11/12/18

J. A. Kregel - Crescita e moneta unica: il paradosso della politica fiscale (Allegato alla "Politeia" di Savona)

Una esauriente e approfondita scheda esplicativa sullo studio intitolato "Crescita e moneta unica: il paradosso della politica fiscale" elaborato dall'economista J. A. Kregel e allegato al documento  "Una politeia per un’Europa diversa, più forte e più equa" che il Ministro Paolo Savona ha proposto come base di discussione al Consiglio europeo al fine di verificare la reale rispondenza della architettura europea agli obiettivi di crescita di piena occupazione e di stabilità che sarebbero alla base dei trattati.  Il documento di Kregel, estremamente significativo,  dimostra su base scientifica la natura paradossale dell'impianto della moneta unica, che con le sue regole di rigore fiscale nel lungo periodo non può che portare o a condizioni di stagnazione permanente o ad un'intrinseca fragilità finanziaria tipica di uno schema Ponzi, che si scaricherebbe sul resto del mondo. Una follia economica. 

Ringraziamo il curatore della scheda Beppe Vandai, che ha spesso collaborato con Vocidallestero traducendo articoli di particolare rilevanza. Beppe, di formazione filosofica, vive da 32 anni in Germania e ha fondato ad Heidelberg il circolo di discussione politico-culturale Volta la Carta!! e a Treviso il circolo Risorse, sui temi dell'economia.

 

 
Scheda a cura di Beppe Vandai sul documento di Jan A. Kregel* "Crescita e moneta unica: il paradosso della politica fiscale"

 

*Jan A. Kregel è un importante economista post-Keynesiano, direttore del programma «Politica monetaria» presso il Levy Economic Institute of Bard College e professore di Development Finance presso la Tallinn University of Technology. Ex professore di Economia Politica presso l’Università degli Studi di Bologna ed ex professore di Economia Internazionale presso il Johns Hopkins University’s Paul Nitze School of Advanced International Studies, dove è stato anche direttore associato del Bologna Center dal 1987 al 1990.

 

 

 

La Moneta unica e la stabilità del cambio

 

Con il sistema di Bretton Woods i tassi di cambio tra le monete erano fissi, ma modificabili di comune accordo. La moneta di riferimento era il dollaro statunitense, a sua volta scambiabile ad un tasso con l’oro, fisso e immodificabile. Nel 1971–73 questo sistema collassò e lasciò il posto in breve tempo alla pratica dei cambi flessibili tra le monete. Negli anni settanta del secolo scorso però l’Europa comunitaria avviò il progetto della moneta unica. La fase preparatoria doveva consistere nel sistema del serpente monetario a banda stretta (solo ± 1%, poi ± 2,5%). Entrambi i tentativi si dimostrarono di difficilissima realizzazione.

 

La moneta unica europea, varata nel 1999, introduceva due grandi novità:

 

Cambi fissi all’interno dell’Eurozona, ma variabili tra Euro e resto del mondo, impediscono il libero aggiustamento tra la moneta di ogni singolo paese dell’Eurozona ed il resto del mondo; il rapporto risulta infatti sempre mediato dal rapporto tra Euro e la moneta extra-Euro in questione. Ad esempio, se l’Euro in certo periodo fosse risultato essere più forte rispetto al dollaro di quanto sarebbe stato lo scudo portoghese, le merci portoghesi offerte in euro al di fuori dell’Eurozona sarebbero risultate più care; ergo: calo della loro vendita e peggioramento della bilancia commerciale portoghese. Viceversa, se l’Euro fosse risultato essere più debole rispetto al dollaro di quanto sarebbe stato il marco tedesco, le merci tedesche sarebbero risultate più facilmente vendibili al di fuori dell’Eurozona; ergo: miglioramento della bilancia commerciale tedesca verso l’area extra-eurozona. In breve: aumenta la divaricazione tra paesi più competitivi e paesi meno competitivi dell’Eurozona. I primi risultano favoriti, i secondi sfavoriti.

 

Essendo l’Euro emesso da una istituzione scollegata da un governo e da un bilancio nazionali o sovranazionali, spariva la coordinazione tra la creazione di liquidità e i tassi di interesse e la politica fiscale. Di nuovo: risultavano impossibili manovre differenziate di stimolo o di raffreddamento delle economie nazionali. Ne risultavano svantaggiati i meno competitivi, avvantaggiati i più competitivi

 

 

 

Aggiustamenti interni agli squilibri esterni

 

Con la moneta unica, venendo a mancare l’aggiustamento tra le valute nazionali precedenti all’Euro, la variabile di maggiore impatto per i riequilibri tra le economie nazionali diventava il livello dei salari. Un paese con un problema di bilancia commerciale negativa non poteva fare altro che cercare di tenere bassi i salari o di comprimerli. In teoria nulla vieterebbe che accadesse il contrario, cioè che i paesi più concorrenziali aumentassero i salari di più rispetto ai meno concorrenziali, ma la logica economica vigente in Europa sembra non considerare questa variante. Solo il miglioramento della bilancia commerciale dell’Eurozona verso il resto del mondo viene presa in considerazione.

 

La conseguenza: una compressione sulla domanda aggregata dell’Eurozona e una tendenza inevitabilmente deflazionista. Cioè: riduzione o azzeramento dell’inflazione o addirittura deflazione pura. Ovviamente, ne conseguono tassi di interesse calanti o addirittura negativi e aumento della disoccupazione e del lavoro precario.

 

Che queste sarebbero state le conseguenze era inciso nel corpo della costituzione materiale europea voluto con l’Atto unico europeo (1986) e con il Trattato di Maastricht (1992). Infatti, vi si disinnescava in modo crescente anche l’unica leva che in teoria rimaneva a disposizione per controbilanciare gli squilibri: quella fiscale, cioè il finanziamento di politiche pubbliche volte a stimolare la domanda aggregata (consumi e investimenti). La tendenza a rendere inservibile la leva fiscale si incrudì con il Fiscal compact ed il Six Pack (2012), allorché si iniziò a prescrivere il pareggio o il surplus del bilancio statale. Con ciò il bilancio pubblico, nota Kregel, viene trattato come quello di qualsiasi ente privato.

 

Con un’unica gestione dei tassi di interesse da parte della Banca Centrale Europea prese le mosse un’altra distorsione delle regole classiche di funzionamento delle economie di mercato: quella del rapporto tra livello di rischio e i tassi di interesse. Infatti, dando la sensazione che con l’Euro non c’erano più differenti rischi di credito, i tassi di interesse nominali iniziarono rapidamente ad uniformarsi nell’Eurozona. Così, i governi dei paesi meno competitivi, nel primo decennio dell’Euro, poterono stimolare la spesa pubblica per evitare di giungere alla compressione salariale e alla spinta deflazionista sulle proprie economie.

 

Con la crisi finanziaria del 2008, però, il re era nudo. Il sistema creditizio si rimise a prezzare in modo differenziato il rischio del finanziamento sia ai privati che agli stati. Iniziò la ben nota storia degli spread. Interessi improvvisamente molto alti per i paesi meno competitivi, cioè meno sicuri, iniziarono a strangolare sia il settore pubblico che quello privato di questi paesi. L’Eurozona rispose con i Fondi salva-stati. Vista la loro insufficienza, nel 2012 Draghi dovette pronunciare il famoso “what it takes”. La BCE dichiarò che l’acquisto di titoli di stato (poi anche privati) sul mercato secondario sarebbe proseguito, anzi si sarebbe allargato.

 

 

Primi riconoscimenti dell'impatto della politica monetaria e delle restrizioni fiscali 

 

J. KREGEL cita ampiamente “Derailed” (“Deragliati”), il breve scritto di Winne Godley del 1993. Godley, uno dei principali esponenti della scuola post-keynesiana, spiegò già allora come il ‘grosso buco nel Trattato di Maastricht’ fosse la mancanza di una politica fiscale adeguata, o meglio, la contraddizione tra una politica monetaria centralizzata e politiche fiscali decentrate e depotenziate. La politica monetaria e quella fiscale dovrebbero invece essere coerenti in questo senso: la politica fiscale deve risolvere i problemi che quella monetaria crea, e viceversa. Perciò devono essere pensate centralmente. In uno stato democratico, entrambe vanno gestite da istituzioni democraticamente elette e collocate allo stesso livello, non dovrebbero essere dirette da centri tecnocratici, tanto più se questi usano il ‘pilota automatico’.

 

 

La crisi finanziaria del 2009 e la politica fiscale straordinaria. Rafforzare i vincoli fiscali riduce la flessibilità della risposta alla crisi

 

Una volta che i nodi vennero al pettine, nel 2009, l’Eurozona non volle riconoscere che la costruzione dell’Euro era diventata insostenibile, mancando di una politica fiscale di sostegno della domanda aggregata e degli investimenti. Invece di provvedere in tal senso si inasprì ulteriormente la stretta sui bilanci statali. Perché? Per mantenere forte l’Euro, addirittura per rafforzarlo. Si anteponeva cioè il cambio della moneta all’equilibrio macroeconomico dell’intera area. Ne risultò una tendenza deflazionistica che punì ampi strati della popolazione. Per metterci una pezza Draghi agì di nuovo con la leva monetaria, iniziando il Quantitative easing. Il risultato fu di guadagnare tempo senza risolvere la contraddizione-base dell’Eurozona.

 

 

Stabilità fiscale e fragilità finanziaria 

 

Con il 2012 l’Eurozona – grazie al Fiscal compact – ha reso ancora più paradossale la propria politica economica. Esigendo che gli stati giungessero, per di più in fretta, al pareggio di bilancio, per poi passare al surplus di bilancio, imponeva loro di fare il cosiddetto hedge financing, cioè di avere un flusso di cassa sicuro e in grado di pagare puntualmente sia gli interessi per un debito contratto che il debito stesso. Come si può centrare in generale questo obiettivo? Di solito con un mix di crescita sufficiente del PIL e inflazione, magari anche con moderati aumenti della tassazione. Ma il nocciolo del problema rimane la crescita del PIL. E questa da dove può venire? Dato il Fiscal compact, il mercato interno non può assolvere questo compito, visto che si riduce il reddito disponibile per i consumi e gli investimenti. Non resta in teoria che la domanda estera. Ma qui ci si incaglia su una grave difficoltà, sull’Euro stesso. Per i paesi che devono ridurre il deficit c’è un primo problema: siccome il grosso delle esportazioni dei paesi dell’Eurozona sono interne alla stessa e non sono più possibili degli aggiustamenti di cambio per le economie in difficoltà, non resta che la cosiddetta “svalutazione interna”, cioè il calo dei prezzi dei beni e dei servizi, ovvero una forte disinflazione. Come si fa? Riducendo i salari in termini reali. A questo punto è però certa la decrescita interna e non è chiaro se l’aumento delle esportazioni sarà superiore alla decrescita. A ciò si aggiunga che la terapia del Fiscal compact viene consigliata e somministrata contemporaneamente a tutti i paesi dell’Eurozona. Non si capisce come questo schema possa funzionare. I maggiori successi, senza danni collaterali, dovrebbe offrirli l’export verso paesi esterni all’eurozona. È pensabile che, seguendo tutti l’esempio tedesco, stringendo la cinghia e aumentando la competitività, l’intera eurozona raddoppi il surplus commerciale con il resto del mondo, passando da un surplus annuo di 400 mld. € a 800 mld. €. Ma il resto del mondo accetterà questa enorme pressione mercantilistica? E poi, una tale strategia può avere successo sul medio-lungo periodo? L’Euro aumenterebbe di valore, le merci dell’eurozona diventerebbero più care per gli acquirenti esteri. A quel punto il surplus si ridurrebbe. Ci sarebbe sempre la strada della manipolazione del valore delle moneta. Si comprerebbero allora, alla grande, assets esteri. L’estero si indebiterebbe sempre di più. Lo si costringerebbe a passare a forme di finanza speculativa e rischiosa. Ad un certo punto gli assets finanziari esteri comperati dall’eurozona perderebbero di valore. In casi estremi diventerebbero carta straccia. Pensando la cosa fino in fondo, eccolo il futuro radioso che la filosofia eurista ci offrirebbe!

 

 **** NOTA BENE: KREGEL mette a frutto concetti elaborati da Hyman Minsky e con essi testa sia la teoria che la pratica eurista. Centrale è la constatazione che per chiunque, impresa, famiglia o stato sono possibili tre scenari creditizi: lo hedge financing, lo speculative financing e il Ponzi financing. Che si intende con questo? Si ha hedge financing (finanza coperta) quando il debitore è in grado di sostenere puntualmente, con il suo flusso di risorse, sia il pagamento degli interessi che la restituzione del capitale. In genere dà anche in garanzia dei beni o dei titoli finanziari. Si ha speculative financing (finanza speculativa) quando il flusso di cassa riesce a coprire gli interessi maturati, ma il debitore non è in grado di restituire per tempo il capitale o parte del capitale prestato. Si hanno dunque continue ricontrattazioni del debito. Se nulla cambia nel flusso di cassa, ad un certo punto si avrà l’insolvenza del debitore. Si ha Ponzi financing (finanza alla Ponzi) quando il debitore non ha nemmeno un flusso di cassa per pagare gli interessi sul debito contratto. Il ‘nostro’ Ponzi (dal nome di un imbroglione italo-americano) punta sul fatto che gli assets che ha comperato aumentino talmente di valore da poter ripagare sia interessi che capitale. Di solito finisce malissimo. La crisi americana dei subprime calza a pennello per illustrare questo caso. Negli USA il sistema finanziario, per alimentare la crescita dell’economia, spinse parecchia gente a vestire i panni del ‘buon’ Ponzi. Com’ è andata a finire lo sappiamo. Minsky ha analizzato anche come si creano cicli finanziari in cui un sistema economico passa per le tre tappe del tipo di indebitamento. È giunto anche alla conclusione che è soprattutto l’indebitamento privato ad essere labile e pericoloso. Kregel usa il suo armamentario concettuale per sottolineare che, nel caso europeo, la volontà stessa di hedge financing, male intesa, conduce involontariamente paesi o settori economici verso lo speculative financing o addirittura al Ponzi financing. *****************

 

Stabilità fiscale, fragilità finanziaria : il paradosso della politica fiscale 

 

Il combinato di Fiscal Compact (FC) + Six Pack europeo (SPE) chiama gli stati dell’eurozona alla riduzione del rapporto Debito Pubblico (DP)/PIL fino alla soglia del 60% entro 20 anni. Al momento solo tre piccoli stati (Estonia, Lussemburgo e Lettonia) sono al disotto di quella soglia. Per l’Italia la forbice che andrebbe chiusa per il passaggio sotto-soglia è del 70% del PIL (da 130% a 60%). L’intenzione è di costringere gli stati dell’€Z a praticare quello che Minsky chiamava hedge financing in un contesto in cui anche il debito privato sia sostenibile, cioè non cresca per via della diminuzione del debito pubblico. Si tratterebbe cioè di spingere sia il settore pubblico che quello privato contemporaneamente sulla via dell’ hedge financing.

 

Quale la via per raggiungere l’obiettivo proposto? Agire sul numeratore del rapporto DP/PIL senza che il denominatore (cioè il PIL) scenda, anzi aumenti almeno moderatamente. Si tratterebbe di seguire la Germania che ha praticato prima il pareggio e ora il surplus del bilancio pubblico contenendo il consumo dello stato, incentivando il risparmio in generale e contenendo gli investimenti privati. La cosa in Germania sta riuscendo. Ma in che contesto? La Germania ce la sta facendo da sola o grazie all’espansione all’estero? La risposta: da soli è logicamente impossibile farlo. Per capirlo dobbiamo dapprima studiare come funzionano le cose in un’economia chiusa, che non interagisca con l’estero. Ma il discorso vale anche per economie che di fatto hanno una bilancia commerciale in pareggio con l’estero.

 

Per seguire Kregel però ci servono ora almeno conoscenze rudimentali della contabilità nazionale:

 

[La contabilità nazionale di un’economia chiusa parte dalla definizione di PIL annuale di un paese quale valore aggiunto in un dato anno generato da tutte le attività economiche. Il valore aggiunto lordo (VAL) viene calcolato, per qualsiasi agente economico (per la Volkswagen, come per il negozio di parrucchiere all’angolo), sottraendo dai ricavi (l’importo lordo di ciò che si è venduto) i costi per l’acquisto di materiali e prestazioni esterne necessarie alla produzione di beni o alla fornitura di servizi (dalle materie prime, ai semilavorati, al pettine del parrucchiere, ai costi per l’energia e per la pubblicità, alle spese generali, alla riparazione di una macchina ecc.). Per un’impresa, in pratica il VA lordo comprende (a) il profitto lordo dell’impresa (prima della tassazione), (b) i salari lordi erogati e (c) l’IVA, detratte le sovvenzioni erogate alle imprese. Anche l’attività dello stato, preso come datore di lavoro, viene considerata così. Nell’aggregato del VA lordo nazionale (PIL) entrano anche il VA delle imprese finanziarie (banche ecc.), così come le rendite finanziarie dei privati o di associazioni private. Così il quadro sarà completo.

 

La formula canonica della contabilità nazionale dal lato della sua formazione è suppergiù questa:

 

( Equazione 1) Y = ( Ya + Ym + Ye + Ysp + Ysg + Yf + Yaff + Yv + IVA ) – Sovv.

 

laddove Y sta per l’aggregato totale che chiamiamo anche PIL (Prodotto Interno Lordo), Ya simbolizza il VA dell’agricoltura, Ym quello della manifattura, Ye quello dell’edilizia, Ysp quello dei servizi privati, Ysg quello dei servizi forniti dalla pubblica amministrazione, Yf quello generato nel settore finanziario (rendite dei clienti comprese), Yaff il VA dagli affitti e Yv quello da settori vari non ancora considerati. Infine, IVA sta per l’Imposta sul Valore Aggiunto e Sovv. per le sovvenzioni erogate in quell’anno. Ben si capisce come sia complicato fare questo calcolo in tempi rapidi (necessari per agire in fretta).

 

C’è però un altro metodo, più rapido per calcolare il PIL: calcolare non come si è andato formando, bensì come è stato utilizzato. Perciò – per un’economia chiusa – viene usata quest’altra equazione:

 

(Equazione 2) Y = C + I + G,

 

laddove Y sta sempre per l’aggregato totale che chiamiamo anche PIL (Prodotto Interno Lordo), C sta per l’aggregato totale dei consumi privati di quell’anno, I simbolizza il totale degli investimenti lordi dei privati (le posizioni principali che vi rientrano sono: le spese delle imprese per gli impianti produttivi e per la propria edilizia, le scorte di beni prodotti in quell’anno e aggiuntesi all’invenduto, infine le spese per l’edilizia abitativa). G simbolizza le spese dello stato e della pubblica amministrazione (spese per il personale, per i materiali acquistati per lo svolgimento corrente delle sue funzioni, per fornire beni di utilità sociale, per sussidi sociali, investimenti per infrastrutture e beni pubblici, ecc.). Nell’insieme, è più agevole calcolare questi tre aggregati. Ma i vantaggi non sono finiti, come vedremo fra poco.

 

Si giunge facilmente ad una terza equazione, che poi metteremo in relazione con la seconda. Il reddito generato (Y) si lascia disaggregare necessariamente, per chiunque abbia a disposizione un certo reddito, sotto tre voci: i consumi, le tasse ed il risparmio.

 

Da qui la terza equazione:

 

(Equazione 3) Y = C + T + S,

 

laddove C sta sempre per l’aggregato totale dei consumi privati di quell’anno, T simbolizza l’insieme dalla tassazione diretta, sugli individui e le imprese, S infine sta per il risparmio.

 

Ora, visto che nella seconda e terza equazione i membri di destra sono entrambi uguali a Y, ne consegue anche la validità della seguente quarta equazione:

 

(Equazione 4) C + I + G = C + T + S. Equazione ovviamente semplificabile in:

 

(Equazione 4.1) I + G = T + S, a sua volta trasformabile in:

 

(Equazione 4.2) G – T = S – I.

 

L’equazione 4.2 ci dice questo: in un’economia chiusa – basandosi esclusivamente sul reddito generato in un certo anno – la differenza tra il consumo dello stato e l’intera tassazione diretta di quell’anno deve essere (per definizione) uguale alla differenza tra il flusso di risparmio di quell’anno e gli investimenti privati, operati in quell’anno. L’equazione ci fornisce cioè una importante informazione: indipendentemente dalle dimensioni delle singole posizioni, che possono essere assai diverse, la differenza tra la coppia dei membri di sinistra e quella di destra è sempre uguale. Ad esempio, se uno stato ha un deficit di bilancio pari al 2,9% del PIL (cioè se G > T per il 2,9% del PIL), allora: S > I per il 2,9% del PIL. Dall’ equazione non sappiamo forse ancora né l’entità degli investimenti, né quella del risparmio, né come è andata l’economia in quell’anno, sapremo però che il risparmio delle famiglie (e forse anche delle imprese) ha sopravanzato gli investimenti di quell’entità. Dove sarà andato a finire quel saldo di risparmio? Avrà coperto il deficit statale di quell’anno. Quella fetta di reddito pari al 2,9% del PIL non consumato dai privati sarà stata allocata per finanziare i consumi e gli investimenti della pubblica amministrazione. Lo stato avrà dunque offerto ai risparmiatori un’occasione per piazzare quel surplus di nuovi risparmi e garantire loro, in futuro, un surplus di reddito. Uno stato ben gestito, però cercherà di non esagerare nell’offrire questa ‘droga’. Viceversa, se ad esempio lo stato avrà avuto un saldo di bilancio positivo dell’1,5% del PIL (per aver risparmiato sulla spesa corrente o sugli investimenti, oppure per avere aumentato la tassazione oppure combinando entrambe le cose) sapremo che il risparmio privato non sarà stato sufficiente a coprire tutti gli investimenti di quell’anno del settore privato. Ma allora come sarà stato finanziato quel saldo degli investimenti? In un’economia chiusa, in cui per definizione non può affluire risparmio dall’estero, magari si usano vecchie scorte di risparmio (ad esempio i privati, siano essi imprese o famiglie, venderanno alle banche asset accumulati in passato). In ogni caso il sistema bancario creerà dal nulla la quantità di moneta endogena necessaria. Non sapremo neanche, dall’equazione stessa, se uno stato, che ad esempio passa da un anno all’altro da un deficit di bilancio del 2,9% ad un surplus dell’ 1,5%, avrà favorito la crescita dell’economia o se l’avrà mandata in recessione. Quasi sicuramente sarà il secondo caso, ma per dirlo ci servirebbero altre informazioni. Non è infatti da escludersi che il settore privato si sia fortemente indebitato con il sistema bancario per sostenere gli investimenti e l’attività economica in generale. Se così fosse, la posizione debitoria dello stato sarebbe migliorata grazie ad un peggioramento speculare di quella del settore privato. Usando la terminologia proposta da Minsky, lo stato avrebbe fatto hedge financing, ma spinto il settore privato verso lo speculative financing.

 

[ **** NOTA BENE: a) ogni membro delle equazioni è un flusso aggregato (non va confuso con il totale degli stock precedenti accumulatisi); b) queste equazioni sono delle tautologie, cioè sono vere per definizione; questa parte dell’economia è sicuramente scientifica, poiché dedotta per via logica da definizioni; ciò garantisce anche lo statuto di verità della certezza a tutte le deduzioni correttamente effettuate a sua volta da queste equazioni.******************* ]

 

Orbene, dall’equazione 4.2 consegue pure la seguente

 

(Equazione 4.3) (T – G) + (S – I) = 0.

 

In parole: in un’economia chiusa – basandosi esclusivamente sul reddito generato in un certo anno – la somma del saldo del bilancio dello stato e del saldo netto tra investimenti e risparmio dei privati è uguale a zero. Detto altrimenti: in un’economia chiusa è logicamente impossibile che, in un dato anno, lo stato abbia un saldo positivo tra entrate e uscite (cioè che le sue entrate sopravanzino le uscite) e contemporaneamente che il saldo tra risparmio e investimenti sia positivo (cioè che i privati risparmino di più di quanto investano). Peccato che proprio questo è ciò che in teoria vorrebbe ottenere il Fiscal compact. In economie chiuse (o in economie con la bilancia commerciale equilibrata) è impossibile che lo stato e i privati siano contemporaneamente risparmiatori netti. È impossibile che entrambi i settori facciano sul medio-lungo periodo dell’hedge financing. Se uno dei due settori fa a lungo dell’hedge financing, per quel periodo l’altro deve continuamente indebitarsi e scivolare nello speculative financing. Del resto è pure abbastanza intuitivo: affinché qualcuno possa risparmiare e mettere a frutto il suo risparmio, qualcun altro deve indebitarsi. Questa regola è certamente valida per l’economia mondiale nel suo insieme. Finché non commerceremo con degli extraterrestri la bilancia commerciale planetaria sarà sempre in parità, così come il debito aggregato del pianeta sarà sempre uguale a zero. Se uno continua ad accumulare risparmio, il suo partner dovrà continuamente indebitarsi, fino ad andare in rovina, passando cioè dall’ hedge financing, allo speculative financing o al Ponzi financing. Alla faccia dell’ideologia del Fiscal compact.]

 

Finora ci siamo limitati all’istantanea dei rapporti tra il settore privato e quello pubblico di un’economia nazionale di un dato anno, supponendo che il sistema finanziario non intervenga con immissioni o restrizioni di liquidità. Togliamo ora invece quest’ultima restrizione; in più passiamo alla dinamica, a vedere cioè che accade tendenzialmente al PIL della nostra economia chiusa, a seconda che il sistema finanziario intervenga o meno, creando equilibrio o squilibrio tra i settori (privato e pubblico). Mi riferisco qui alle pag. 45 e 46 del documento governativo. Kregel espone, usando una raffigurazione grafica elaborata da R. Parenteau, quel che accade con tutte le combinazioni possibili dei saldi settoriali.

 



 

 

Il Grafico 1 è costruito su due assi cartesiani. Sull’asse delle x si riportano tutti i valori (positivi e negativi) del saldo settoriale privato a seconda che valgano S > I, S = I (origine degli assi), oppure S < I. Sull’asse delle y si riportano tutti i valori (positivi e negativi) del saldo settoriale pubblico, a seconda che valgano G > T, G = T (origine degli assi), o G < T. La linea tratteggiata che disegna la diagonale nel grafico riporta tutte le coppie in cui i valori dei saldi (pubblico e privato) sono uguali, indipendentemente dal segno ( “+” oppure “–“ ). Ovviamente la linea ha un’inclinazione di 45°. Che accade al PIL? Resterà in equilibrio, cioè non riceverà nessun impulso né a crescere né a decrescere. Invece, in tutte le combinazioni in cui G > T e S < I (vedi area del quadrante III del grafico) si avrà crescita del PIL. In termini keynesiani: si farà del deficit spending sensato del settore pubblico. All’opposto, in tutte le combinazioni in cui S > I e T > G, cioè in cui entrambi i settori risparmiano, avremo una spinta alla decrescita. Lo stato restringe il reddito disponibile sia per i consumi che per i risparmi e al contempo toglie occasioni di allocazione del risparmio, induce anche il sistema a inibire gli investimenti. Logicamente il PIL diminuisce. Monti docet. L’area di proiezione di queste combinazioni è il quadrante I del grafico. Nei quadranti II e IV la situazione è variegata. Laddove il deficit del settore pubblico è maggiore del saldo di risparmio di quello privato (zona bassa del quadrante IV) ci sarà un impulso alla crescita. Se invece il saldo di risparmio del settore privato sarà maggiore del deficit del settore pubblico (zona alta del quadrante IV) il PIL tenderà a scendere. Le cose stanno in senso opposto nel quadrante II. Nella zona alta ci saranno impulsi alla decrescita, in quella bassa, alla crescita. Cito ora da Kregel : “Non è possibile per il governo gestire lo schema di hedge financing senza sacrificare la crescita, a meno che il settore privato non aumenti il suo indebitamento. (…) Se il governo dovesse gestire un surplus che fosse sufficiente ad eliminare nel tempo l’eccesso di debito, allora il risultato sarà semplicemente la sostituzione del debito pubblico con il debito privato, oppure la caduta del reddito nazionale, producendo condizioni di stagnazione permanente.

 

Jan Kregel si chiede poi: c’è una strada per uscire dal paradosso della linea di politica economica sposata dall’Eurozona? Sì, se si realizzano due condizioni: (a) l’ area economica è aperta verso l’esterno, (b) si scarica costantemente sull’esterno l’onere dell’indebitamento. A quel punto saranno possibili sia T > G che S > I in contemporanea. Ed è proprio quello che è successo. Germania docet. È possibile far praticare dell’ hedge financing sia al settore pubblico che a quello privato della propria nazione e in più avere una certa crescita se e solo si esternalizza l’indebitamento (verso i partner europei ed extraeuropei). Questa è la sola soluzione che si offre anche all’intera eurozona. L’Euro potrà sopravvivere, seguendo la sua attuale filosofia economica, se e solo se il resto del mondo si sobbarcherà l’onere di indebitarsi continuamente. L’eurozona potrà continuare in un doppio hedge financing (pubblico e privato) mentre ampie zone del resto del mondo dovranno avviarsi prima verso un più rischioso speculative financing ed infine giungere a praticare del Ponzi financing. Lascio a voi immaginare il finale di questa storia.

 

Da pag. 46 alla fine del documento governativo del 7 settembre 2018 Jan Kregel allarga la riflessione al caso di una economia aperta (la situazione che conosciamo come normale). Nella contabilità nazionale l’ equazione settoriale base va scritta in questo modo:

 

( Equazione 5) (T – G) + (S – I) = ( X – M ).

 

Un altro modo di formulare le relazioni tra i saldi settoriali per un’economia nazionale aperta – vedi Kregel a pag. 46 del documento governativo – è questo:

 

(Equazione 5.1) (T – G) + (S – I) – ( X – M ) = 0.

 

Si inserisce infatti il rapporto commerciale con l’estero, laddove X sta per il flusso aggregato dell’export e M per il flusso aggregato dell’import. La cosa è evidente, ma per nulla banale. Infatti tutto quanto un’economia nazionale ha esportato, cioè quanto ha venduto ai clienti esteri, ha aumentato il reddito nazionale, mentre quanto i residenti hanno comperato dall’estero, non essendo stato prodotto dalle imprese indigene, ha aumentato il reddito dei fornitori esteri e sminuito il reddito nazionale del Paese importatore, dato che, se quei beni o servizi fossero stati prodotti in loco, avrebbero aumentato il reddito nazionale per quell’importo. [In realtà X – M della nostra equazione non coincide del tutto con la bilancia commerciale del paese considerato, bensì con il saldo delle partire correnti (Co.Pa.Co.). Non ci addentriamo ora nelle differenze tra i due saldi, limitiamoci a dire che quasi coincidono perché il ‘pezzo forte’ del conto delle partire correnti è la bilancia commerciale.]

 

Che ci dicono in buona sostanza le equazioni 5 e 5.1? Ci dicono che la somma del saldo del settore pubblico (T–G) e del saldo del settore privato (S–I) è uguale al saldo del conto delle partire correnti (X–M) (Current Account in inglese, Leistungsbilanz in tedesco). Infatti se il CA è positivo, cioè se X > M, allora, summa summarum, è affluito reddito aggiuntivo, e quindi liquidità, nel paese considerato. Questo afflusso si va dunque ad aggiungere a S e a T. Pensiamoci un po’. Se X>M, allora le imprese nazionali hanno prodotto di più, c´è dunque un surplus di S per loro; ma per produrre di più hanno impiegato manodopera aggiuntiva, che a sua volta avrà risparmiato una parte del suo reddito, aumentando pure S. Infine, con quei redditi aggiuntivi (per via di X>M) lo stato avrà incassato più tasse, quindi T risulterà maggiorato. Anche I e G potrebbero esserne influenzati, ma in genere molto di meno. Dunque, se X>M, allora nella parte destra dell’equazione 5 non avremo uno zero, ma un numero positivo. E quel surplus ce lo ritroveremo anche nella parte sinistra, distribuito tra (S–I) e T– G). È quindi evidente che la differenza positiva (il surplus) di X–M offre all’insieme dei due settori interni (pubblico e privato) più agio finanziario. Perciò un paese che fa registrare per lunghi periodi un surplus con l’estero avrà l’occasione di migliorare costantemente la sua situazione finanziaria, avrà meno deficit statale, o addirittura un surplus tra T e G e le imprese e le famiglie avranno a disposizione più S. Anche gli stock di debito pubblico e privato diminuiranno. Questa è la situazione di lungo periodo di paesi come la Germania e l’Olanda. Da alcuni anni anche dell’Italia; da poco tempo, della Spagna e del Portogallo. Viceversa stanno le cose per un paese che ha costantemente un deficit commerciale, e dunque anche nel CA. La sua situazione finanziaria peggiorerà di anno in anno; questo paese diminuirà gli stock pregressi di risparmio (S) e si indebiterà con l’estero in maniera crescente, la sua bilancia dei pagamenti (da non confondere né con la Bilancia commerciale  né con il CA.) peggiorerà. Questa la situazione della Francia da molto tempo, ma, guardando al di fuori dell’Eurozona, anche della Gran Bretagna, e per dimensioni ancora maggiori, anche degli USA. Il loro apparato produttivo ne risulta sminuito così come la loro possibilità di fare hedge financing.

 

Da pag. 46 a pag. 52 Kregel si dedica allo studio degli scenari ipotetici e reali nella combinazione dei saldi finanziari dei tre settori (pubblico, privato e verso l’estero). [Vedi i Grafici da 2 a 7.] All’inizio di questa parte anticipa però, con queste parole, le conclusioni a cui giungerà: “È possibile per il settore pubblico e privato essere in surplus (S>I e T>G) se e solo se c’è una eccedenza delle partite correnti (X>M) sufficientemente grande che compensi. Questo significa che le condizioni del Fiscal Compact possono essere soddisfatte solo con un surplus esterno sufficientemente grande da bilanciare i risparmi del settore pubblico e privato. A livello UE questo significa che, poiché alcuni stati avranno bisogno solo di un equilibrio fiscale, mentre i paesi con debito eccessivo avranno bisogno di surplus, l’euro può sopravvivere solo se la UE nel suo insieme ha un surplus esterno. Ma questo significa che la fragilità finanziaria, la spesa in deficit e un indebitamento crescente sono riversati sul resto del mondo; nella situazione attuale verso gli Stati Uniti; ma la politica attuale degli USA sta prendendo iniziative per eliminare il suo ruolo di debitore di ultima istanza.”

 

A pag. 52/53 del documento Kregel riferisce che nel 1940 gli USA pensarono di iniziare un ciclo di espansione del surplus del Conto delle partite correnti (il cui pezzo forte, come sappiamo, è il surplus della bilancia commerciale) come supporto della domanda interna e del proprio hedge financing. Consultarono vari economisti. A quel punto E. Domar dimostrò però che un surplus di export continuo sarebbe stato possibile se e solo con un tasso di crescita del prestito all’estero maggiore o uguale al tasso di interesse sui prestiti. In altre parole: solo se ci fosse un crescendo costante di indebitamento dell’estero. Kregel aggiunge: “si nota che questa è la definizione di uno schema di Ponzi!” La grande astuzia di fare del beggar-thy-neighbour consisterebbe alla lunga nel ponzizzare altre nazioni. Questa è una variante delle conseguenze del Fiscal compact europeo. I ponzizzati sarebbero paesi non dell’Eurozona (europei o extraeuropei).

 

L’altra variante è questa: se l’estero extra-eurozona non si lascia ponzizzare, allora aumenteranno le tensioni interne all’Eurozona. Ad esempio, se un Paese segue le regole del Fiscal compact e riduce e tiene ai minimi termini il deficit del settore pubblico, deve aumentare l’indebitamento di quello privato oppure scaricare su altri ‘paesi fratelli’ dell’€Z quell’indebitamento. In teoria solo la Germania e l’Olanda potrebbero permettersi di indebitarsi e di mandare la bilancia commerciale in deficit per lungo tempo. Ma questo stride con la loro filosofia economia, con il Fiscal compact. Non solo, cozza con le dimensioni ed il tipo di apparato industriale e commerciale che hanno messo in piedi.

 

Da qualsiasi parte la si giri, il referto è questo: il Fiscal compact è una follia economica.

 

Kregel conclude la sua perizia mettendo a fuoco le posizioni dell’Italia e della Germania. Altro non faccio che citarlo, di nuovo, per esteso: “L’Italia non può aggiustare il suo cambio se vuole rimanere nella Eurozona. Potrebbe tentare di ridurre la crescita dei salari reali sotto il livello di crescita della produttività, ma questo dovrebbe essere ad un tasso maggiore di quello praticato in Germania e causerebbe una riduzione non solo nella domanda e nell’impiego ma anche del risparmio. Ciò ridurrebbe il risparmio anche in Germania, perché il suo tasso di crescita scenderebbe in seguito alla riduzione del surplus netto. La Germania può continuare nel suo comportamento cercando mercati per il suo export al di fuori della Eurozona, il che avvenne quando la Germania aumentò il suo export verso la Cina. Ma, data la nuova politica degli Stati Uniti, questo diventerà sempre più difficile. La linea di fondo è che i paesi altamente indebitati non saranno in grado di pagare i debiti arretrati attraverso l’austerità fiscale, e nemmeno espandendo il loro surplus esterno. – La soluzione consiste in una coordinazione delle politiche fiscali nella UE e nella economia globale, non nel Fiscal Compact. Paesi altamente indebitati possono definire il loro modo per uscire dall’indebitamento, non possono trovare nell’export la via di uscita dal debito attraverso deprezzamenti interni e aumentando l’export. Invece per far questo (uscire dalla trappola del debito, ndt) c’è bisogno di una riforma delle condizioni della politica fiscale nella UE per sostenere e condividere crescita e occupazione."

 

Mia nota finale. È apprezzabilissimo che il nostro governo abbia incaricato un economista con i fiocchi di fare un’analisi scientifica del Fiscal compact e delle distorsioni dell’Euro. Si nota la mano di Savona. È auspicabile che il documento economico presentato dal governo a Bruxelles il 7 settembre scorso venga discusso nell’opinione pubblica italiana e che si faccia pressione sugli altri governi europei affinché lo prendano in considerazione, smorzando anche i toni con cui rampognano il nostro paese.

 

 

Heidelberg, 2 Novembre 2018

 

Beppe Vandai

 

RISORSE – Associazione per capire meglio l’economia – Treviglio 

VOLTA LA CARTA!! e. V. – Heidelberg 

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