31/01/18

Flassbeck e Spiecker - Il surplus delle partite correnti tedesche: molto più grande di quanto riportato dai dati ufficiali?

Gli economisti tedeschi Flassbeck e Spiecker pubblicano un articolo di chiara denuncia:  sembra che il governo tedesco stia manipolando le sue statistiche sul surplus commerciale per evitare le crescenti critiche. Mentre i tedeschi ritengono che un enorme surplus commerciale sia una conferma della superiorità nazionale, altrove questo surplus è inquadrato nelle politiche di "beggar thy neighbour", ovvero "frega il tuo vicino".  I perdenti non sono solo il resto del mondo, ma anche gli stessi lavoratori tedeschi, che vengono sottopagati per mantenere un avanzo commerciale, non godendo così pienamente dei frutti del loro lavoro.

 

*Heiner Flassbeck è economista, nonché autore ed editore di "Makroskop" e "flassbeck economics international"

 

*Friederike Spiecker è economista e giornalista economico

 

 

 

Articolo pubblicato in tedesco da Makroskop e tradotto e pubblicato da BRAVE NEW EUROPE,   29 gennaio 2018


 

 

Le statistiche non sono così affidabili come sembrano. Secondo i dati della Bundesbank tedesca, il surplus delle partite correnti tedesche nel 2017 potrebbe essere stato molto più alto in termini reali di quanto riportato dall'Istituto nazionale di statistica tedesco - con gravi conseguenze sulla valutazione del ruolo della domanda interna nella crescita dell'economia tedesca.

 

Alcuni giorni fa, l'Istituto nazionale di statistica tedesco ha pubblicato i suoi primi risultati per i conti nazionali del 2017. Nel presentare i risultati, l'Istituto ha sottolineato che la crescita dell'economia tedesca (aggiustata per l'inflazione al 2,2%) non è stata principalmente trainata dalle esportazioni, come preteso dai molti critici, bensì che il mercato interno, vale a dire i consumi e gli investimenti, hanno rappresentato la principale forza trainante dello scorso anno. Indubbiamente, le esportazioni di beni e servizi aggiustate all'inflazione sono state del 4,7% in più rispetto all'anno precedente. Tuttavia, nello stesso periodo le importazioni sarebbero cresciute di più (+ 5,2%). "Risulta quindi che la bilancia commerciale con l'estero, cioè la differenza tra esportazioni e importazioni, ha apportato un contributo precisamente di 0,2 punti percentuali alla crescita del PIL."  Che è solo una piccola parte della crescita totale.

 

Se parallelamente a queste cifre si analizzano le statistiche della Deutsche Bundesbank, si spargono i semi del dubbio. Anche la Bundesbank pubblica dati sul commercio estero. Per i primi tre trimestri del 2017, il saldo ponderato in base al prezzo del commercio estero di beni (vale a dire il volume delle merci esportate meno il volume delle merci importate adeguate alle variazioni di prezzo) è sostanzialmente più elevato che nei primi tre trimestri del 2016, ossia intorno a 21 miliardi di euro in più in ciascun trimestre. I valori mensili di ottobre e novembre in termini nominali e, per quanto disponibili, in termini reali, indicano anche che il saldo ponderato in base al prezzo nel quarto trimestre del 2017 probabilmente avrà superato il valore corrispondente dell'anno precedente di un simile ordine di grandezza. Come si collocano questi dati con il contributo piuttosto ridotto alla crescita che l'Istituto nazionale di statistica tedesco calcola per il commercio estero?

 

 

La critica dei surplus

 

Da un punto di vista politico, le elevate esportazioni nette della Germania sono una patata bollente, dal momento che i surplus commerciali della Germania sono criticati a livello internazionale. Vale quindi la pena dare un'occhiata più da vicino a queste cifre.

 

Nell'opinione pubblica, i risultati dei calcoli dell'Istituto nazionale di statistica tedesco sono prevalentemente interpretati come i dati statistici più importanti, per cui sembrerebbe poco sensato dubitarne. Ma questo è un errore. Qui, l'Istituto si trova in bilico tra la statistica pura e le prospettive economiche. Un tale calcolo (soprattutto dal momento in cui utilizza dei dati provvisori) non può essere effettuato senza ampie stime che consentono un grande margine di discrezionalità per interpretazioni soggettive o influenzate politicamente, a seconda dei casi.

 

Sembra insomma che ci sia spazio di manovra, ed è difficile capire perché gli statistici non lo hanno sottolineato nel presentare i dati al pubblico. È anche piuttosto incredibile che delle evidenti differenze tra le statistiche dell'Istituto nazionale di statistica tedesco e della Bundesbank non siano state considerate un'opportunità per stimolare una discussione nella comunità scientifica sul modo in cui questi risultati vengono accertati e sull'importanza economica delle discrepanze.

 

In vista della pubblicazione di questo articolo, abbiamo chiesto all'Istituto nazionale di statistica e alla Bundesbank di fornirci una spiegazione per le enormi discrepanze nell'adeguamento dei prezzi del commercio estero (che è il problema principale) o almeno per aiutarci a valutarlo economicamente. Sfortunatamente, le risposte nel migliore dei casi sono state ambivalenti. Si fa riferimento alle convenzioni sui conti economici nazionali e ad eventuali revisioni delle cifre in un secondo momento. Nell'interesse di una maggiore trasparenza in futuro, dobbiamo esporre le incoerenze attuali.

 

 

Effetti di prezzo e di volume

 

La Deutsche Bundesbank ha scritto quanto segue nel Monthly Report di marzo 2017, in un articolo sull'evoluzione della bilancia dei pagamenti in riferimento al saldo delle partite correnti tedesche nel 2016 e allo sviluppo previsto dello stesso saldo nel 2017:

 

"L'avanzo delle partite correnti dell'economia tedesca, misurato in termini di prodotto interno lordo nominale (PIL), è sceso leggermente nel 2016 all'8,25%. Il calo medio annuo nasconde una riduzione più pronunciata nel corso dell'anno .... Senza un'inversione di tendenza nell'andamento dei prezzi relativi, c'è senz'altro da ritenere che l'avanzo delle partite correnti della Germania diminuirà sensibilmente su base media annua nell'anno in corso".


 

Per spiegare la continuazione dell'elevato surplus nel 2016 (261,4 miliardi di euro, rispetto ai 260,0 miliardi di euro del 2015, cfr. Ibid., P.27), il testo faceva riferimento alla dinamica dei prezzi delle merci importate:

 

"Per quanto riguarda i saldi parziali, va notato che il surplus degli scambi commerciali ha continuato ad aumentare, sebbene ciò sia dovuto a prezzi d'importazione più bassi per il quarto anno consecutivo. In termini di valore, questo effetto di prezzo oscura la riduzione quantitativa del surplus commerciale"


 

Ora, vediamo che l'avanzo delle partite correnti per il 2017 ha avuto una dinamica diversa rispetto a quanto previsto dalla Bundesbank nel marzo 2017: non è sensibilmente diminuito. L'Istituto statistico tedesco, ad esempio, alcuni giorni fa ha dichiarato nel suo rapporto sulla dinamica di importanti aggregati macroeconomici:

 

"La Germania ha nuovamente realizzato un avanzo delle esportazioni nel 2017: le esportazioni nette a prezzi correnti hanno raggiunto un valore di circa 248 miliardi di euro. Rispetto all'anno precedente, le esportazioni nette nominali sono leggermente [sic!] in calo di poco meno di 2,5 miliardi di euro."


(Le esportazioni nette nominali sono una misura derivata dai conti economici nazionali e, ad eccezione di alcune piccole differenze nelle definizioni, sono comparabili con l'avanzo delle partite correnti risultante dalle statistiche sulla bilancia dei pagamenti della Bundesbank).

 

Inoltre, le statistiche ufficiali sui prezzi del commercio estero mostrano che nel 2017 l'inversione di tendenza nell'andamento dei prezzi relativi, che la Bundesbank indicava come possibile causa limitante dell'accuratezza delle sue previsioni, non si è effettivamente verificata. L'andamento dei prezzi relativi emerso alla fine del 2016 e all'inizio del 2017 non si è invertito, bensì è cresciuto: le ragioni di scambio (ovvero i "prezzi relativi" che sono essenziali per il commercio estero, ossia il rapporto tra prezzi all'importazione e prezzi all'esportazione) sono peggiorate per la Germania. Ciò è stato confermato dall'Istituto statistico tedesco:

 

"Nel 2017 sono aumentati sia i prezzi delle esportazioni che quelli delle importazioni (secondo i dati della contabilità nazionale). L'aumento dei prezzi all'importazione, del 2,6 percento, è stato più forte rispetto all'aumento dei prezzi all'esportazione, che sono cresciuti dell'1,6 percento rispetto all'anno precedente. Ciò significa che le ragioni di scambio sono peggiorate per la prima volta dal 2012 (di un punto percentuale)."


 

In altre parole, le aspettative della Bundesbank in merito al calo dell'eccedenza delle partite correnti nel 2017 sono state contraddette dal risultato effettivo. Dopotutto, se le importazioni in relazione alle esportazioni sono diventate ancora più costose di quanto inizialmente ipotizzato (in particolare per il petrolio greggio e altre materie prime), per aversi una riduzione significativa del saldo commerciale nominativo, in termini puramente artmetici le importazioni nominali avrebbero dovuto aumentare più delle esportazioni nominali a parità di ammontare.

 

Ciò non è accaduto, tuttavia, e le eccedenze tedesche sono rimaste ad un livello estremamente alto in termini nominali, secondo cifre note da molto tempo. Anche il Consiglio tedesco degli esperti economici (SVR) e gli istituti di ricerca economica hanno affermato nei loro recenti calcoli che il surplus delle partite correnti tedesche è diminuito solo marginalmente. Nel frattempo, l'Istituto Ifo ha corretto questo calcolo e prevede un surplus significativamente più elevato per il 2017 rispetto al 2016. Secondo la Bundesbank, il saldo delle partite correnti tedesche da gennaio 2017 fino a novembre compreso è stato solo leggermente inferiore (227 contro 234 miliardi di euro) rispetto nell'anno precedente.

 

Logicamente, quindi, deve esserci stato un cambiamento nelle quantità: o i volumi delle importazioni sono notevolmente diminuiti o i volumi delle esportazioni sono aumentati in maniera più accentuata, o un misto di entrambe le cose. L'affermazione della Bundesbank del marzo 2017 citata sopra sulla dinamica del saldo del 2016 in considerazione del miglioramento delle ragioni di scambio in quel momento (" In termini di valore, questo effetto di prezzo oscura la riduzione quantitativa del surplus commerciale " ) si è rivelata essere esattamente il contrario: "Questo effetto prezzo - ossia il deterioramento delle ragioni di scambio - oscura, quando si considerano in termini di valore, l'aumento della quantità del surplus dei beni".

 

 

A quanto ammonta il surplus reale?

 

Se il surplus reale è molto più alto di quello attualmente mostrato nei conti economici nazionali, allora l'interpretazione della crescita economica tedesca è una sciocchezza, qualsiasi fonte si utilizzi: l'Ufficio nazionale di statistica tedesco, l'SVR o gli istituti economici. Ergo, è semplicemente errato presumere che consumi e investimenti siano i pilastri dell'economia. Secondo tutte le stime, l'anno scorso il PIL reale è aumentato di circa 60-70 miliardi di euro. Se il reale surplus della bilancia commerciale, come suggeriscono le statistiche della Bundesbank, è aumentato di 80 miliardi, il contributo di tutte le componenti interne deve essere stato negativo.

 

 

80 miliardi in più?

 

Nelle sue statistiche economiche destagionalizzate, la Bundesbank mostra in realtà un netto declino delle importazioni reali (cfr. Figura 1, un estratto della tabella originale).

 

Figura 1

 



 

Ne consegue, a sua volta, che il surplus reale del commercio estero sarà significativamente più elevato nel 2017 rispetto al 2016, di un'incredibile cifra di 60 miliardi di euro nei primi tre trimestri dell'anno, dato estrapolato dagli 80 miliardi di euro all'anno, come mostrato nella tabella originale della Bundesbank (cfr. la quarta colonna da destra nella figura 2 che segue: commercio estero, saldo, volume = Außenhandel, Saldo, Volumen).

 

Figura 2: Commercio estero - Scambi di merci e relative componenti

 



 

 

Le importazioni reali (in volume) sono diminuite in ciascun trimestre rispetto al 2016 e il saldo del volume è aumentato in ciascuno dei tre trimestri per i quali i dati sono disponibili fino ad oggi. Se queste cifre sono corrette anche solo a metà, allora la dichiarazione secondo cui l'economia tedesca è stata trainata dalla domanda interna è errata. Qualunque sia la ragione della discrepanza nel calcolo del surplus commerciale reale, c'è evidentemente spazio per un'ampia interpretazione del calcolo apparentemente chiaro dell'Istituto statistico tedesco. È estremamente importante segnalarlo, poiché queste cifre non vengono discusse seriamente dai media tedeschi o dagli economisti tedeschi.

 

 

Da dove ha origine questa discrepanza?

 

La discrepanza è in gran parte spiegata dal fatto che l'Istituto statistico tedesco utilizza gli indici dei prezzi per le importazioni e le esportazioni nel suo calcolo reale, mentre la Bundesbank utilizza i cosiddetti valori medi di importazione ed esportazione nel calcolo sopra menzionato.

 

Non vi è alcuna chiara evidenza che l'una o l'altra misura dei movimenti di prezzo nel commercio estero fornisca risultati corretti o errati in un dato momento. I valori medi sono più comuni a livello internazionale e sono anche rappresentativi, poiché coprono un gruppo molto più ampio di merci. Vi sono anche alcune prove che suggeriscono che, nel caso di eventi una tantum come un forte aumento dei prezzi del petrolio, l'indice Paasche delle medie supera l'Indice Laspeyres, che è comunemente usato dall'Istituto statistico tedesco. In passato tuttavia, come si può vedere da uno studio condotto dall'Istituto statistico tedesco, entrambi hanno solitamente funzionato in modo abbastanza parallelo.

 

Tuttavia, nel caso del 2017 non è plausibile che i forti aumenti dei prezzi all'importazione di petrolio e di altre materie prime, che sono indiscussi e ben documentati, abbiano avuto un effetto così ridotto sul commercio estero quanto l'Istituto di statistica, gli altri istituti e l'SVR ipotizzano implicitamente. Nel primo trimestre i prezzi del petrolio a doppia cifra erano più alti rispetto all'anno precedente, ed anche altre materie prime erano diventate molto costose.

 

Figura 3: Prezzi

 



 

 

La stima dei prezzi delle importazioni dell'Istituto di statistica (cioè gli indici) per il 2017 è quindi incomprensibile. Di conseguenza, questi sono aumentati solo del 2,6% nei conti economici nazionali nel 2017 nel loro complesso. Questa cifra è stata anche adottata nella maggior parte delle previsioni (negli istituti economici era solo il 2,4%). Tuttavia, i tassi di crescita degli indici delle merci nelle statistiche della bilancia dei pagamenti mostrano già un aumento medio del 3,9%. Inoltre, ci sono i servizi, che vengono calcolati con un peso inferiore. Come sia stato calcolato quel 2,6 percento nel conto economico nazionale rimane uno dei segreti meglio custoditi dell'Istituto statistico. È chiaro, tuttavia, che con un aumento dei prezzi all'importazione dell'ordine del 4%, il surplus reale nel commercio estero e quindi le esportazioni nette nella contabilità nazionale sarebbero state molto più elevate. Per non parlare di cosa sarebbe risultato se l'aumento del 15% dei valori medi fosse stato preso come base per il calcolo dei prezzi all'importazione.

 

 

Pubbliche relazioni fallite

 

Nel complesso, la posizione dell'Istituto statistico tedesco e la sua politica comunicativa sono fonte di preoccupazione. Il minimo che deve essere richiesto a una tale autorità è di spiegare le difficoltà metodologiche incontrate, insieme a un invito agli esperti a discutere il risultato in pubblico, piuttosto che nasconderlo sotto il tappeto senza commenti.

 

Gli 80 miliardi di euro in più di avanzo reale risultanti dai conti della Bundesbank potrebbero sembrare esagerati e saranno rivisti al ribasso in seguito alle consuete revisioni nei prossimi mesi. Ma se ne consideriamo anche solo la metà, vale a dire 40 miliardi di euro, anche questo esige cambiamenti radicali nel modo di interpretare l'andamento dell'economia nazionale tedesca lo scorso anno. Diventa impossibile parlare di un ciclo economico essenzialmente guidato dalla domanda interna. Sarebbe più corretto parlare di un'espansione del mercantilismo tedesco e di violazioni più gravi dei principi del libero scambio. Non va dimenticato che persino un surplus costante, o anche un calo di 20 miliardi di euro nel surplus, significa ancora un surplus effettivo di oltre 200 miliardi di euro. Questo ci dà la misura in cui l'indebitamento del resto del mondo verso la Germania aumenta di anno in anno. E la misura in cui i lavoratori tedeschi, insieme alle loro famiglie e allo stato, producono più di quanto consumano. Se volessimo porre fine a questo squilibrio, dovremmo colmare un differenziale di oltre 200 miliardi di euro con una domanda interna aggiuntiva.

 

 

28/01/18

Quello che la crisi venezuelana ci insegna sulla moneta

Si sentono spesso paragoni e richiami, spesso azzardati ed allarmistici, al Venezuela e alla difficile congiuntura economica che il paese attraversa, ma raramente si spiega quali caratteristiche abbia il paese né su cosa si basi la sua economia. Questa analisi economica della crisi venezuelana, oltre ad offrire una chiave per individuare le caratteristiche che rendono il Venezuela particolarmente vulnerabile a shock esterni, permette anche di capire, da una prospettiva più ampia, i meccanismi generali con i quali una politica monetaria sbagliata, unita ad una mancanza di indipendenza del sistema economico, possano scatenare una crisi persistente. 

 

 

 

Jonathan Marie, CEPN - UNIVERSITÉ PARIS 13, 11 gennaio 2018

 

 

Il Venezuela è regolarmente al centro di accesi dibattiti nei media e nella politica. Ciò tende quasi a nascondere il fatto che la particolare situazione del paese consente di trarre insegnamenti sul corretto funzionamento di un'economia, in particolare per quanto riguarda la moneta.

 

 

Una crisi con radici lontane

 

 

L'attuale crisi venezuelana, nella sua dimensione economica[1], affonda le sue radici almeno negli anni '70. In un contesto globale di instabilità generalizzata dei tassi di cambio (la stabilità dei tassi di cambio nell'economia mondiale assicurata dagli accordi di Bretton Woods è stata interrotta nel 1971), il Venezuela, uno dei principali esportatori di greggio, è rimasto vittima della "sindrome olandese". Crisi di solito provocata dalle esportazioni di un'abbondante materia prima che portano a una rivalutazione della moneta nazionale. Poiché questa valuta si rivaluta, le importazioni diventano più economiche per la popolazione o le imprese locali (ovviamente, a condizione che abbiano un reddito). Allo stesso tempo, lo sviluppo economico locale, ad eccezione del settore delle esportazioni della materia prima, è ostacolato dalla concorrenza estera da parte di paesi che sono adesso più competitivi. Una situazione del genere è potenzialmente drammatica per il paese: le disuguaglianze crescono (tra coloro che guadagnano dalle esportazioni e coloro che dovrebbero ridurre i salari per ripristinare la competitività) e la crescita economica è tendenzialmente debole. In altre parole, lo sviluppo economico è bloccato.

 

 

Il Venezuela non è mai stato in grado di abbandonare questa dipendenza dalle esportazioni di petrolio né è mai riuscito a correggere gli effetti deleteri della sindrome olandese. Questa situazione non è nuova: paesi come l'Algeria, per esempio, hanno caratteristiche simili. Il nome stesso "sindrome olandese" deriva dal fatto che, dopo la scoperta dei giacimenti di gas naturale nel Mare del Nord negli anni '60, i Paesi Bassi furono interessati da una forte deindustrializzazione.

 

 

In Venezuela si è verificato un netto e costante calo degli investimenti: se gli investimenti privati nel 1975 rappresentavano circa il 25% del PIL,​​ dalla metà degli anni '80 sono rimasti inferiori al 10% del PIL[2], causando di ritorno una debolezza strutturale della produttività. Inoltre, la "sindrome olandese" ha incrementato la specializzazione delle produzioni, quando l'economia avrebbe avuto bisogno di diversificazione (che a medio termine è vitale).

 

 

Sindrome olandese, mancanza di investimenti, ultra-specializzazione e bassa produttività creano un circolo vizioso estremamente difficile da rompere. La crescita economica è vincolata alla bilancia dei pagamenti: se la crescita si rafforza, generalmente sotto la spinta delle esportazioni di petrolio il cui valore aumenta a causa di un aumento dei prezzi (piuttosto che di un aumento dei volumi esportati), la domanda interna cresce. Ma l'aumento dei consumi si scontra con un'offerta insufficiente (a causa del basso investimento), che genera quindi un'inflazione elevata e allo stesso tempo un aumento delle importazioni. La bilancia commerciale inizia a deteriorarsi...e provoca una svalutazione che, a sua volta, alimenta l'inflazione. Qualsiasi ripresa economica reale viene annullata, e le tensioni tra i gruppi sociali sono fortemente esacerbate.

 

 

L'arrivo di Chávez in un periodo economico favorevole

 

 

Hugo Chávez è arrivato democraticamente al potere alla fine del 1999 per attuare un programma costruito attorno a due punti: rifiuto del neo-liberalismo ultra-autoritario[3] e la promessa di attuazione di un ambizioso programma sociale.

 

 

Agli inizi degli anni 2000, Chavez ha lanciato due progetti complementari: la nazionalizzazione del settore delle esportazioni di petrolio e l'introduzione di severi controlli sui cambi.

 

 

La nazionalizzazione aveva lo scopo di consentire la redistribuzione della rendita petrolifera[4] a beneficio dell'intera popolazione. Avrebbe dovuto consentire lo sviluppo e il finanziamento di programmi sociali: ridurre le disuguaglianze e sostenere in parte i consumi dei più poveri[5]. I controlli sul cambio erano finalizzati a una migliore regolamentazione della circolazione delle valute. In concreto, avrebbero dovuto consentire una politica valutaria volta a sostenere attivamente l'attività economica, in particolare al fine di limitare gli effetti della sindrome olandese. Si trattava di mettere in atto un meccanismo di cambi multipli, una sorta di protezionismo tariffario amministrato dalla banca centrale.

 

 

Fino al 2008, il Venezuela, come la maggior parte dei paesi produttori di materie prime, aveva vissuto un periodo di boom economico. I suoi profitti erano sostenuti dall'elevato livello dei prezzi delle materie prime. Tuttavia, un ambiente politico conflittuale e la presenza di vincoli di cambio erano visti come motivi d’incertezza: si materializzò un mercato parallelo dei cambi (o mercato nero), che consentiva ai venezuelani di scambiare dollari liberamente contro il bolivar. Naturalmente, avendo dei risparmi era preferibile tenerli in dollari anziché in bolivar, che si potevano deprezzare a causa dell'inflazione o di fluttuazioni sfavorevoli del tasso di cambio. Quindi, nonostante la forte crescita, gli investimenti privati non sono aumentati.

 

 

Durante lo stesso periodo, la fiducia dei venezuelani nella loro valuta si è erosa. Il bolivar è stato sostituito come riserva di valore [6] dal dollaro statunitense. Questo meccanismo progressivo, alimentato da un rafforzamento dell'inflazione (che è passata dal 16% nel 2000 al 32% nel 2008 secondo le statistiche nazionali ufficiali riprese dal Fondo monetario internazionale), ha portato all'indebolimento della valuta.

 

 

La svolta del 2008

 

 

L'economia venezuelana è rimasta estremamente dipendente dal contesto internazionale, che nel 2008 è diventato meno favorevole: il prezzo al barile è sceso da $129 a luglio a $31 a dicembre. L'attività economica si è fortemente contratta sotto il doppio effetto delle minori entrate fiscali di un governo che faceva fatica a finanziare la spesa sociale, ed il calo dei proventi delle esportazioni di petrolio a causa della minore domanda globale. Alla fine, dal tasso di crescita complessiva superiore al 5% del 2008 si è arrivati nel 2009 a una recessione netta  pari al -3,2%. Questa inversione è stata accompagnata dalle aspettative della popolazione di un deprezzamento del bolivar, che alimentavano di riflesso una forte domanda di dollari, proprio nel momento in cui questi ultimi affluivano in misura minore a causa del calo dei proventi delle esportazioni. Il governo ha reagito rafforzando i controlli sui cambi, fatto che, secondo la dinamica della "profezia auto-avverante", ha ulteriormente incoraggiato i venezuelani ad acquistare dollari in nero e voltare le spalle alla valuta nazionale.

 

 

Dal 2012[7], in un contesto politico molto incerto (Chávez, che soffriva di problemi di salute, fu finalmente rieletto in ottobre), i controlli sono divenuti sempre meno efficaci a prevenire fughe massicce di capitali. Il vincolo esterno aumentava man mano che la dinamica inflazionistica si rafforzava: i lavoratori chiedevano aumenti salariali che generavano una spirale prezzi-salari, mentre anche le svalutazioni alimentavano  l'inflazione. Questa è aumentata dal 20% nel 2012 al 56% nel 2013, al 68% nel 2014 e al 180% nel 2015.

 

 

Dopo l'indebolimento della funzione di riserva di valore del bolivar a favore del dollaro, ora la stessa funzione di unità di conto e di mezzo di pagamento risultano indebolite. In Venezuela ci si trova vicini all’iperinflazione[8], una situazione caratterizzata da un'esplosione dei prezzi accompagnata da sfiducia verso la moneta nazionale[9], come è avvenuto ad esempio in Argentina nel 1989 e nel 2009 in Zimbabwe. I venezuelani ricercano altri mezzi monetari che non siano il bolivar: che sia il dollaro americano, o i bitcoin, un asset finanziario rischioso ma che permette di sfuggire ai controlli ...

 

 

Una crisi che rivela (anche) la natura della moneta

 

 

Una simile crisi monetaria è sempre accompagnata da una crisi politica[10]. Ciò conferma la tesi per cui qualsiasi valuta richiede l'adesione dei suoi utilizzatori a un progetto collettivo e il loro riconoscimento dell'autorità sovrana responsabile della sua gestione e controllo. Ovviamente, questa duplice condizione non è più presente in Venezuela.

 

 

Le radici lontane della crisi venezuelana mettono anche in luce quanto sia instabile e vincolante il sistema monetario internazionale oggi per tutti i paesi, ma soprattutto per i piccoli paesi in via di sviluppo, che dipendono fortemente dalla loro capacità di ottenere valute internazionali, in primo luogo il dollaro, e hanno grandi difficoltà a stabilizzare i loro tassi di cambio e sviluppare politiche monetarie autonome, orientate verso obiettivi interni.

 

 

Ci si può infine chiedere se il recente annuncio del presidente Nicolás Maduro di creare una nuova (cripto-) moneta possa essere la soluzione ai problemi economici del paese. Non corriamo rischi a rispondere decisamente di no. In primo luogo, perché il Petro (il nome di questa futura moneta) -  un progetto di cripto-valuta elettronica la cui emissione è garantita dalle risorse naturali del paese - mette in evidenza l'incapacità delle autorità a contenere, se non a prevenire, la scomparsa del bolivar. In secondo luogo, perché questo progetto è influenzato da una concezione arcaica della moneta : per avere valore e creare fiducia, si pensa, la moneta dovrebbe essere ancorata a qualcosa; una volta ci si basava sull'oro o l'argento, oggi Maduro si basa sul petrolio.

 

 

Soprattutto, come potrebbe questa moneta soddisfare le esigenze dell'economia se la sua emissione segue l'evoluzione della stima delle riserve petrolifere in Venezuela? Non vi è alcuna garanzia che il finanziamento dell'attività economica sarà quindi sufficiente per consentire al Venezuela di svilupparsi.

 

 

La moneta è endogena all'attività economica e presume la fiducia dei suoi utilizzatori, e questo concetto sembra essere ignorato da Maduro.

 

 

Gli esempi qui brevemente illustrati relativi al caso venezuelano sono in linea con le lezioni che si possono trarre dall’opera "La Monnaie. Un enjeu politique" [11]. La moneta è un'istituzione sociale centrale nella crisi del capitalismo. Per promuovere lo sviluppo economico, che sia nazionale o globale, bisogna capire come funziona e si gestisce la moneta. Una politica monetaria efficace, sia in Venezuela che in qualsiasi area monetaria, presuppone di garantire la fiducia degli utilizzatori di questa valuta e allo stesso tempo di affrontare la questione del regime monetario. Pertanto, la politica monetaria e la politica fiscale dovrebbero sempre e ovunque essere in grado di coordinarsi per raggiungere gli obiettivi di stabilità economica, sviluppo e piena occupazione.

 

 

[1] Nel 2017, secondo il Parlamento controllato dall'opposizione, l'inflazione era del 2616%. L'FMI prevede una recessione al 12% del PIL. Per quanto queste cifre siano difficili da verificare a causa della loro entità, la recessione e la situazione quasi iperinflazionistica sono fuori dubbio.

 

[2] Gutiérrez, L. H., and Labarca, N. (2003), “Determinantes de la inversión privada en Venezuela: Un análisis econométrico para el periodo 1950-2001”, Revista Tendencias, 4(2).

 

[3] Ricordiamo che nel 1989, all'inizio del suo secondo mandato, Carlos Andres Perez - eletto con un programma socialdemocratico - dovette piegarsi alle ingiunzioni neoliberiste del Fondo monetario internazionale (proprio mentre si stava costruendo il famoso "Washington Consensus"), implementando la legge marziale e reprimendo la protesta nel sangue. Il "Caracazo" del 1989 uccise circa 3000 persone in un contesto di alta inflazione.

 

[4] Ad esempio, si veda questo articolo di T. Gaston-Breton pubblicato su Les Echos nel 2006 per rendersi conto della natura conflittuale della distribuzione delle entrate petrolifere in Venezuela, dalla scoperta dei giacimenti, all'interno della stessa popolazione locale, ma anche con i principali gruppi stranieri che sfruttano i giacimenti.

 

[5] L'obiettivo era infatti destinare le rendite del petrolio ai programmi sociali: trasferimenti, investimenti pubblici per sradicare l'analfabetismo o migliorare lo stato di salute della popolazione... ma sfortunatamente non per risanare l'economia venezuelana dalla sindrome olandese!

 

[6] Gli economisti concordano nel riconoscere almeno tre funzioni di moneta: unità di conto, mezzo di pagamento e riserva di valore. Il primo consente di valutare il prezzo dei beni nella stessa unità di misura, il secondo facilita le transazioni e il terzo, che compete con altre attività come i titoli finanziari, è una modalità del risparmio. Gli economisti keynesiani aggiungono a queste funzioni quella per cui la moneta, attraverso la politica monetaria in coordinamento con la politica di bilancio, consente di intervenire sull'attività economica.

 

[7] Lampa, R. (2017), “Crisis in Venezuela, or the Bolivarian Dilemma: To Revolutionize or to Perish? A Kaleckian Interpretation”, Review of Radical Political Economics, 49, pp. 1-21.

 

[8] Cfr. Kulesza, M. (2017), « Inflation and Hyperinflation in Venezuela (1970s-2016): a post-keynesian interpretation », Institute for International Political Economy, WP 93.

 

[9] Per una revisione della letteratura eterodossa e un modello teorico, si veda Charles, S. and Marie, J. (2016), « Hyperinflation in a small open economy with a fixed exchange rate: A post Keynesian view », Journal of Post Keynesian Economics, 39, pp. 361-386.

 

[10] si veda Théret , B.(dir.) (2007), "La monnaie dévoilée par ses crises", éditions de l’EHESS.

 

[11] Opera di prossima pubblicazione presso Seuil nel gennaio 2018, scritta in collaborazione con J.-M. Harribey, E. Jeffers, J.-F. Ponsot e D. Plihon. Si veda qui.

 

25/01/18

Svezia: il governo si prepara a schierare l'esercito nelle No-Go-Area

Il fenomeno delle gang islamiche sta cambiando il volto delle pacifiche e ordinate società del nord Europa. In particolare la Svezia, che da anni affronta un gravissimo problema di governo di alcune zone off limits delle grandi città, dominate da gang di giovani immigrati di religione islamica. A quanto riporta Zero Hedge, la situazione è così esplosiva che il governo svedese si sta organizzando per dispiegare l'esercito e distribuire manuali di autodifesa ai propri cittadini.  

 

 

Zero Hedge, 18 gennaio 2018

 

Per la prima volta dalla seconda guerra mondiale, la Svezia si sta preparando a distribuire un opuscolo sulla difesa civile a circa 4,7 milioni di famiglie, avvertendole sul possibile insorgere di una guerra.

 

Secondo quanto riportato dal FT, l'opuscolo servirà come un manuale di "auto-difesa" in caso di guerra e fornirà dettagli su come garantirsi i bisogni di base come acqua, cibo e riscaldamento. Il manuale copre anche altre minacce, come attacchi informatici, terrorismo e cambiamenti climatici.

 

"Tutta la società deve essere preparata ai conflitti, non solo i militari. Non abbiamo più usato parole come auto-difesa o allerta da 25-30 anni o più, quindi l'informazione tra i cittadini è molto bassa", ha detto Christina Andersson, capo del progetto presso l'agenzia svedese per le emergenze civili.

 

Il manuale della sopravvivenza, noto a molti come guida per i survivalisti, intitolato "Se arriva la crisi o la guerra" sarà pubblicato dal governo nella tarda primavera. La sua pubblicazione arriva in un momento in cui la minaccia della guerra da parte della Russia è alta, be', forse, o almeno questo è quello che molti sono condizionati a credere seguendo l'informazione mainstream.

 

E se invece la minaccia non venisse dalla Russia, ma dall'interno del paese?

 

Mercoledì il Primo Ministro Stefan Lofven ha dichiarato che la Svezia dovrebbe fare tutto il possibile, compreso inviare l'esercito, per porre fine all'ondata di violenza per bande nelle diverse no-go-area del paese ("interi quartieri dominati dalle gang islamiche, in cui non mettono piede né la polizia, né altre strutture istituzionali come i vigili del fuoco, i vigili urbani, le ambulanze",  ndVdE).

 

Il tasso di omicidi in Svezia è rimasto relativamente basso negli anni, ma a causa della crisi dei flussi migratori, in molte zone la polizia risulta impotente.

 

"Far intervenire l'esercito non sarà il primo passo, ma sono pronto a fare tutto il necessario per porre termine alla criminalità organizzata", ha detto Lofven dopo la discussione sulla leadership del partito in parlamento.

 

"Ma è anche ovvio che ci sono problemi sociali. Lo scorso anno si sono verificati 300 sparatorie, 40 persone sono rimaste uccise. Il nuovo anno è iniziato con nuovi assalti. Ci sono criminali con totale mancanza di rispetto per la vita umana, è una dinamica terribile, sono determinato a imprimere una svolta alla situazione", ha aggiunto.

 

Persino il leader democratico svedese Jimmie Akesson "ha dichiarato guerra" contro il crimine organizzato e ha suggerito che la Svezia dovrebbe schierare l'esercito nelle zone proibite per contrastare la violenza fuori controllo.

 

"La gente viene uccisa a colpi di pistola nelle pizzerie, dalle bombe a mano trovate per strada", ha detto Akesson in Parlamento mercoledì.

 

"Questa è la nuova Svezia; il nuovo, eccitante, dinamico, paradiso multiculturale che tanti qui, in questa assemblea ..., hanno combattuto per creare per così tanti anni", ha detto con sarcasmo.

 

Peter Imanuelsen, giornalista indipendente in Svezia, ha riassunto i recenti sviluppi in ordine cronologico:

 


  • Il governo invia volantini a 4,7 milioni di famiglie dicendo loro come prepararsi per la guerra

     


  • Il leader del partito democratico svedese dice "Nella società svedese è in corso una guerra"

     


  • Il primo ministro svedese sta valutando la possibilità di schierare l'esercito nelle zone proibite

     


Per riassumere, il governo svedese si sta preparando a un evento destabilizzante, mentre i media mainstream continuano a usare la Russia come capro espiatorio. Nel frattempo, alti funzionari governativi in Svezia hanno ribadito in coro unanime che l'intervento militare in dozzine di no-go-area in tutto il paese è un'alta probabilità. Allo stesso tempo, il governo si sta preparando a distribuire milioni di manuali di sopravvivenza ai propri cittadini, indicando che un evento destabilizzante si sta avvicinando.

 

Mercoledì scorso abbiamo riferito del caos in Svezia suscitato da una bomba a mano lanciata in una stazione di polizia a Malmo, che secondo i resoconti dei media locali ha provocato una "grande esplosione".

 

Infine, mentre i tre maggiori partiti politici svedesi sollecitano un intervento militare nelle zone proibite, l'agenzia svedese per le emergenze civili si sta freneticamente organizzando per stampare milioni di manuali di sopravvivenza per proteggere i cittadini da quello che sembra essere un futuro turbolento nel 2018.

 

24/01/18

I greci scioperano per il diritto di sciopero

Zero Hedge descrive la paradossale - ma non in un mondo neoliberista - situazione della Grecia. I mercati (queste oscure divinità dei nostri tempi, che esigono la loro quota di sacrifici umani) mostrano di considerare basso il rischio di investimento sui titoli di Stato greci. Non perché ci sia una reale ripresa dell'economia - tutt'altro - ma perché puntano sull'uscita del Paese dal programma di "salvataggio" (o di definitivo affossamento?) e sulla sua inclusione nel quantitative easing della BCE (finché dura). E per uscire dal programma di salvataggio non c'è limite al deterioramento delle condizioni di vita e lavoro della popolazione che il governo di Tsipras si è volontariamente costretto ad accettare. Con gli ultimi provvedimenti si limita il diritto di sciopero, mentre si rende più facile pignorare la casa di chi non paga un debito: e questo in un Paese in cui una famiglia su due è indebitata. (L'immagine di apertura, una foto scattata all'interno del Tribunale di Atene durante le vendite all'asta di beni pignorati, è tratta dal blog Greek Crisis dell'antropologo greco Panagiotis Grigoriou. Il post che la contiene è stato tradotto sul sito dell'associazione a/simmetrie).

 

 

 

 

di Tyler Durden , 12 gennaio 2018

 

Stando ai mercati, in Grecia è in atto una ripresa straordinaria. Al punto che, di fatto, le obbligazioni greche con scadenza a due anni oggi offrono un tasso inferiore a quello delle obbligazioni di pari scadenza emesse dal Tesoro americano. Ebbene sì, secondo i mercati la Grecia ora dal punto di vista del rischio di credito è più sicura degli Stati Uniti.

 



 

Eppure, basta una rapida occhiata dentro l'economia reale greca per scoprire che nulla è stato risolto. In realtà si può sostenere che le cose oggi sono messe peggio di quando la Grecia ha fatto default (per la prima volta),

 

Secondo le statistiche della IAPR (Autorità Indipendente per le Entrate Pubbliche)le tasse non pagate in Grecia attualmente equivalgono a più del 55% del PIL del Paese a causa - diciamolo - dell'impossibilità delle persone di pagare tasse in continuo aumento. Il debito scaduto nei confronti dello Stato ha raggiunto quasi 100 miliardi di euro, di cui solo 15 miliardi di euro hanno una qualche possibilità di essere restituiti alle casse del governo, poiché la maggior parte è dovuta da imprese fallite e da persone morte.

 

Le autorità fiscali greche nel 2017 hanno sequestrato pensioni, stipendi e beni di oltre 180.000 contribuenti, mentre i crediti inesigibili delle casse dello Stato continuano a crescere. L'Autorità indipendente per le entrate pubbliche ha confiscato quasi 4 miliardi di euro nei primi dieci mesi di quest'anno, con misure coattive che, a quanto si riporta, nel 2018 riguarderanno 1,7 milioni di debitori morosi.

 

Il credito deteriorato dello Stato in Grecia è cresciuto al ritmo di un miliardo di euro al mese dal 2014 e quasi 4,17 milioni di contribuenti attualmente devono denaro al Paese, il che significa che un greco su due è direttamente indebitato.

 

A dimostrazione dell'immensa portata del disastro economico, un recente articolo di Kathimerini ha rivelato che i creditori greci propongono tagli enormi, fino al 90%, a chi è indebitato per prestiti al consumo, carte di credito o prestiti a piccole imprese non sostenuti da garanzie.

 

Nel contesto della vendita di un portafoglio di crediti inesigibili da 2,5 miliardi di euro (denominato Venus), Alpha Bank sta utilizzando come incentivo importanti tagli al debito, proposti in lettere che ha inviato a circa 156.000 debitori. Il fatto che ciò riguardi circa 240.000 crediti inesigibili significa che alcuni debitori potrebbero avere due o tre prestiti scaduti.

 

Un altro importante finanziatore locale, Eurobank, sta impiegando la stessa strategia per una serie di prestiti che ammontano in totale a 350 milioni di euro. La maggior parte dei prestiti riguarda somme tra i 5.000 e i 7.000 euro ciascuno, la cui restituzione è in ritardo di oltre un decennio. È così: la maggior parte dei greci non è in grado di restituire alcune migliaia di euro, senza andare in bancarotta.

 

Tutto questo significa che le banche si aspettano di riscuotere una piccola parte di questi debiti - solo 250 milioni di euro per Alpha e 35 milioni per Eurobank - con un taglio netto del 90%, accettando ormai che il resto del debito non è più riscuotibile.

 

Ma per una rappresentazione più accurata dello stato reale delle cose, rivolgiamoci alla Reuters, che riferisce che i lavoratori della metropolitana, portuali e i medici statali hanno intenzione di scioperare venerdì, nella prima grande contestazione organizzata nel Paese del 2018, per protestare contro una nuova legge che limiterà il loro diritto di interrompere il lavoro.

 

Proprio così, i greci stanno scioperando per il diritto di sciopero.

 

Il 15 gennaio si prevede che il Parlamento voterà una controversa riforma, che renderebbe più rigide le regole sulle interruzioni del lavoro, o sugli scioperi sindacali: una condizione imposta dai creditori che hanno prestato milioni alla Grecia a partire dal 2010. Secondo la normativa attuale, i sindacati greci possono dichiarare scioperi se hanno il supporto di un terzo dei loro membri. La nuova legge eleverebbe questa soglia al 50%, limite che i creditori sperano possa diminuire la frequenza degli scioperi e migliorare la produttività che è inferiore di circa il 20% rispetto alla media UE, secondo i dati dell'OCSE.

 

Può sembrare ridicolo, ma gli scioperi sono così comuni in Grecia che esiste un sito web loro dedicato.

 

Secondo la Reuters, lo sciopero di venerdì è sostenuto da diversi sindacati, tra cui GSEE, il più grande del settore privato. "(La nuova norma) essenzialmente distrugge l'unica arma rimasta ai lavoratori per proteggersi, in particolare dopo che gli accordi collettivi di lavoro sono stati archivati", ha dichiarato il portavoce del GSEE Dimitris Karageorgopoulos.

 

Stavros Kafounis, a capo dell'Associazione Commerciale di Atene, che rappresenta i commercianti, ha dichiarato che gli scioperi hanno amplificato i problemi economici del Paese.

 

"Ogni volta che c'è uno sciopero nei trasporti pubblici le attività si riducono, il che va a gravare su attività già deboli", ha affermato.

 

Si prevede che la maggioranza dei parlamentari voterà a favore del disegno di legge, solo l'ultima pillola amara da ingoiare da parte del governo dominato dal movimento di sinistra Syriza, che nel 2015 ha preso il potere promettendo di porre fine all'austerità, solo per accettare un altro salvataggio, ancora più gravoso e umiliante, pochi mesi dopo.

 

Nonostante le proteste del popolo greco contro la limitazione del loro diritto costituzionale di sciopero, la Grecia è costretta ad approvare il regolamento insieme a una serie di altre misure, per ottenere che i creditori promuovano i progressi effettuati nel programma di salvataggio, da cui il Paese spera di uscire questa estate. In caso contrario, tutti gli imprudenti che hanno acquistato obbligazioni greche a due anni, nella speranza che il Paese sarà presto idoneo per essere incluso nel programma di QE della BCE, finiranno per subire enormi perdite.

 

E come se i greci non fossero già abbastanza arrabbiati, con il disegno di legge parlamentare di lunedì si punta anche a introdurre aste elettroniche che potrebbero facilitare i pignoramenti per combattere contro la montagna di crediti tossici che pesano sulle banche del Paese, razionalizzare la spesa per benefici statali, fissare obiettivi per svendere i beni della Public Power Corporation, la società pubblica che gestisce l'energia elettrica, e regolamentare il funzionamento dei casinò.

 

In altre parole, basterà il clic di un pulsante per ottenere un pignoramento dovuto al ritardo nel pagamento di una rata del mutuo.

 

In conclusione, ovviamente, tutto finirà in niente: un sindacalista ha detto che, indipendentemente dalla nuova legislazione, i lavoratori continueranno a scioperare.

 

"Se non gli piace, che ci licenzino... o ci arrestino", ha dichiarato Spyros Revithis, capo di un sindacato dei lavoratori del trasporto pubblico che ha organizzato 15 scioperi nel 2017. "Questo governo è il cavallo di Troia del neoliberismo contro i diritti dei lavoratori".

 

Non avremmo potuto dirlo meglio.

 

Gli italiani ora possono riportare le fake news alla polizia: ecco perché è un problema

Dal Poynter Institute, uno dei principali centri internazionali di analisi e documentazione sul giornalismo e leader nel campo della formazione, un articolo decisamente critico sul portale creato dal governo italiano contro le cosiddette fake news, iniziativa certamente spinta da timori e preoccupazioni in merito agli esiti delle prossime elezioni.  Il prestigioso istituto non nasconde il suo giudizio sul fatto di affidare alla polizia il controllo sulla falsità o la verità delle notizie, cosa che in un regime democratico spetterebbe al giornalismo, quello vero naturalmente. 

 

 

 

 

Di DANIEL FUNKE · 19 gennaio 2018

 

Nel tentativo di affrontare le fake news prima delle elezioni di quest'anno, il governo italiano ha creato un portale online in cui le persone possono segnalare bufale.

 

Il portale, annunciato giovedì dal Ministro dell'Interno Marco Minniti, invita gli utenti a fornire il loro indirizzo email, un link alla disinformazione che stanno segnalando e qualsiasi social network su cui abbiano trovato la notizia.

 

Quindi le segnalazioni vengono trasferite alla Polizia Postale, un'unità della polizia di stato che indaga sul crimine informatico, che le controllerà e - se le leggi sono state infrante - procederà per via legale. Nei casi in cui nessuna legge fosse infranta, il servizio si avvarrà comunque di fonti ufficiali per negare le informazioni false o fuorvianti.

 

L'esempio fornito da Minniti questo giovedì risale al mese scorso, quando l'ex vicepresidente degli Stati Uniti, Joe Biden, affermò che la Russia aveva influenzato il referendum costituzionale italiano del dicembre 2016 - una pretesa che avrebbe potuto venire smentita ricorrendo alla testimonianza dei funzionari dei servizi segreti davanti al Parlamento.

 

L'annuncio arriva nel bel mezzo di una sorta di frenesia nazionale - animata in particolare dal Partito Democratico al governo - sul potenziale impatto delle fake news sulle elezioni politiche di marzo. Ed è stata una sorpresa per Giovanni Zagni, giornalista attento alla verifica delle notizie (fact checking), che ha letto dell'annuncio su giornali come la Repubblica.

 

"Questo progetto mi lascia con molti interrogativi e solleva diversi problemi" ha dichiarato a Poynter in una mail il direttore di "Pagella Politica" (cofondatore insieme ad Alexios Mantzarlis della rete internazionale di fact-checking). "La Polizia Postale si va a muovere in un campo molto delicato, al limite della censura e della legge che tutela la libertà di stampa".

 

Pur sostenendo che si tratta di un tentativo lodevole, una delle principali preoccupazioni di Zagni è il fatto che la Polizia Postale non dà una definizione di "fake news" da nessuna parte; il comunicato stampa ufficiale si riferisce in modo opaco a "notizie false e tendenziose". Diffondere quel tipo di contenuto potrebbe essere contrario alla legge se si traduce in una "turbativa dell'ordine pubblico", e questo lascia alla polizia un forte potere discrezionale su quale genere di informazione sia perseguibile online.

 

"Questa è una linea molto sottile sulla quale muoversi: in caso di reato, i responsabili possono rischiare fino a tre mesi di prigione", ha detto. "Vogliono cercare quelli che diffondono notizie false? E se a farlo fossero giornali importanti e non solo oscure pagine Facebook? "

 

"Stanno trasformando i poliziotti in veri e propri controllori delle notizie?"

 

Fabio Chiusi, giornalista e ricercatore presso il Progetto Punto Zero, ha fatto eco alle preoccupazioni di Zagni. Ha detto a Poynter in una e-mail che mentre le informazioni false sono una legittima preoccupazione per qualsiasi governo, costruire delle soluzioni avventate e precipitose non è la giusta risposta.

 

In realtà, dice, questo tipo di soluzione peggiora il problema.

 

"Ogni volta che alla polizia è affidato il compito di trattare con la verità e la falsità delle notizie e di contenuti politici, ebbene, chi ha a cuore la democrazia dovrebbe preoccuparsi - non certo sentirsi tutelato", ha affermato Chiusi. "I cittadini delle democrazie sane non hanno bisogno di essere protetti dalle falsità di questo tipo: dovrebbero essere in grado di esercitare liberamente il proprio giudizio, senza interferenze da parte delle autorità statali - specialmente da parte della polizia"

 

Arianna Ciccone, fondatrice del Festival Internazionale del Giornalismo, si è detta d'accordo. Ha dichiarato a Poynter in una e-mail che l'iniziativa - che a quanto dice Chiusi non offre contromisure a coloro che potrebbero essere falsamente accusati - apre la possibilità di future violazioni della libertà di parola da parte del governo, e può provocare un effetto potenzialmente deterrente sulla stampa.

 

In breve: se i giornalisti hanno troppa paura che commettere un errore può dar luogo a un'azione legale, cosa potranno mai scoprire e indagare?

 

"Fortunatamente in Italia il reato di "notizie false" non esiste, e se consideriamo il reato di diffamazione, devono essere i tribunali a stabilirlo, non la polizia", ​​ha detto la Ciccone. "E la lotta contro le informazioni false attraverso informazioni corrette (come previsto da questa iniziativa) non dovrebbe in alcun modo essere una prerogativa della polizia. Accettare, con questo primo passo, l'idea di una verità determinata dallo stato, apre la strada a molte altre possibilità e iniziative."

 

Non si può ignorare il contesto politico di questi ultimi sforzi del Ministero. Diversi giornalisti ed esperti italiani - tra cui Ciccone e Zagni - hanno detto a Poynter che non è ancora chiaro se le notizie false abbiano o meno degli effetti reali sugli elettori in vista delle elezioni politiche. La questione è stata fortemente politicizzata dal partito al governo, e benché le notizie più estremiste e le bufale online possono raggiungere un vasto pubblico, in che misura il governo o le organizzazioni della società civile debbano intervenire, non è altrettanto chiaro.

 

Il tentativo del Ministero dell'Interno è chiaramente malposto, ha detto Chiusi. Se il governo italiano voleva davvero sapere cosa stia accadendo a proposito delle fake news, avrebbe dovuto investire di più in ricerche e approfondire la questione.

 

"In una democrazia sana, e secondo logica e buon senso, uno cerca di fare una diagnosi della gravità della propria condizione prima di prendere un farmaco", ha detto. Qui invece si provvede in anticipo, prima di conoscere davvero l'estensione del problema delle fake news, ammesso che il problema esista davvero".

 

Al cuore della questione, secondo Ciccone vi è il problema che la verifica delle potenziali falsità da parte della polizia consiste in una cessione della responsabilità giornalistica al governo.

 

"Non è compito dello Stato stabilire la verità", ha detto Ciccone. "Questo si fa nei regimi autoritari".

 

22/01/18

ZH: In un'intervista shock, Macron ammette che la Francia voterebbe per l'uscita dalla UE, se si tenesse un referendum

In un'intervista alla BBC commentata da Zero Hedge, Macron afferma a sorpresa che un equivalente francese della Brexit avrebbe "probabilmente" condotto allo stesso esito: l'uscita dalla UE. La dichiarazione del leader francese suona particolarmente insolita in un momento in cui gli alfieri dell'establishment cercano di rassicurare che c'è "ripresa" e che i "populisti" sono in ritirata. Ma suona insolita anche per la spiegazione esatta e puntuale del problema: l'ipotetico voto per l'uscita dalla UE sarebbe l'espressione delle classi medie e delle classi lavoratrici che si oppongono a una globalizzazione fatta contro di loro.

 

 

di Zero Hedge, 21 gennaio 2018

 

Quando lo scorso anno Marine Le Pen perse le elezioni presidenziali francesi, ed Emmanuel Macron vinse con ciò che sembrò una valanga di voti, l'establishment tirò un sospiro di sollievo, non solo perché la celebre euroscettica populista era stata battuta, ma anche perché sembrò che il vento fosse cambiato. Perciò, dopo un 2016 tumultuoso, il 2017 iniziò con un bel colpo a favore degli eurocrati non-eletti di Bruxelles. Dopotutto la gente si era espressa e aveva detto di volere più Europa (e più euro), non meno.

 

O forse no.

 

Il presidente francese ha scioccato tutti in Europa quando ha ammesso che gli elettori francesi voterebbero per uscire dalla UE se in Francia si tenesse un referendum del tipo "dentro o fuori" sull'appartenenza al blocco di paesi guidati da Bruxelles. Non sorprende che nessun altro paese UE abbia messo a rischio la propria appartenenza al blocco tramite un voto pubblico, dopo che la Gran Bretagna ha sorpreso gli altri paesi membri con un voto per l'uscita nel 2016, a dispetto di tutti i sondaggi che mostravano come un esito del genere fosse praticamente impossibile.

 

Durante un'intervista con il giornalista Andrew Marr della BBC, Emmanuel Macrom ha ammesso che potrebbe perdere un eventuale referendum francese sull'appartenenza alla UE. Interpellato sul voto della Brexit, il presidente ha candidamente detto a Marr:

 

"Non sono io a dover giudicare o commentare le decisioni del vostro popolo". Ma, ha aggiunto, "la mia interpretazione è che ci siano molti sconfitti della globalizzazione che hanno improvvisamente deciso che quest'ultima non fa più per loro".

 

Marr ha poi insistito col presidente francese, che da molti è considerato come il nuovo leader della UE, chiedendogli se la decisione della Gran Bretagna sia stato un caso unico. Come citato dall'Express, il giornalista della BBC ha domandato: "Se la Francia avesse indetto lo stesso referendum, avrebbe avuto lo stesso risultato?"

 

Macron ha risposto: "Sì, probabilmente, probabilmente. Sì. In un contesto simile. Ma abbiamo un contesto molto diverso in Francia". Nonostante abbia specificato di non volerla fare facile: "Non farei alcuna scommessa, comunque - avrei dovuto combattere molto duramente per averla vinta".

 

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"La mia idea è che le classi medie, le classi lavoratrici e i più anziani hanno deciso che ciò che è successo negli ultimi decenni non è andato a loro favore, e che gli aggiustamenti fatti all'interno della UE non erano a loro favore".

 

"Penso che l'organizzazione della UE sia andata troppo oltre con la libertà ma senza coesione, con la libertà dei mercati ma senza regole"

 

Il leader francese ha poi sferrato un colpo a David Cameron per aver deciso di tenere un referendum con una semplice risposta sì/no sull'appartenenza alla UE, anziché chiedere come poter fare per migliorare la situazione.

Il piano franco-tedesco: come sistemare l'eurozona senza far scattare l'allarme

Da Bloomberg una sintesi del piano franco-tedesco per ristrutturare l'eurozona che potrebbe essere attuato dopo questo ciclo elettorale italiano: si tratta di un documento elaborato da eminenti economisti francesi e tedeschi con nuove proposte volte a superare lo stallo delle infinite discussioni sul ministro delle finanze europeo o sull'unione fiscale, e che da un lato danno ad intendere ai paesi del sud un atteggiamento critico verso l'austerità superando la regola del 3%, e dall'altro rassicurano gli elettori del nord sul tanto temuto azzardo morale. Il risultato non cambia: liquidare quel che resta del risparmio privato e del patrimonio pubblico del nostro paese. Grazie a Orizzonte 48 per la segnalazione. 

 

 

 

di Leonid Bershidsky, 18 gennaio 2018

 

Una proposta progettata da eminenti economisti francesi e tedeschi per sconfiggere i facili argomenti contro le riforme.

 

Al giorno d'oggi gli esperti potrebbero non essere graditi, ma quando si tratta di riformare la zona euro, il consenso degli esperti è importante quanto il consenso politico. La maggior parte degli elettori comprende solo le linee di base delle riforme; ma se gli esperti concordano sui dettagli, questo può essere rassicurante. Fortunatamente per i leader politici, ora esiste un consenso tra gli esperti: è presentato in un documento firmato da 14 economisti francesi e tedeschi appartenenti ai più importanti istituti di ricerca che influenzano le politiche economiche in questi due paesi e alle più importanti università degli USA.

 

Francia e Germania sono state su lati opposti dello schieramento politico, su posizioni che gli elettori possono facilmente comprendere. La Francia e i paesi dell'Europa meridionale che si trovano sulle stesse posizioni vogliono più margini di manovra nella spesa e più sostegno per mantenere bassi i tassi di interesse. Il punto di vista tedesco riflette l'approccio più deciso del nord Europa verso la disciplina di bilancio e l'avversione per il debito. Gli elettori francesi preferirebbero meno dogmatismo da parte dei tedeschi e più stimoli per lo sviluppo. Gli elettori tedeschi non vogliono pagare per la dissolutezza del sud. Il modo migliore per superare questo scoglio e dare al Presidente francese Emmanuel Macron e al Cancelliere tedesco Angela Merkel la possibilità di una svolta è quello di suggerire soluzioni che spostino l'attenzione da parole d'ordine politiche come "austerità"o "mutualizzazione del debito".

 

È ciò che riesce in gran parte a fare il documento dei 14 economisti, che appartengono all'élite degli istituti di ricerca economica, dall'Ifo Institute tedesco alla Paris School of Economics, dal think-tank Bruegel al Peterson Institute of International Economics e da Harvard sino a Berkeley.

 

Gli economisti chiariscono subito:

 

"Crediamo che l'alternativa tra una maggiore condivisione dei rischi e maggiori incentivi sia una falsa alternativa, per tre motivi. In primo luogo, una solida architettura finanziaria richiede strumenti sia per la prevenzione delle crisi (buoni incentivi) che per l'attenuazione delle crisi (poiché i rischi permangono anche con i migliori incentivi). In secondo luogo, i meccanismi di condivisione del rischio possono essere progettati in modo tale da mitigare o addirittura eliminare il rischio dell'azzardo morale. In terzo luogo, strumenti di condivisione del rischio e di stabilizzazione ben concepiti sono di fatto necessari perché la disciplina risulti efficace."


 

Per dimostrare questi argomenti, il documento propone alcune abili mosse. Gli economisti vogliono un freno a livello UE sull'esposizione delle banche non al debito sovrano in quanto tale, bensì alle garanzie emesse dai governi dei loro paesi. Propongono un limite di possesso del debito di qualsiasi paese della zona euro a un terzo del capitale di una banca. Attualmente, questo rapporto raggiunge il 120% in Italia, il 68% in Germania e il 45% in Francia; poche nazioni europee sono al di sotto della soglia del 33%.

 

Imporre un tetto massimo basso all'esposizione, dal punto di vista degli economisti, impedirà ai governi di usare il sistema bancario nazionale per assorbire il loro indebitamento irresponsabile. Allo stesso tempo, suggeriscono di creare una "un'area euro di asset finanziari sicuri" che secondo quanto esplicitamente dichiarato non siano delle obbligazioni garantite congiuntamente. Piuttosto, si tratterebbe di titoli garantiti da un portafoglio standard di obbligazioni sovrane. Sarebbero emessi in tranche di diversa seniority (con gradi diversi di garanzia di rimborso).

 

Mutualizzazione del rischio? Azzardo morale? No e no! I contribuenti tedeschi o olandesi dovranno pagare i debiti italiani o portoghesi? Secondo questo sistema no, non in alcun modo ovvio e chiaro che potrebbe destare clamore tra i refrattari elettori tedeschi o olandesi. Allo stesso tempo, le banche potrebbero disporre di uno strumento flessibile per la diversificazione degli investimenti in titoli di Stato, e le economie meno stabili sarebbero in grado di tenere basso il costo del denaro.

 

Un'altra proposta che rende più accettabile la condivisione del rischio è un fondo di riassicurazione per i momenti di crisi, al quale parteciperebbero tutti i paesi dell'area dell'euro con lo 0,1 % del loro prodotto complessivo, il che equivale a dire, in base agli ultimi dati, con un importo pari a 11 miliardi di euro all'anno se partecipasse l'intera area euro. Ma non sarebbe scontato: solo i paesi con sane politiche fiscali potrebbero partecipare. Il fondo effettuerebbe trasferimenti una tantum ai paesi che possano dimostrare di aver tentato senza riuscirci di superare una grave crisi da soli. La gravità della crisi sarebbe misurata dal tasso di disoccupazione. Più risulta volatile il tasso di disoccupazione di un paese - il che significa che il paese è più soggetto a crisi - tanto più dovrebbe contribuire al fondo in rapporto alla dimensione della sua economia. E i pagamenti cesserebbero se il livello di disoccupazione non diminuisse.

 

Potrebbe sembrare un complotto della Germania per penalizare i paesi più deboli e imporre loro l'austerità attraverso regole di bilancio come i vincoli europei (applicati in modo approssimativo) secondo i quali il deficit del bilancio pubblico deve restare al di sotto del 3% del Pil. Ma i quattordici economisti propongono di abolire il principio europeo, considerandolo mal progettato. Lo condannano da un punto di vista anti-austerity, in quanto sostengono che abbia limitato troppo la politica di stabilizzazione durante la recente crisi della zona euro e messo troppa pressione sulla Banca centrale europea nel dover fornire stimoli.

 

Stanno cercando di rimpiazzare il vincolo del deficit con una regola che renda certo che la spesa pubblica non cresca più della produzione e inflazione messe insieme - e che cresca ancor meno nei paesi che necessitano di abbattere il debito, diciamo, al 60 percento del PIL. Questa regola, tuttavia, non dovrebbe essere scolpita nella pietra: dovrebbero esserci delle eccezioni per i paesi che "intraprendono riforme per il miglioramento della solvibilità o importanti riforme che possano aumentare il potenziale di crescita".

 

In generale, la spesa pubblica della zona euro è cresciuta più lentamente della produzione negli ultimi anni, quindi questo tipo di obiettivo sarebbe in linea con la tendenza e non dovrebbe rappresentare un ostacolo in caso di crisi a causa delle eccezioni.

 

Come meccanismo di applicazione, gli economisti suggeriscono che i governi finanzino gli eccessi di spesa con obbligazioni subordinate - le prime ad essere soggette a bail-in in caso di crisi - che non godrebbero dei benefici di legge previsti oggi per il debito sovrano. I tassi di interesse su questo genere di debito saranno probabilmente alti, scoraggiandone l'emissione.

 

Si tratta di proposte mai sperimentate a livello politico, e il documento include anche alcune proposte, come un sistema di assicurazione dei depositi comune all'eurozona, che è improbabile che abbiano  successo presso gli elettori tedeschi, per quanto le si circondi di parole allettanti e di condizionalità. Ma la regola fiscale e la proposta sugli asset finanziari sicuri sono confezionate abbastanza bene da evitare che suoni l'allarme. L'attuazione di tali misure migliorerebbe la stabilità economica della zona euro, anziché tentare di risolvere i problemi con discussioni infinite su un ministro delle finanze europeo e un bilancio comune. I governi francese e tedesco dovrebbero prestare loro attenzione: in mancanza di altre idee per riformare l'eurozona in questo ciclo elettorale, queste iniziative potrebbero riportare un importante successo - anche se la maggior parte degli elettori non riusciranno a comprenderne i dettagli.

 

19/01/18

Germania e Tunisia: un Paese spinto nel vicolo cieco

German Foreign Policy analizza un recente studio della Fondazione Rosa Luxemburg che mette in evidenza come la relazione commerciale privilegiata tra Germania e Tunisia abbia contribuito in maniera significativa all'incremento del debito e alla crisi strutturale del Paese africano, riducendolo de facto a un status di post-colonia.

 

 

di redazione, il 15.01.2018

 

TUNISI/BERLINO.

 

In Tunisia, ormai un presidio della produzione a basso salario tedesca, continuano le proteste contro una legge finanziaria che comporterà un sensibile aumento dei prezzi.

 

La legge è stata imposta al Paese dal FMI per combattere le conseguenze di una crisi strutturale, all'origine della quale ci sono importanti responsabilità della Repubblica Federale.

 

Le imprese tedesche e il governo federale hanno contributo a spingere la Tunisia a concentrarsi in modo unilaterale su pochissimi settori di esportazione - in particolare la produzione tessile e quella di cavi elettrici - che non danno alcuna opportunità di sviluppo reale alla nazione. Allo stesso tempo, la trappola del debito ha costretto Tunisi a concedere benefici fiscali agli investitori, che hanno saccheggiato il paese. Secondo uno studio della Fondazione Rosa Luxemburg (affiliata al partito die Linke), l'anno passato la Tunisia ha dovuto pagare oltre un quinto del suo bilancio a creditori stranieri. Conformemente a quanto previsto dal piano "Compact with Africa", approvato dal G20, prosegue l'opera di trasformazione della Tunisia in un porto sicuro per gli interessi degli investitori tedeschi.

 

Proteste 

 

In Tunisia, proseguono le proteste contro la nuova legge finanziaria, entrata in vigore all'inizio dell'anno sotto la pressione del Fondo Monetario Internazionale (FMI). La legge ha lo scopo di contribuire ad aumentare le entrate del governo, al fine di ridurre il debito del paese, recentemente cresciuto in modo significativo. L'economia tunisina è crollata negli ultimi anni, sia per la riduzione gli investimenti esteri, sia per una caduta del turismo a causa dei numerosi attacchi terroristici jihadisti. La legge finanziaria sta ora spostando l'onere delle sovvenzioni e l'aumento dell'IVA sulla popolazione, che dovrà pagare di più per benzina, cibo e farmaci di prima necessità. La settimana scorsa sono esplose violente proteste e la polizia e l'esercito hanno subito pesanti aggressioni; oltre 800 persone sono state arrestate e un manifestante ha perso la vita. Ciò nonostante, domenica (il 14 Gennaio, ndt.) le manifestazioni contro la legge finanziaria non hanno perso vigore.

 

Un pezzo della catena di valore europea

 

Tuttavia, le vere cause dell'attuale crisi in Tunisia non sono solo dovute al recente collasso dell'economia, ma hanno profonde radici strutturali.

 

Come confermato dall'analisi della Fondazione Luxemburg, nel corso degli ultimi decenni l'economia del paese, "come risultato di una strategia per integrare l'economia in catene globali del valore è stata...orientata...unilateralmente su alcuni settori di esportazione".

 

Si tratta di aree industriali come quella tessile e quella delle attrezzature meccaniche ed elettriche, che sono chiaramente "dominate da società europee".

 

Le imprese tedesche hanno avuto un ruolo preminente in questa dinamica, al punto che circa 250 aziende della Repubblica federale hanno investito oltre 350 milioni di euro in Tunisia. Leoni, l'azienda produttrice di cavi di Norimberga, secondo dati interni, è attualmente il datore di lavoro più grande del Paese.

 

Accanto a Leoni possono contare su una forte presenza sul territorio i produttori di cavi (Dräxlmaier, Kromberg & Schubert), di materiali tessili (Van Laack, Rieker), il produttore di giocattoli Steiff, e diverse società di elettronica (Marquardt, Mentor, Wisi).

 

Come affermato dalla Fondazione, gli investimenti esteri hanno creato "una struttura economica basata sulla specializzazione nelle industrie a basso valore aggiunto". Allo stesso tempo, gli investitori stranieri stanno “cercando la massimizzazione del profitto attraverso la riduzione dei costi". Profitti che sono poi regolarmente - e presumibilmente non sempre in modo legale - trasferiti dalla Tunisia alle principali sedi internazionali delle imprese.

 

Di attività destinate allo sviluppo economico nel Paese ospitante, non vi è invece traccia.

 

Dumping Fiscale e trappola del debito

 

Un altro aspetto evidenziato dall’analisi è come la Tunisia, sotto la pressione della spinta alla competitività globale, stia cercando di attirare investitori stranieri e di trattenere quelli già presenti nel Paese attraverso "politiche di bassa tassazione (dumping fiscale)"

 

L’agenzia commerciale statale Germany Trade & Invest (GTAI) ha più volte confermato questa tendenza: "Gli investitori possono beneficiare di aliquote fiscali basse in Tunisia".

 

In aggiunta, le imprese straniere possono ricevere forti incentivi in caso di "investimenti nella formazione dei giovani" e “aumento del valore aggiunto o della capacità di esportazione".

 

A detta della Fondazione, la diretta conseguenza di queste misure è stata un calo delle entrate del governo e, di pari passo, "un peggioramento dei mezzi di sussistenza socio-economici" tra la popolazione. A questo va aggiunta "la trappola del debito".

 

La forte competizione e le scarse chances di sviluppo nella catena di valore globale hanno indotto la Tunisia a un indebitamento strutturale, incancrenitosi col tempo. Ben 1,7 miliardi di dollari, più della metà di un prestito avuto dal Paese nel 2016 come parte di un provvedimento emanato dal FMI, serviranno a sanare proprio un credito stand by erogato dal Fondo monetario internazionale. Inoltre, nel 2017, la Tunisia è stata costretta a pagare ai creditori stranieri quasi "un quinto del prodotto interno lordo totale".

 

Considerata la sua situazione debitoria, uno sviluppo prospero della nazione africana appare al momento irraggiungibile.

 

Incentivi agli investimenti

 

Da decenni le imprese tedesche utilizzano la Tunisia come habitat ideale per la produzione a basso salario (l'azienda Leoni è presente nel Paese dal 1977) contribuendo in modo significativo a immobilizzare la Tunisia nella sua attuale posizione economica. D'altra parte, i governi federali hanno sempre sostenuto le attività delle aziende nel Paese africano. Appena un anno dopo il rovesciamento del presidente Ben Ali, nei primi mesi del 2011, la Germania ha concluso una sorta di accordo di partnership per "la trasformazione" della Tunisia, che ha garantito alle imprese tedesche numerosi vantaggi lucrativi. L'ultimissimo capitolo di questa relazione tra i due Paesi ha avuto luogo col recente documento del G20, "Compact with Africa", a cui ha fatto seguito l'annuncio da parte di Berlino e Tunisi di nuovi importanti incentivi per favorire gli investimenti esteri in Tunisia.

 

Nonostante la corsia privilegiata su cui possono contare, gli ambienti economici tedeschi lamentano da tempo che "l'attuazione di leggi che portino a un miglioramento del giro di affari in Tunisia" stia procedendo troppo lentamente. Inizialmente, il focus del "Compact" dovrebbe poggiare su una riforma del sistema bancario e finanziario.

 

Armi per Tunisi

 

Mentre le proteste della popolazione continuano, Tunisi può contare sulle funzionali armi tedesche per la repressione dei manifestanti. Nell'ultimo anno il governo federale ha aumentato le licenze per l'export di armi in Tunisia a oltre 58 milioni di euro. Recentemente sono stati importati 12 mitragliatrici automatiche dal produttore di armi della Germania del Sud Heckler & Koch.  Inoltre, le autorità tedesche hanno svolto numerosi corsi di formazione per i poliziotti tunisini, che dovrebbero intensificare in particolare il controllo dei confini, ma in alcuni casi possono essere utili anche per altri scopi. Il governo federale ha annunciato di voler addestrare la polizia tunisina anche in futuro.

18/01/18

Il mondo ne ha fin sopra i capelli della politica estera USA

Come riporta il sito The Anti Media, si moltiplicano i segnali di insofferenza per le politiche egemoniche statunitensi nei confronti del resto del mondo. Lo strapotere americano seguito alla caduta dell’URSS trova sempre meno alleati e sempre più oppositori, specie tra i paesi emergenti come la Cina, che contrastano ormai apertamente gli intenti guerrafondai e neocoloniali statunitensi.

 

 

 

Di Darius Shahtahmasebi, 16 gennaio 2018

 

Secondo il generale decorato con 4 stelle Wesley Clark, in un incontro del 1991 con Paul Wolfowitz, allora sottosegretario al Dipartimento della Difesa, Wolfowitz sembrava un po’ deluso perché pensava che nell’Operazione Tempesta del Deserto gli USA avrebbero dovuto sbarazzarsi di Saddam Hussein,  ma non ci erano riusciti. Clark riassumeva così quanto detto da Wolfowitz:

 

 “Una cosa l’abbiamo imparata. Abbiamo appreso che possiamo usare il nostro esercito nella regione, in Medio Oriente, e i Sovietici non ci fermeranno. Abbiamo circa cinque-dieci anni per ripulire questi vecchi regimi filo sovietici, la Siria, l’Iran e l’Iraq, prima che un’altra superpotenza venga a contrastarci” [grassetto aggiunto].

 

Questo scenario si è certamente realizzato negli anni seguenti, quando gli Stati Uniti hanno usato il pretesto dell’11 settembre per attaccare sia l’Afghanistan che l’Iraq, mentre la comunità internazionale opponeva poca o nessuna resistenza. Il trend è continuato quando l’amministrazione Obama ha pesantemente espanso le sue operazioni militari in Yemen, Somalia, Pakistan e perfino nelle Filippine, giusto per citarne alcune,  fino a quando gli USA hanno guidato un gruppo di paesi della NATO a imporre un cambiamento di regime in Libia nel 2011.

 

In quel momento, la Russia non esercitò il suo potere di veto al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, perché aveva ricevuto rassicurazioni che la coalizione non avrebbe perseguito un cambiamento di regime. Quando le forze NATO iniziarono a bombardare direttamente il palazzo di Gheddafi, un infuriato Vladimir Putin domandò: “Chi ha dato alla NATO il diritto di uccidere Gheddafi?”

 

A seguito della pubblica esecuzione di Gheddafi nelle strade di Sirte, le critiche di Putin al tradimento della NATO si sono spinte oltre. Dichiarò:

 

“Tutto il mondo ha visto che è stato assassinato; tutto insanguinato. Questa è democrazia? Chi è stato? I Droni, inclusi droni americani, hanno condotto un attacco alla sua colonna di veicoli. Poi i Commando, che non avrebbero dovuto essere lì, hanno portato la cosiddetta opposizione e i suoi militanti e l’hanno ucciso senza un processo. Non dico che Gheddafi non dovesse andarsene, ma questa decisione andava lasciata al popolo della Libia, perché decidesse attraverso un processo democratico”.

 

Nessuno se ne accorse allora, ma la possibilità incontrastata dell’America di intervenire a suo piacimento in ogni parte del mondo finì quel giorno.

 

Arrivando velocemente al piano di Barack Obama di realizzare un vasto attacco aereo contro il Governo Siriano nel 2013, piano che non fu mai attuato a causa della forte opposizione russa e delle diffuse proteste negli Stati Uniti, alcuni anni più tardi la Russia intervenne direttamente in Siria su richiesta del Governo Siriano e attuò efficacemente una propria no-fly zone che comprendeva porzioni significative del Paese. L’attacco dell’aprile 2017 di Donald Trump contro il Governo Siriano avvenne solo dopo che la sua amministrazione avvertì in anticipo i Russi attraverso un canale di comunicazione diretto creato per abbassare le conflittualità allo scopo di gestire il conflitto siriano.

 

Tuttavia, la Russia non è l’unico paese stanco della politica estera americana, e il recente “Consiglio di Sicurezza di emergenza delle Nazioni Unite”, convocato per discutere l’attuale situazione in Iran, lo testimonia. Perfino i tradizionali alleati di Washington non hanno potuto trattenere le critiche al desiderio dell’America di comportarsi da poliziotto globale.

 

“Per quanto siano preoccupanti gli eventi degli scorsi giorni in Iran,  non costituiscono in se stessi una minaccia alla pace e sicurezza internazionali”, ha dichiarato l’ambasciatore francese alle Nazioni Unite Francois Delattre. “Dobbiamo guardarci dai tentativi di sfruttare questa crisi per fini personali, cosa che darebbe un risultato diametralmente opposto a quanto desiderato”.

 

La Russia si è spinta oltre, sottolineando il comportamento dell’America stessa e il trattamento riservato ai dimostranti interni come contro-argomento rispetto all'idea che Washington sia motivata dalla sua preoccupazione per i diritti umani in Iran.

 

Secondo la vostra logica, avremmo dovuto fissare un Consiglio di Sicurezza dopo i ben noti eventi a Ferguson” ha detto l’ambasciatore russo in USA Vasily Nebenzya, affrontando la delegazione statunitense.

 

Anche l’Iran ha sostenuto che la questione era un affare interno e non una cosa di cui le Nazioni Unite dovessero occuparsi, e la Cina è stata d’accordo, il suo ambasciatore l'ha definita  una “questione interna”.

 

Il presidente francese Emmanuel Macron si è spinto al punto di accusare gli USA, Israele e l’Arabia Saudita di voler provocare la guerra all’Iran.

 

“La linea ufficiale perseguita da Stati Uniti, Israele e Arabia Saudita, che sotto diversi aspetti sono nostri alleati, ci potrebbe condurre dritti alla guerra” ha detto Macron ai giornalisti, secondo la Reuters.

 

Al contrario, Macron ha esortato al dialogo con Teheran e messo in guardia contro l’approccio adottato dai Paesi di cui sopra.

 

Il presidente turco Pecep Tayyip Erdogan è giunto anche lui in soccorso dell’Iran durante le proteste, con il Ministro turco degli Esteri Mevlut Cavusigku che dichiarava apertamente:

 

“La stabilità dell’Iran è importante per noi.. ci opponiamo a un intervento estero in Iran”.

 

Alla fine dell’anno scorso, Erdogan dichiarò che le sanzioni statunitensi all’Iran non erano vincolanti per la Turchia, che avrebbe cercato di aggirarle. A quel tempo Hurryet News riportava le parole di Erdogan: “Il mondo non è composto dai soli Stati Uniti”.

 

Il declino dell’influenza americana si è rivelato più apertamente durante il flop del recente viaggio di Donald Trump a Gerusalemme, che ha visto l’amministrazione Trump profferire severe minacce al mondo intero, avvertendo tutti che dovevano votare a favore degli interessi di Washington alle Nazioni Unite. Il mondo in maggioranza ha scelto di ignorare tali minacce e presentare agli Stati Uniti un gigantesco “dito medio”, per così dire,  votando in larga maggioranza contro la posizione dell’amministrazione Trump.

 

Anche se Washington è perfettamente in grado di attaccare unilateralmente altri Paesi, sia in segreto che apertamente, sostenuta da una lista di alleati che va sempre più assottigliandosi, quello che diventa sempre più evidente è che non potrà più farlo senza un’opposizione attiva da parte del resto del mondo, incluse potenze nucleari come Russia e Cina, che rifiutano di rimanere in silenzio mentre gli USA provano a plasmare il mondo secondo i propri desideri geopolitici.

 

 

17/01/18

German Foreign Policy - Concorrenza transatlantica

Il sito di informazione German Foreign Policy illustra il cambiamento nella politica estera tedesca che si profila all'orizzonte. Il Ministero degli esteri tedesco sta già preparando la sua campagna di propaganda per convincere le forze produttive del paese a sostenere una politica estera più indipendente e aggressiva, capace di opporsi agli Stati Uniti e difendere gli interessi del mercantilismo tedesco, sempre più messo sotto accusa dall'ammistrazione Trump.  Ma va tutto bene, che il liberismo selvaggio a livello internazionale porti a contrasti tra potenze e possa sfociare nella guerra è una ipotesi confermata dalla storia. E se proviamo a collegare i puntini...

 

 

 

di german-foreign-policy.com, 9 gennaio 2018

 

BERLINO / WASHINGTON - Il Ministro degli esteri tedesco Sigmar Gabriel sta sollecitando l'aumento delle misure di PR per preparare la popolazione a una politica globale tedesca più aggressiva. In un discorso agli esperti di politica estera, Gabriel ha recentemente dichiarato che il ministero degli Esteri ha già inviato membri del suo staff "presso le scuole e le università" per "spiegare" la politica estera di Berlino. Il Ministero degli esteri "incrementerà anche i canali di comunicazione dei social media" e il Ministro ha invitato gli imprenditori e i delegati sindacali a spiegare l'importanza delle questioni di politica estera ai dipendenti. Queste misure devono essere viste nel contesto dell'ambizione tedesca di adottare una politica indipendente negli affari globali e diventare più competitiva nei confronti degli Stati Uniti. Berlino vede la politica dell'amministrazione Trump, che a volte si è scontrata bruscamente con gli interessi tedeschi, come un cambiamento politico duraturo. Washington considera sempre più l'UE "come un concorrente e talvolta anche come un avversario", afferma il Ministro degli esteri Gabriel, e sostiene che in futuro l'Europa dovrà contare più sulla "forza" che sui "valori".

 

Interessi divergenti

 

In diverse dichiarazioni e documenti politici il governo degli Stati Uniti ha sottolineato le sue posizioni, che a volte divergono in modo significativo dagli interessi tedeschi, in particolare nelle questioni commerciali e di politica estera. Nel documento politico ampiamente noto, pubblicato alla fine di maggio sulla stampa economica statunitense, il Consigliere per la Sicurezza Nazionale del presidente Trump, HR McMaster e il Direttore del Consiglio Economico Nazionale, Gary D. Cohn, hanno ribadito che Washington non tollererà più i deficit commerciali con molte nazioni europee. Queste parole erano chiaramente rivolte al surplus delle esportazioni tedesche. [1] Ciò è stato confermato dalla nuova Strategia sulla Sicurezza Nazionale pubblicata lo scorso dicembre, che ha anche definito posizioni di politica estera non condivise dal governo tedesco. Ad esempio, sulla politica in Medio Oriente, pone la priorità sulle misure che contrastano "l'espansione iraniana", rigettando implicitamente l'accordo sul nucleare del 2015. Gli Stati Uniti devono "neutralizzare la nefasta influenza iraniana", osserva il documento. [2]  Recentemente, il governo tedesco si è preoccupato soprattutto di mantenere una sorta di sottile equilibrio tra Iran e Arabia Saudita, volto a fare affari con entrambi i paesi [3].

 

 

Concorrente e avversario


 

L'evidente cambiamento di rotta dell'amministrazione Trump, ora, è visto dall'establishment di Berlino come un cambiamento permanente, che difficilmente sarà rovesciato dal prossimo governo. Dopo la seconda guerra mondiale, la cooperazione con l'Europa occidentale "è sempre stata un progetto americano che andava chiaramente nell'interesse degli Stati Uniti", ha osservato di recente il Ministro Gabriel [4]. In effetti, i paesi dell'Europa occidentale non erano soltanto un mercato redditizio per l'industria statunitense, ma erano anche alleati indispensabili nella guerra fredda, essendo la Repubblica federale tedesca e la Repubblica democratica tedesca la sua prima linea forse più importante. Le cose sono cambiate. Sebbene Washington stia ancora collaborando con i paesi dell'UE contro la Russia, si sta concentrando sempre di più sulla lotta per il potere con la Cina, laddove una Germania significativamente più forte e l'UE sono in competizione, in misura crescente, con gli Stati Uniti. "L'attuale amministrazione statunitense ora percepisce l'Europa in maniera molto distante, considerando quelli che prima erano partner come concorrenti, e talvolta persino avversari in campo economico", ha osservato Gabriel lo scorso dicembre. Il mondo è sempre più visto come "un'arena - un campo di battaglia", in cui le relazioni "non sono regolate da norme vincolanti", ma "piuttosto dai conflitti". [5] Gli Stati Uniti si stanno "allontanando, più che avvicinando all'Europa."

 

Washington si sta isolando

 

Nell'intensificarsi della rivalità transatlantica, Berlino e Bruxelles potrebbero trarre profitto dalla linea di azione offensiva e a volte imprevedibile adottata dall'amministrazione Trump. La rinuncia di Washington al partenariato transpacifico (TPP) ha dato all'UE l'opportunità di conquistare una posizione più forte nei paesi dell'Asia orientale e sud-orientale e in Australia, con dei propri accordi di libero scambio, e di rinnovare la propria immagine, in relazione agli Stati Uniti. [6] Con la sua decisione di trasferire l'ambasciata degli Stati Uniti in Israele a Gerusalemme, Washington si è sostanzialmente isolata. E questo è risultato evidente nel Consiglio di sicurezza dell'ONU, quando Washington ha dovuto ricorrere al suo potere di veto per bloccare la maggioranza di 14 membri a favore di una risoluzione che si opponeva a questa misura. Tuttavia, l'Assemblea generale delle Nazioni Unite ha successivamente adottato la risoluzione con una maggioranza significativa. L'isolamento degli Stati Uniti offre a Berlino un significativo vantaggio strategico. Anche nella disputa sulla politica nei confronti dell'Iran, le nazioni dell'UE stanno prendendo le distanze da Washington con crescente chiarezza. Mentre l'amministrazione Trump ha usato le recenti proteste in Iran per promuovere il rovesciamento del governo iraniano, l'ambasciatore francese ha esplicitamente respinto questa richiesta in una sessione speciale del Consiglio di sicurezza. A poco a poco, una politica europea in Medio Oriente in contrasto con quella degli Stati Uniti sta diventando evidente, di più facile comunicazione a livello internazionale rispetto al comportamento grossolano del Presidente degli Stati Uniti, e che fa guadagnare punti alle politiche globali dell'UE nel loro complesso.

 

 

Il progetto di potenza dell'UE


 

In questa situazione, il Ministro degli esteri Gabriel chiede alla Germania di adottare una politica globale più aggressiva. Dobbiamo "aiutare a determinare" la situazione, se "non vogliamo essere determinati": è questa espressione che ha usato di recente, dandogli la connotazione positiva di "aiuto a determinare", che descrive la pretesa politica della Germania di assumere un ruolo guida nella formulazione della politica globale. [7] "L'Europa" deve "promuovere la sua potenza", ha raccomandato il Ministro degli esteri all'inizio dell'anno. "In passato potevamo contare sui francesi, gli inglesi e, in particolare, sugli americani per difendere i nostri interessi nel mondo. In futuro, avremo bisogno di fare molto di più per difendere la nostra libertà."[8 ]  A quanto pare il Ministero degli esteri ritiene che l'attuale situazione globale non renda più necessario, almeno per il momento, ricorrere al consueto eufemismo sulle aggressioni all'estero in "difesa dei diritti umani". "Concentrarsi solo sui valori non avrà successo in un mondo dove tutti lottano duramente per affermare i propri interessi. In un mondo di carnivori, i vegetariani hanno vita molto difficile", ha detto Gabriel.

 

Empatia per il governo

 

Allo stesso tempo, il Ministro degli esteri sottolinea le misure di PR rivolte alla popolazione. "Dobbiamo spiegare meglio ai nostri cittadini quello che dovremo affrontare", ha detto in un discorso ad esperti di politica estera tenuto l'11 dicembre. Il Ministero degli esteri "ha quindi modificato considerevolmente le sue comunicazioni in tema di politica estera negli ultimi anni," e "deve continuare a farlo". "I canali di comunicazione dei social media saranno incrementati." [9] "Stiamo già mandando i nostri diplomatici ... nelle scuole e nelle università", ha continuato Gabriel. "Ma il dibattito deve svolgersi anche nelle riunioni del personale sui posti di lavoro e nelle botteghe di apprendistato, con gli apprendisti e gli operai qualificati. Dobbiamo chiedere agli imprenditori e ai rappresentanti sindacali di spiegare che l'Europa unita è nell'interesse dei dipendenti". Questo è l'unico modo per raggiungere "coloro che spesso sentono l'Europa come contraria ai loro interessi". In questo modo, si può ottenere "una partecipazione ed empatia per le esigenze della politica estera della Germania", ha concluso Gabriel, il che vale a dire, in altre parole, che quando la politica tedesca si fa più dura e aggressiva a livello mondiale, la degradazione politica in patria può essere evitata.

 

 

[1] H.R. McMaster, Gary D. Cohn: America First Doesn't Mean America Alone. wsj.com 30.05.2017.

[2] National Security Strategy of the United States of America. December 2017.

[3] Vdere anche  Der Anti-Trump.

[4], [5] Sigmar Gabriel: Gestalten, nicht gestaltet werden. Internationale Politik Januar/Februar 2018. S. 6-9.

[6] Vedere anche Foray into Down Under and With Japan against China.

[7] Sigmar Gabriel: Gestalten, nicht gestaltet werden. Internationale Politik Januar/Februar 2018. S. 6-9.

[8] Christiane Hoffmann, Klaus Brinkbäumer: "In einer Welt voller Fleischfresser haben es Vegetarier schwer". spiegel.de 04.01.2017.

[9] Sigmar Gabriel: Gestalten, nicht gestaltet werden. Internationale Politik Januar/Februar 2018. S. 6-9.