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24/04/19

De Grauwe e Polan - L’inflazione è sempre e ovunque un fenomeno monetario?

Traduciamo sommario e conclusioni di un importante paper pubblicato su International Macroeconomics nel 2001. De Grauwe e Polan dimostrano che l'assunzione,  così diffusa sulla nostra stampa e nella mentalità comune, per cui la stampa di moneta provoca sempre inflazione  non ha alcun riscontro pratico nelle economie, come quelle dell'eurozona, caratterizzate da bassa inflazione. Era quindi noto fin dal 2001 che le politiche della BCE - che pretendono di calibrare l’inflazione agendo sugli aggregati monetari – sono inutili e destinate a fallire. Questo paper tra l'altro risulta utile a inquadrare un certo dibattito in corso...

 

 

Di Paul De Grauwe e Magdalena Polan, giugno 2001

 

 

Sommario

 

Utilizzando un campione di 160 paesi negli ultimi 30 anni, verifichiamo la relazione tra moneta e inflazione esposta dalla teoria quantitativa. Analizzando l’intero campione di paesi troviamo una relazione positiva forte tra l’inflazione di lungo periodo e il tasso di crescita della moneta. La relazione, tuttavia, non è proporzionale. Il forte collegamento tra l’inflazione e l’espansione monetaria è quasi interamente dovuto alla presenza nel campione di paesi ad alta (o altissima) inflazione. La relazione tra inflazione ed espansione monetaria per i paesi a bassa inflazione ( negli ultimi 30 anni inferiore in media al 10% annuo) è debole. Troviamo che l'inflazione media di lungo periodo e i fattori specifici per paese hanno un’influenza significativa sulla forza della relazione. Confermiamo anche che l’espansione monetaria e la crescita economica nel lungo periodo sono indipendenti; ossia tassi più alti di crescita monetaria non portano a maggiori tassi di crescita del Pil.

 

[…]

 

Conclusioni

 

La teoria quantitativa della moneta è basata su due asserzioni. In primo luogo, nel lungo periodo c’è proporzionalità tra la crescita monetaria e l’inflazione, ossia quando la crescita monetaria aumenta di una data percentuale, l’inflazione aumenta anch’essa della stessa percentuale. Inoltre, nel lungo periodo l’espansione monetaria da una parte e la crescita economica e i cambiamenti nella velocità di circolazione della moneta dall’altra sono indipendenti, ossia produzione e cambiamenti di velocità di circolazione non vengono influenzati dalla crescita della moneta.

 

Abbiamo sottoposto queste asserzioni a verifica empirica utilizzando un campione che comprende la maggior parte dei paesi del mondo negli ultimi trent’anni. I nostri risultati possono essere riassunti come segue. In primo luogo, analizzando l’intero campione di paesi, troviamo una forte relazione positiva tra l’espansione monetaria di lungo periodo e l’inflazione. Tuttavia, questa relazione non è proporzionale.

 

Il nostro secondo risultato è che questo forte legame tra inflazione e crescita della moneta è quasi interamente dovuto alla presenza nel campione di paesi ad alta inflazione (o con iperinflazione).  La relazione tra l’inflazione e la crescita monetaria per i paesi a bassa inflazione (in media inferiore al 10% annuo nei 30 anni) è debole, se non inesistente. Dall' analisi dei dati panel da noi raccolti concludiamo che per i paesi a bassa inflazione (ossia con inflazione annua inferiore al 10%) non ci sono prove di una relazione proporzionale di lungo periodo tra espansione monetaria e inflazione, come invece previsto dalla teoria quantitativa. Troviamo anche, peraltro, che questa mancanza di proporzionalità tra espansione monetaria e inflazione non è dovuta a una relazione sistematica tra espansione monetaria e crescita della produzione. Troviamo che, conformemente alla seconda asserzione della teoria quantitativa della moneta, nel lungo periodo l’espansione monetaria e la crescita economica sono indipendenti, ossia tassi più alti di espansione monetaria non portano a maggiori tassi di crescita economica. Questo risultato è coerente con il gran numero di analisi econometriche che usano serie temporali su singoli paesi. La maggior parte di questi studi ha dimostrato che nel lungo periodo la moneta è neutrale, ossia non ha effetti permanenti sul livello di produzione.

 

Un terzo risultato (ottenuto da un’analisi di dati panel) indica che effetti specifici per paese assumono un'importanza crescente quando il tasso di inflazione aumenta. Interpretiamo questo risultato nel senso che la velocità accelera al crescere dell’inflazione; portando così a tassi di inflazione superiori ai tassi di crescita degli aggregati monetari.  Ciò spiega anche perché nelle regressioni trasversali i tassi di inflazione aumentano più che proporzionalmente alla crescita della moneta nei paesi ad alta inflazione.

 

Infine, troviamo che nei paesi a bassa inflazione la crescita della moneta e i cambiamenti nella sua velocità di circolazione sono inversamente correlati, mentre nei paesi ad alta inflazione è vero il contrario, ossia l’espansione monetaria e la crescita della velocità sono correlate positivamente. Quest’ultimo risultato conferma la nostra interpretazione della correlazione positiva tra espansione monetaria ed effetti fissi nel nostro modello di dati longitudinali.

 

Si può dare a questi risultati la seguente interpretazione. Nel gruppo dei paesi a bassa inflazione, l’inflazione e la crescita del Pil sembrano fenomeni di derivazione esogena, per lo più non correlati al tasso di crescita degli aggregati monetari. Di conseguenza, i cambiamenti della velocità di circolazione della moneta devono necessariamente condurre a cambiamenti di natura opposta negli aggregati monetari (data la definizione p+y=m+v).

 

La situazione è molto diversa nei paesi ad alta inflazione. Nel loro caso, un aumento nella crescita degli aggregati monetari porta  a un incremento sia dell’inflazione che della velocità. Quest’ultima rinforza la dinamica inflazionistica. Questo processo è stato ben documentato negli studi empirici sull'iperinflazione ed è confermato dai nostri risultati (vedere Cagan, 1956).

 

Tutto questo porta alla conclusione che per i paesi a bassa inflazione respingiamo la previsione di proporzionalità della teoria quantitativa. Confermiamo, d'altra parte, che moneta e  produzione nel lungo periodo sono indipendenti.

 

I nostri risultati hanno delle implicazioni sulla questione dell’utilizzo degli aggregati monetari come obiettivi intermedi della politica monetaria. Come ben noto, la Banca centrale europea continua a dare un ruolo di primo piano al tasso di crescita degli aggregati monetari nella sua strategia di politica monetaria. La BCE basa questa strategia sulla considerazione che “l’inflazione è sempre e ovunque un fenomeno monetario”. Ciò può essere vero per i paesi ad alta inflazione. I nostri risultati, tuttavia, indicano che non esiste alcuna prova di questa affermazione in contesti di inflazione relativamente bassa, che è una caratteristica dei paesi dell’eurozona. In questo ambiente la crescita monetaria non è utile a segnalare condizioni inflattive. Ne consegue anche che l’uso degli aggregati monetari come strumento per indirizzare le politiche economiche verso l'obiettivo della stabilità dei prezzi non sarà di alcuna utilità per i paesi a inflazione storicamente bassa.

 

 

19/05/18

De Grauwe - Conseguenze fiscali del programma di acquisto bond della BCE

Data l'attualità dell'argomento in seguito all'ipotesi, ventilata in una prima formulazione del contratto di governo Lega-M5S, di una cancellazione o quanto meno una non contabilizzazione della parte del debito pubblico italiano detenuta dalla BCE, riproponiamo un articolo dell'economista Paul De Grauwe, una autorità riconosciuta a livello internazionale nel campo della politica monetaria, in cui il docente della London School of Economics illustra nei dettagli tecnici le conseguenze dell'acquisto titoli pubblici da parte di una banca centrale, soffermandosi  poi in particolare sul caso specifico della banca centrale di un'unione monetaria tra paesi privi di unione fiscale, come è l'eurozona.   Come spega De Grauwe, una  ipotesi di questo genere non avrebbe nulla di tecnicamente od economicamente infattibile, in quanto non comporta oneri o perdite a carico di nessuno, se non la rinuncia al lucro sugli interessi  dei titoli della BCE che vengono redistribuiti tra i paesi dell'unione in percentuale della quota di capitale di ciascuno.  Evidentemente lo scandalo di queste ore attiene a considerazioni più che altro legate ad una resistenza politica a gestire in maniera coordinata e condivisa quel pasticciaccio brutto che si è rivelata l'unione monetaria. 

 

 

 

di Paul De Grauwe, Yuemei Ji, 14 giugno 2013


Traduzione di Ugo Sirtori


 

 

La connessione tra politica fiscale e monetaria è attualmente sotto l’esame della Corte Costituzionale Tedesca, nel contesto del programma OMT di acquisto titoli da parte della BCE. Questo articolo sostiene che molte analisi in merito sono profondamente compromesse dall’errata applicazione  alla BCE dei principi di fallimento dei privati. Quando la BCE compra bond, trasforma debito pubblico in base monetaria, e trasforma il rischio di fallimento sovrano in rischio di inflazione. La vera domanda è: qual è il limite all’espansione della base monetaria oltre il quale si causa inflazione? Ciò dipende dal contesto economico e il limite è molto più alto nell’attuale situazione di trappola della liquidità.

 

C’è molta confusione sulle implicazioni fiscali del programma di acquisto di bond – noto anche come OMT, Outright Monetary Transactions – che la BCE ha annunciato lo scorso anno.

 



  • La confusione ha origine principalmente dall’applicazione dei principi di solvibilità delle società private (banche incluse) alle banche centrali.


 

 

 








  • Il livello di confusione è così alto che il presidente della Bundesbank si è rivolto alla Corte Costituzionale Tedesca sostenendo che il programma OMT della BCE esporrebbe i cittadini tedeschi al rischio di dover pagare tasse per coprire potenziali perdite generate dalla BCE.


 

 

 

 


  • In questo articolo sosteniamo che la paura che i contribuenti tedeschi possano dover coprire le perdite della BCE è mal posta. Essa è basata su una errata interpretazione dei problemi di solvibilità delle banche centrali.


 

 

 

In realtà, i contribuenti tedeschi sono i principali beneficiari del programma di acquisto di bond.

 

 

La solvibilità delle banche centrali rispetto agli agenti privati: la differenza essenziale.

 

Le società private si ritengono solvibili quando il valore del loro patrimonio netto è positivo, ossia quando il valore dei loro asset è superiore a quello del debito. La solvibilità di una società privata può anche essere espressa come il massimo ammontare di perdite che una società può assorbire in un dato momento. Pertanto, una società privata si dice solvibile quando le sue perdite non sono superiori al patrimonio netto. Siccome in un mercato efficiente questo equivale al valore attuale dei profitti futuri, arriviamo al vincolo che le perdite odierne non devono eccedere il valore attuale dei profitti futuri attesi.

 

Il problema comincia quando questo vincolo viene applicato alle banche centrali.

 

  • L’applicazione impropria dei principi validi per il settore privato ad una banca centrale  ha portato alcuni a concludere che le perdite che la BCE (o qualsiasi altra banca centrale) può sopportare non dovrebbero eccedere il valore attuale dei futuri guadagni di signoraggio attesi (vedere Corsetti e Delada 2013).


 

 

 

 

  • Analogamente, è stato a volte sostenuto che una banca centrale necessiti di un patrimonio netto positivo per essere considerata solvibile (Stella, 1997, Bindseil e al. 2004).


 

 

 

Questi vincoli di solvibilità non dovrebbero essere applicati alle banche centrali; le banche centrali non possono fallire.

 

Una banca centrale può emettere un qualunque ammontare di moneta che gli consenta di “ripagare i suoi creditori”, ossia i possessori di moneta. Questo “rimborso” significa soltanto convertire vecchie monete in nuove monete.

 

Al contrario delle società private, i debiti delle banche centrali non rappresentano un diritto sugli asset delle banche centrali. Questo era vero durante il periodo del “gold standard”, quando le banche centrali promettevano di convertire le proprie obbligazioni in oro a un prezzo prefissato. Analogamente, in un sistema a cambi fissi, le banche centrali promettono di convertire le proprie obbligazioni in moneta estera a un prezzo fisso.

 

La BCE e altre banche centrali moderne che sono in un regime di cambio flessibile non sono vincolate a promesse del genere. Pertanto, il valore degli asset della banca centrale non ha influenza sulla sua solvibilità. La sola promessa che una banca centrale fa quando ha a disposizione una moneta fluttuante sul mercato è che il denaro sarà convertibile in un paniere di beni e servizi a un prezzo più o meno fisso. In altri termini, la banca centrale fa una promessa di stabilità dei prezzi. Tutto qui.

 

 

Il signoraggio non è un limite

 

Quindi non ha senso dire che il limite alle perdite di una banca centrale in un certo momento è calcolabile come il valore attuale dei futuri profitti (signoraggio). Non esiste un tale limite. La banca centrale può assorbire qualsiasi perdita, a patto che questa perdita non comprometta la stabilità dei prezzi.

 

Non è nemmeno corretto affermare che la banca centrale ha bisogno di mantenere un patrimonio netto positivo per “restare solvibile”. Una banca centrale non necessita di un patrimonio netto. Perciò l’affermazione che una banca centrale con un patrimonio netto negativo necessiti di essere ricapitalizzata dal tesoro non ha alcun senso.

 

Per essere chiari:

 

  • La banca centrale (che non può fallire) non ha bisogno di alcun sostegno fiscale dal governo (che invece può fallire).


 

 

 

  • L’unico sostegno di cui la banca centrale necessita da parte del governo è che mantenga il monopolio sull’emissione di moneta in tutto il territorio su cui ha giurisdizione.


 

 

 

Nel momento in cui tale potere è garantito dallo stato, la banca centrale è libera da qualsiasi vincolo di solvibilità.

 

Applichiamo ora questi primi principi alla questione di come un programma di acquisto titoli di stato possa avere implicazioni fiscali. Discuteremo prima la situazione di una banca centrale che fa riferimento a un solo stato. Poi, discuteremo il problema di una banca centrale in un’unione monetaria con più stati sovrani.

 

La banca centrale di un solo stato

 

Considereremo il caso di una banca centrale che compra titoli di stato nel mercato secondario.  Comprando i titoli di stato, la banca centrale trasforma la natura del debito del settore pubblico. Quando la banca centrale compra il debito del proprio governo, il debito si trasforma: il debito governativo, che porta con sé un tasso di interesse e un rischio default, diventa una passività della banca centrale (base monetaria) che è priva di rischio default ma soggetta a rischio di inflazione.

 

Per comprendere le conseguenze fiscali di questa trasformazione, è importante consolidare la banca centrale e il governo (in fondo sono branche separate del settore pubblico).

 

Dopo la trasformazione, il debito governativo detenuto dalla banca centrale viene cancellato. Esso è un attivo in un ramo dello stato (la banca centrale) e un passivo nell’altro ramo (il governo). Quindi, scompare. La banca centrale può ancora tenerlo a bilancio, ma esso non ha più alcun valore economico. Di fatto la banca centrale può sbarazzarsi di questo artificio ed eliminarlo dal suo bilancio, e il governo può quindi eliminarlo dall'ammontare del suo debito. Esso non ha più valore in quanto è stato rimpiazzato da una nuova forma di debito, ossia la moneta, che comporta un rischio inflattivo anziché un rischio di default.

 

Perciò non ha senso dire che le banche centrali vanno in perdita quando il prezzo di mercato dei titoli di stato scende. Se anche ci fosse una perdita per la banca centrale, sarebbe bilanciata da un guadagno equivalente da parte del governo (perché il valore del suo debito scenderebbe in uguale proporzione). Non ci sono perdite per il settore pubblico.

 

Arriviamo a una conclusione importante:

 

  • Quando una banca centrale ha acquisito titoli di stato, un declino nel prezzo di mercato di questi titoli non ha alcuna conseguenza fiscale.


 

 

La perdita in una branca del settore pubblico (la banca centrale) è compensata da un guadagno equivalente in un’altra branca (il governo), e non rimane niente da pagare per il contribuente.

 

Un’altra maniera per vedere questo effetto, è guardare ai flussi di interesse sottostanti ai bond. Supponiamo per esempio che la banca centrale abbia comprato un miliardo di euro in titoli di stato. Questi hanno una cedola, diciamo, del 4%. Perciò la banca centrale che ha in portafoglio i titoli riceve 40 milioni di euro all’anno da parte del governo. Questo viene contabilizzato come un profitto per la banca centrale. Alla fine dell’anno, la stessa banca centrale dovrà girare i propri profitti al governo. Assumendo che il costo marginale della gestione di questi bond sia pari a zero, la banca centrale girerà al governo i 40 milioni di euro. Perciò la mano sinistra paga la mano destra, per così dire.

 

Questa pratica contabile ha portato alla percezione che gli incassi per interessi siano da considerare come signoraggio. Sbagliato. Non c’è alcun profitto per il settore pubblico. Il profitto della banca centrale è esattamente compensato da una perdita del governo. Entrambi potrebbero eliminare questa scrittura convenzionale perché a questi profitti e a queste perdite non è associata alcuna sostanza economica.

 

  • E’ letteralmente vero che la banca centrale potrebbe gettare al macero i titoli di stato. Niente verrebbe perso.


 

 

Nel nostro esempio, la banca centrale non riceverebbe più 40 milioni di euro l’anno, e non dovrebbe più rigirarli al governo ogni anno.

 

Cosa succede se il governo fa default sui suoi bond in scadenza?

 

  • Il default causa delle perdite ai detentori privati dei titoli.Ma è irrilevante per i titoli detenuti dalla banca centrale. Infatti questi ora non valgono più nulla, ma erano già privi di valore anche prima del default. Si tratta della mano destra che si fa ripagare dalla sinistra.


 

 

 

 

Pensiamoci in termini di flusso di interessi. Dopo il default, la banca centrale non riceve più il pagamento degli interessi dal governo, ma allo stesso tempo smette anche di ridare indietro gli interessi al governo. Per il settore pubblico, non è successo nulla. Perciò la perdita della banca centrale a causa del default non ha alcuna conseguenza fiscale.

 

 

La stabilità dei prezzi e il default del settore pubblico

 

Esiste una questione riguardo la stabilità dei prezzi e il suo legame con un default governativo. Se la banca centrale mantiene le sue passività (la base monetaria) sotto controllo, il default di per se stesso non porta a maggiore inflazione. Questa aumenterà solo se il governo dovesse forzare la banca centrale ad espandere la base monetaria, per esempio per finanziare dei deficit di bilancio che dopo il default il governo non può più finanziare sul mercato.

Ogni tanto si sostiene che se la banca centrale non ha asset (a causa di un default governativo), allora non ha più strumenti per ridurre l'ammontare di moneta. Questa operazione può talvolta essere necessaria per ridurre la pressione inflattiva. Questo ragionamento non è fondato. Ci sono 2 modi per una banca centrale senza asset di ridurre la moneta.


Primo, la banca centrale può emettere titoli che generano interessi e venderli sul mercato. Questo ha l’effetto di ridurre la liquidità (la base monetaria).


 

Secondo, la banca centrale può aumentare i requisiti di riserva minima.  Come risultato, lo stock esistente di liquidità viene “disattivato”, cosa che produce lo stesso effetto di un calo della base monetaria.

 

 

 

La banca centrale di un’unione monetaria

 

Le cose sono più complicate in un’unione monetaria che non sia anche un’unione fiscale. Qui le conseguenze fiscali di un acquisto di titoli della banca centrale sono più complesse. Il punto è l’esistenza di “n” stati sovrani. Nell’eurozona, n=17 (presto 18 con la Lettonia).

 

  • Se potessimo consolidare la BCE e i 17 stati sovrani in un unico settore pubblico, l’analisi rimarrebbe la stessa di prima.


 

 

  • Ma non possiamo, in quanto l’eurozona non è un’unione fiscale.  Perciò un programma di acquisto di titoli comporterà trasferimenti tra i paesi che partecipano all’unione monetaria.


 

 

 

Per chiarire le idee sul problema, immaginiamo che la BCE acquisti 1 miliardo di titoli spagnoli a un tasso del 4%. Le conseguenze fiscali sono ora le seguenti.

 

La BCE riceve 40 milioni di euro in interessi annuali dal tesoro spagnolo.  La BCE restituisce questi 40 milioni di euro tutti gli anni alle banche centrali nazionali dell’eurozona.  La distribuzione avviene proporzionalmente alla quota di capitale nella BCE (vedere BCE 2012).  La banca centrale nazionale trasferisce poi quanto ricevuto al proprio tesoro nazionale.

 

Per esempio, la BCE trasferirà l’11.9% dei 40 milioni al Banco de España. Il resto andrà alle banche centrali degli altri paesi membri. Chi riceverà di più è la Bundesbank tedesca; che con una quota di capitale del 27.1%, riceverà quindi 10.8 milioni di euro.

 

Perciò in un’unione monetaria (e in assenza di un’unione fiscale) un programma di acquisto di titoli di stato porta a trasferimenti all’interno dell’unione – ma non a quelli comunemente percepiti dall’opinione pubblica, specialmente in Germania.

 

  • Un programma di acquisto titoli della BCE porta a un trasferimento annuale dai paesi i cui titoli vengono acquistati verso tutti gli altri.


 

 

 

Va notato che la BCE potrebbe implementare un programma di acquisto titoli che non comporti trasferimenti fiscali, comprando titoli di stato nazionali nell’esatta proporzione della partecipazione al capitale della BCE del corrispondente paese. In effetti, questo approccio è stato talvolta proposto. Questo però non eliminerebbe completamente i trasferimenti, dato che il tasso di interesse sui titoli di stato non è uguale per tutti. In un programma simile, i paesi con tassi di interesse più alti sarebbero pagatori netti nei confronti dei paesi con tassi di interesse inferiori. Perciò persino questo programma di acquisto ponderato sulle quote di capitale si tradurrebbe in un trasferimento fiscale dai paesi più deboli (debitori) verso i paesi più forti (creditori).

 

Cosa succede in caso di default sovrano?

 

Si sente dire spesso nei paesi creditori che, nel caso di default di un paese i cui titoli di stato sono nel bilancio della BCE, essi (i creditori) sarebbero i primi a rimetterci. Questa è una conclusione sbagliata.

 

Ritornando al nostro esempio di acquisto di 1 miliardo di euro di titoli di stato spagnoli da parte della BCE, consideriamo un default spagnolo su questi titoli.

 

  • Il governo spagnolo smetterebbe di pagare 40 milioni di euro all’anno alla BCE.  La BCE smetterebbe di versare questi 40 milioni di euro alle banche centrali “pro rata”.  Il contribuente tedesco, per esempio, non riceverebbe più il compenso annuale di 10.8 milioni di euro.  Non si può assolutamente concludere che il contribuente tedesco, o qualsiasi altro contribuente dell'eurozona, dovrebbe pagare per coprire il default spagnolo – se non nel senso stretto che dovrebbe rinunciare alla rendita annua degli interessi.


 

  • C’è ovviamente la possibilità di una “tassa da inflazione”.  Abbiamo notato prima che il programma di acquisto titoli trasforma il debito gravato da interessi in passività monetarie della BCE (base monetaria).


.

Questo di per sé potrebbe generare inflazione, e quindi una “tassa da inflazione” che si applicherebbe a tutti i possessori di euro. Questo conduce alla questione di quanto grande possa essere il programma di acquisto titoli della BCE senza generare inflazione aggiuntiva.

 

 

(Sulla tassazione da inflazione rimandiamo all'articolo pubblicato originariamente su blogspot. ... Anche perché possiamo star tranquilli: anche a detta di Draghi la mitica inflazione è  tenuta a bada da forze occulte...)