01/08/19

Vi presento il nuovo capo (ma è lo stesso di prima)

Un articolo di Jacobin Mag punta il dito contro l'Unione Europea, e più in generale contro le strutture neoliberali del potere sovranazionale, che si sono costruiti un board di dirigenti fedeli e totalmente dediti alla "lotta di classe" a senso unico dei ricchi contro i poveri, un board di alfieri del neoliberalismo che si riciclano continuamente attraverso infinite porte girevoli, con la scusa della "competenza" e dell'esperienza, con la pretesa di essere gli unici capaci di gestire la complessità dell'economia del presente. Ma le porte girevoli attraverso cui passano diventano muri contro la democrazia e contro ogni tentativo di cambiamento ideologico. (Unico difetto dell'articolo può essere considerato il presentare gli esponenti di Syriza come sinceri oppositori dello status quo durante la crisi greca). 

 

 

di Pawel Wargan, luglio 2019

 

L’Unione europea è così ostile alla democrazia che la sua nuova leadership è composta esclusivamente da persone già al potere da anni. Non importa se le loro politiche hanno rovinato la vita a milioni di persone. L’unico requisito è stare dalla parte di chi detiene la ricchezza.

 

C’è una forma particolare di sadismo nel ricompensare un torturatore dandogli il potere. Ma per i greci, gli italiani, i ciprioti, gli irlandesi e i portoghesi – e per le tante altre vittime delle politiche di austerità del Fondo monetario internazionale (FMI) e dei suoi alleati della troika – questo spettacolo sta per cominciare proprio ora.

 

Nell'ultimo, notevole tentativo di riciclare i tecnocrati ai posti di vertice del potere, i leader dell’Unione europea hanno concluso un accordo dietro le quinte per nominare quattro candidati alla leadership UE.

 

Ursula von der Leyen, già ministro della difesa di Angela Merkel, coinvolta in uno scandalo per pagamenti di decine di milioni di euro di consulenze come nel caso McKinsey, è stata nominata a capo della Commissione europea. È stata votata dal Parlamento europeo con una maggioranza  risicata.

 

Ma la scelta decisamente più interessante è stata quella della managing director del FMI, nonché pregiudicata, Christine Lagarde. È stata portata a capo della Banca centrale europea (BCE), il ruolo più potente nella UE e uno dei più influenti sulla politica mondiale. (Lo scorso anno la Lagarde si era auto-dichiarata fuori dai giochi per la candidatura a questa posizione.)

 

La sua nomina ha avviato una corsa alla leadership anche all'interno delo stesso FMI. L’elenco finale dei contendenti deve ancora apparire, ma i primi nomi ad aver fatto il giro sembrano usciti da una squadra di fantacalcio dei neoliberali. I nomi vanno dall’ex di Goldman Sachs e presidente uscente della BCE, Mario Draghi, al Conservatore ed ex cancelliere britannico George Osborne, all’ex ministro delle finanze olandese Jeroen Dijsselbloem, i cui prodigi come capo dell’Eurogruppo includono le fasi più critiche e controverse della crisi del debito greco.

 

Assieme alla Lagarde questi uomini sono stati tra gli architetti di un decennio di austerità europea. Nonostante i danni devastanti causati dalle loro politiche, si trovano ancora nelle posizioni di vertice.

 

Il “Fantasy Team” dell’austerità

 

Al cuore dell’architettura istituzionale e legale dell’Europa sta l’insistenza sulla disciplina fiscale, il dogma neoliberale secondo il quale le spese di uno stato non possono superare il gettito fiscale. Quando il sistema bancario globale è crollato nel 2008, scatenando la crisi dei debiti sovrani in Europa, l’establishment politico europeo è accorso a salvare le banche. Nella perversa logica dei falchi del deficit, l’enorme mobilitazione di fondi pubblici che questo salvataggio ha richiesto doveva essere compensata da tagli altrove.

 

L’austerità è diventata lo strumento per fatturare ai poveri il costo del fallimento dei ricchi.

 

Nel caso delle economie europee periferiche, che sono state colpite in modo particolarmente forte dalla crisi, la troika, cioè la coalizione di FMI, BCE e Commissione europea, ha iniziato a somministrare dosi di pacchetti di salvataggio.

 

I salvataggi assomigliavano ai classici programmi di aggiustamento strutturale della Banca Mondiale e del FMI: programmi per trasferimenti su ampia scala verso i ricchi, mascherati da pacchetti di sostegno finanziario. Ecco come funzionano: al picco della crisi economica il FMI e la Banca Mondiale si intromettono e offrono un prestito: un finanziamento direttamente al governo o un sostegno per il servizio del debito privato.

 

Questi prestiti sono generalmente condizionati all’implementazione di riforme neoliberali di mercato, un retaggio dei tentativi di rallentare l’espansione del socialismo durante la Guerra Fredda. Quando i paesi debitori falliscono il tentativo di ripagare il debito, FMI e Banca Mondiale li costringono a implementare ulteriori riforme: privatizzazioni, tagli alle pensioni, riduzioni degli stipendi pubblici e profondi tagli ai servizi sociali.

 

Questo non solo azzoppa le economie nazionali – un fatto che lo stesso FMI ha riconosciuto nel 2016, quando i suoi ricercatori ammettevano che l’austerità aumenta le disuguaglianze e minaccia le prospettive future di sviluppo economico di un paese (l’antropologo Jason Hickel lo spiega in modo più brutale, definendo i programmi di aggiustamento strutturale come “la principale causa di povertà dai tempi del colonialismo”.)

 

Questo mina anche la democrazia. Il FMI, in tempo di crisi, diventa a tutti gli effetti un surrogato del ministero delle finanze, costringendo i governi a imporre sanzioni economiche gravose ai suoi cittadini. La crisi economica diventa così crisi della legittimazione democratica.

 

Così è andata in Grecia. Il paese gravato dal debito non è mai stato aiutato a uscire dalla sua situazione di crisi. Al contrario, la troika lo ha costretto a finanziare i salvataggi delle banche francesi e tedesche impoverendo i propri cittadini. L’accordo firmato con l’Eurogruppo è un sogno thatcheriano: ha alzato le tasse ai lavoratori, ridotto le pensioni, distrutto i sindacati e, sotto la supervisione delle istituzioni UE, ha privatizzato i beni pubblici. Ci sono volute poche settimane per riuscire a far passare le riforme.

 

La Lagarde ha simpaticamente suggerito che,  per i greci dissoluti ed evasori fiscali, era “tempo di rimborsare i loro debiti”.

 

Mario Draghi, allora governatore della Banca d’Italia, ha portato questo modello in patria. Nel 2011, al culmine della crisi dei debiti sovrani, lui e l’allora presidente della BCE, Jean-Claude Trichet, hanno mandato una lettera segreta al primo ministro Silvio Berlusconi chiedendo profonde riforme politiche, tra cui la “liberalizzazione” delle condizioni di lavoro, la privatizzazione di massa dei servizi pubblici, il taglio dei salari degli impiegati pubblici, tasse più elevate e riforma delle pensioni, tutto in cambio di un bailout. È stato suggerito che questo fosse parte di un complotto per costringere Berlusconi alle dimissioni.

 

Jeroen Dijsselbloem, come capo provvisorio dell’Eurogruppo, è diventato il principale rappresentante dei falchi fiscali europei. È stato strumentale nel costringere Grecia, Portogallo e Cipro ad adottare tagli in cambio di pacchetti di salvataggio, il tutto mentre lavorava per trasformare i Paesi Bassi in un paradiso fiscale nel proprio ruolo di ministro delle finanze olandese. Nel 2017 ha detto che i paesi colpiti dalla crisi sprecavano i loro soldi in “alcool e donne”.

 

Cosa più notevole, l’austerità è stata implementata volontariamente, senza necessità di una celata costrizione da parte delle élite economiche europee. George Osborne, che ha aumentato i tagli già fatti sotto il New Labour, è generalmente riconosciuto come l’architetto dell’austerità nel Regno Unito, una politica che anche il suo successore Conservatore, Philip Hammond, ha ammesso essere stata guidata da scelte politiche più che da necessità economiche. Nel Regno Unito i profondi tagli ai servizi pubblici hanno inaugurato livelli dickensiani di deprivazione sociale.

 

A livello di intero continente europeo, gli effetti combinati di queste politiche sono difficili da immaginare. I senzatetto sono in aumento, la percentuale di lavoratori che vivono in povertà è in crescita, i servizi sociali (un tampone fondamentale contro la disuguaglianza) sono in diminuzione. Un europeo su dieci non può permettersi di riscaldare la casa e 118 milioni sono a rischio di povertà o esclusione sociale.

 

E nelle convulsioni sistemiche di questa “zombie economy”, supportata da interventi pubblici senza precedenti che hanno favorito i ricchi, la destra reazionaria si sta alimentando dell'ansia diffusa tra la popolazione.

 

La logica dell’espropriazione

 

In un articolo del 2007, Neoliberalismo e distruzione creativa, il teorico David Harvey aveva descritto la logica del capitalismo globalizzato come una lotta di classe a senso unico: la lotta dei ricchi contro i poveri. “Se il principale successo del neoliberalismo è stato quello redistributivo anziché produttivo”, scrive, “allora ci devono essere dei modi di trasferire i beni e redistribuire la ricchezza e il reddito dalla massa della popolazione verso le classi più agiate, o dai paesi più vulnerabili a quelli più ricchi”.

 

Harvey, ovviamente, ha ragione. I suoi "quattro pilastri" della lotta di classe globale neoliberale – privatizzazione, finanziarizzazione, gestione e manipolazione delle crisi, redistribuzione dei beni pubblici verso i ricchi – si stanno manifestando sotto i nostri occhi. FMI, BCE e Banca Mondiale sono la catena logistica dell’espropriazione neoliberale. E Lagarde, Dijsselbloem, Osborne, and Draghi, sono tra i principali rappresentanti di questo sistema.

 

La struttura di potere del capitalismo finanziarizzato, quindi, è mantenuta attraverso la riproduzione dei loro ruoli, e l’esclusione degli altri attraverso la nozione artificiosa di “professionalità” o “esperienza”.

 

La nostra economia politica opera sotto l’assunzione implicita che ci sia una sfera economica troppo tecnica – o troppo noiosa – per essere soggetta a un qualsiasi livello di responsabilità democratica. Pertanto le decisioni economiche ricadono nelle mani dei tecnocrati: gente con decenni di esperienza – che sia alla Goldman Sachs o come ministri dei governi – che colludono per sviluppare regole sempre più bizantine per cose complicate come valutare il rischio di mercato, potenziare la “competitività” e sostenere la crescita economica.

 

La crescita della complessità sistemica – e, con essa, del potere dei tecnocrati – riduce lo spazio per la responsabilità democratica. Solo coloro che hanno i curricula più impressionanti, o le più profonde connessioni nella politica e negli affari, possono ambire alle posizioni di vertice e così influenzare gli esiti delle decisioni economiche.

 

Ma l’esperienza dei tecnocrati segnala qualcosa di più della competenza. Decenni di gavetta ai margini del sistema economico sono un segno di fedeltà ideologica. È poco probabile che vogliate capovolgere il sistema se avete speso quindici noiosi anni a strutturare i derivati – guadagnandovi intanto l’accesso alla classe dei ricchi.

 

A un certo livello la Lagarde è una pessima scelta per la BCE. Non è un’economista ma un avvocato diventato politico. Ha prestato servizio nel gabinetto di Jacques Chirac e poi di Nicolas Sarkozy. Ed è pregiudicata: nel 2016 è stata condannata per negligenza in un caso di frode riguardante un pagamento di 403 milioni di euro a un amico di Sarkozy. Un verdetto di colpevolezza che però non è stato seguito da una pena.

 

Ma, come Dijsselbloem, Osborne, e Draghi, la Lagarde è una neoliberale in carriera. È un agente fidato del sistema capitalista di espropriazione. In questo senso è una scelta ovvia per un centro politico il cui potere sta declinando, e il cui sistema economico – che è ancora soggetto ad attacchi e convulsioni, un decennio dopo essere stato screditato – è sotto attacco. La frode è la sua naturale conseguenza.

 

Per tirarci fuori dalle crisi globali della disuguaglianza e del tracollo climatico, le istituzioni come FMI, Banca Mondiale e BCE devono abbandonare il loro impegno verso le politiche di austerità, sfidare le tendenze della finanza internazionale all’espropriazione, e immettere nuova vita nelle istituzioni pubbliche.

 

Ma la decisione di passare a una nuova politica richiede radicalismo. E il radicalismo, a sua volta, richiede una sfida democratica all’egemonia dei tecnocrati.

 

Forse questo è il motivo per il quale i tecnocrati non possono sopportare i radicali. Provate a ricordare i parossismi di Dijsselbloem il quale, costretto a negoziare il bailout greco con Syriza e il ministro delle finanze Varoufakis, si è trovato di fronte a una politica che era tutto il contrario di quello che lui rappresentava: fresca, lungimirante, socialista, radicale. Quello che veniva offerto era una possibilità – ma esattamente quel tipo di possibilità che i nostri governanti non possono ammettere.

 

Un approccio radicale sfiderebbe la sacralità di un sistema nel quale intere vite – e intere carriere – vengono prestabilite. Gli avvocati, i banchieri di investimento, i consulenti di management, e i loro compagni di viaggio le cui carriere sono simbioticamente legate a uno status quo fallimentare. Le porte girevoli che loro attraversano diventano barriere contro il cambiamento: per i tecnocrati la democrazia stessa viene al secondo posto, dopo la loro paura di diventare obsoleti.

 

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