30/05/18

Il Presidente italiano ha appena messo in pericolo l’euro

L’autorevole economista Ashoka Mody osserva su Bloomberg che, al di là delle polemiche di diritto costituzionale, la scelta di Mattarella di impuntarsi sull’esecutivo M5S-Lega è folle. Gli elettori italiani vogliono incidere sui processi decisionali, mentre l’insediamento di un nuovo governo “tecnocratico” non farebbe che aumentare il consenso per i partiti euroscettici (che potrebbero invece ottenere concessioni sacrosante dai partner UE). D’altra parte, questa situazione era inevitabile dopo che - in media - gli italiani sono meno ricchi oggi rispetto a quando, quasi vent’anni fa, aderirono alla moneta unica. Senza nemmeno averlo scelto.

 

 

 

Di Ashoka Mody, 29 maggio 2018

 

Bloccare i populisti servirà solo a renderli più forti.

 

Il Presidente italiano Sergio Mattarella può anche pensare di avere difeso una posizione di principio ponendo il veto sul ministro delle finanze euroscettico Paolo Savona, e di fatto impedendo la formazione di un governo guidato da Movimento 5 Stelle e Lega. Ma rigettando la scelta di una coalizione dotata di consenso popolare, può aver messo in moto una crisi finanziaria dalla quale sarà dura uscire, e che potrebbe mettere a rischio l’intero progetto europeo.

 

La mancanza di considerazione da parte di Mattarella delle recenti vicende politiche mette in luce una ostinazione scioccante. Nell’ottobre 2011, il cancelliere tedesco Angela Merkel fece una telefonata all’allora Presidente italiano Giorgio Napolitano, in seguito alla quale Napolitano colse al volo l’opportunità di rimpiazzare Silvio Berlusconi con il tecnocrate non eletto Mario Monti, gradito a Bruxelles. Nonostante la Merkel e Napolitano negassero di avere complottato per favorire l’uscita di scena di Berlusconi, questa fu l’impressione prevalente. L’Economist applaudì sfacciatamente la Merkel per “essersi sbarazzata di un clown come l’italiano Silvio Berlusconi”. Molti italiani si infuriarono, convinti che la Germania avesse violato la loro sovranità nazionale.

 

Non stupisce che il movimento euroscettico M5S abbia guadagnato consenso popolare. Nelle elezioni di febbraio 2013, i 5 Stelle emersero con più di un quarto dei voti, umiliando politicamente Monti e diventando il più grande partito del parlamento. Anche se il Partito Democratico di centrosinistra rimase al potere (con tre differenti presidenti del consiglio), il sentimento antieuropeo in Italia crebbe. Nelle elezioni di marzo 2018, i 5 Stelle e la Lega, un altro partito euroscettico, hanno ottenuto il consenso degli elettori e insieme hanno formato una maggioranza assoluta.

 

La semplice verità è che i partiti tradizionali mainstream – Forza Italia guidata da Berlusconi e il centrosinistra del Partito Democratico – hanno fallito per troppo tempo. In media, gli italiani sono più poveri oggi di quando l’Italia entrò nell’eurozona nel 1999. Il peso si è scaricato in maniera particolare sui giovani italiani, moltissimi dei quali sono o disoccupati o così scoraggiati che hanno deciso di non registrarsi neppure tra chi cerca lavoro. Mattarella e gli osservatori europei a lui simili osservano con orrore l’euroscetticismo del M5S e della Lega. Ma gli italiani hanno chiarito che vogliono un cambiamento.

 

Senza dubbio, Savona era una scelta controversa: il suo “piano B” per una eurexit era impraticabile e allarmista, e quindi avrebbe potuto apportare gravi danni all’Italia. Ma al di là dei loro roboanti proclami, la coalizione Lega-M5S ha alcune proposte intelligenti: la BCE dovrebbe dare più importanza alla disoccupazione quando definisce la politica monetaria (come fa la Federal Reserve negli USA); le regole fiscali dovrebbero essere più elastiche nei confronti delle spese per investimenti. Invece di dare agli euroscettici un’opportunità di confrontarsi con le difficoltà del governare – e di riconoscere la futilità di alcune loro proposte – Mattarella sta tentando di assemblare un altro governo tecnocratico.

 

Il monito della storia è chiaro. Il M5S e la Lega manterranno il loro peso elettorale e potrebbero addirittura uscirne rafforzati. Nel frattempo, l’incombente crisi politica e finanziaria potrebbe avere conseguenze molto gravi. La follia di Mattarella non si sarebbe potuta manifestare in un momento peggiore. Il buon andamento dell’economia globale nella seconda metà del 2017 sta peggiorando, e l’economia italiana fa ancora fatica a riprendersi. Negli ultimi mesi, il commercio globale è diminuito, e lo slancio economico europeo si è affievolito.

 

L’aritmetica economica per l’Italia è davvero deludente. Pur avendo la BCE che sta di fatto acquistando praticamente ogni nuovo bond emesso dal governo, il rendimento delle obbligazioni era a circa l’1,8% in aprile. Ora, si avvicina al 3%. Con un’inflazione annua di appena lo 0,6%, ciò significa un interesse reale (scorporato dell’inflazione) superiore al 2%. L’Italia non può sostenere un tasso di interesse così alto: la crescita della produttività è praticamente nulla, e il suo potenziale di crescita economica a lungo termine è ben sotto l’1%.

 

La crisi provocata da Mattarella potrebbe autoalimentarsi: i tassi reali potrebbero salire ancora, mentre gli interessi nominali applicati ad aziende e consumatori aumentano e un’economia in frenata smorza l’inflazione. Tassi così alti distruggerebbero l’economia. Il peso del debito governativo, testardamente fermo sopra il 130% del PIL, diventerebbe più difficile da ripagare mentre le entrate fiscali scenderebbero. Le banche italiane, già in difficoltà sotto il peso dei crediti deteriorati, dovrebbero affrontare un nuovo ciclo di insolvenze.

 

La BCE ora si trova tra l’incudine e il martello. Se prende l’iniziativa di prolungare il suo programma QE, presto raggiungerà il limite che si è autoimposta di non comprare più di un terzo del totale dei bond italiani. La Germania e altri paesi “del Nord” dell’eurozona si preoccuperebbero giustamente su chi dovrebbe sostenere il peso di un’eventuale default del governo italiano su questa grande massa di obbligazioni detenute dalla BCE. Se per la pressione dei paesi del Nord la BCE dovesse ridurre gli acquisti di bond, i tassi di interesse reali italiani salirebbero ancor più rapidamente, aumentando le probabilità di una recessione dell’Italia.

 

Mattarella e i suoi consiglieri sono intrappolati in un pensiero di gruppo europeo, che nega ai cittadini italiani il diritto di dire la loro opinione su come gestire il proprio paese ed esclude compromessi ragionevoli. Nel tentativo di preservare l’ortodossia europea, possono scatenare forze distruttive che non sono in grado di controllare.

 

 

29/05/18

Telegraph - Colpo di stato soft dell'Europa in Italia: un momento cruciale

Ambrose Evans Pritchard sul Telegraph commenta in un suo articolo del 28 maggio il veto del Presidente Mattarella alla nomina a Ministro dell'economia del professor Paolo Savona con la considerazione che quest'atto rischia di diventare uno "straordinario precedente".

 

Opponendosi infatti alla nomina di Paolo Savona a Ministro dell'economia con l'argomento che la sua posizione critica sull'euro “potrebbe provocare l'uscita dell'Italia dall'unione monetaria e innescare una crisi finanziaria”, si pone il precedente in base al quale la strada del governo è sbarrata per qualsiasi movimento politico o coalizione di partiti che osi mettere in discussione l'ortodossia dell'unione monetaria.

 

Una mossa che in realtà, osserva Pritchard, invece di porre un argine alla crisi rischia di peggiorare infinitamente la situazione, sotto diversi punti di vista.

 

Da un lato perché inquadra gli eventi come una battaglia frontale tra il popolo italiano, che a maggioranza ha votato a favore dei ribelli 5 Stelle-Lega, e "un'eterna 'casta' fedele allo straniero" come la definisce Pritchard. Il concetto che appare in tutta evidenza è espresso citando le parole di Claudio Borghi della Lega:

 

Ormai è chiaro che si tratta di una scelta tra la democrazia e uno spread rassicurante sui mercati. Dobbiamo giurare fedeltà al dio euro per poter avere una vita politica in Italia. È peggio di una religione."

 

Inoltre, per giustificare il suo veto nei confronti dell'euroscetticismo, il Presidente ha incautamente evocato lo spettro dei mercati finanziari, ma il risultato è stato quello di aver messo gli investitori davanti alle implicazioni davvero spaventose di questa crisi istituzionale, che Pritchard definisce come una " 'convulsione costituzionale': una crisi continua che durerà per tutta l'estate e che potrà concludersi solo con nuove elezioni, che peraltro non risolveranno nulla". Il risultato è che lo spread sulle obbligazioni italiane a 10 anni, dopo una lieve flessione ha poi ricominciato a crescere e che i titoli bancari in borsa stanno crollando più forte di prima.

 

Pritchard osserva come questa mossa del Presidente si collochi in una sorta di "zona grigia" dei poteri presidenziali: il Presidente Mattarella si è appellato alla violazione dell'art. 81 della Costituzione italiana che, come riformato nel 2012, prevede il pareggio di bilancio, e al suo dovere di garantire gli impegni presi dall'Italia nel contesto internazionale. A prescindere dalle considerazioni se questo possa effettivamente qualificarsi come un "colpo di stato soft", Pritchard ricorda che l'elezione del Presidente Mattarella è stato il frutto di un compromesso tra le forze politiche allora in Parlamento su una figura di basso profilo, che certamente non ha l'autorevolezza per "bloccare l'Italia nell'euro in eterno".

 

E comunque c'era da aspettarselo, dato che già nel 2011 il governo Berlusconi era stato rovesciato da Bruxelles e dalla Banca centrale europea (se ne parlava qui, nel vecchio blog) e persone informate sui fatti avevano fatto trapelare che lo spread sui bond era stato manipolato per esercitare la massima pressione sul governo italiano.

 

Ora, tuttavia, la situazione è stata spinta a un'impasse molto pericolosa. Savona non è certo una testa calda, ex funzionario della Banca d'Italia, ex ministro della Repubblica italiana ed ex direttore generale di Confindustria, con toni abbastanza concilianti ha affermato che il suo reale obiettivo è di riportare l'eurozona a una situazione di maggior equilibrio ed equità, con degli argomenti anche giuridicamente impeccabili basati sui Trattati europei; per cui l'establishment avrebbe anche potuto cercare di ammorbidire le sue posizioni senza giungere a uno scontro frontale molto deleterio per il paese e dagli esiti incerti.

 

Queste le considerazioni conclusive dell'articolo:

 

"Con un po' più di finezza, i 'poteri forti' e i mandarini italiani avrebbero potuto collaborare con Savona e trovare un modo per ammorbidire l'ordine del giorno della coalizione Lega-Grillini. Il loro istinto li portava in questa direzione. La spinta ad estrometterlo del tutto - e così cercare di soffocare sul nascere la ribellione euroscettica, come è stato fatto con Syriza in Grecia - è arrivata da Berlino, da Bruxelles, e dalla struttura di potere dell'UE. Solo il tempo ci dirà se sono cascati in una trappola da loro stessi congegnata.

 

Il calcolo degli ambienti intorno al presidente è che gli italiani, posti di fronte all'abisso finanziario e politico, cambieranno idea e rinunceranno alla rivolta. La scommessa è che l'attrito politico che si creerà da qui alle nuove elezioni, previste a ottobre, potrà ridisegnare il paesaggio politico italiano. Può anche riuscire, ma è un'ipotesi densa di rischi.

 

Dalle ultime elezioni a oggi, la Lega di Matteo Salvini ha già guadagnato otto punti nei sondaggi. Come Gabriele d'Annunzio a Fiume nel 1919, la Lega ha capitalizzato consenso sugli umori nazionalisti scatenati dagli ultimi eventi. 'Non saremo mai servi e schiavi dell'Europa', ha detto Salvini, e ha già proclamato che il prossimo voto sarà un plebiscito sulla sovranità italiana e un atto di resistenza nazionale contro 'Merkel, Macron e mercati finanziari'.

 

Ma c'è un altro pericolo. La fuga di capitali ha una sua logica implacabile. La si può notare nell'apprezzamento del franco svizzero. Esiste il rischio che i flussi in uscita accelerino e spingano gli squilibri interni al sistema di pagamenti interbancari Target2 della Banca centrale europea verso il punto di rottura.

 

I crediti Target2 della Bundesbank tedesca sono già a 923 miliardi di euro. È probabile che arriveranno a 1 trilione di euro in breve tempo, provocando da parte di Berlino richieste sempre più forti per il loro congelamento. L'Istituto IFO in Germania ha già avvertito che devono essere posti dei limiti. Qualsiasi mossa per limitare i flussi di liquidità significherebbe che la Germania è vicina a staccare la spina all'unione monetaria e scatenare una reazione a catena inarrestabile.

 

Mattarella si trova davanti un'estate estenuante. Rischia di finire tra quattro mesi con la stessa alleanza Lega-Grillini, ma con una maggioranza ancora più solida e un mandato popolare clamoroso al loro "governo del cambiamento".

 

Potrebbe seguire la strada del presidente legittimista francese Patrice de MacMahon, che negli anni '70 dell'Ottocento tentò di imporre il suo governo dell' 'ordine morale' a una Camera dei Deputati ostile, invocando i suoi poteri formali sotto la Terza Repubblica. La scommessa fallì. Il Parlamento lo affrontò con un ultimatum: "sottomettersi o dimettersi". La democrazia prevalse."

 

28/05/18

Eurointelligence sulla decisione di Mattarella: bentornati nella Germania di Weimar

Nella sua rassegna stampa di oggi, il sito Eurointelligence, diretto dall'editorialista del Financial Times Wolgang Munchau, commenta la decisione di Mattarella di porre il veto sul governo "populista" che stava per formarsi come un avvenimento molto grave e denso di conseguenze forse impreviste. Non era infatti mai accaduto nella storia delle democrazie europee che un presidente impedisse la formazione di un governo dotato di una solida maggioranza parlamentare. Il risultato sarà sicuramente una sfiducia diffusa del popolo italiano nel sistema democratico del proprio paese, e per alcuni aspetti appare una riedizione della miopia politica che portò alla tragedia di Weimar,  ma questa volta sotto forma di farsa.  

 

 

28 Maggio 2018

 

Nelle ultime dodici ore ha continuato a girarci nella mente l'idea che la storia si ripete, prima come tragedia poi come farsa. Il presidente Sergio Mattarella ha deciso di staccare la spina al governo 5 Stelle/Lega. La ragione apparente è stata la sua obiezione a Paolo Savona come ministro delle finanze, viste le sue opinioni scettiche sull'eurozona. Il suo veto su Savona ha provocato l'immediata decisione di Giuseppe Conte di rimettere il suo mandato alla formazione del governo. Il risultato sarà di inasprire il popolo italiano con una sensazione di sfiducia nel gioco democratico.

 

Il veto di Mattarella porterà quindi a nuove elezioni, probabilmente nella seconda metà dell'anno. Ma, a differenza delle ultime elezioni, queste saranno di fatto un referendum sull'appartenenza dell'Italia all'euro, date le ragioni per cui questo governo non è riuscito a formarsi. Nel frattempo, Mattarella ha deciso di dare l'incarico di Presidente del consiglio a Carlo Cottarelli, ex membro del FMI, per calmare i mercati. Cottarelli è un tecnocrate alla Mario Monti, mai eletto. Ma, a differenza di Monti, non avrà nemmeno una maggioranza parlamentare alle spalle.

 

Il Parlamento rimane il limite ultimo della politica italiana - ed è il motivo per cui questo espediente messo in atto dal Presidente difficilmente riuscirà. Non vediamo in alcun modo come questo Parlamento possa approvare un bilancio proposto da un'amministrazione Cottarelli. Si aspettano forse che i 5 Stelle o la Lega votino a favore? Più aumenta il caos nel paese, più voti otterranno.

 

Questi sono avvenimenti politici molto gravi, perché possono avere delle conseguenze importanti, alcune delle quali non intenzionali.

 

Per la prima volta a nostra memoria in uno stato europeo democratico, un presidente ha usato i suoi poteri per impedire l'insediamento di un governo con una solida maggioranza in parlamento. L'idea originale alla base del conferimento al Presidente di poteri così forti (di nomina, ndt) subito dopo le elezioni era proprio l'opposto: dare al Presidente il diritto di imporre un compromesso quando non c'è una maggioranza. La decisione di Mattarella susciterà in Italia la percezione diffusa che il sistema politico è guasto. Un primo assaggio è arrivato la scorsa notte quando Luigi Di Maio, il leader dei 5 Stelle, ha chiesto l'impeachment di Mattarella. È improbabile che possa aver successo, perché nel merito dovrebbe decidere la Corte costituzionale. Mattarella è stato uno dei giudici della Corte. Ma non è importante che l'impeachment abbia successo o fallisca. Rafforza comunque l'impressione di un sistema politico a pezzi.

 

 

Anche il discorso xenofobo ne esce rafforzato. Matteo Salvini, il leader della Lega, ha immediatamente accusato Berlino e Parigi di essere dietro a quello che considera un colpo di stato. In particolare cresce la rabbia anti-tedesca. E l'ira anti-italiana nei media tedeschi. Già all'inizio degli anni '90 Ralf Dahrendorf avvertì che l'euro avrebbe messo i popoli europei l'uno contro l'altro. Allora non ci credevamo, ma Dahrendorf aveva ragione.

 

La motivazione immediata della decisione di Mattarella è quella di evitare una possibile crisi. Potrebbe essere. Ma evitare una crisi finanziaria a breve termine ha un prezzo da pagare. Forzare delle elezioni che saranno viste come un referendum sull'appartenenza dell'Italia alla zona euro, potrebbe dare al prossimo governo un mandato ufficiale per un'uscita. Come Syriza nel 2015, un governo Lega / 5 Stelle non avrebbe avuto il mandato per un'uscita adesso. Entrambe le parti hanno attenuato la loro retorica anti-euro in vista delle elezioni. Ma questa volta sarà diverso.

 

In questo momento è difficile capire se il Movimento 5 Stelle chiarirà la sua posizione nel dibattito, ma ci aspettiamo che la Lega possa beneficiare in modo significativo di questa nuova situazione. Pensiamo che la Lega potrebbe ottenere più del 22% che registra attualmente nei sondaggi.

 

La decisione di Mattarella si basa anche sul calcolo che la Lega, insieme a Forza Italia e Fratelli d'Italia, potrebbe conquistare la maggioranza assoluta dei seggi alle prossime elezioni, il che richiederebbe un minimo del 40% nel proporzionale. Se raggiungessero il 40%, finirebbero con una maggioranza assoluta precisa in parlamento (50% dei seggi più uno). In pratica, questo non sarebbe sufficiente per governare, perché la maggioranza di un solo seggio in più è inutile. Avrebbero ancora bisogno di formare una coalizione.

 

Il pensiero alla base di questa strategia è che, legando Salvini a una coalizione con Silvio Berlusconi, il suo euroscetticismo potrebbe risultarne mitigato. Pensiamo che questa opinione sia sbagliata. Ma, fatto ancora più importante, che sia astorica.

 

In precedenza avevamo già osservato i paralleli con Weimar, in particolare con il modo in cui un establishment liberale ha perduto il controllo della situazione: non risolvendo i problemi economici, mantenendo a qualsiasi costo fuori dal potere gli estremisti - allora i nazisti e i comunisti, oggi i populisti; sottovalutandoli; sopravvalutando la propria capacità di ricucire sempre le maggioranze contro la volontà popolare; e costringendo a ripetere le elezioni. È tutto lì. La storia si ripete come farsa.

 

26/05/18

Sarà l'Italia a decretare la fine dell'euro?

Mentre nel nostro Paese le trasmissioni televisive e la grande stampa rigurgitano di sedicenti opinionisti ed esperti intenti a formulare profezie terrorizzanti a sostegno di una eterna - quanto inutile - politica dell'austerità, agitando doverosamente lo spauracchio del debito pubblico, è un economista tedesco, Daniel Stelter, fondatore del think tank tedesco Beyond the Obvious e già membro del Comitato esecutivo del Boston Consulting Group, che ci riporta con i piedi per terra: la verità è che, se si fa trovare pronta a uscire dall'euro, l'Italia è in una posizione di forza rispetto alla Germania. Tanto più che i meccanismi di distorsione del mercato creati dalla moneta unica sono sul punto di ritorcersi contro la Germania stessa. Dal sito The Globalist.

 

 

 

Di Daniel Stelter, 22 maggio 2018

 

 

Francia e Germania saranno molto flessibili nella loro risposta alle richieste italiane, a dispetto della retorica ufficiale di Berlino e Parigi.

 

I politici e i mercati finanziari sono rimasti sorprendentemente rilassati dopo le recenti elezioni italiane. La loro aspettativa era che i nuovi partiti eletti si comportassero come tutti i partiti italiani in precedenza, dimenticando le promesse fatte prima delle elezioni.

E, nel caso non lo facessero, che il più importante italiano in Europa, il presidente della BCE Mario Draghi, avrebbe in qualche modo assicurato che tutto restasse calmo acquistando ancora più obbligazioni italiane.

Tuttavia, il nuovo governo italiano sta facendo saltare la speranza illusoria, nutrita dai politici di Bruxelles e Berlino, che si possa superare la crisi dell'eurozona facendo sempre di più le stesse cose.

Se si atterranno al loro programma - incentrato su tasse più basse, reddito di base per tutti e abolizione della recente riforma pensionistica - questo porterà l'Italia ad avere deficit molto più elevati.

Qualunque cosa si pensi di questo programma, il tentativo di superare la crisi dell'eurozona risolvendo il problema del debito eccessivo con ancora più debito ora è stato smascherato come una favoletta. L'inondazione di denaro proveniente dalla BCE negli ultimi anni ha soffocato i sintomi, ma non ha rimosso le cause.

 

 

Quello che avrebbe dovuto essere fatto è risaputo


 

 

Che piaccia o no, l'eurozona ha bisogno di un processo ordinato per superare il peso del debito eccessivo (pubblico e privato) e la competitività divergente dei suoi Stati membri.

Quest'ultima richiede di ridisegnare la partecipazione all'eurozona: e questo significa che o esce dall'euro la Germania e alcuni altri paesi del Nord o se ne vanno alcuni dei paesi meno competitivi del Sud.

Ma prima che una simile ristrutturazione possa avere luogo, deve essere ridotto il peso del debito reale. Non ci sono molte opzioni. Il sistema migliore sarebbe una ristrutturazione del debito concordata, intrapresa in uno sforzo congiunto dei paesi debitori e creditori.

In questo caso, l'eccesso di debito del settore pubblico e privato nell'eurozona - stimato in un range intorno ai tre trilioni di euro - sarebbe fuso insieme e la sua scadenza prolungata per un lungo periodo.

Sia i creditori che i debitori contribuirebbero, e la BCE potrebbe sostenere questo processo acquistando parte del debito. Questo è risaputo da quasi dieci anni.

Ma questa opzione richiede ai leader politici di ammettere di fronte all'opinione pubblica che l'euro è un progetto politico privo di un'adeguata base economica (il che è quello che ha provocato grosse perdite per tutti i paesi coinvolti).

 

 

La Germania ha guadagnato tempo


 

 

Angela Merkel non ha mostrato capacità di leadership. Ha preferito cercare di guadagnare tempo, facendo assegnamento sulla BCE e sperando in un miracolo. Che non c'è stato. Ad oggi, continua l'insistente negazione della triste realtà: l'euro non opera nel miglior interesse della Germania.

Piuttosto, svolge il ruolo di un sussidio per i nostri settori orientati all'esportazione, che finanziamo noi stessi offrendo credito ai nostri clienti internazionali, anche se la maggior parte di questi ultimi non sarà mai in grado di rimborsare questo credito. Questo schema ora è sul punto di ritorcersi contro di noi.

Per quanto i leader tedeschi si ostinino a negarlo, il nuovo governo italiano ha ragione nel sostenere che le politiche di austerità non risolvono il problema dell'eccessivo indebitamento, ma che al contrario peggiorano la situazione. Inoltre, non toccano il problema della competitività divergente.

La politica della Germania per quanto riguarda la crisi dell'euro degli ultimi dieci anni può essere descritta solo come un totale fallimento, che ha fatto aumentare i costi per tutti: i paesi debitori e il principale paese creditore, la Germania.

Se Angela Merkel avesse optato per una ristrutturazione del debito ordinata, oggi sarebbe vista come la leader che ha salvato l'Europa. Poiché non l'ha fatto, passerà alla storia come il politico che ha portato il progetto europeo al collasso, bloccando una soluzione costruttiva alla crisi dell'eurozona, oltreché passando con una decisione autonoma alla politica delle frontiere aperte.

 

 

La Germania può essere ricattata


 

 

Se Angela Merkel vuole mantenere l'illusione che l'euro sia vantaggioso per la Germania e la sua immagine di chi gestisce con successo l'eurozona, deve fare "qualunque cosa costi" per impedire all'Italia di lasciare l'euro.

Questo sarà però difficile, se teniamo conto del fatto che, col passare del tempo, all'interno dell'eurozona sempre più potere si è spostato verso i debitori. Al riparo della calma creata dalla BCE, abbiamo potuto assistere a una fuga di capitali dagli Stati del Sud verso altri Paesi, in particolare verso la Germania.

Il segno più visibile di questa fuga di capitali, incoraggiata e sostenuta dal programma di acquisto di obbligazioni della BCE, sono i cosiddetti crediti Target 2 della Bundesbank tedesca.

Questi sono esplosi, fino a toccare il trilione di euro, una somma pari a oltre 12.000 euro pro capite in credito erogato dalla Germania senza interessi, senza ammortamento e senza alcuna garanzia. Considerati gli eventi in corso in Italia, c'è da aspettarsi un significativo balzo verso l'alto di questo numero nel prossimo mese.

L'Italia è il principale debitore nell'ambito del regime, con quasi 450 miliardi di euro. In teoria, qualsiasi paese che lasci l'euro dovrebbe prima risolvere le sue passività sul Target 2. In pratica, è chiaro che l'Italia non sarebbe mai in grado di farlo. Bancarotta significa bancarotta.

 

 

Una valuta parallela


 

 

Questo mette l'Italia in una posizione molto forte. Il nuovo governo italiano lo sa e agisce di conseguenza. Ha colto la lezione chiave dal fallimento del governo greco di Syriza. Non puoi semplicemente minacciare un'uscita dall'euro, devi effettivamente prepararla. Da qui i preparativi dell'Italia per istituire una valuta parallela.

I cosiddetti minibot (Buoni del Tesoro non fruttiferi) sarebbero garantiti dalle entrate fiscali, sono denominati in euro, ma stampati solo in Italia e sono una valuta parallela (BoT è l'abbreviazione italiana per Buono del Tesoro e "mini" riflette il taglio piccolo).

Una volta che hai messo in opera una valuta parallela, basta un decreto per passare a una nuova valuta per l'intero paese. Anche senza farlo, è possibile che nel tempo i minibot diventino la valuta utilizzata nella vita di tutti i giorni in Italia.

Questo rappresenta una minaccia politica significativa per l'euro, in quanto dimostrerebbe che la moneta comune non è affatto "irreversibile", come sostenuto dai politici che la difendono.

In effetti, i mercati si aspettano che altri paesi seguano, e giustamente. Date queste inquietanti prospettive, c'è da aspettarsi che Francia e Germania saranno molto flessibili nella loro risposta alle richieste italiane, indipendentemente dalla retorica ufficiale di Berlino e Parigi.

 

 

Annullare il debito detenuto dalla BCE


 

 

È qui che potrebbe entrare in gioco un'altra idea del nuovo governo italiano. Una prima versione dell'accordo di coalizione ha chiesto una cancellazione parziale del debito detenuto dalla BCE.

Questa idea non è così folle come può sembrare. Per diversi anni tra gli economisti c'è stato un dibattito serio sul fatto che una cancellazione del debito da parte delle banche centrali potrebbe essere una soluzione per l'economia mondiale sovraindebitata.

Adair Turner, ex capo della Financial Services Authority nel Regno Unito, è il suo più importante sostenitore. A suo avviso, le banche centrali dovrebbero acquistare parti significative del debito in essere e quindi semplicemente annullarlo. Poiché le banche centrali non possono mai diventare insolventi - visto che "stampano" i soldi - questo sarebbe un sistema miracoloso per sbarazzarsi del debito.

I critici di una simile manovra temono una perdita di fiducia nel valore del denaro e l'emergere di un'inflazione tipo Weimar. Tuttavia, i sostenitori di questa manovra ribattono che, finché si tratta di una misura una tantum, non dovrebbe esserci alcun impatto negativo.

Il Giappone può fornire un esempio pertinente di strategia che dimostra che un simile approccio può funzionare. La Bank of Japan detiene attualmente più del 50% del debito del Giappone e presto ne possiederà oltre il 70%. Gli osservatori si aspettano una cancellazione del debito nei prossimi anni.

L'attuazione di un approccio di questo tipo in Europa è più difficile, in quanto coinvolge diversi Paesi e implica una ridistribuzione della ricchezza tra paesi. Naturalmente, i paesi con livelli di debito più elevati ne trarranno maggior beneficio.

Anche se sembra inimmaginabile per molti osservatori esterni della scena politica ed economica tedesca, è lecito ipotizzare che i politici tedeschi sarebbero in ultima analisi pronti ad accettare una soluzione simile, nonostante tutte le loro dichiarazioni pubbliche.

 

 

Conclusione


 

 

Che questo piaccia o no, il nuovo governo italiano è in una posizione molto più forte di quanto molti osservatori e politici in Germania siano disposti ad ammettere. Già nel 2012, un'analisi della Bank of America ha dimostrato che secondo la teoria dei giochi il risultato più probabile è il successo del ricatto della Germania da parte dell'Italia, seguito da un'uscita dall'Italia dall'euro.

Vada come vada, la partita finale sembra molto vicina. Indipendentemente da come si svolge, non c'è dubbio che l'illusione di aver risolto la crisi dell' eurozona sta svanendo rapidamente.

 

25/05/18

Barron’s – Senza euro l’Italia non sarebbe l’Argentina o la Turchia, ma il Regno Unito

Un articolo molto chiaro e documentato su Barron's traccia un confronto tra l'economia italiana e quella britannica. Storicamente i fondamentali dei due paesi sono molto simili, con tassi di inflazione pressoché uguali e tassi di interesse reali largamente paragonabili. Entrambi i paesi hanno alcuni problemi strutturali e culturali, peraltro non troppo diversi. Londra è una metropoli globale, ma è anche un'eccezione nel contesto britannico. La grande differenza negli sviluppi economici recenti l'ha fatta il regime monetario, con una Gran Bretagna indipendente e un'Italia agganciata al marco tedesco (l'euro). Ridicolizzati i tentativi di confronto con i mercati emergenti (sullo stesso tema si veda anche questo articolo di Borghi e Bagnai sul Corriere), un buon termine di paragone per l'Italia è dunque il Regno Unito.

 

 

di Matthew C. Klein, 23 maggio 2018

 

Nel mio articolo economico della scorsa settimana sostenevo che i difetti dell’area euro spiegano molti dei problemi economici che l’Italia ha avuto nello scorso decennio. In particolare la moneta unica ha trasformato i titoli pubblici da prodotti con un tasso di rendimento in prodotti di credito. Questo costringe la politica fiscale ad essere troppo restrittiva, specialmente durante le fasi di contrazione dell’economia, e rende anche la politica monetaria più restrittiva di quello che dovrebbe essere.

 

Alcuni lettori erano in disaccordo. I costi di indebitamento dell’Italia, secondo loro, avrebbero avuto una componente di credito pro-ciclica anche se l’Italia avesse avuto la propria valuta e se la Banca d’Italia l’avesse potuta stampare. Il Brasile, per esempio, ha la sua propria valuta e un mercato di titoli pubblici denominati per lo più in valuta nazionale, e nonostante questo è stato costretto ad aumentare i suoi tassi di interesse e a praticare tagli di bilancio nel bel mezzo della peggiore recessione che fosse capitata da decenni. Jokesters ha disegnato dei diagrammi di Venn notando che l’Italia e l’Argentina hanno entrambe una vasta componente di etnia italiana nelle proprie popolazioni, mentre l’Italia e la Turchia hanno in comune una valuta locale tradizionale che si chiama lira. L’implicazione sarebbe che l’Italia è un caso disperato.

 

Questi argomenti però perdono di vista il punto fondamentale. L’Italia non è un mercato emergente, non più di quanto lo sia il Regno Unito, né storicamente né in questo momento.

 

Per prima cosa si considerino i tracciati di andamento dell’inflazione. È difficile distinguere quale tra le due sia l’economia “responsabile” e quale invece non lo sia:

 



 

Cosa ancora più importante dell’inflazione è la storia dei tassi di interesse. Il valore della sovranità monetaria è che il costo dei capitali segue le previsioni di crescita. Il grafico sotto confronta il tasso di interesse di riferimento del debito italiano rispetto a quello britannico dopo aver sottratto l’inflazione:

 



 

Come si può vedere, il governo italiano ha pagato tassi di interesse sostanzialmente uguali a quelli del Regno Unito nel corso degli ultimi quattro decenni, con due eccezioni da notare. Si tratta della crisi dello SME all’inizio degli anni ’90 e della crisi dell’euro negli anni recenti. Il Regno Unito avrebbe attraversato un’esperienza simile a quella dell’Italia, eccetto che il governo britannico, a differenza di quello italiano, ha deciso di abbandonare l’aggancio al marco tedesco durante la crisi dello SME, e di conseguenza ha perso l’opportunità di entrare nell’euro.

 

L’Italia ha molti altri problemi. Come ho scritto la settimana scorsa, l’Italia ha un andamento demografico eccezionalmente negativo, una contrapposizione molto netta tra il Nord e il Sud e una cultura aziendale anti-meritocratica. Ma anche il Regno Unito ha un sacco di problemi, se è per quello, tra cui una simile contrapposizione netta tra Nord e Sud e una cultura dell’istruzione che spesso premia il “bravo sportivo” e il “dilettante talentuoso” rispetto al rigoroso accademico. Entrambi i paesi hanno il problema delle banche gonfie (di crediti di dubbio valore, ndt). Togliete la metropoli londinese – la cui prosperità dipende in modo preoccupante dalla volontà di fornire servizi agli oligarchi del Medio Oriente e dell’ex Unione Sovietica – e il Regno Unito diventerà uno dei paesi più poveri dell’Europa Occidentale.

 

Tutto questo contribuisce a spiegare perché i lavoratori italiani sono stati, storicamente, più produttivi di quelli britannici, e anche ora sono circa allo stesso livello. Né l’Italia né il Regno Unito hanno avuto una gran crescita della produttività dal 2007 a oggi. Anche il governo britannico ha aumentato le tasse e tagliato le spese dopo le elezioni del 2010, e questo senza che ve ne fosse alcuna necessità o che i mercati dei capitali spingessero a farlo. Il fatto che la produzione economica nei due paesi sia stata notevolmente diversa [in questo contesto] è dipeso dal fatto che il Regno Unito gode della sovranità monetaria. Questo ha parzialmente compensato la debolezza delle sue istituzioni e l’incompetenza dei suoi politici. Come risultato il Regno Unito ha avuto una maggiore inflazione e più posti di lavoro.

 

Il grafico sotto mette a confronto i cambiamenti nel prodotto interno lordo pro-capite in Italia e nel Regno Unito assieme a due andamenti ipotetici:

 



 

La linea grigia tratteggiata mostra cosa sarebbe successo se l’Italia avesse avuto lo stesso incremento in occupazione e in ore lavorate che c’è stato nel Regno Unito, mentre la linea gialla tratteggiata mostra cosa sarebbe successo se il Regno Unito avesse avuto lo stesso andamento del mercato del lavoro che c’è stato in Italia.

 

Ricordate che il PIL è semplicemente il prodotto per ora lavorata (produttività) moltiplicato per il numero di ore lavorate. Poiché l’Italia e il Regno Unito hanno avuto livelli e tassi di crescita della produttività quasi identici negli ultimi dodici anni, la differenza in crescita del PIL pro-capite è dovuta quasi interamente ai cambiamenti nel numero di ore lavorate.

 

Il Regno Unito ha sempre avuto tassi di occupazione maggiori rispetto all’Italia, perché il suo mercato del lavoro è meno regolamentato e ci sono meno barriere culturali all’ingresso delle donne nella forza lavoro. Gli italiani storicamente hanno compensato questa differenza occupando meno posti di lavoro part-time. Nel 2007 il lavoratore italiano medio ha lavorato circa l’8,5% di ore in più all’anno rispetto al lavoratore britannico medio, mentre la proporzione di britannici con un posto di lavoro era circa del 13% più alta della proporzione di italiani con un posto di lavoro.

 

Ovviamente c’è ampio spazio per dei miglioramenti nelle leggi sul lavoro in Italia. Ma ciò che conta ai fini di questo confronto è come il tasso di occupazione e le ore lavorate per posto di lavoro siano cambiate in ciascun paese. Dal 2007 a oggi il tasso di occupazione britannico è cresciuto di tre punti percentuali, mentre il numero di ore lavorate per posto di lavoro è rimasto invariato. In Italia il tasso di occupazione è caduto di quasi un punto percentuale, mentre il numero di ore lavorate per posto di lavoro è crollato di quasi il 5%. Nessuno dei due paesi ha fatto dei gran cambiamenti negli incentivi a lavorare, il che suggerisce che le differenze siano dovuto per lo più alle differenze tra i rispettivi regimi monetari.

 

L’effetto combinato è sorprendente. Se l’Italia avesse avuto lo stesso (basso) costo dei capitali e la stessa flessibilità nel tasso di cambio di cui ha goduto il governo britannico, oggi andrebbe meglio di circa il 10%. Al contrario, se il Regno Unito fosse stato gravato dall’appartenenza all’euro come l’Italia, i suoi standard di vita oggi sarebbero del 10% inferiori.

 

Gli italiani non stanno vivendo nel migliore dei mondi possibili. Se non fossero mai entrati nell’euro i loro problemi attuali non sarebbero quelli dell’Argentina, del Brasile o della Turchia. Non se la starebbero passando bene – l’Italia è l’unico grande paese sviluppato ad aver fatto peggio del Regno Unito negli ultimi dieci anni – ma se la passerebbero sicuramente meglio di adesso.

23/05/18

Eurointelligence: Mattarella non ha molta scelta

Wolfgang Munchau raccomanda sul suo blog Eurointelligence di guardare alla situazione italiana tenendo conto delle reali dinamiche macro, anziché fermarsi alle piccole polemiche. Il parlamento italiano attualmente non può che sostenere un governo in rotta di collisione con Bruxelles, e in ogni caso Italia e Germania non possono coesistere per sempre all’interno di un’unione monetaria dannosa e destinata a finire in tragedia.

 

 

 

Di Wolfgang Munchau, 23 maggio 2018

 

La nostra esperienza di osservatori veterani delle crisi politiche e finanziarie europee suggerisce che sia meglio ignorare le schermaglie quotidiane e concentrarsi sulle dinamiche sottostanti. Potremmo perdere anni a soppesare le possibilità di un secondo referendum sulla Brexit. Ma una realistica analisi degli incentivi in gioco per i due partiti principali suggerisce che, in primo luogo, la Brexit si farà, in secondo luogo, la sua versione sarà probabilmente “soft”.

 

Se guardiamo agli ultimi sviluppi della situazione politica italiana, in rapida evoluzione, è meglio non agitarsi troppo per le meditazioni del presidente Sergio Mattarella riguardo al governo che gli è stato proposto. Occorre invece ricordare che il M5S e la Lega insieme hanno la maggioranza in parlamento. Nessuno può governare contro di loro. Mattarella ha importanti poteri formali. Può nominare il presidente del consiglio, ma questo deve poi essere confermato dal parlamento. Mattarella potrebbe nominare un ministro delle finanze devoto a Maastricht, ma le leggi finanziarie devono poi essere approvate dal parlamento. Questi sono i fatti significativi della politica italiana oggi. Il M5S e la Lega probabilmente otterranno che il loro candidato – Giuseppe Conte, al momento – sia nominato primo ministro. Sembra che abbia pasticciato con un titolo accademico. E allora? Possono esserci due conseguenze: o viene comunque nominato lui o un altro nome di basso profilo, oppure ci saranno nuove elezioni, che porteranno a una maggioranza ancora più larga per i due partiti populisti. Mattarella può scegliere solo tra due opzioni sgradite.

 

Un altro fatto incontrovertibile della realtà politica ed economica dell’eurozona è che l’Italia e la Germania non possono restare per sempre legate in una unione monetaria, se entrambe continuano ad agire come stanno facendo. Nessuna delle due considera la politica economica una questione comune ai paesi europei. La Germania ha introdotto riforme strutturali per guadagnare competitività nei confronti degli altri paesi dell’eurozona, e un freno all’indebitamento che porterà alla fine all’annullamento completo del suo debito (pubblico, NdVdE).

 

In Italia il processo delle riforme è fermo da lungo tempo, e un governo M5S/Lega perseguirebbe politiche incompatibili con finanze pubbliche sostenibili all’interno dell’eurozona. Qualcosa deve cambiare.

 

Lucia Annunziata ha letto il libro di prossima pubblicazione di Paolo Savona, il ministro delle finanze in pectore. Savona è stato ministro sotto Carlo Azeglio Ciampi nei primi anni 90, ed è stato fortemente influenzato dalla drammatica espulsione dell’Italia dallo SME nel 1992. Stando alle citazioni riferite dalla Annunziata, Savona scrive che l’euro ha provocato un aumento delle ingiustizie, e una situazione in cui non c’è parità di diritti, ma solo di doveri. L'euro ha danneggiato il progetto europeo perché è stato introdotto prematuramente. L’UE non era politicamente pronta a questo passo.

 

Le sue valutazioni sono significativamente simili a quelle di Martin Wolf nel 1991, come lui stesso ricorda in un suo recente articolo sul Financial Times:

 

“Il tentativo di legare insieme gli Stati potrebbe portare… a un enorme aumento degli attriti tra di loro. Se succedesse, il risultato aderirebbe alla definizione di tragedia nel mondo classico: hubris (arroganza), ate (follia); nemesis (distruzione)”.

 

AEP sul Telegraph - In Italia gli insorti fanno infuriare la Germania, ma si ribellano alle minacce dell'UE

 

Ambrose Evans Pritchard  rappresenta nei suoi ultimi articoli sul Telegraph la situazione italiana in tutta la sua rischiosità, ma anche nella sua grande potenzialità.

 

Nell'articolo del 17 maggio “I ribelli italiani fanno infuriare la Germania e rischiano il congelamento dei pagamenti da parte della BCE” Pritchard rileva come la proposta di contratto di governo Lega-5 Stelle, soprattutto nella sua formulazione originaria, abbia suscitato le vibranti proteste del professor Clemens Fuest, presidente dell'IFO Institute, e di tutto l'establishment tedesco, di fronte a quello che è stato definito come ”un ultimatum da parte dei 'ribelli italiani', i quali pretenderebbero trasferimenti da parte della Germania minacciando in caso contrario di uscire dall'euro”. A detta degli economisti tedeschi, l'Italia in questo modo mette una pietra tombale sulla proposta di unione fiscale avanzata dalla Francia. Tuttavia, come sottolinea lo stesso Pritchard,  era in realtà già ”molto difficile che la proposta potesse veramente realizzarsi”: la "lega anseatica" degli stati del Nord guidata dagli olandesi aveva infatti già avvisato di non essere affatto disposta a farsi trascinare in “avventure romantiche” mentre Olaf Scholz, ministro delle finanze tedesco della SPD, aveva dichiarato che ”molto del piano di Macron non vedrà mai la luce”.

 

Nel suo articolo successivo del 21 maggio ”Gli insorti italiani si ribellano allo spread e alle minacce della UE” Pritchard osserva come i moniti all'Italia si vadano moltiplicando: anche l'agenzia di rating Fitch ha lanciato l'allarme sul nuovo rischio paese, mentre il leader conservatore al Parlamento europeo, Manfred Weber, ha dichiarato che gli italiani stanno ”giocando con il fuoco” e il ministro delle finanze francese ha avvertito che l'Italia potrebbe trovarsi in un disastro di tipo “greco”.

 

Le misure di spesa e di riduzione delle tasse previste nel programma Lega-5 Stelle arriveranno a costare, secondo Citigroup, il 6% del PIL, e il deficit di bilancio raggiungerà la doppia cifra. Ma oltre a questo, l'abolizione del bail-in, lo stop alla privatizzazione del Monte dei Paschi di Siena, la volontà di ignorare le norme dell'UE in materia di aiuti di Stato per quanto riguarda l'Alitalia e l'industria siderurgica, sono passi che equivalgono, dice Pritchard, a "una rivolta totale". Ma l'Italia non è la Grecia, e il suo peso nell'unione monetaria non può essere ignorato:

 

"I mercati obbligazionari hanno preso coscienza dell'enormità di ciò che sta accadendo in un paese che non può essere facilmente schiacciato e sottomesso "à la Grecque", e che è abbastanza grande da distruggere l'unione monetaria."

 

Benché lo spread di rischio sul debito italiano a dieci anni sia salito di 65 punti base nelle ultime tre settimane e il contagio abbia cominciato a diffondersi sul debito spagnolo e portoghese, secondo Pritchard non siamo ancora in una situazione di pericolo reale:

 

“Il dramma nei mercati obbligazionari in questa fase è ancora simbolico. L'Italia ha ‘anticipato’ gran parte del suo fabbisogno finanziario per quest'anno. La Banca centrale europea sta ancora assorbendo gran parte delle emissioni di debito dell'Italia attraverso l'allentamento quantitativo. Il problema si presenterà alla fine dell'anno, quando la BCE chiuderà il rubinetto del QE.

 

In quel momento, l'Italia non avrà più un prestatore di ultima istanza alle sue spalle. Il Paese sarà nuovamente esposto alle forze del mercato. Un salvataggio sarà disponibile solo se il Paese entrerà in un programma di salvataggio ufficiale (ESM-OMT) a condizioni draconiane, che dovrà essere votato dal Bundestag tedesco e dall'olandese Tweede Kamer."

 

A quel punto, Pritchard prevede zero possibilità di una accettazione delle condizioni da parte della Lega e dei "Grillini", che inizierebbero ad attivare i minibot, ripristinando il pieno controllo sovrano sulla Banca d'Italia e sul sistema bancario italiano.

 

Tuttavia, nonostante per il momento l'Italia sia coperta dall'esposizione ai mercati, non è improbabile che si possa arrivare a una resa dei conti molto prima, secondo Pritchard.

 

Berlino ha minacciato di tagliare la liquidità della banca centrale e di estromettere l'Italia dal sistema dei pagamenti interbancari dell'eurozona, il Target2, nel quale la Germania vanta crediti - principalmente verso Italia e Spagna - per 927 miliardi di euro. Crediti che sono in continuo aumento.

 

A questo proposito Pritchard cita Claudio Borghi, economista della Lega, secondo il quale le minacce della Germania potrebbero rivelarsi un boomerang. Borghi ha dichiarato al Telegraph:

 

"Se vogliono davvero giocare duro, il loro gioco gli si ritorcerà contro. È la Germania il creditore di Target2, non noi, e sono loro che subiranno le perdite se noi andiamo in default. Vorrei esortare a un po' di cautela."

 

“Se qualcuno in Europa pensa di poter aumentare gli spread e che saremo estromessi, ha torto. Abbiamo vissuto tutto questo con Mario Monti nel 2011. Tutti in Italia comprendono che la manipolazione politica degli spread è il modo in cui impongono la loro austerità sul paese. Avremo con l'UE una discussione molto franca”.

 

In merito al nuovo governo, Pritchard commenta la scelta di compromesso per il primo ministro, che ancora attende di essere confermata dal Presidente Mattarella: Giuseppe Conte, un giurista sconosciuto ai più e senza esperienza politica.  Secondo Pritchard, Conte sarebbe in realtà un prestanome di Salvini e Di Maio, che nella sostanza eserciterebbero il potere avvalendosi di un organo speciale di risoluzione delle eventuali controversie composto dai due partiti, una novità al di fuori della struttura costituzionale italiana.

 

Paolo Savona, probabile ministro delle finanze, è definito da Pritchard “il flagello del trattato di Maastricht e dell'euro tedesco”. Nome noto nelle capitali europee, è considerato una persona su cui si può contare, non destinato a soccombere facilmente alle pressioni europee.

 

Infine, Ambrose Evans Pritchard ha intervistato Alberto Bagnai:

 

"Alberto Bagnai, senatore della Lega e stratega economico di importanza fondamentale, ha detto che il nuovo governo si adopererà al fine di accelerare la moneta parallela dei minibot per coprire i 70 miliardi di euro di pagamenti arretrati dello Stato verso appaltatori e famiglie: 'Intendiamo partire entro un anno e probabilmente quest'anno stesso. Ci sono molte aziende in grave difficoltà finanziaria.

 

C'è una fortissima richiesta politica dei minibot. La gente li vuole e li avrà. Se l'UE dice che non possiamo farlo, lo faremo comunque. La Francia ha violato le regole fiscali negli ultimi dieci anni.

 

Se la Germania o le autorità dell'UE tenteranno di ricattare l'Italia, questo alimenterà il risentimento nazionale e la gente in massa voterà per noi. Sono già molto arrabbiati', ha detto Bagnai. Gli ultimi sondaggi suggeriscono che in eventuali elezioni anticipate le forze populiste anti-UE prenderebbero una valanga di voti."

 

Pritchard osserva infine come la UE si trovi in una situazione non facile e potrebbe essere costretta a concedere molto di più di quanto ora non dia ad intendere. D'altra parte, anche l'Italia si trova in mezzo a una tempesta, con grandi rischi, ma anche grandi finestre di opportunità. Ecco le conclusioni di Pritchard:

 

”L’UE dovrà procedere con molta attenzione. Sta già affrontando una crisi gemella sulla Brexit e la deriva autoritaria nell'Europa orientale. Rischia una spaccatura strategica con gli Stati Uniti. L'Europa potrebbe dover accogliere le richieste della Lega-Grillini in misura molto superiore a quanto ora non lasci intendere. 'La voglia di scontro a Bruxelles è praticamente zero' , ha detto Lorenzo Codogno, ex capo economista del tesoro italiano ora a LC Macro Advisors.

 

L'Italia sta entrando nel vortice di due correnti potenti e opposte. Da un lato, uno stimolo fiscale netto del 2% o del 3% del PIL, man mano che il rallentamento dell'economia si esaurisce e si chiude l'output gap, porterà a un'impennata della crescita. Dall'altro, la crescita dei rendimenti dei titoli e la fuga dei capitali sono indici di una possibile crisi per un paese con un debito pubblico del 132% del PIL.

 

È tutt'altro che chiaro quale delle due tendenze in conflitto prevarrà nei prossimi due anni. Quello che è certo è che l'UE non può rischiare di fare altri errori.”

 

 

22/05/18

The Guardian - Le politiche dell'Italia hanno senso: sono le regole dell'eurozona ad essere assurde

In quest'articolo del The Guardian si sottolinea come la classe politica italiana sin dagli inizi della costruzione europea abbia spinto con entusiastica leggerezza per l'integrazione e per rientrare nella prima ondata di adesioni all'euro, nonostante i criteri di convergenza fossero ben lontani dall'essere rispettati. Ora, dopo due decenni perduti, gli elettori sono ormai in decisa maggioranza aderenti a partiti euroscettici che sfidando i vincoli di bilancio, inevitabili per tenere in vita l'unione monetaria, minacciano di farla crollare. Ma nonostante gli allarmi e i moniti della politica mainstream, ad avere un senso economico sono le politiche espansive dei cosiddetti "populisti" e non certo le assurde regole di Bruxelles. 

 

 

di Larry Elliott, 20 maggio 2018

 

William Hague una volta ha descritto l'euro come un edificio in fiamme senza uscite, e l'esperienza dell'Italia negli ultimi 20 anni ha dimostrato che il leader del partito conservatore aveva assolutamente ragione.

 

L'adesione alla moneta unica è stata decisa alla fine degli anni '90 come fosse una cosa facile. Uno dei paesi primi firmatari del trattato di Roma, l'Italia voleva disperatamente entrare nella prima ondata dell'Unione monetaria.

 

Ma non è stato condotto un vero esame sul fatto se un paese come l'Italia - con le sue tendenze inflazionistiche - potesse effettivamente far fronte ai rigori dell'adesione alla moneta unica. Non c'è stato nessun equivalente dei cinque criteri economici di Gordon Brown, criteri che l'allora cancelliere dello scacchiere (figura equivalente al Ministro delle Finanze in altri ordinamenti, ndt) aveva indicato (in aggiunta ai criteri di convergenza di Maastricht, ndt) al fine di valutare la possibilità della Gran Bretagna di unirsi all'eurozona.

 

Al contrario, quando è diventato chiaro che l'Italia non avrebbe rispettato i criteri (di Maastricht, ndt) le regole sono state piegate per assicurarsi che il paese entrasse nell'euro. Il risultato: due decenni economici perduti in cui il tenore di vita è rimasto stagnante, motivo per cui l'Italia si è ora allontanata dalla politica mainstream. Un governo di coalizione di due partiti populisti ed euro-scettici - il Movimento cinque stelle e la Lega - sembra imminente.

 

Sebbene nessuno dei due partiti della coalizione abbia mai apprezzato l'euro, ora entrambi si sono resi pienamente conto di quanta verità sia contenuta nelle parole di Hague. Il loro progetto di accordo politico comprendeva la proposta che l'UE stabilisse una procedura per l'uscita dall'euro per quei paesi che dimostrassero una "volontà popolare" in tal senso, ma ora questa proposta è stata abbandonata.

 

Non è difficile capire perché. Se i mercati finanziari si convincessero che il nuovo governo populista è seriamente intenzionato ad abbandonare la moneta unica, i titoli di Stato italiani diventerebbero più rischiosi. Gli investitori richiederebbero un rendimento più elevato per detenerli e ciò comporterebbe un aumento dei tassi di interesse di mercato. La Banca Centrale Europea potrebbe correre in aiuto con l'acquisto di titoli italiani, ma sarebbe poco incentivata a venire incontro a un governo a Roma che mostrasse l'intenzione di minare - se non distruggere - l'Unione monetaria.

 

Il nuovo governo si troverebbe coinvolto in una crisi finanziaria. Il sistema bancario traballante dell'Italia crollerebbe e il paese sprofonderebbe in una grave recessione. La disoccupazione aumenterebbe e il Movimento cinque stelle e la Lega verrebbero incolpati per questo. I populisti diventerebbero rapidamente impopolari.

 

Quindi il nuovo governo italiano si trova nella stessa posizione di tutti gli altri governi che il paese ha avuto negli ultimi due decenni: l'appartenenza alla moneta unica è una maledizione, ma il tentativo di abbandonare l'euro sarebbe ancora peggio. Come la Grecia, l'Italia sta scoprendo che è un po' tardi per dire che sarebbe stato meglio dotare la costruzione dell'euro di una qualche via di fuga. In realtà è più facile per la Gran Bretagna - con la propria banca centrale e la propria valuta - lasciare l'UE piuttosto che per l'Italia lasciare l'euro.

 

Ma anche se l'Italia prende le distanze dall'indipendenza monetaria, il nuovo governo ha comunque dei piani fiscali e di spesa che rappresentano una sfida per il modo in cui l'eurozona è stata gestita fino ad ora. Questi includono un nuovo reddito di cittadinanza, pensioni più generose e tasse più basse. Le stime suggeriscono che queste misure costeranno intorno ai 60 miliardi di euro all'anno - circa il 3,5% del PIL dell'Italia.

 

Ciò farebbe saltare le regole fiscali dell'eurozona, che impongono limiti severi alla misura in cui può essere concesso un deficit di bilancio. Inoltre, farebbe salire il rapporto debito / PIL dell'Italia - il volume del debito pubblico del paese in relazione alle dimensioni della sua economia - che passerebbe da poco più del 130% del PIL a circa il 150% del PIL.

 

La prospettiva di un deciso allentamento della politica economica spaventa i mercati finanziari e non andrà bene alle altre capitali europee. Ma, in realtà, le politiche fiscali della coalizione hanno senso. Il vero problema risiede nelle assurde regole fiscali deflazionistiche dell'eurozona.

 

Come ha rilevato Dhaval Joshi della BCA Research, l'Italia è per certi versi simile al Giappone. Entrambi i paesi hanno incontrato difficoltà perché le loro banche in crisi si sono rivelate incapaci di prestare al settore privato. Il Giappone ha risolto questo problema facendo in modo che il settore pubblico concedesse prestiti, anche se ciò significava un forte aumento del suo rapporto debito / PIL. L'Italia è in una posizione peggiore, perché le regole fiscali della zona euro non permettono di gestire maggiori deficit di bilancio.

 

L'Italia ha un indebitamento complessivo - privato e pubblico messi insieme - inferiore a Gran Bretagna, Francia e Spagna, ma per i vincoli fiscali dell'UE solo il debito pubblico è rilevante. Joshi osserva: "Di conseguenza, al governo italiano è stato impedito di ricapitalizzare il proprio sistema bancario e l'economia italiana ha ristagnato per un decennio".

 

I responsabili della moneta unica sanno che, così com'è, l'euro è un progetto incompiuto. Potrebbe essere completato dal pacchetto di riforme proposto dal presidente francese Emmanuel Macron, che comporterebbe oltre all'unione monetaria anche l'unione fiscale, presieduta da un ministro delle finanze della zona euro.

 

Non c'è la minima possibilità che Macron possa ottenere l'adesione al suo piano del nuovo governo di Roma, anche se potrebbe assicurarsi il sostegno a tutto campo della Germania.

 

Un'alternativa allo schema di Macron è consentire ai membri della zona euro più libertà per gestire politiche fiscali che soddisfino le loro esigenze, che è ciò che sta chiedendo la coalizione populista italiana. Allo stato attuale, le regole significano che qualsiasi paese in difficoltà può rendersi più competitivo solo attraverso la deflazione interna - tagli di spesa e austerità.

 

L'altra alternativa è lasciar andare alla deriva la situazione così com'è e sperare per il meglio. L'euro è sopravvissuto - a mala pena - a una crisi, ma non ne passerebbe un'altra. Il rischio non è che un paese salti fuori dall'edificio in fiamme, ma che l'edificio finisca per collassare con tutti dentro.

 

21/05/18

Breve storia triste del Monte dei Paschi di Siena

Da Malachia Paperoga, un breve, ma chiarificatore commento a proposito della polemica esplosa sulle dichiarazioni di Claudio Borghi sul Monte dei Paschi di Siena, con una ricostruzione dei fatti e dell'andamento del titolo che permette di rimettere le cose nella prospettiva corretta. Perché di fronte al dilagare sui media di un vero e proprio capovolgimento della realtà, che farebbe impallidire Orwell, è il buon senso stesso che si ribella.

 

 

 

di Malachia Paperoga, 20 maggio 2018

 

Nei giorni scorsi l’attuale Ministro dell’Economia italiano, Pier Carlo Padoan, ha commentato le dichiarazioni del parlamentare leghista Claudio Borghi su Monte dei Paschi di Siena. Secondo Borghi la banca va “ripensata” ma, ha detto Padoan, "le sue dichiarazioni, insieme alle indicazioni della bozza Lega-M5s, hanno creato una crisi di fiducia con caduta del titolo in Borsa. Un fatto grave che mette a repentaglio l'investimento effettuato con risorse pubbliche".

 

Si tratta di un’affermazione pesante, ma soprattutto ridicola.

 

Ora, mi piace tralasciare il commento di un ministro dell’Economia in carica che ritiene responsabili dell’eventuale crollo in borsa di una banca un parlamentare e/o i due partiti che formeranno (forse) il prossimo governo. Transeat, questa è davvero l’ultima delle obiezioni.

 

Facciamo invece un po’ di storia recente.

 

Febbraio 2014: insediamento del governo Renzi, Padoan è Ministro dell’economia un’azione MPS vale circa 270€

 

Ottobre 2014: MPS è bocciata allo stress test e deve ricapitalizzare per 3 miliardi di euro.

 

Giugno 2015: rimborso dei “Monti Bond” da parte di MPS, lo stato italiano diventa azionista di MPS.

 

Settembre 2015: approvazione del governo Renzi del bail in bancario, MPS vale 180€

 

1 Gennaio 2016: entra in vigore il bail in, MPS vale 120€

 

22 Gennaio 2016: Renzi dichiara che MPS è risanata e “un affare”, MPS vale ormai 70€

 

Dicembre 2016: insediamento governo Gentiloni, Padoan è confermato Ministro dell’economia, MPS vale 20€

 

23 Dicembre 2016: il titolo MPS è sospeso in borsa.

 

Luglio 2017: la UE approva aiuti di stato per 5,4 miliardi di € per MPS.

 

25 ottobre 2017: il titolo di MPS torna ad essere quotato in borsa.

 

17 Maggio 2018: Borghi dichiara che MPS è da ripensare, MPS, che valeva 3,1€, a fine seduta vale 2,92€

 

Riassumendo: Padoan (Partito Democratico) diventa ministro dell’Economia con il titolo MPS (banca chiaramente in orbita PD) che vale 270€. Durante la sua gestione del dicastero, la banca va ripetutamente in crisi, e lo stato accorda generosamente alla banca contributi per miliardi di euro, contributi che sono ormai completamente evaporati. A maggio 2018, con Padoan ancora in carica, il titolo vale ormai circa 3€. Una perdita di 267€ circa per azione. Senza calcolare l’enorme diluizione delle azioni dovuta ai successivi aumenti di capitale.

 

Ma se un parlamentare leghista (Borghi) fa una dichiarazione a riguardo, e il titolo MPS perde 0,2€, “giustamente” Padoan si sente in dovere di riprenderlo, perché “ha messo a repentaglio […] risorse pubbliche”.

 

La situazione è molto grave, ma chiaramente non è seria.

 

20/05/18

Il potere racchiuso in un minuto

 

Carissimi lettori, con questo post mi distacco dai contenuti abituali di Vocidallestero per parlare di meditazione. Apparentemente un argomento molto distante dai nostri temi consueti.


 

E invece no. Perché in realtà esiste un filo di connessione potente tra il nostro stato interiore e quel miglior equilibrio economico e sociale che ormai da anni, insieme a un gruppo di bravi ed efficacissimi divulgatori della rete, stiamo cercando di promuovere con impegno e passione. E sembra anche che ci stiamo riuscendo... la consapevolezza della non credibilità della "narrazione" ufficiale degli eventi, da parte dei media e dell'establishment, sembra ormai dilagare. Le elezioni in Italia hanno rappresentato una potente onda d'urto all'ordine europeo già così traballante e disfunzionale. E ora si tratta di lavorare al meglio perché le finestre di opportunità che comunque in mezzo a mille difficoltà si sono aperte ci conducano verso gli obiettivi desiderati.

 

Ma quale è il filo di connessione tra la meditazione e il nostro impegno civile?

 

Anticipo qui qualche considerazione, rimandando alle righe che seguono per dei link più diretti ed esplicativi.

 

In primo luogo è ormai noto che i benefici della meditazione sul cervello umano sono ampiamente dimostrati da numerosi studi delle neuroscienze. In particolare, la meditazione ci consente di sospendere la risposta che ordinariamente scatta in automatico, facendoci reagire negativamente a tutto ciò che ci crea stress e ansia, e con la pratica produce uno spazio al nostro interno da cui possiamo comprendere meglio noi stessi e le impressioni che ci raggiungono, e valutare in un attimo la risposta più utile ai fini del risultato che desideriamo ottenere.

 

La meditazione, dunque, in questa fase così densa di pericoli e di opportunità di evoluzione del nostro paese - e del mondo, a noi strettamente interconnesso - ci sostiene sia a livello individuale che a livello collettivo.

 

Individualmente, in quanto ci permette di economizzare e utilizzare al meglio le energie a nostra disposizione per compiere il percorso che desideriamo: confermando dentro di noi un'intenzione chiara di cui assumerci in pieno le responsabilità, aiutandoci a fare attenzione alle priorità senza inutili dispersioni, e a comprendere meglio che da soli non possiamo far nulla e che gli altri sono l'aiuto di cui abbiamo bisogno.

 

Anche a livello collettivo ci aiuta dunque a influire sugli eventi: a questo scopo non è tanto importante essere tanti, quanto essere quelli che siamo, ben radicati dentro noi stessi. La sfida è: chi produrrà più massa critica per generare il cambiamento. Le psy-operations, le finestre di overton con la loro capacità di manipolazione mentale di massa; o la forza magnetica e coinvolgente che si sprigiona dall'essere ben centrati e padroni di se stessi.

 

La cosa straordinaria è che per questo può bastare anche un solo minuto, ovviamente preceduto da una preparazione adeguata. Voglio segnalare qui un piccolo grande libro che spiega una tecnica straordinaria, OMM - The one minute meditation, che sarebbe utile diffondere al massimo perché molto semplice da utilizzare e molto efficace. Messa a punto da Patrizio Paoletti - un ricercatore che da trent'anni si occupa di sviluppo ed evoluzione personale, dirigendo anche l'Istituto di Neuroscienza della sua Fondazione - questa tecnica riprende alcune delle pratiche millenarie riguardanti lo sviluppo dell'uomo, rendendole concrete e accessibili a tutti.

 

"Per comprendere meglio - dice Paoletti in un'intervista a Vanity Fair - abbiamo bisogno di un attimo di pausa tra la sollecitazione e la risposta. Questo spazio viene individuato dalle neuroscienze come consapevolezza. Per poter sopravvivere la nostra specie farà questo salto evolutivo di imparare ad utilizzare i prefrontali valutativi e non il cervello istintivo – l’amigdala - rispondendo con aggressività a tutto ciò che non comprendiamo».

 

A chi avesse interesse ad approfondire la pratica OMM con una guida dal vivo, segnalo inoltre un evento che si terrà a Lugano a cavallo del ponte del 2 giugno. Tre giorni di teoria e pratica guidata e condivisa, su cui  qui si possono trovare maggiori informazioni. Invito comunque i lettori interessati a partecipare a contattarmi direttamente via mail (carmenthesister su vocidallestero@gmail.com) perché se riuscissimo a formare un piccolo gruppo - cosa che sarebbe bellissima - potremmo usufruire di uno sconto interessante sul costo della partecipazione. Vi aspetto!

 

Un abbraccio e tanti auguri a noi tutti!

 

 

19/05/18

De Grauwe - Conseguenze fiscali del programma di acquisto bond della BCE

Data l'attualità dell'argomento in seguito all'ipotesi, ventilata in una prima formulazione del contratto di governo Lega-M5S, di una cancellazione o quanto meno una non contabilizzazione della parte del debito pubblico italiano detenuta dalla BCE, riproponiamo un articolo dell'economista Paul De Grauwe, una autorità riconosciuta a livello internazionale nel campo della politica monetaria, in cui il docente della London School of Economics illustra nei dettagli tecnici le conseguenze dell'acquisto titoli pubblici da parte di una banca centrale, soffermandosi  poi in particolare sul caso specifico della banca centrale di un'unione monetaria tra paesi privi di unione fiscale, come è l'eurozona.   Come spega De Grauwe, una  ipotesi di questo genere non avrebbe nulla di tecnicamente od economicamente infattibile, in quanto non comporta oneri o perdite a carico di nessuno, se non la rinuncia al lucro sugli interessi  dei titoli della BCE che vengono redistribuiti tra i paesi dell'unione in percentuale della quota di capitale di ciascuno.  Evidentemente lo scandalo di queste ore attiene a considerazioni più che altro legate ad una resistenza politica a gestire in maniera coordinata e condivisa quel pasticciaccio brutto che si è rivelata l'unione monetaria. 

 

 

 

di Paul De Grauwe, Yuemei Ji, 14 giugno 2013


Traduzione di Ugo Sirtori


 

 

La connessione tra politica fiscale e monetaria è attualmente sotto l’esame della Corte Costituzionale Tedesca, nel contesto del programma OMT di acquisto titoli da parte della BCE. Questo articolo sostiene che molte analisi in merito sono profondamente compromesse dall’errata applicazione  alla BCE dei principi di fallimento dei privati. Quando la BCE compra bond, trasforma debito pubblico in base monetaria, e trasforma il rischio di fallimento sovrano in rischio di inflazione. La vera domanda è: qual è il limite all’espansione della base monetaria oltre il quale si causa inflazione? Ciò dipende dal contesto economico e il limite è molto più alto nell’attuale situazione di trappola della liquidità.

 

C’è molta confusione sulle implicazioni fiscali del programma di acquisto di bond – noto anche come OMT, Outright Monetary Transactions – che la BCE ha annunciato lo scorso anno.

 



  • La confusione ha origine principalmente dall’applicazione dei principi di solvibilità delle società private (banche incluse) alle banche centrali.


 

 

 








  • Il livello di confusione è così alto che il presidente della Bundesbank si è rivolto alla Corte Costituzionale Tedesca sostenendo che il programma OMT della BCE esporrebbe i cittadini tedeschi al rischio di dover pagare tasse per coprire potenziali perdite generate dalla BCE.


 

 

 

 


  • In questo articolo sosteniamo che la paura che i contribuenti tedeschi possano dover coprire le perdite della BCE è mal posta. Essa è basata su una errata interpretazione dei problemi di solvibilità delle banche centrali.


 

 

 

In realtà, i contribuenti tedeschi sono i principali beneficiari del programma di acquisto di bond.

 

 

La solvibilità delle banche centrali rispetto agli agenti privati: la differenza essenziale.

 

Le società private si ritengono solvibili quando il valore del loro patrimonio netto è positivo, ossia quando il valore dei loro asset è superiore a quello del debito. La solvibilità di una società privata può anche essere espressa come il massimo ammontare di perdite che una società può assorbire in un dato momento. Pertanto, una società privata si dice solvibile quando le sue perdite non sono superiori al patrimonio netto. Siccome in un mercato efficiente questo equivale al valore attuale dei profitti futuri, arriviamo al vincolo che le perdite odierne non devono eccedere il valore attuale dei profitti futuri attesi.

 

Il problema comincia quando questo vincolo viene applicato alle banche centrali.

 

  • L’applicazione impropria dei principi validi per il settore privato ad una banca centrale  ha portato alcuni a concludere che le perdite che la BCE (o qualsiasi altra banca centrale) può sopportare non dovrebbero eccedere il valore attuale dei futuri guadagni di signoraggio attesi (vedere Corsetti e Delada 2013).


 

 

 

 

  • Analogamente, è stato a volte sostenuto che una banca centrale necessiti di un patrimonio netto positivo per essere considerata solvibile (Stella, 1997, Bindseil e al. 2004).


 

 

 

Questi vincoli di solvibilità non dovrebbero essere applicati alle banche centrali; le banche centrali non possono fallire.

 

Una banca centrale può emettere un qualunque ammontare di moneta che gli consenta di “ripagare i suoi creditori”, ossia i possessori di moneta. Questo “rimborso” significa soltanto convertire vecchie monete in nuove monete.

 

Al contrario delle società private, i debiti delle banche centrali non rappresentano un diritto sugli asset delle banche centrali. Questo era vero durante il periodo del “gold standard”, quando le banche centrali promettevano di convertire le proprie obbligazioni in oro a un prezzo prefissato. Analogamente, in un sistema a cambi fissi, le banche centrali promettono di convertire le proprie obbligazioni in moneta estera a un prezzo fisso.

 

La BCE e altre banche centrali moderne che sono in un regime di cambio flessibile non sono vincolate a promesse del genere. Pertanto, il valore degli asset della banca centrale non ha influenza sulla sua solvibilità. La sola promessa che una banca centrale fa quando ha a disposizione una moneta fluttuante sul mercato è che il denaro sarà convertibile in un paniere di beni e servizi a un prezzo più o meno fisso. In altri termini, la banca centrale fa una promessa di stabilità dei prezzi. Tutto qui.

 

 

Il signoraggio non è un limite

 

Quindi non ha senso dire che il limite alle perdite di una banca centrale in un certo momento è calcolabile come il valore attuale dei futuri profitti (signoraggio). Non esiste un tale limite. La banca centrale può assorbire qualsiasi perdita, a patto che questa perdita non comprometta la stabilità dei prezzi.

 

Non è nemmeno corretto affermare che la banca centrale ha bisogno di mantenere un patrimonio netto positivo per “restare solvibile”. Una banca centrale non necessita di un patrimonio netto. Perciò l’affermazione che una banca centrale con un patrimonio netto negativo necessiti di essere ricapitalizzata dal tesoro non ha alcun senso.

 

Per essere chiari:

 

  • La banca centrale (che non può fallire) non ha bisogno di alcun sostegno fiscale dal governo (che invece può fallire).


 

 

 

  • L’unico sostegno di cui la banca centrale necessita da parte del governo è che mantenga il monopolio sull’emissione di moneta in tutto il territorio su cui ha giurisdizione.


 

 

 

Nel momento in cui tale potere è garantito dallo stato, la banca centrale è libera da qualsiasi vincolo di solvibilità.

 

Applichiamo ora questi primi principi alla questione di come un programma di acquisto titoli di stato possa avere implicazioni fiscali. Discuteremo prima la situazione di una banca centrale che fa riferimento a un solo stato. Poi, discuteremo il problema di una banca centrale in un’unione monetaria con più stati sovrani.

 

La banca centrale di un solo stato

 

Considereremo il caso di una banca centrale che compra titoli di stato nel mercato secondario.  Comprando i titoli di stato, la banca centrale trasforma la natura del debito del settore pubblico. Quando la banca centrale compra il debito del proprio governo, il debito si trasforma: il debito governativo, che porta con sé un tasso di interesse e un rischio default, diventa una passività della banca centrale (base monetaria) che è priva di rischio default ma soggetta a rischio di inflazione.

 

Per comprendere le conseguenze fiscali di questa trasformazione, è importante consolidare la banca centrale e il governo (in fondo sono branche separate del settore pubblico).

 

Dopo la trasformazione, il debito governativo detenuto dalla banca centrale viene cancellato. Esso è un attivo in un ramo dello stato (la banca centrale) e un passivo nell’altro ramo (il governo). Quindi, scompare. La banca centrale può ancora tenerlo a bilancio, ma esso non ha più alcun valore economico. Di fatto la banca centrale può sbarazzarsi di questo artificio ed eliminarlo dal suo bilancio, e il governo può quindi eliminarlo dall'ammontare del suo debito. Esso non ha più valore in quanto è stato rimpiazzato da una nuova forma di debito, ossia la moneta, che comporta un rischio inflattivo anziché un rischio di default.

 

Perciò non ha senso dire che le banche centrali vanno in perdita quando il prezzo di mercato dei titoli di stato scende. Se anche ci fosse una perdita per la banca centrale, sarebbe bilanciata da un guadagno equivalente da parte del governo (perché il valore del suo debito scenderebbe in uguale proporzione). Non ci sono perdite per il settore pubblico.

 

Arriviamo a una conclusione importante:

 

  • Quando una banca centrale ha acquisito titoli di stato, un declino nel prezzo di mercato di questi titoli non ha alcuna conseguenza fiscale.


 

 

La perdita in una branca del settore pubblico (la banca centrale) è compensata da un guadagno equivalente in un’altra branca (il governo), e non rimane niente da pagare per il contribuente.

 

Un’altra maniera per vedere questo effetto, è guardare ai flussi di interesse sottostanti ai bond. Supponiamo per esempio che la banca centrale abbia comprato un miliardo di euro in titoli di stato. Questi hanno una cedola, diciamo, del 4%. Perciò la banca centrale che ha in portafoglio i titoli riceve 40 milioni di euro all’anno da parte del governo. Questo viene contabilizzato come un profitto per la banca centrale. Alla fine dell’anno, la stessa banca centrale dovrà girare i propri profitti al governo. Assumendo che il costo marginale della gestione di questi bond sia pari a zero, la banca centrale girerà al governo i 40 milioni di euro. Perciò la mano sinistra paga la mano destra, per così dire.

 

Questa pratica contabile ha portato alla percezione che gli incassi per interessi siano da considerare come signoraggio. Sbagliato. Non c’è alcun profitto per il settore pubblico. Il profitto della banca centrale è esattamente compensato da una perdita del governo. Entrambi potrebbero eliminare questa scrittura convenzionale perché a questi profitti e a queste perdite non è associata alcuna sostanza economica.

 

  • E’ letteralmente vero che la banca centrale potrebbe gettare al macero i titoli di stato. Niente verrebbe perso.


 

 

Nel nostro esempio, la banca centrale non riceverebbe più 40 milioni di euro l’anno, e non dovrebbe più rigirarli al governo ogni anno.

 

Cosa succede se il governo fa default sui suoi bond in scadenza?

 

  • Il default causa delle perdite ai detentori privati dei titoli.Ma è irrilevante per i titoli detenuti dalla banca centrale. Infatti questi ora non valgono più nulla, ma erano già privi di valore anche prima del default. Si tratta della mano destra che si fa ripagare dalla sinistra.


 

 

 

 

Pensiamoci in termini di flusso di interessi. Dopo il default, la banca centrale non riceve più il pagamento degli interessi dal governo, ma allo stesso tempo smette anche di ridare indietro gli interessi al governo. Per il settore pubblico, non è successo nulla. Perciò la perdita della banca centrale a causa del default non ha alcuna conseguenza fiscale.

 

 

La stabilità dei prezzi e il default del settore pubblico

 

Esiste una questione riguardo la stabilità dei prezzi e il suo legame con un default governativo. Se la banca centrale mantiene le sue passività (la base monetaria) sotto controllo, il default di per se stesso non porta a maggiore inflazione. Questa aumenterà solo se il governo dovesse forzare la banca centrale ad espandere la base monetaria, per esempio per finanziare dei deficit di bilancio che dopo il default il governo non può più finanziare sul mercato.

Ogni tanto si sostiene che se la banca centrale non ha asset (a causa di un default governativo), allora non ha più strumenti per ridurre l'ammontare di moneta. Questa operazione può talvolta essere necessaria per ridurre la pressione inflattiva. Questo ragionamento non è fondato. Ci sono 2 modi per una banca centrale senza asset di ridurre la moneta.


Primo, la banca centrale può emettere titoli che generano interessi e venderli sul mercato. Questo ha l’effetto di ridurre la liquidità (la base monetaria).


 

Secondo, la banca centrale può aumentare i requisiti di riserva minima.  Come risultato, lo stock esistente di liquidità viene “disattivato”, cosa che produce lo stesso effetto di un calo della base monetaria.

 

 

 

La banca centrale di un’unione monetaria

 

Le cose sono più complicate in un’unione monetaria che non sia anche un’unione fiscale. Qui le conseguenze fiscali di un acquisto di titoli della banca centrale sono più complesse. Il punto è l’esistenza di “n” stati sovrani. Nell’eurozona, n=17 (presto 18 con la Lettonia).

 

  • Se potessimo consolidare la BCE e i 17 stati sovrani in un unico settore pubblico, l’analisi rimarrebbe la stessa di prima.


 

 

  • Ma non possiamo, in quanto l’eurozona non è un’unione fiscale.  Perciò un programma di acquisto di titoli comporterà trasferimenti tra i paesi che partecipano all’unione monetaria.


 

 

 

Per chiarire le idee sul problema, immaginiamo che la BCE acquisti 1 miliardo di titoli spagnoli a un tasso del 4%. Le conseguenze fiscali sono ora le seguenti.

 

La BCE riceve 40 milioni di euro in interessi annuali dal tesoro spagnolo.  La BCE restituisce questi 40 milioni di euro tutti gli anni alle banche centrali nazionali dell’eurozona.  La distribuzione avviene proporzionalmente alla quota di capitale nella BCE (vedere BCE 2012).  La banca centrale nazionale trasferisce poi quanto ricevuto al proprio tesoro nazionale.

 

Per esempio, la BCE trasferirà l’11.9% dei 40 milioni al Banco de España. Il resto andrà alle banche centrali degli altri paesi membri. Chi riceverà di più è la Bundesbank tedesca; che con una quota di capitale del 27.1%, riceverà quindi 10.8 milioni di euro.

 

Perciò in un’unione monetaria (e in assenza di un’unione fiscale) un programma di acquisto di titoli di stato porta a trasferimenti all’interno dell’unione – ma non a quelli comunemente percepiti dall’opinione pubblica, specialmente in Germania.

 

  • Un programma di acquisto titoli della BCE porta a un trasferimento annuale dai paesi i cui titoli vengono acquistati verso tutti gli altri.


 

 

 

Va notato che la BCE potrebbe implementare un programma di acquisto titoli che non comporti trasferimenti fiscali, comprando titoli di stato nazionali nell’esatta proporzione della partecipazione al capitale della BCE del corrispondente paese. In effetti, questo approccio è stato talvolta proposto. Questo però non eliminerebbe completamente i trasferimenti, dato che il tasso di interesse sui titoli di stato non è uguale per tutti. In un programma simile, i paesi con tassi di interesse più alti sarebbero pagatori netti nei confronti dei paesi con tassi di interesse inferiori. Perciò persino questo programma di acquisto ponderato sulle quote di capitale si tradurrebbe in un trasferimento fiscale dai paesi più deboli (debitori) verso i paesi più forti (creditori).

 

Cosa succede in caso di default sovrano?

 

Si sente dire spesso nei paesi creditori che, nel caso di default di un paese i cui titoli di stato sono nel bilancio della BCE, essi (i creditori) sarebbero i primi a rimetterci. Questa è una conclusione sbagliata.

 

Ritornando al nostro esempio di acquisto di 1 miliardo di euro di titoli di stato spagnoli da parte della BCE, consideriamo un default spagnolo su questi titoli.

 

  • Il governo spagnolo smetterebbe di pagare 40 milioni di euro all’anno alla BCE.  La BCE smetterebbe di versare questi 40 milioni di euro alle banche centrali “pro rata”.  Il contribuente tedesco, per esempio, non riceverebbe più il compenso annuale di 10.8 milioni di euro.  Non si può assolutamente concludere che il contribuente tedesco, o qualsiasi altro contribuente dell'eurozona, dovrebbe pagare per coprire il default spagnolo – se non nel senso stretto che dovrebbe rinunciare alla rendita annua degli interessi.


 

  • C’è ovviamente la possibilità di una “tassa da inflazione”.  Abbiamo notato prima che il programma di acquisto titoli trasforma il debito gravato da interessi in passività monetarie della BCE (base monetaria).


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Questo di per sé potrebbe generare inflazione, e quindi una “tassa da inflazione” che si applicherebbe a tutti i possessori di euro. Questo conduce alla questione di quanto grande possa essere il programma di acquisto titoli della BCE senza generare inflazione aggiuntiva.

 

 

(Sulla tassazione da inflazione rimandiamo all'articolo pubblicato originariamente su blogspot. ... Anche perché possiamo star tranquilli: anche a detta di Draghi la mitica inflazione è  tenuta a bada da forze occulte...)

 

 

 

18/05/18

KTG - Vicepresidente BCE: il programma di austerità per la Grecia è stato effettivamente troppo duro

Keep Talking Greece si accorge che in una intervista al Financial Times il vicepresidente della BCE, Vitor Constâncio, ammette che il programma imposto alla Grecia è stato "effettivamente troppo duro". Nel resto dell'intervista Constâncio chiede l'attuazione dell'unione fiscale e di altre improbabili riforme, ma al contempo ammette chiaramente che i paesi della periferia dell'eurozona hanno diligentemente obbedito a tutto ciò che è stato loro imposto. Constâncio lascerà l'incarico in estate, privando la BCE di una voce di sincerità (ricordiamo anche questa sua importante ammissione).

 

 

 

 

di KeepTalkingGreece, 16 maggio 2018

 

I paesi membri del Sud dell'eurozona hanno fatto a sufficienza per riformare le loro economie e ridurre i rischi nei loro sistemi finanziari, e ora l'intero blocco di paesi dovrebbe accelerare il percorso verso l'unione bancaria. Così ha dichiarato il vicepresidente della Banca Centrale Europea, in quella che è una implicita critica verso la riluttante Germania.

 

In una intervista per il Financial Times, Vítor Constâncio ha commentato così il programma di austerità che è stato imposto alla Grecia:

 

"Il programma di aggiustamento [per la Grecia] è stato effettivamente troppo duro (...) e non ha previsto che ci sarebbe stato il crollo totale delle speranze e delle aspettative"

 

Ha aggiunto che "tutti i paesi dell'area euro stavano consolidando i conti pubblici nello stesso momento, riducendo i loro deficit. Questa è stata la causa del doppio crollo che abbiamo visto nel 2012 e nel 2013, e che non avrebbe dovuto avvenire".

 

Constâncio si accinge a lasciare la BCE questa estate, e come tutti i grandi uomini che lasciano il proprio incarico, ha osato ammettere in una qualche piccola misura che il programma di aggiustamento ha rovinato la vita e la dignità delle persone in Grecia.

Riforma dell'eurozona: nessun accordo è meglio di un accordo dannoso

Mentre le mitizzate "riforme" continuano a essere ritualmente invocate da ogni parte come improbabile panacea ai mali dell'Italia e dell'Europa, l'economista Peter Bofinger - uno dei "cinque saggi"  consulenti del governo tedesco - illustra su VoxEu  la vacuità e l'insufficienza, se non la vera e propria nocività, delle proposte che riguardano la madre di tutte le riforme, la riforma dell'Eurozona stessa.
E se gli economisti e i commentatori italiani, con rarissime eccezioni, ripetono l'eterna giaculatoria della moneta forte che ci protegge, è da un prestigioso economista tedesco che arrivano le ovvie considerazioni rigettate come blasfeme dai grandi e conformisti media nostrani: è proprio l'euro, ovvero una moneta non controllata da una banca centrale nazionale, che mette uno Stato a rischio di fare default; è la Germania ad avere tutto l'interesse a preservare una moneta unica che le ha dato enormi vantaggi competitivi; non è affatto detto che i mercati fungano da fattore stabilizzante, spesso giocano al contrario... e altro ancora.   

 

 

 

di Peter Bofinger, 15 maggio 2018

 

Le recenti proposte di riforma dell'area dell'euro provenienti da un gruppo di economisti francesi e tedeschi hanno aperto un intenso dibattito. Questo articolo, uno dei contributi di VoxEu sulla riforma dell'eurozona, sostiene che il principale rischio che dovrebbe essere coperto, in un'ottica di condivisione comune dei rischi, è quello specifico di insolvenza legato all'essere membri dell'eurozona; e che le modeste proposte di condivisione del rischio pubblico e privato sono insufficienti allo scopo.

 

Un gruppo di autorevoli economisti francesi e tedeschi ha presentato un documento che rappresenterebbe a loro dire "un punto di svolta per l'area dell'euro" (Benassy-Quéré et al., 2018).

 

Le loro proposte hanno avviato un intenso dibattito (Bini Smaghi 2018, Micossi 2018, Buti et al., 2018, Pisani-.Ferry e Zettelmeyer 2018).

 

Anche se sono già state discusse le numerose carenze del Policy Insight 91 del CEPR, in questo articolo sostengo che il rischio specifico di insolvenza dei Paesi appartenenti all'eurozona è quello principale che dovrebbe essere coperto da una condivisione dei rischi. Le modeste proposte degli autori su una condivisione dei rischi nel settore pubblico e privato sono insufficienti a questo riguardo. Anzi, andando nel senso di richiedere una maggiore disciplina finanziaria, il rischio di insolvenza potrebbe addirittura essere aumentato. Finora ci sono poche prove che i mercati finanziari possano svolgere un ruolo stabilizzante nell'eurozona.

 

La proposta di porre regole alla spesa pubblica ha i suoi meriti, in quanto si concentra su un obiettivo che i governi possono controllare efficacemente. Ma l'obiettivo del rapporto tra debito e PIL dovrebbe essere ragionevole: la soglia del 60% prevista dal trattato di Maastricht, completamente arbitraria, non dovrebbe essere adottata pedissequamente. Per un compromesso produttivo tra Francia e Germania, è il lato tedesco che dovrebbe fare il primo passo, consentendo almeno il finanziamento a deficit degli investimenti pubblici all'interno delle regole fiscali dell'eurozona.

 

Il rischio specifico di insolvenza legato all'appartenenza all'eurozona

 

Dato l'accento posto sulla "condivisione del rischio", è sorprendente che gli autori non spieghino esplicitamente quali rischi specifici debbano essere condivisi. Le loro proposte si concentrano sul rischio di shock da domanda idiosincratici e sul rischio di una crisi bancaria nazionale. Ma questo trascura proprio il rischio essenziale connesso all'adesione all'eurozona. L'unione monetaria espone i suoi stati membri al rischio di insolvenza che è assente per paesi simili che abbiano la loro valuta nazionale. Quando un paese adotta l'euro, il suo debito viene ridenominato dalla valuta nazionale all'euro. Di conseguenza, gli Stati membri si trovano in una situazione simile a quella delle economie dei mercati emergenti che possono fare prestiti solo in valuta estera ("peccato originale"). In caso di crisi, non possono più fare affidamento sul sostegno della loro banca centrale nazionale.

 

Questo rischio specifico è aggravato dalla facile opzione di uscita che la moneta unica fornisce agli investitori. Se, per esempio, un fondo pensione giapponese non è più disposto a detenere titoli di stato giapponesi e decide invece di detenere titoli del Tesoro USA, deve affrontare il rischio di cambio. Per gli investitori istituzionali, che sono tenuti a detenere attività sicure, questo "muro delle valute" è difficile da superare. All'interno dell'eurozona, invece, questo muro è stato rimosso, e di conseguenza gli investitori possono scambiare obbligazioni nazionali in obbligazioni di altri Stati membri senza affrontare il rischio di cambio.

 

La combinazione del rischio di insolvenza con la facile opzione di uscita porta al "rischio legato alla denominazione" (Bini Smaghi 2018), che si è manifestato nella crisi dell'euro. Solo con l'impegno di Mario Draghi a salvare l'euro "whatever it takes", considerato un'assicurazione implicita contro questo rischio, si è potuta mantenere la stabilità dell'eurozona. È importante notare che questo rischio non è dovuto a "un'architettura fiscale e finanziaria mal concepita", come affermano Benassy-Quéré et al. È dovuto al fatto che l'unione monetaria è un edificio che non è ancora stato finito. Per diventare un edificio stabile richiederebbe più integrazione politica.

 

Soprattutto, la Germania non può non avere un forte interesse a mantenere integra l'eurozona. L'euro ha protetto i produttori tedeschi dagli shock legati ai tassi di cambio nei confronti degli altri Stati membri. Si può anche dare per scontato che il marco tedesco sarebbe stato una valuta più forte rispetto all'euro, e quindi questa protezione è stata efficace anche nei confronti dei paesi esterni all'eurozona. Di conseguenza, ci sarebbe stato da aspettarsi che una proposta degli economisti tedeschi e francesi sulla "condivisione dei rischi" affrontasse  in particolare questo rischio. Ma, così come la Policy Insight nemmeno lo menziona, così le proposte sulla condivisione di questo rischio (Delpla e von Weizsäcker 2010, Consiglio tedesco degli esperti economici 2011) non vengono neppure discusse.

 

Due proposte poco efficaci per la condivisione del rischio politico

 

La proposta di un sistema europeo di assicurazione dei depositi (EDIS) prevede premi assicurativi che prezzano il rischio specifico dei singoli paesi. Richiede inoltre che le prime perdite restino a carico del relativo settore nazionale. I fondi comuni dovrebbero essere forniti solo in caso di "grandi crisi sistemiche che sovraccaricano uno o più settori nazionali". Ma in situazioni simili la condivisione del rischio fornita dall'EDIS (con un obiettivo di dimensione dello 0,8% dei depositi coperti dei sistemi bancari partecipanti) raggiungerebbe presto i suoi limiti. Un sistema assicurativo è efficace solo se i rischi non sono correlati. In "grandi crisi sistemiche" i rischi sono correlati e lo schema si rompe. Per questo solo la BCE, come prestatore di ultima istanza, sarebbe in grado di stabilizzare efficacemente il sistema.

 

La seconda proposta prevede una disponibilità di bilancio europea per "ampie recessioni che colpiscano uno o più stati membri". Gli autori la paragonano a una "assicurazione contro perdite catastrofiche". Ma con un contributo totale annuo dello 0,1% del PIL totale dell'eurozona, la dimensione del fondo è limitata, in quanto la possibilità di prestiti è esplicitamente esclusa. Di conseguenza, anche in una grave recessione, un paese riceverebbe trasferimenti piuttosto limitati. Per un aumento del tasso di disoccupazione nazionale di 4 punti percentuali, è previsto un trasferimento una tantum pari a solo allo 0,5% del PIL nazionale. Ma questo giova a un paese solo se viene colpito dallo shock nei primi cinque anni di esistenza del fondo. Inoltre, a causa delle dimensioni limitate del fondo, lo shock non deve interessare troppi stati membri contemporaneamente. Come ostacolo specifico, l'accesso al fondo richiede che uno Stato membro rispetti non solo le regole fiscali, ma anche le raccomandazioni specifiche per il paese. In una situazione di shock molto grave, questo è estremamente improbabile. E per un paese in condizioni così ideali a quel punto sarebbe possibile finanziarsi temporaneamente con un deficit ciclico ricorrendo al mercato dei capitali, senza grossi problemi.

 

Entrambe le forme di condivisione del rischio ricordano l'idea di costituire un corpo di vigili del fuoco che può essere attivato solo in caso di grandi incendi. Ma allo stesso tempo progettandolo con capacità così limitate che non sarà mai in grado di affrontare incendi di simili dimensioni.

 

I limiti della condivisione del rischio di mercato  

 

In Benassy-Quéré et al. si propone  la condivisione del rischio di mercato  come un altro fattore stabilizzante. Un elemento è il  completamento dell'Unione bancaria e del mercato dei capitali: "I cittadini e le società dell'area dell'euro dovrebbero essere in grado di investire i loro risparmi in strumenti i cui rendimenti sono indipendenti dalla disoccupazione e dal calo di produzione nel loro paese d'origine." Ma questo è già possibile in base agli attuali accordi istituzionali. Come già detto sopra, la moneta unica ha rimosso il "muro della valuta" per gli investitori di portafoglio. Ed è stato un eccesso di prestiti bancari transfrontalieri, soprattutto da parte delle banche tedesche e francesi negli anni 2000-2007, ad avere contribuito alla crisi. Più in generale, non è chiaro in che modo i mercati obbligazionari e azionari possano fornire una significativa condivisione del rischio, data la distribuzione asimmetrica della ricchezza negli Stati membri. Per le famiglie con una ricchezza finanziaria minima o nulla, l'unione del mercato dei capitali non può fornire un'assicurazione efficace contro il rischio di disoccupazione.

 

Il secondo elemento della condivisione del rischio di mercato è la creazione di investimenti sicuri nell'area dell'euro (ESBies). Gli autori ritengono che una "forma di investimento sicura nell'area dell'euro creerebbe domanda rivolta al debito sovrano dell'area dell'euro che non sia vulnerabile ai mutamenti nell'orientamento del mercato." Ma ammettono anche che questo sarebbe valido solo "fino a che i titoli di stato non perdono accesso al mercato, dal momento che questo innesca l'esclusione dal pool di garanzie sulle nuove emissioni". E vedono il rischio che "potrebbe essere difficile trovare acquirenti per le tranche junior in tempo di crisi". In altre parole, il loro schema di condivisione del rischio di mercato fallirebbe esattamente nella situazione in cui si manifesta il rischio di insolvenza principale dell'area.

 

Disciplina di mercato: i governi sotto il controllo dei mercati? 

 

Gli autori considerano la condivisione del rischio e la disciplina di mercato come pilastri complementari per l'architettura dell'eurozona. Ma ciò solleva la questione se la "disciplina di mercato" possa essere considerata come uno stabilizzatore. Per Benassy-Quéré et al., questo sembra fuori discussione. Ma già quasi 20 anni fa il Rapporto Delors arrivò alla seguente valutazione:

 

"[...] l'esperienza suggerisce che la percezione dei mercati non fornisca necessariamente segnali forti e convincenti e che l'accesso a un grande mercato dei capitali possa perfino in qualche occasione facilitare anche il finanziamento degli squilibri economici. Anziché portare ad un graduale adattamento dei costi di finanziamento, le opinioni dei mercati sull'affidabilità creditizia dei debitori ufficiali tendono a cambiare improvvisamente e comportano la chiusura dell'accesso ai finanziamenti sui mercati. I vincoli imposti dalle forze di mercato potrebbero essere troppo lenti e deboli o troppo repentini e dirompenti ".

 

Quanto avvenuto in seguito alla creazione dell'euro ha confermato questa previsione. La reazione dei mercati alla cronica mancanza di disciplina fiscale in Grecia è stata molto ritardata nel 2010, e a quel punto così repentina e dirompente che il sistema ha potuto essere salvato solo dall'intervento di Mario Draghi. Più in generale, è sorprendente che la fiducia degli economisti nella disciplina imposta dai mercati possa essere sopravvissuta alla crisi finanziaria quasi intatta.

 

Inoltre, è necessario chiedersi se "disciplina di mercato" sia un concetto adeguato per l'organizzazione dell'eurozona. Nel contesto del settore bancario può avere i suoi meriti, ma nel contesto dell'unione monetaria implica che ai mercati venga assegnato un ruolo disciplinare sugli Stati. Questo capovolge la tradizionale relazione tra Stato e mercati. In passato c'era consenso tra gli economisti sul fatto che i mercati dovessero sottostare al controllo dei governi. Mentre la disciplina di mercato richiede governi sottoposti al controllo dei mercati. Questo concetto è particolarmente discutibile in quanto i mercati finanziari sono dominati da giocatori potenti, come Goldman Sachs o Blackrock.

 

Tirando le somme, l'intera idea di stabilizzare l'eurozona, combinando una rafforzata disciplina finanziaria con elementi omeopatici di condivisione dei rischi non è convincente. Mentre gli elementi di condivisione del rischio non affrontano quello più importante dell'area dell'euro, il rischio di insolvenza, il rafforzamento della disciplina di mercato ha il potenziale persino per aumentarlo. Gli autori sono consapevoli di questa difficoltà, ma la considerano solo un problema di transizione: "La lezione principale è che il 'problema di transizione' - raggiungere uno stato di disciplina di mercato più efficace e una maggiore stabilità, senza innescare una crisi durante il percorso - ha bisogno di essere riconosciuto e affrontato con fermezza nelle proposte per accrescere la disciplina di mercato ".

 

Ma come dovrebbe essere gestita la transizione? Gli autori propongono di introdurre il nuovo regime "in un momento in cui i debiti di tutti i paesi dell'eurozona che dipendono dall'accesso al mercato - in particolare quelli dei paesi ad alto indebitamento - siano ampiamente sostenibili con alta probabilità [...]". Dato che una simile situazione è molto improbabile per il prossimo futuro, sembra assai simile a una clausola di salvaguardia per gli economisti francesi.

 

Una regola di spesa imposta da uomini e donne saggi 

 

Un terzo elemento del rapporto è un nuovo quadro per la politica fiscale. La proposta si basa sulla valutazione che le regole fiscali "non hanno funzionato bene". Mentre questo è vero per la Grecia, che ha pubblicato statistiche errate, per i grandi Stati membri questo non è così evidente. Confrontando i saldi fiscali di Germania, Francia e Italia da una parte e di Giappone, Regno Unito e Stati Uniti dall'altra, i deficit molto più bassi degli Stati membri parlano di una pronunciata disciplina fiscale.


Bilancio fiscale di alcuni grandi Stati membri dell'eurozona confrontato con Giappone, Regno Unito e Stati Uniti (% del Pil)

 

Gli autori propongono un approccio a due pilastri, con un obiettivo di debito a lungo termine "come il 60% del PIL, o un obiettivo più ritagliato su misura" e una regola operativa basata sulla spesa per raggiungere questo obiettivo. A questo fine, si dovrebbe istituire un consiglio fiscale indipendente a livello nazionale, che proponga un obiettivo di riduzione del debito a medio termine, tracci un percorso di spesa a medio termine coerente e lo usi per fissare un massimale di spesa nominale per l'anno successivo. Se un paese supera l'obiettivo tracciato, tutte le spese eccessive dovranno essere finanziate da obbligazioni sovrane junior.

 

Non vi è dubbio che le regole di spesa hanno i loro meriti, in quanto sono più facili da seguire rispetto alle norme sul deficit. Ma non è chiaro perché la regola dovrebbe essere stabilita da un consiglio di esperti e non da un governo o da un parlamento eletti. Gli economisti non sono scevri da pregiudizi ideologici, che influenzano i loro giudizi, dati i limiti della scienza economica. Pertanto, la nomina di esperti specifici per il consiglio ha una forte influenza sul risultato dell'obiettivo di debito e del corrispondente percorso di spesa.

 

Inoltre, è tutt'altro che evidente che l'obiettivo di debito del 60% rispetto al Pil sia un obiettivo ragionevole a medio termine per la politica fiscale. Per il trattato di Maastricht fu scelto in quanto livello medio del debito degli stati membri in quel momento. Il tentativo di Reinhart e Rogoff (2010) di ottenere un obiettivo di rapporto debito/Pil con basi scientifiche è fallito. Rinomati economisti hanno sostenuto la necessità di una economia basata sulle prove. David Eddy (1990), che coniò il termine "medicina basata sulle prove", la definisce come segue:

 

"Descrivere esplicitamente le prove disponibili che riguardano una determinata strategia e legare la strategia alla prova. Agganciare consapevolmente una strategia, non alle pratiche correnti o alle convinzioni degli esperti, ma a prove sperimentali. La strategia deve essere coerente con le prove e supportata da queste. Le relative prove devono essere identificate, descritte e analizzate. I responsabili delle strategie devono determinare se queste sono giustificate dalle prove."

 

L'obiettivo del 60% di Maastricht è ovviamente basato sulle pratiche correnti e sulle convinzioni degli esperti ed è privo di prove pertinenti (ad esempio, nel Regno Unito la media storica a lungo termine dal 1700 al 2016 è 99,5%; Figura 2). E quindi qualsiasi strategia che cerchi di rendere più stabile l'area dell'euro dovrebbe comportare un'analisi approfondita di un obiettivo di debito adeguato per gli Stati membri. Sostituire l'obiettivo del 60% con un obiettivo più vicino, per esempio, al livello del rapporto debito/Pil degli Stati Uniti potrebbe cambiare radicalmente la percezione della solidità finanziaria degli Stati membri.


Rapporto debito/Pil nel Regno Unito, 1700 - 2016

Fonte: Bank of England, "A millennium of macroeconomic data"

 

La strada per andare avanti



 

L'instabilità dell'architettura dell'eurozona non è dovuta a una "architettura fiscale e finanziaria mal progettata". Riflette l'edificio incompiuto, con una politica monetaria sovranazionale e 19 politiche fiscali nazionali indipendenti. Di conseguenza, l'unico modo per renderla stabile è portare avanti l'integrazione politica. Ciò consentirebbe una completa mutualizzazione del debito, che eliminerebbe il rischio specifico di insolvenza dei membri della zona euro. Con il trasferimento delle responsabilità della politica fiscale a livello sovranazionale, la disciplina fiscale degli Stati membri sarebbe applicata da un ministro delle finanze dell'eurozona democraticamente legittimato e non da miopi investitori finanziari. Nella situazione attuale i progressi verso un'integrazione della politica fiscale non sono molto probabili. Ma questo non è un buon pretesto per gli economisti perché non rendano esplicito quello che è realmente necessario per stabilizzare l'architettura dell'eurozona.

 

Per un produttivo compromesso franco-tedesco, la parte tedesca deve fare il primo passo consentendo una certa flessibilità riguardo al pareggio di bilancio. Ciò consentirebbe più spazio per la golden rule nel Patto di stabilità e crescita, in modo che fosse possibile un finanziamento a deficit, almeno limitatamente agli investimenti pubblici. Come ulteriore passo avanti, si potrebbero prevedere progetti con vaste estensioni alla grande area dell'euro (infrastrutture, difesa, ricerca, politica industriale, ambiente), finanziati da obbligazioni con responsabilità solidale. Infine, un'analisi approfondita e aperta degli obiettivi adeguati per il rapporto tra debito pubblico e Pil sarebbe molto utile.

 

La Policy Insight 91 del CEPR invita a "modificare il metodo nell'eurozona per conciliare la prudenza fiscale con le politiche per sostenere la domanda e le regole con la libertà di fare politica". Ma presenta un quadro che limita la portata delle strategie di sostegno alla domanda con l'introduzione di regole fiscali e degli oneri sulla concentrazione del debito sovrano (regole per limitare l'acquisto di titoli di Stato da parte delle banche della stessa nazione, ndt) . E riduce la discrezionalità delle politiche nazionali non solo attraverso l'istituzione di consigli fiscali indipendenti, ma anche esponendo i governi a una maggiore "disciplina di mercato". La proposta potrebbe davvero portare a un "mutamento di rotta", ma nella direzione sbagliata.

 

 

Bibliografia

 

Bénassy-Quéré, A, M Brunnermeier, H Enderlein, E Farhi, M Fratzscher, C Fuest, P-O Gourinchas, P Martin, J Pisani-Ferry, H Rey, I Schnabel, N Véron, B Weder di Mauro, and J Zettelmeyer (2018), “Reconciling risk sharing with market discipline: A constructive approach to euro area reform”, CEPR Policy Insight No. 91.

 

Bini Smaghi, L (2018), “A stronger euro area through stronger institutions”, VoxEU.org, 9 April

 

Buti, M, G Giudice, J Leandro (2018), “Deepening EMU requires a coherent and well-sequenced package”, VoxEU.org, 25 April

 

Delpla, J and J von Weizsäcker (2010), “The Blue Bond Proposal”, Bruegel Policy Brief, May

 

Eddy, D (1990), “Anatomy of a Decision”, Journal of the American Medical Association 263(3).

 

German Council of Economic Experts (2011), “European Redemption Pact”, in Annual Report 2011/12.

 

Micossi, S (2018), “The crux of disagreement on euro area reform”, VoxEU.org, 5 April

 

Pisani-Ferry, J and J Zettelmeyer (2018), “Messori and Micossi’s reading of the Franco-German 7+7 paper is a misrepresentation”, CEPS Commentary, 19 February.

 

Reinhart, C M and K S Rogoff (2010), “Growth in a Time of Debt”, American Economic Review 100(2): 573-78.