10/10/19

IL GRANDE PARADOSSO: il liberismo distrugge l’economia di mercato - Parte Prima

Segnalati da Giuseppe Vandai, che ne ha curato la traduzione, di recente sono apparsi su Makroskop tre articoli di Flassbeck che meritano di essere conosciuti e letti con attenzione. In breve, Flassbeck propone una riflessione, circostanziata e corroborata da dati da lui elaborati, in cui illustra e spiega il cambio di passo tra i "Trenta Gloriosi“ e l’età del neo-liberismo.  Dall'analisi risulta il paradosso che, pur in un contesto neo-liberista, senza l'intervento dello Stato che si indebita e sostiene gli investimenti  ci si caccia nei guai. Ovvero, un’iniezione di keynesismo è necessaria per tenere in vita il paziente malato di neo-liberismo. 

Gli articoli di Flassbeck sono stati sfrondati di alcuni specifici riferimenti alla Germania e divisi in due parti. 

 

 

del Prof. Heiner Flassbeck,  Makroskop, 19 luglio 2019

 

[ Traduzione di Beppe Vandai ]

 

Parte Prima

 

I liberisti festeggiano il capitalismo come una storia di successo. Eppure, proprio il dominio del liberismo ha spinto l’economia di mercato in una grande crisi. Una retrospettiva di 70 anni sull’ economia postbellica.

 

(…) Chiunque si occupi di questioni economiche lo sa bene: il capitalismo è unicamente una storia di successo. Per provarlo basta confrontare le condizioni di vita odierne con quelle di 200 anni fa. Proprio non si può seriamente negare che – nel corso degli ultimi 200 anni – ci siano stati enormi progressi. Nel contempo sappiamo però che questi progressi non si sono affatto avuti in modo uniforme e continuo, bensì con enormi choc e crisi che hanno scosso il sistema peggiorando le condizioni delle masse dei lavoratori.

 

Nei Paesi industrializzati le condizioni di vita per gran parte della gente non sono affatto migliorate in modo continuo. I lavoratori hanno dovuto duramente combattere per poter semplicemente partecipare alla crescita reddituale potenziale che l’economia capitalistica di mercato andava creando. Cento anni fa non era ancora affatto certo che i progressi raggiunti fino ad allora divenissero duraturi.

 

In grande misura la partecipazione delle masse al benessere è riuscita solo negli ultimi 70 anni, cioè dopo la Seconda Guerra Mondiale. E questo vale solamente per i Paesi occidentali industrializzati. Nei Paesi sottosviluppati una partecipazione sistematica delle masse lavoratrici alle performances produttive, fino ad oggi, è ancora l’eccezione (vedi Asia) e non la regola. Pertanto, questo sistema che ci appare così efficace convive con la povertà assoluta di miliardi di persone che vivono alla giornata e si tengono a malapena a galla a meri livelli di sussistenza.

 

30 anni di successo: Bretton Woods e il Keynesismo

 

È evidente che il periodo postbellico, cioè soprattutto i 20 anni dal 1950 al 1970, ha portato a risultati assolutamente straordinari in termini di crescita del reddito, occupazione e partecipazione da parte dei lavoratori dipendenti. In Germania questa fase viene chiamata “miracolo economico” e piace attribuirla alla “buona politica economica made in Germany” (sotto la direzione di Ludwig Erhard).  Tuttavia questo è uno dei tanti miti di cui ci si serve in Germania per glorificare i propri successi. Il periodo del sistema di Bretton Woods fu una fase di grande prosperità in tutti i Paesi industrializzati, alcuni dei quali ebbero successi ancora maggiori della Germania. Ma anche i Paesi sottosviluppati che erano associati al sistema ne trassero profitto sviluppandosi meglio di prima, e meglio del periodo successivo. Questo significa che dovevano esserci dei fondamenti per questa globale storia di successo, che andavano ben oltre la specificità tedesca e le persone che in Germania agivano e governavano.

 

Detto questo, i tassi reali di sviluppo della Germania di quegli anni – vedi Grafico 1 – guardati dal punto di vista di oggi, erano più che impressionanti. Nei primi 10 anni il tasso medio di crescita annua del reddito si attestò, in tutta l’economia, sull’ 8,3 %. E anche dal 1961 al 1970 si raggiunse un 4,5%, sebbene nel 1967 ci fu la prima recessione.

 

Grafico 1 


Germania: crescita reale del PIL in % rispetto all’anno precedente.


Crescita media 1951 – 1960 = 8,3%.   //    Crescita media 1961 – 1970 = 4,5%.


 

 

Questa fase viene spesso vista come il risultato di un irripetibile effetto di riscatto con cui si ricostruirono rapidamente le distruzioni della guerra e in cui si soddisfò il fabbisogno di riscatto della popolazione. Si tratta però di un punto di vista completamente sbagliato. “Riscatto” e “fabbisogno” non sono categorie che di per sé possano in qualche modo influenzare o spiegare concretamente la dinamica economica.

 

(…)

Cercherò di mostrare che il quadro politico-economico dei primi decenni successivi alla Seconda Guerra Mondiale spiega un tale risultato. Le condizioni di fondo, create con il Sistema di Bretton Woods erano soprattutto favorevoli agli investimenti; così si poté effettivamente sprigionare un’attività di mercato, chiaramente sostenuta dagli investimenti imprenditoriali.

 

Il tasso reale di crescita tedesco è poi, a partire dagli anni ’50, continuamente sceso (vedi Grafico 2). Poiché la Germania si trova in una situazione relativamente buona, a causa dei successi di competitività ottenuti con il dumping salariale, dobbiamo dare per scontato che la situazione in Europa sia ben peggiore. Questo non vale invece nella stessa misura per gli USA, come mostreremo più avanti.

 

GRAFICO 2


Germania: tasso di crescita annuo del PIL reale.


 

 

Se consideriamo l’attività di investimento delle imprese, quanto alla Germania, il referto è chiaro: a partire dagli anni ’70 si va giù. A parte una piccola ripresa verso la fine degli ’80 e le conseguenze della riunificazione, che ha fatto balzare ad un nuovo livello gli investimenti imprenditoriali (…) possiamo constatare, nel corso del tempo, solo un indebolimento. E ben si noti, il risultato è questo, sebbene la politica economica abbia fatto di tutto, a partire dalla svolta dell’inizio degli anni ’80, ma proprio di tutto, per stimolare e rendere costanti gli investimenti privati. La parola chiave più importante fu, in ciò, il dimezzamento delle tasse per le imprese.

 

GRAFICO 3


Germania: quota nominale degli investimenti del settore imprenditoriale in %


Investimenti lordi in impianti (nuovi) in rapporto al valore aggiunto lordo


Agricoltura, manifattura, servizi senza il settore edilizio, servizi pubblici esclusi


 

 

Devono dunque esserci state nel Sistema di Bretton Woods delle condizioni che – viste a posteriori – crearono irripetibili chance per gli investimenti privati. Queste condizioni, lo si disconosce completamente quasi sempre, erano di natura macroeconomica. Istituzioni (“l’ordine economico”) e mercati singolarmente efficienti sono una cosa, condizioni favorevoli agli investimenti per le imprese, sono invece un altro paio di maniche.

 

(…)

È pure fuori dubbio che la dinamica della crescita, con il Sistema di Bretton Woods, andò di pari passo con una notevole dinamica nei tassi di crescita dei salari dei lavoratori dipendenti (vedi grafico 4). Dal 1958 (il primo anno per cui abbiamo trovato dati confrontabili) al 1978 risultò un aumento salariale medio annuo del 7,9%. Il che significa che entrambe le parti, nelle trattative contrattuali, era pronte ad andare a tutta birra e che i datori di lavoro accettarono sempre che i lavoratori dipendenti, con tassi di crescita nominale così forti, avessero una buona chance, con i salari reali, di partecipare all’aumento della produttività (cioè di dividersi in modo paritetico la crescita).

 

GRAFICO 4


Germania: Aumenti contrattuali dei salari orari (nominali) del settore manifatturiero.


Medie geometriche:      Media 1958/1978: 7,9%.      Media 1979/1994: 4,4%.     Media 1996/2008: 2,2%.


Media 2009/2018: 2,6%.


 

 

 

La svolta spirituale e morale?

 

[ Flassbeck ironizza così con la parola d’ordine con cui Helmut Kohl giustificò il cambio di governo (da Schmidt a Kohl) del 1982, ndt ]

 

Già a partire dai primi anni ottanta si mise male con gli aumenti salariali e solo l’unificazione tedesca regalò ancora una volta una spinta alle imprese (…). Al più tardi dalla metà degli anni ’90 il vecchio modello tedesco della compartecipazione dei lavoratori dipendenti all’aumento della produttività è morto stecchito. A partire dall’ascesa al potere dei rosso-verdi, nel 1998, [governo Schröder-Fischer, ndt] e dalle successive grandi coalizioni la posizione dei sindacati e dei lavoratori dipendenti è talmente peggiorata che venne raggiunto – tra il 1996 ed il 2008 – il record negativo di aumenti salariali nominali del 2,2% per anno.

 

Anche questo è il portato di un atteggiamento mentale e di modelli economici mainstream il cui denominatore comune era il rifiuto di quello che allora si intendeva con il Keynesismo. Non solo si attribuiva al Keynesismo la responsabilità delle crisi inflattive e occupazionali conseguenti all’esplosione del prezzo del petrolio [degli anni ’70, ndt]. Si credeva anche che solo con un rinnovamento dalle fondamenta dell’economia di mercato – soprattutto con il ristabilimento di rapporti puramente concorrenziali nel mercato del lavoro [affidandosi cioè alle pure leggi delle domanda e dell’offerta, ndt] – si sarebbero potute affrontare le sfide di un’economia mondiale sempre più integrata.

 

La “svolta spirituale e morale“ di H. Kohl, del 1982, intendeva proprio queste cose. Nel contempo Ronald Reagan e Maggie Thatcher si apprestavano a imbastire un sistema che ai loro occhi (e a quelli degli economisti che li ispiravano, come F.A. von Hayek) era una vera economia di mercato. Che con ciò essi abbiano posto fine alla fase di gran lunga di maggior successo del capitalismo è la tragedia e il paradosso di questa storia.

 

L’opinione pubblica delle democrazie occidentali, ovvero la classe politica, i media e pure la maggioranza degli studiosi di scienze sociali tende ad interpretare eventi politici solo dal punto di vista politico. Perciò anche la grande svolta dell’inizio degli anni ’80, allorché R. Reagan, H. Kohl e M. Thatcher giunsero al potere, viene giudicata come un normale evento, attribuibile al fallimento politico della sinistra e con ciò del Keynesismo, in seguito alla crisi petrolifera, una svolta che perciò condusse ad una nuova politica economica.

 

Dal punto di vista strettamente politico questa è un descrizione corretta di quanto accadde. Dal punto di vista intellettuale fu invece semplicemente una involuzione, visto che il fondamento concettuale della svolta si basava sulle idee degli anni ’20 del secolo scorso, idee in fin dei conti confutate e fallite da tempo.

 

Politica dal lato dell’offerta

 

Semplicemente non c’era nulla di nuovo. Si chiamò “politica dell’offerta” la politica, che doveva rimpiazzare il Keynesismo, che sottolineava il ruolo della domanda. Ci si appellò alla Legge di Say, della fine del 18esimo secolo (“L’offerta crea la propria domanda”).

 

(…)

Se in fisica si ritornasse oggi alla meccanica newtoniana e si dichiarasse irrilevante il sapere più volte dimostrato e tutto quanto scoperto dopo, si passerebbe per pazzi. Nell’economia si poteva invece fare una carriera accademica riscoprendo vecchie teorie false e ignorando i progressi del Keynesismo, individuabili indiscutibilmente nella dimensione macroeconomica. Detto altrimenti, si tornava ad espungere il lato della domanda dalla situazione decisionale in cui si trova l’imprenditore che intende investire; questo, proprio dopo che si era scoperto negli anni ’30 che tale aspetto va assolutamente preso in considerazione per poter fare una qualsiasi previsione.

 

Nel merito, ho scritto quasi 20 anni fa in un articolo su tema “Domanda e offerta” quanto segue:

 

“Qui sussiste la differenza decisiva tra politica dell’offerta e politica della domanda. Mentre la prima spera in effetti “strutturali, efficaci nel medio periodo” senza considerare la situazione momentanea nel suo insieme, la politica della domanda punta sul miglioramento delle condizioni generali in cui le imprese agiscono, in un arco di tempo calcolabile. Questo è a tutti gli effetti “di breve periodo”. Nel mondo reale gli imprenditori non dispongono di un altro arco di tempo.

 

Quello che i sostenitori della politica dell’offerta chiamano “di medio periodo” significa solo: se tutto va bene e non ci sono imprevisti, la mia misura migliorerà ancora di un po’ il risultato finale. ‘Se andrà tutto bene’: su questo la politica dell’offerta non può tuttavia dire proprio nulla, essa si affida piuttosto a che tutto vada bene. Gli impulsi dunque giungono da altrove”.

 

Come si poteva sperare di poter fare della politica economica migliore sulla scorta di una teoria di tanto limitata perspicacia, invece che di una teoria che aveva di mira semplicemente un orizzonte più vasto [quello macroeconomico, ndt] e dunque più rilevante?

 

Gli aspetti più eclatanti della povertà intellettuale della svolta spirituale stavano e stanno comunque nella teoria monetaria e in quella del mercato del lavoro. Pur di togliere allo Stato a priori ogni giustificazione per intervenire nel mercato monetario si fece ricorso da un lato all’equazione quantitativa della moneta, vecchia di alcuni secoli, che mai aveva fornito la base per la politica monetaria, dall’altro si ricorse ad un modello del mercato del lavoro che di nuovo ignorava gli effetti sulla domanda, assimilando il mercato del lavoro a qualsiasi altro mercato.

 

I monetaristi attorno a Milton Friedman (in sé, un geniale piazzista) sostennero semplicemente che si potesse trovare una quantità di moneta la cui crescita fosse sempre gestibile dalla Banca centrale e che si potesse mostrare un legame stretto con la dinamica dell’inflazione, visto che la velocità di circolazione del denaro sarebbe ben calcolabile. Per queste tesi mai è stata fornita una giustificazione scientifica. Eppure queste tesi in Germania fornirono per 30 anni la base di una politica, che, con il pretesto di una  rigida lotta all’inflazione, condotta da una Banca centrale indipendente, limitava drasticamente le chance di sviluppo e comportava dunque enormi costi.

 

 

 

Seconda Parte

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