In attesa dei tempi lunghissimi di ripristino della mia normale connessione (ahimé, Teletu) , pubblico un bellissimo articolo made in Italy dalla Tempesta Perfetta, in cui il bravo Piero Valerio fa un interessante paragone tra un ponte che crolla in Canada e un ponte che crolla a casa nostra...
di Piero Valerio - Apro
questo articolo parlando del ponte della
Colombiera (foto a sinistra), che è crollato in seguito alla disastrosa alluvione di ottobre scorso
in Liguria. Fino a qualche giorno fa
l’amministrazione pubblica ha detto che non si poteva procedere ai lavori di
ristrutturazione del ponte perché mancavano i soldi. Oggi invece la Regione
Liguria dice che i finanziamenti sono stati magicamente trovati, non si sa dove
e non si sa come, anche se bisogna procedere a un lungo iter burocratico prima
di iniziare le opere di ricostruzione del ponte. Insomma la strada è ancora in
salita.
Ma cosa significa che
mancano i soldi?
Quale stato può essere ridotto in una simile condizione di impotenza? Per quale
motivo i residenti in un certo suolo pubblico delimitato dai confini nazionali
decidono di aderire al patto sociale che li rende cittadini di uno stato? Ma
soprattutto, cosa significa oggi in Italia la parola “democrazia”? Tornando al
ponte, chiunque può facilmente intuire che avevamo già tutto per iniziare i
lavori: il cemento, i tondini di ferro, le impalcature, i progetti degli ingegneri,
gli operai disoccupati. Eppure mancando il carburante, i soldi, il ponte poteva
rimanere lì, a mezz’aria, per anni. Come mai?
Lo
stato nel suo complesso dovrebbe
essere un accordo fra tante persone diverse, i cittadini, che decidendo di
unirsi insieme cercano di rendere la vita più facile a tutti e soprattutto credono
che la convivenza civile e democratica sia molto più conveniente dell’anarchia.
La carta costituzionale, il contratto sociale, idealmente firmato
da ogni cittadino alla nascita, è abbastanza esplicita in questo senso: lo stato
deve utilizzare ogni mezzo a disposizione per arrecare benefici e benessere ai
suoi cittadini, i quali per assicurarsi questi diritti e vantaggi dovranno
rispettare certi doveri costituzionali.
Ma se non può più
costruire un ponte a che serve lo stato? Qual è il vantaggio che offre lo stato ai
suoi cittadini? Forse l’Italia non è più uno stato? O magari è ancora uno stato
ma non più esattamente democratico? Ecco, l’Italia. Esaminando meglio la
questione, possiamo senz’altro concludere che l’Italia in questo momento rappresenta
un’anomalia democratica, un’eccezione, una forma di governo ibrida, che sta a
metà, a mezz’aria, proprio come il ponte: l’Italia non è più da alcuni anni una
democrazia compiuta e non è ancora una dittatura dichiarata (almeno a parole,
ma nei fatti siamo ormai molto vicini ad un singolare quanto preoccupante regime
dittatoriale).
Tuttavia,
per capire meglio il motivo per cui siamo balzati subito a questa conclusione,
dobbiamo sforzarci di immaginare adesso la stessa scena del ponte crollato in
un vero stato democratico come il Canada, la Svezia, l’Argentina, ma
anche gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, il Giappone, e vedere cosa sarebbe successo di così differente in quei
paesi, che in Italia, per una curiosa e inquietante serie di motivi, non può
più accadere.
Il
ministro dei lavori pubblici
canadese riceve la notizia del crollo di un ponte nella regione del Quebec
dalla protezione civile e insieme ai suoi tecnici si reca sul posto per fare un
sopralluogo. I danni sono gravi, è crollata l’intera arcata centrale del ponte
e alcuni paesi su una delle sponde del fiume sono rimasti isolati. Il ministro
chiede ai tecnici di stimare i danni e di fare subito un preventivo. Nel giro
di un paio di giorni il ministro ha in mano il preventivo e contatta il ministro delle finanze per chiedere i
finanziamenti inviando una copia del preventivo. Il ministro delle finanze
canadese prende il telefono e chiama il governatore
della banca centrale del Canada, dove il governo detiene il proprio conto di deposito, per chiedere ragguagli sulla liquidità in cassa.
A
questo punto il governatore verifica il saldo
del conto statale e vede che è in rosso di circa un miliardo di dollari
canadesi. L’inflazione in Canada è
salita nell’ultimo periodo di quasi mezzo punto percentuale e bisogna quindi
agire con cautela prima di allungare ulteriormente la liquidità circolante sul
mercato interno. Il dollaro canadese si è svalutato
nell’ultimo trimestre rispetto alle altre valute estere, a causa di un leggero
passivo nella bilancia commerciale,
dovuto a un calo delle esportazioni. Il governatore della banca centrale chiede
allora al ministro delle finanze di emettere dei titoli di stato per un totale di 3 milioni di dollari, pari alla
cifra richiesta per rifare il ponte in Quebec e in cambio di questi titoli
aggiunge una cifra pari a 3 milioni sul conto di deposito governativo, pigiando
un semplice tasto del suo computer. La banca centrale utilizzerà poi i nuovi titoli
di stato emessi e consegnati dal ministero delle finanze per drenare liquidità
dal mercato interbancario, qualora dovesse verificarsi un’altra impennata
dell’inflazione.
Preso
atto che la svalutazione del dollaro
canadese non è stata sufficiente ad aumentare i volumi delle esportazioni, il
ministro delle finanze in accordo con il ministro
dell’economia decide di attuare un piano di detassazione delle imprese canadesi
per rendere ancora più competitivi i prodotti nazionali e rilanciare le esportazioni
nel trimestre successivo. Siccome i consumi interni sono in picchiata, il ministro
delle finanze decide di non aumentare la pressione fiscale generale che grava
sui cittadini canadesi, per evitare di deprimere ancora di più i consumi. Allo
stesso tempo decide di finanziare un progetto
di riconversione energetica che consente un maggiore utilizzo dell’energia
solare e del riscaldamento tradizionale tramite il legno, che abbonda in
Canada, per limitare le importazioni di petrolio e gas.
A
questo punto i soldi sono pronti. E mentre il ministro delle finanze era a
colloquio con il governatore della banca centrale, gli operai erano già al
lavoro per costruire il cantiere nei pressi del ponte. In poco meno di un mese
il ponte era già ricostruito.
Questa
non è fantascienza, ma è soltanto l’ipotetica ricostruzione ideale di come funziona e dovrebbe funzionare un vero
paese democratico, che ha un ventaglio di scelte di politica economica e monetaria praticamente illimitato per agire
nell’interesse della nazione e della cittadinanza. Se andiamo a leggere cosa
viene riportato sul sito della banca
centrale del Canada possiamo ritrovare questa incredibile descrizione, che
se confrontata con la situazione italiana odierna sembra discendere dritta dal
pianeta Marte:
“La Bank
of Canada è la banca centrale della nazione. Noi non siamo una banca
commerciale e non offriamo servizi bancari al pubblico. Piuttosto, noi abbiamo
la responsabilità per conto del Canada della politica monetaria, dell’emissione
delle banconote, del sistema finanziario e della gestione dei fondi e delle
riserve. Il nostro principale ruolo, come riportato nell’atto costitutivo della
Bank of Canada, è promuovere il
benessere economico e finanziario del Canada.
La Bank of Canada è
stata fondata nel 1934 come un istituto privato. Nel 1938, essa divenne un ente
della Corona (britannica) di proprietà
del governo federale. Da quel momento, il ministero delle finanze detiene
l’intero capitale della banca. In definitiva, la Bank of Canada è di proprietà dei cittadini del Canada. Tuttavia la
Bank of Canada non è un dipartimento del governo e conduce le sue attività con notevole indipendenza rispetto
alla maggior parte delle altre istituzioni federali.”
Agghiacciante.
La Bank of Canada che ha il compito esclusivo di creare e gestire la moneta a
corso legale del Canada, il dollaro canadese, è di proprietà dei cittadini e il
suo scopo è quello di promuovere il loro benessere. La banca centrale è un ente interamente pubblico, ma per mantenere una
buona stabilità finanziaria agisce in totale indipendenza dalle altre
istituzioni governative. Se andiamo subito a confrontare quello che viene
riportato sui Trattati di Funzionamento
dell’Unione Europea, a cui l’Italia ha aderito nel 1992 con la firma del
Trattato di Maastricht, leggiamo invece quanto segue in riferimento alla Banca Centrale Europea BCE:
“L'obiettivo principale del Sistema europeo di banche centrali, in
appresso denominato «SEBC», è il mantenimento della stabilità dei prezzi. Fatto salvo
l'obiettivo della stabilità dei prezzi, il SEBC sostiene le politiche
economiche generali nell'Unione al fine di contribuire alla realizzazione degli obiettivi dell'Unione definiti nell'articolo 3 del trattato sull'Unione
europea. Il SEBC agisce in conformità del principio di un'economia di mercato aperta e in libera concorrenza,
favorendo una efficace allocazione delle
risorse e rispettando i principi di cui all'articolo 119. (articolo
127)
Nell'esercizio dei poteri e nell'assolvimento dei compiti e dei doveri
loro attribuiti dai trattati e dallo statuto del SEBC e della BCE,
né la Banca centrale europea né una banca centrale nazionale né un membro dei rispettivi organi decisionali possono sollecitare o accettare istruzioni dalle istituzioni, dagli organi o dagli organismi dell'Unione, dai governi degli Stati
membri né da qualsiasi altro organismo. Le istituzioni,
gli organi e gli organismi dell'Unione nonché i governi degli Stati membri si impegnano a rispettare
questo principio e a non cercare di influenzare i membri degli organi decisionali della Banca
centrale europea o delle banche centrali nazionali nell'assolvimento dei loro compiti. (articolo 130)
Sono vietati la concessione di
scoperti di conto o qualsiasi altra forma di facilitazione creditizia, da parte della Banca centrale europea o da parte delle banche centrali degli
Stati membri (in appresso denominate «banche centrali
nazionali»), a istituzioni, organi od organismi dell'Unione, alle
amministrazioni statali, agli enti regionali,
locali o altri enti pubblici, ad altri organismi di diritto pubblico o a imprese pubbliche degli Stati membri, così come l'acquisto diretto presso di essi di titoli di debito da parte della Banca centrale europea o delle banche centrali nazionali.”
(articolo 123)
Avete letto qualcosa che fa
riferimento ai cittadini europei e al loro benessere?
No, niente. La BCE ha come unico obiettivo quello di mantenere la stabilità dei prezzi e non solo agisce
in totale indipendenza, ma non ha
alcun legame di proprietà e impegno
nei confronti degli stati membri. La BCE, a differenza della Bank of Canada (e
di qualsiasi altra banca centrale mondiale degna di questo nome) non può concedere
finanziamenti diretti agli stati
membri, nonostante questi ultimi siano obbligati per legge ad accettare l’euro come moneta a corso legale. Il monopolio
esclusivo e privato della moneta non determina soltanto profitti alla banca
centrale in termini di signoraggio
(che malgrado certe tesi che circolano a riguardo è una parte marginale del
problema), ma cancella qualsiasi autonomia
in campo di politica economica e monetaria di ogni singolo paese e
dell’eurozona nel suo complesso. Ogni stato deve arrangiarsi da solo per
reperire i finanziamenti di cui ha bisogno e nel caso abbia superato il limite
di indebitamento, previsto dal vincolo del pareggio di bilancio, deve per forza agire soltanto su due leve: diminuire la spesa pubblica o aumentare le tasse.
La riforma del lavoro di questi giorni si
inserisce perfettamente in questo quadro raccapricciante di gestione dei flussi
finanziari. Siccome lo stato ha una capacità
di spesa limitata dal gettito fiscale raccolto, non può più agire sulla
leva dei sussidi diretti e della detassazione alle imprese italiane, che sono
fra le più tartassate del mondo, ed ha solo un’altra alternativa per dare
impulso ad un’economia ormai in recessione: rendere il mercato del lavoro più
flessibile e concedere alle imprese la possibilità
di licenziare e alleggerirsi più facilmente, utilizzando questa arma di ricatto per abbassare
progressivamente i salari. Non ci sono altri spazi di manovra per rilanciare le
esportazioni e migliorare la competitività dei prodotti italiani, perché l’euro
è una moneta a tasso di cambio fisso di tipo gold standard che non può spontaneamente
svalutarsi e dal punto di vista della politica monetaria lo stato è diventato
ormai completamente inerte ed impotente. I soldi che utilizza per spendere non
sono più suoi, ma li prende in prestito da 20
grandi gruppi bancari internazionali (fra cui Unicredit, Banca Intesa, Monte dei Paschi, Goldman Sachs, JP Morgan,
Morgan Stanley). E questi soldi vanno restituiti a scadenza con gli interessi
prelevandoli dai contribuenti italiani.
E il ponte? Il
ponte può rimanere lì a marcire finchè non si trova un’altra fonte di spesa a
cui tagliare i fondi, che può essere la scuola, la sanità, la sicurezza. Oppure
si mette un’altra accisa sulla benzina e sugli alcolici, spalmando i costi su
tutti i consumatori. Ma voi sicuramente vi starete già chiedendo per quale
motivo lo stato si sia ridotto ad elemosinare soldi come un accattone, mandando
tutti i suoi cittadini sul lastrico. Bene e qui arriviamo al punto: lo stato democratico che conoscevamo noi,
quello fondato sul lavoro e con il popolo unico detentore della sovranità, che prevede una forma di
governo basata sulla rappresentanza
politica parlamentare, non esiste più, è stato stralciato, emendato, è
finito da un pezzo. L’Italia ormai è entrata in un meccanismo che con la
democrazia non ha più nulla a che spartire. Questa forma di governo si può
chiamare in tanti modi, dittatura
finanziaria, plutocrazia, oligarchia, tecnocrazia, ma in ogni caso in questa nuova entità giuridica i cittadini
non hanno più alcuna voce in capitolo. Possono soltanto pagare le tasse,
consumare, votare (quando possibile) persone già scelte da altri e lavorare
alle condizioni imposte dai nuovi detentori del potere sovrano.
Avendo
una capacità di spesa ridotta, molto probabilmente per continuare a funzionare
e ripagare i suoi creditori lo stato sarà costretto nei prossimi anni a dismettere e svendere gran parte del suo
patrimonio e delle sue risorse pubbliche (anche l’acqua, fra non molto le
aziende private arriveranno a mettere le mani sull’acqua, perché la sconfitta
nel referendum rappresenta uno dei motivi per cui è stato cacciato via
Berlusconi a colpi di spread). Inoltre lo stato o quel che ne rimane metterà a
disposizione delle aziende private nazionali e internazionali i suoi cittadini come se fossero una vera e
propria mercanzia di scambio, manovalanza a basso prezzo, nient’altro
che merce, schiavi da assumere e licenziare in qualsiasi momento secondo
quelle che sono le convenienze economiche dei nuovi padroni.
Chi
non si adatta alle nuove disposizioni contrattuali, può benissimo farsi le
valigie e andare in un altro paese europeo, perché la mobilità dei lavoratori era una delle clausole imposte agli stati
per aderire alla moneta unica. Merce siete e merce diventerete: se resti ti
schiavizzo, se parti fai lo stesso il mio gioco perché verrai schiavizzato da
un altro padrone. A meno che il cittadino italiano non va in Canada, Svezia,
Australia, Islanda e in uno degli altri paesi democratici rimasti del mondo,
allora lì avrà magari la possibilità di rifarsi una nuova vita libera, dignitosa,
vera, sovrana. L’Europa non sentirà la sua mancanza perchè nel suo complesso
non avrà perso niente dato che intanto potrà sempre contare sull’ingresso di nuovi schiavi provenienti dall’Africa,
dall’Asia e dal Sudamerica, che verranno subito messi in concorrenza con i
residenti.
Come
dicevamo questo processo di progressiva espropriazione
della democrazia è iniziato già da un bel pezzo e in questi ultimi mesi è
stato solo apposto qualche nuovo tassello per arrivare a definitivo compimento.
Gli emissari dei nuovi detentori del potere sovrano, Mario Monti (Goldman Sachs), Elsa
Fornero (Banca Intesa), Corrado Passera (Banca Intesa), sono persone
molto ricche, addestrate a dovere e foraggiate nel corso della loro carriera a
forza di parcelle milionarie, a cui è stato chiesto solo un piccolo gesto di
riconoscenza per mettere in pratica rapidamente ciò che i politici di professione
stavano attuando con troppa lentezza.
Il parlamento stesso ormai è un’istituzione inutile, ridondante, poco
efficiente perchè di fatto non ha più alcun potere decisionale e può solo
vidimare a valle ciò che è stato stabilito a monte dai nuovi reggenti. Il parlamento
verrà sfoltito (cosa giusta e sacrosanta, ma se la finalità è quella di
delegittimare un fondamentale organo costituzionale del paese allora è
sbagliata), i dipendenti pubblici dovranno adeguarsi alla mobilità e ai licenziamenti
(come sta già accadendo in Grecia) e i funzionari pubblici avranno soltanto il
compito di mettere timbri sulle
concessioni da assegnare ai nuovi proprietari privati del patrimonio
pubblico. Tutto qui, lo stato sarà
solo un piazzista di beni
pubblici e un semplice intermediario fra la manovalanza e i
padroni. Dimenticativi quindi termini aulici come giustizia, uguaglianza,
libertà, diritto costituzionale perché tutto ciò che è giusto ed equo lo decide
soltanto il mercato in base a semplici calcoli di utilità e profitto.
Per le tappe più
importanti e i nomi che hanno
contribuito alla realizzazione del progetto
di espropriazione della democrazia, vedere la fine dell'articolo su La Tempesta Perfetta
L'articolo descrive con precisione l'amara realtà del nostro paese. I motivi di questo stato di cose sono però, a mio parere, di squisita natura tecnica e derivano in gran parte dai gravi errori che viziano la nostra carta costituzionale, che è sì democratica, ma non è liberale.
RispondiEliminaIn una democrazia liberale il rapporto tra stato e cittadini è di natura squisitamente patrimoniale. E difatti i cittadini di una democrazia liberale, quali elettori e contribuenti, si mostrano in genere ben disposti a pagar le tasse ‘‘solo se’’ lo stato fornisce loro in contropartita servizi di qualità apprezzabile e a costi accettabili. La retorica delle ideologie patriottarde nelle democrazie liberali non attecchisce.
Nelle democrazie liberali lo stato non è uno strumento di potere, com’è al contrario nei regimi illiberali, bensì una semplice struttura di servizio. Qualcosa, insomma, di molto simile a ciò che gli studiosi di scienze aziendali definiscono ‘‘azienda d’erogazione’’.
Per sapere se una democrazia è liberale o illiberale (eh, sì, purtroppo, esistono anche democrazie illiberali) basta leggere le costituzioni. Una costituzione che ha nel suo preambolo espressioni del tipo: ‘‘Noi, il popolo, per la nostra libertà e il nostro benessere, indichiamo qui di seguito ciò che tu stato devi fare’’ è liberale. Viceversa sono illiberali quelle costituzioni al cui preambolo troviamo espressioni del tipo: ‘‘Io, lo stato, in base a questo o a quel principio sociale o morale, elenco qui di seguito ciò che tu cittadino devi fare’’.
La costituzione della repubblica italiana appartiene al secondo tipo, non al primo. Ciò si deve all’arretratezza culturale e politica dei costituenti. I quali, poverini, scrissero sì una carta di tipo democratico che consente la conquista del potere di governo, per una durata limitata, attraverso la competizione elettorale e garantisce ai cittadini le libertà civili (libertà di voto, libertà d’espressione, libertà di manifestazione, libertà di fondare movimenti politici, ecc.), mentre invece il precedente regime totalitario le libertà civili le aveva eliminate, ma vi inserirono pure, nella carta, i tre principi dottrinali del fascismo. Vale a dire il principio proletario, il principio della superiorità etica dello stato e il principio corporativo .
Il principio proletario lo si trova al primo comma dell’articolo uno della nostra costituzione, sia pure nella forma del cosiddetto ‘‘principio lavorista’’. Il principio della superiorità etica dello stato è sancito al secondo comma dell’articolo quattro (‘‘Io, stato, dico a te cittadino quali sono i tuoi doveri morali’’). Il principio corporativo lo si trova un po’ dovunque (natura semipubblica dei sindacati, Cnel, organizzazione corporativa della magistratura).
Gli effetti di questo bel capolavoro d’ingegneria costituzionale sono poteri pubblici superbamente costosi e sovranamente inefficienti (ad esempio, municipalità incapaci di raccogliere l’immondizia, inesistenza di un reale ordinamento giudiziario, sostituito da un simulacro neanche in grado di produrre sentenze in tempi ragionevoli, sprechi immani di risorse in lavori pubblici iniziati e mai terminati, enti inutili a iosa, munifiche prebende a gerarchi e gerarchetti di partito, e via discorrendo).
Ben venga dunque ogni riforma costituzionale che limiti l’invasività e i dannosi poteri dello stato, conferendo più poteri al corpo elettorale.
Nel frattempo le leggi in vigore vanno rispettate e le tasse, ahinoi, pagate. Tanto, a limitare l’ingordigia pubblica ci penseranno la curva di Laffer e l’inevitabile prossima bancarotta (default, per chi non parla italiano).