata surriscaldata. Sarebbe un'assurdità se non fosse veramente accaduto che il governo di Roma è stato coinvolto in una battaglia sul filo del rasoio con Bruxelles sul suo bilancio, vicenda in cui il saldo di bilancio strutturale ha svolto un ruolo chiave.

 

Ovviamente per l'Italia non si pone solo il problema del semplice deficit di bilancio. Ciò che è veramente pressante è il suo debito, eredità della mancanza di disciplina fiscale degli anni '80 e '90. Il suo sistema educativo porta alla dispersione di troppi giovani. Il mercato del lavoro non è flessibile e la pubblica amministrazione è sclerotica. Indubbiamente la pressione della globalizzazione sull'economia manifatturiera italiana orientata all'export sta diventando ogni anno più severa. Ma non è plausibile sostenere che tutti questi fattori si siano improvvisamente intensificati in modo così drammatico da spiegare il crollo della crescita dopo il 2008. Una parte significativa del rallentamento dell'Italia non è rappresentata da una stagnazione della crescita potenziale ma dalla carenza di domanda.

 

Politica economica pessima

 

Cattive stime degli output gap non si limitano a produrre una cattiva politica economica. Danno anche luogo ad una politica economica pessima. Se si volesse scrivere una sceneggiatura per sostenere le rivendicazioni della politica anti-sistema in Europa, assomiglierebbe alla posizione politica della Commissione. I politici nazionalisti di destra promettono un nuovo audace futuro. Molte di queste promesse sono irrealistiche e irresponsabili; è giusto denunciarle come tali. Ma aderire all'assurda affermazione che l'Italia nella primavera del 2019 si trovi sostanzialmente nella stessa posizione ciclica rispetto al suo potenziale nazionale della Germania - circa lo 0,3-1% al di sopra del potenziale – invita decisamente a una ostinata risposta di questo tipo.

 

Se i centristi vogliono prevalere nel dibattito politico devono offrire una propria visione costruttiva del futuro. Una scala mobile tecnocratica, che limita la nozione di potenziale di uno stato membro alla meccanica proiezione dell'ultimo triste decennio, non è realistica, ma fatalista.

 



 

Come ha osservato una volta il sociologo Harold Garfinkel, di solito ci sono buone ragioni organizzative e politiche per dei cattivi dati. L'UE è un organismo politico estremamente complesso. Dal 1999 il cosiddetto Gruppo di Lavoro sull'Output Gap del Comitato di politica economica del Consiglio europeo ha sviluppato procedure di lavoro formalizzate. I criteri di base del modello che ha sviluppato, che è alla base delle stime pubblicate dalla Commissione, sono la trasparenza e la garanzia di parità di trattamento dei membri. La politica impone che debba essere un approccio unico valido per tutti.

 

Ma è destinato a funzionare per alcuni stati meglio che per gli altri – ed è qui che entra in gioco il terzo requisito inespresso. Qualunque sia la formula, deve ottenere l'approvazione degli stati membri più conservatori. Le stime dell'output gap, in breve, sono politiche perseguite tramite i mezzi tecnici dell'economia.

 

Chi può dunque scuotere la Commissione dalla sua meccanica riproduzione intellettuale di un regime di stagnazione economica? La critica da parte del grande pubblico è importante, ma è troppo facilmente ignorata da coloro che si trovano all'interno dell'apparato. Questo è il motivo per cui la campagna dei social media "Against nonsense output gaps" (Contro il nonsenso degli output gap, ndt) montata da Robin Brooks, capo economista dell'Istituto di Finanza Internazionale (IIF), è degna di nota.

 

L'IIF è il gruppo di pressione del settore finanziario. Ha rappresentato le banche nei negoziati sul regolamento di Basilea III e i creditori nei colloqui sul debito greco del 2011-12. Questi non sono outsider. E Brooks cerca di mobilitare un centro di esperti ancora più importante, il FMI.

 

Il Fondo potrebbe non sembrare il partner giusto da invocare per criticare un meccanismo fiscale eccessivamente restrittivo. Dal primo salvataggio greco del maggio 2010, è stato profondamente coinvolto nella gestione pasticciata della crisi dell'eurozona. Ma le sue valutazioni retrospettive sono state ammirevolmente franche nella loro critica al suo coinvolgimento nella politica disastrosa di "extend and pretend" (andare avanti e fare come se tutto andasse bene, ndt) , in particolare in Grecia. Diversi economisti del FMI si sono esposti per criticare l'accordo in Irlanda. Da capo economista, Olivier Blanchard ha demolito la logica razionale dell'austerità. Quando si arriva allo stato attuale dell'eurozona, tuttavia, il Fondo ricade nei suoi vecchi schemi.

 

Una straordinaria pretesa

 

Nella primavera del 2019, il FMI ha pubblicato la sua valutazione dello stato delle principali economie avanzate. Inevitabilmente ha incluso le stime dell'output gap. A differenza della Commissione, il Fondo valuta l'Italia al di sotto del suo potenziale, ma solo dell'1 per cento. Questa è una straordinaria pretesa. Secondo i dati del Fondo monetario internazionale, dal 2007 l'economia italiana si è ridotta in termini pro capite dell'8%. Allo stesso tempo, la Germania è cresciuta del 12% e quella degli Stati Uniti del 10%, ma in termini ciclici tutti e tre i paesi sono giudicati pari a 1-1,4 per cento della loro produzione potenziale.

 



 

Tali statistiche ingannevoli oscurano ciò che dovrebbe essere al centro del dibattito politico. Se prendiamo per buone le stime dell'ouput gap, tutta l'attenzione deve concentrarsi sul fatto che il potenziale di crescita dell'Italia è collassato. Ha subito una crisi strutturale eccezionalmente grave e il rilancio degli investimenti deve essere la priorità. Se la cifra dell'output potenziale è sbagliata, tuttavia, l'Italia è, in effetti, ben al di sotto del trend e il FMI dovrebbe quindi chiedere all'Eurozona di intervenire con un significativo stimolo fiscale anticiclico.

 

Ciò che è inconcepibile è che vengano prodotti dei dati che suggeriscono che al momento l'Italia e la Germania dovrebbero fare una manovra fiscale sostanzialmente simile. Questo significa normalizzare un disastro economico-politico.

 

Naturalmente, l'alto debito italiano significa che il perseguimento di una politica più espansiva non è privo di rischi. Ma questo è un problema che deve essere affrontato a livello europeo. Ciò che è innegabile è che non esiste una soluzione valida, né finanziariamente né politicamente, se non che l'Italia ritorni a crescere

 

Abbandonare il bromuro dei dati errati non produrrà di per sé una soluzione. Ma senza riconoscere e con correttezza rispondere dell'aborto della politica economica in Europa sin dal 2008, non possiamo andare avanti in termini politici o di politica economica.

 

 

19/05/19

La filosofia nel mondo contemporaneo: la McDonaldizzazione della filosofia

Dal sito dell'American Philosophical Association, un appassionato articolo sull'influenza della mentalità aziendale sull'insegnamento della filosofia negli Stati Uniti - valido, temiamo, non solo per la filosofia e per gli Stati Uniti. L'autore denuncia quella che chiama "la McDonaldizzazione della filosofia" , ovvero la riduzione dell'insegnamento e della pratica della disciplina a logiche commerciali degne dell'industria del fast food, dove l'enfasi è tutta sulla misurabilità e la prevedibilità del prodotto (l'insegnamento, la produzione accademica) e la soddisfazione del cliente (lo studente); così i professori vengono degradati a camerieri sottopagati e la filosofia a un insapore prodotto di consumo. Soggiogata al pensiero burocratico, perde la sua natura radicalmente critica della realtà. Per questo l'autore richiama a una "feroce resistenza" dei filosofi contro questo processo.

 

 

 

di Edward Delia, 9 maggio 2019

 

Mentre le società si evolvevano oltre l'era pre-industriale, sono diventate sempre più dominate dalla burocrazia. In ogni caso, la forma finale della burocrazia è la McDonaldizzazione (Ritzer, 1996). Rappresenta un'ampia gamma di burocrazie dominate dai principi del settore del fast food, ovvero: efficienza, valutabilità, prevedibilità e controllo. Questi principi stanno piano piano arrivando a dominare sempre più settori della società, sia in America che all'estero. Sfortunatamente, la McDonaldizzazione adesso sta influenzando la stessa filosofia. Come uomini e donne di pensiero, non dobbiamo trascurare questo pericolo. Non dobbiamo permettere che il campo della filosofia divenga permanentemente McDonaldizzato da potenti amministratori, burocrati ritualistici, imprenditori alla ricerca del profitto e politici dilettanti. È tempo di usare il potere delle idee per combattere questa usurpazione della saggezza.

 

La McDonaldizzazione incarna l'idea che tutte le attività umane possano essere contate, calcolate e quantificate. L'enfasi è sulla quantità piuttosto che sulla qualità, sull'omogamia piuttosto che sulla diversità, sugli slogan piuttosto che sull'intelligenza logica, sulle battute da film piuttosto che sugli auguri di cuore, sui sorrisi vuoti piuttosto che sulle espressioni sincere, sulle routine piuttosto che sulle alternative intelligenti, sulle interazioni para-sociali piuttosto che sugli scambi faccia a faccia, sulle uniformi piuttosto che sugli abiti scelti con criteri estetici, sulla minimizzazione dei pericoli piuttosto che sulle sagge precauzioni e sul controllo amministrativo piuttosto che sull'iniziativa auto-determinata. Soprattutto, incarna il trionfo della soggettività sull'oggettività, risultando in una blanda stupidità, in un monotono pseudo-idealismo, in una conformismo monodimensionale, e in una bruttezza odiosa e compiaciuta che servirà da monumento alla stupidità.

 

La filosofia è il più grande prodotto dell'intelletto umano. Come filosofi dovremmo essere guidati dalle menti più grandi della civiltà umane del passato. Dobbiamo alla loro memoria, a noi stessi, e all'umanità futura il non restare inerti e permettere questo tradimento della ragione. Non dobbiamo permettere che "l'irrazionalità della razionalità" abbia il sopravvento sulla ragione.

 

L'enfasi sulla quantità invece che sulla qualità è insulsa. Quanti libri o saggi abbia scritto un filosofo non è importante quanto la qualità di ciò che ha scritto. Un'opera immortale vale un migliaio di opere minori. Anche l'omogamia è odiosa. Conduce ad una semplicità noiosa e priva di originalità, dove qualsiasi filosofo ricorda qualsiasi altro filosofo, in una duplicazione meccanica. Alcune riviste richiedono saggi di una certa lunghezza, in un formato definito, o che devono trattare temi che incarnano valori conformisti che nessuno osa mettere in dubbio. I maggiori editori di libri spesso giudicano i libri di filosofia solamente sulla base di quante copie vendono, piuttosto che considerare il loro valore.

 

Come per gli slogan, questa àncora della McDonaldizzazione incarna modi di dire spiritosi, stereotipi raffazzonati, analogie inadeguate e inutili stupidità senza speranza. Voltaire l'ha detto meglio quando ha notato che una battuta spiritosa non prova nulla. Indica anche la resa della ragione alla stupidità compiaciuta. Per di più, è unita a battute da copione, un'altra gemma di ignoranza scimmiesca. Quando entrate in qualsiasi impresa McDonaldizzata, vi chiedono subito "come sta?". La verità è che non gliene importa nulla. Questo modo di fare fastidioso è diventato la norma anche in alcune facoltà universitarie.

 

Inoltre ci salutano sorrisi vuoti. Un sorriso genuino è piacevole e migliora la vita. Ma queste espressioni facciali controllate, McDonaldizzate, quasi ti fanno desiderare di leggere la discussione di Sartre sulla nausea. Deve essere estremamente malsano per coloro che devono costantemente mostrare questa persona finta ed estremamente alienante per coloro che la affrontano. Volti sorridenti! Ricorda la frase di Amleto: "Falso come i giuramenti di un giocatore di dadi" (Amleto 3.4.45). Come filosofi, ce ne resteremo da parte e permetteremo all'umanità di essere umiliata in questo modo? O colpiremo duramente con la ricchezza di idee che c'è veramente nella nostra disciplina? Dobbiamo decidere!

 

E c'è ancora di più. Un'altra perla della McDonaldizzazione sono le routine controllate. Gli amministratori McDonaldizzati detestano le alternative razionali a causa del loro desiderio di regolamentare ogni aspetto della società. Più pensi, meno puoi essere prevedibile e controllabile. Da qui, la necessità di diminuire la capacità razionale e il risultato è il trionfo della soggettività. Niente sorprese! Le sorprese potrebbero stimolare il pensiero. I clienti devono sapere cosa aspettarsi nella maggior parte degli scenari e delle situazioni. Altrimenti, potrebbero rimanere delusi, il che in un ambiente McDonaldizzato è l'equivalente del male. Il male era il genocidio, la schiavitù, le malattie orribili. Ora è un cambiamento di sapore dovuto al gusto di una salsa. Da qui, il bisogno di omogamia. Tutto assomiglia a tutto e tutto ha lo stesso sapore. Anche in filosofia, sono diventati comuni profili di corsi obbligatori su argomenti prestabiliti, che incarnano valori sociali prevalenti e spesso non discussi. Inoltre, la necessità della ricerca è diventata secondaria rispetto al raggiungimento della soddisfazione degli studenti. Gli studenti, vedete, devono essere soddisfatti, un valore McDonaldizzato. Dio aiuti il ​​professore in cerca di una cattedra che ha studenti insoddisfatti. Filosofi, siete contenti di essere fornitori di soddisfazione?  Ciò che dovremmo fornire è la saggezza. Questo sosia della demenza McDonaldizzata deve essere distrutto!

 

L'interazione para-sociale è un altro sintomo di questa malattia in cui le relazioni faccia a faccia sono sostituite da interazioni impersonali con le immagini. L'equazione umana viene qui attenuata per essere sostituita da tecnologie inerti ed efficienti, progettate per eliminare i sentimenti personali al fine di facilitare la produttività. In filosofia, tale produttività non è necessariamente legata alla genesi di saggi accademici, ma piuttosto spesso si interfaccia con gli amministratori, con cui i professori devono trascorrere ore davanti a un computer, ignari di tutto ciò che li circonda. Le relazioni di gruppo sono ridotte al minimo. Ad essere massimizzate sono le e-mail che annunciano argomenti amministrativi di poca importanza o laboratori che sono spesso irrilevanti per le preoccupazioni filosofiche. Si legge che ci sarà un seminario il 12 marzo. Un altro informa di un laboratorio il 10 aprile. Ancora un altro il 18 maggio. Questa enfasi sui laboratori è vana, poiché soffoca l'iniziativa individuale e subordina la libertà di pensare indipendentemente dalla folla. Ricordiamo il famoso detto di Kierkegaard. La folla non è vera. Se questa tendenza continua, non ci saranno più grandi uomini e donne, solo grandi laboratori.

 

Si aggiunga a questo l'umiliazione delle uniformi, sia reali che simboliche. Le aziende McDonaldizzate richiedono ai loro dipendenti di indossare uniformi, il che è un segno di subordinazione. In breve, la loro umanità ha un valore inferiore a quello dei clienti. Sono lì per servire. L'uniforme nega la loro individualità e la riduce ad un semplice status, come il cameriere o il portiere. Tali status ricevono spesso salari bassi, pochi benefici e scarso rispetto. I professori di filosofia ovviamente non indossano uniformi, ma hanno titoli amministrativi che creano una gerarchia di disuguaglianza. Il più basso è il professore a contratto, che era raro in passato, ma è abbastanza comune oggi. Questi studiosi sono pagati poco, spesso non hanno benefici né pacchetti pensionistici. Va da sé che questo lascia poco tempo alla ricerca filosofica, considerando che queste persone sono in una costante lotta per la semplice esistenza. Per quanto riguarda il rispetto, ne avrebbero ricevuto di più come venditori ambulanti ad una festa del limone. Questo titolo è una veste simbolica di sottomissione. Le università poi usano spesso il denaro risparmiato a spese di questi studiosi per assumere esperti di marketing con stipendi a sei cifre. Dopo tutto, il valore in denaro contante è il cuore della McDonaldizzazione.

 

L'assalto finale è l'"irrazionalità della razionalità" che minimizza il pericolo di una continua McDonaldizzazione nello stesso tempo in cui la roccia putrida della falsità viene glorificata. Allo stesso modo in cui i fast food minimizzano i rischi per la salute dei fast food sottolineando la loro utilità, così gli amministratori dei college tolgono peso ai pericoli per la cultura e la dignità umana descritti sopra, concentrandosi sui requisiti funzionali dell'intero sistema: ossia la necessità di un'efficiente trasmissione delle conoscenze, che misurano in base al numero di laureati o alla quantità di soddisfazione degli studenti. In questo modo, la preferenza soggettiva è elevata al di sopra della capacità oggettiva.

 

Oggi la McDonaldizzazione sta sopraffacendo la nostra intera società. Tuttavia, quando mette a repentaglio la disciplina della filosofia, dobbiamo alzare le mani e dire "ora è abbastanza". Che tipo di professionisti pensano che siamo? Non si rendono conto che non cesseremo mai di combatterli con il potere delle idee? Gli eredi di una disciplina che dà al mondo Platone, Agostino, Leibniz, Kant e Whitehead non si piegheranno davanti all'infame sosia della McDonaldizzazione. Non cesseremo di mettere in discussione i valori di questa usurpazione della ragione. Invito tutti i filosofi ad attaccare la McDonaldizzazione con blog, discorsi, incontri, saggi, libri e conferenze accademiche! Resistete!

 

Edward Delia è filosofo e sociologo. Il suo lavoro universitario si è svolto presso il Brooklyn College e ha conseguito lauree sia presso la Hofstra che presso la Fordham University.

Questa serie, Philosophy in the Contemporary World, ha lo scopo di esplorare i vari modi in cui la filosofia può essere utilizzata per discutere questioni di rilevanza per la nostra società. Non ci sono limiti metodologici, attuali o dottrinali per questa serie; i filosofi di tutte le convinzioni sono invitati a inviare post su questioni che li riguardano. 

17/05/19

La Turchia ha problemi di democrazia – ma la UE non può davvero farle la morale

Il giornalista Martin Jay sottolinea che è difficile per l’occidente, e per l'Unione europea in particolare, condannare il comportamento antidemocratico della Turchia di Erdogan. La Ue ha dato ripetutamente prova di disprezzare la democrazia, ignorando il risultato delle consultazioni popolari quando non piaceva alle élite, intralciando il processo democratico di paesi stranieri, prevedendo addirittura un parlamento che non può avviare il processo legislativo. A Bruxelles perfino il quarto potere – i media – è di fatto strutturalmente colluso con l’eurocrazia.

 

 

DI Martin Jay, 10 maggio 2019

 

 

Il primo di aprile è ormai passato da qualche settimana, ma quando leggiamo la notizia che il presidente Erdogan farà ripetere le elezioni di Istanbul alcuni di noi pensano a uno scherzo. Però il momento più spettacolare non è quando ti rendi conto di quello che sta avvenendo in Turchia - un paese che ha sicuramente problemi con i diritti umani – ma di come l’occidente si compatta per deprecarlo. L’ipocrisia è davvero stupefacente.

 

E quale altro idiota potrebbe mai essere il primo a farsi sentire, in questo ridicolo obbrobrio, se non il parlamentare giullare dell’Unione europea, Guy Verhofstadt, un classico euro-elitario che si fa fatica a ignorare, ma ne vale la pena. Questo ex primo ministro belga ha recentemente eiaculato al parlamento europeo i suoi importanti pensieri sulla Turchia ed Erdogan, allineandosi con altri ex parlamentari pronti a saltare sul carro quando questo fa i loro interessi federalisti – prima di ritrattare e permettere al circo dell'accesso [della Turchia, ndVdE] alla Ue di riversarsi su Bruxelles quando a loro conviene. In questo momento, quando mancano pochi giorni alle elezioni Ue e stando ai sondaggi i partiti populisti aumenteranno molto i loro consensi, non sorprende che l’odioso liberale belga sia salito sul palco per riversare doverosamente disprezzo sulla Turchia.
Ma ci sono momenti, in questo mondo parallelo della UE, in cui la realtà sembra essere stata soppiantata dal Truman Show. Sta accadendo davvero?

 

L’Unione europea, probabilmente l’organizzazione esistente più corrotta, anti-democratica, suprematista bianca, massonica e autocratica, che ha praticamente inventato il manuale delle fake news, degli insabbiamenti di casi di corruzione e di come corrompere giornalisti e finanziare dittatori in giro per il mondo, sta veramente chiedendo conto alla Turchia della sua reputazione democratica?

 

“Questa decisione oltraggiosa sottolinea come la Turchia di Erdogan stia scivolando verso una dittatura” è stato l'erompente tweet del parlamentare europeo belga. “Sotto una simile leadership, i colloqui sull'accesso sono impossibili. Pieno sostegno al popolo turco che protesta per i suoi diritti democratici e per una Turchia libera e aperta!”.

 

Ma aspetta un attimo. Per caso questa è la stessa Unione europea che, quando nel 2004 fu interrogata dal colossale problema di corruzione della Romania e Bulgaria (la cui polizia giudiziaria è diretta da organizzazioni mafiose) ha risposto “li lasceremo entrare, e poi li riformeremo”, solo per vedere in seguito giornalisti uccisi a colpi di arma da fuoco in Bulgaria, e che la Romania ha così tante organizzazioni anti-corruzione, che si ironizza di chiedere alla Ue un permesso per esportarle? O, per restare in argomento, è la stessa Ue che chiede ripetutamente una seconda elezione quando i risultati non sono quelli di cui ha bisogno, come in Irlanda e più recentemente nel Regno Unito con la Brexit?

 

Questa è la stessa Unione europea che ha firmato un mandato di arresto per il giornalista tedesco Hans Martin-Tillack nel 2003 – e lo ha consegnato alla polizia belga – in modo che la casa del giornalista potesse essere messa a soqquadro e il suo computer violato, mentre lui veniva sbattuto nel retro di una camionetta della polizia dove un poliziotto gli ha detto “Vabbè, non siamo in Myanmar”?

 

O è la stessa Ue che, nello stesso periodo in cui iniziava un processo di riforma, in realtà radunava semplicemente coloro che avevano denunciato dall'interno le malversazioni e li appendeva a un gancio, solo per farne un esempio e scoraggiare altri all’interno delle istituzioni Ue?

 

L’Unione europea ha una storia scioccante di abuso sui diritti umani non solo sul proprio suolo, ma più significativamente in giro per il mondo, con i regimi che sostiene con aiuti. La maggior parte dei dittatori dei paesi centrafricani sono sostenuti dal denaro della Ue, che, di conseguenza, porta a un abuso maggiore dei diritti umani su larga scala – il quale poi conduce all’esodo di migranti che finiscono in Libia, venduti come schiavi, violentati e abusati. In molti paesi gli stessi programmi ambientali sono fasulli e servono per convogliare fondi neri ai dittatori che l'Ue sostiene, come per esempio in Libano, dove i sistemi di riciclaggio e compostaggio sono in realtà così pessimi che stanno avvelenando l’acqua dei paesi e sono legati al numero di casi di cancro in aumento.

 

Questa è la realtà dei precedenti della Ue in termini di diritti umani e del suo controllo della democrazia. La lista si può allungare a piacere ed è meravigliosamente curioso che il “paese del terzo mondo” della Ue (il Belgio), che ha uno scioccante deficit in termini di libertà di stampa ed è un paese tristemente famoso per la pedofilia su vasta scala, quello che storicamente rappresenta la base finanziaria (tramite ricatti) per finanziare i partiti politici, è lo stesso paese che ha prodotto Verhofstadt e ospita i suoi patetici sermoni nel Parlamento europeo, l’unica assemblea del mondo talmente inutile che i suoi Parlamentari non possono nemmeno dare inizio al processo legislativo.

 

Verhofstadt è un membro accreditato della Wet Dream Society, o come era una volta chiamato del “Gruppo Spinelli” – una sorta di pensatoio massonico composto da coloro che credono che la Ue potrebbe un giorno diventare una superpotenza e avere un’autentica politica estera. Pertanto è normale per lui prendersi il palcoscenico e propinarci simili discorsi splendidamente noiosi e totalmente ridicoli, che se va bene sono utopistici e se va male sono semplicemente le fantasie di un vecchio. Come il sogno di Verhofstadt del 2004 di essere Presidente della Commissione Europea – un tentativo stoppato da Tony Blair.

 

Ma ecco la vera ciliegina sulla torta, se vi piace l’ironia a dosi massicce. Il Parlamento europeo utilizza uno schema per cui sussidia tutti i media per le loro spese di produzione, spendendo centinaia di milioni di euro. Se non lo facesse, la maggior parte delle emittenti non parlerebbe nemmeno di questi noiosi eventi che ottundono il cervello. Qualcuno potrebbe dire che si comprano la stampa, dal momento che c’è ovviamente una “contropartita” nell’aiutare la Ue a promuovere se stessa. Ma Euronews, che ha mostrato il discorso di Verhofstadt e gli ha dato grande enfasi, non solo guadagna da questo sistema, ma di fatto ottiene enormi sussidi dallo stesso budget annuale di Bruxelles per coprire mediaticamente i parlamentari europei – un doppio colpo, quindi. Di fatto, i vaneggiamenti di Verhofstadt erano una fake news in sé. E questa è un’istituzione – il Parlamento europeo – che ha recentemente votato per finanziare davvero le operazioni dei media perché facciano propaganda pro-Ue.

 

Sono cose talmente incredibili che non si riuscirebbe a inventarle

 

Ma nel frattempo, arrivano notizie dall’altra sponda dell’Atlantico, una vera super potenza, che suggeriscono che la CNN di Atlanta potrebbe mandare dei giornalisti alla CNN turca per far loro imparare il mestiere. Dal momento che praticamente tutti i loro reporter più famosi fabbricano le loro storie quando viaggiano per il mondo - Anderson Cooper, Christiana Ammanpour e Parisa Khosravi – come mi ha detto Elise Labbot, una ex “reporter” della CNN che non è intralciata da abilità giornalistiche, anche questa potrebbe allora essere una parodia, o una fake news. La CNN turca viene attaccata dall’occidente perché è filo-Erdogan, senza che si riconosca in alcun modo che la CNN di Atlanta è essa stessa totalmente di parte e che manipola regolarmente le notizie in favore della Clinton o di chiunque subentrerà nel suo ruolo.

 

Quantomeno la CNN non manderà a Istanbul la Labott, una reporter che si è costruita una carriera inventandosi le storie al punto che ad Atlanta alla fine hanno dovuto separarsi da lei a inizio anno, dopo che non meno di tre indagini sulla sua incredibile mancanza di etica giornalistica hanno battuto tutti i record.

 

 

Martin Jay è un giornalista freelance e commentatore politico che vive a Beirut, Libano. Ha vinto nel 2016 il prestigioso premio Elizabeth Neuffer Memorial delle Nazioni Unite a New York.