Adam Tooze svolge un'ampia disamina sul mito della indipendenza della banca centrale, emerso negli anni '70 dalla lotta alla Grande Inflazione e basato in realtà su motivazioni politiche più che su valide teorie. Da allora le banche centrali in tutto il mondo, e in particolare la BCE, si sono per forza di cose allontanate dai vincoli del loro mandato senza però modificare il loro assetto istituzionale. Oggi la sentenza di Karlsruhe, rappresentando gli interessi di chi vorrebbe tornare alla ortodossia ordoliberista senza rendersi conto che il mondo è cambiato, porta alla luce la contraddizione. Per Adam Tooze questa è l'occasione perché si affermi in maniera chiara l'ampliamento del mandato della banca centrale, che comprenda la lotta alla disoccupazione e una sua legittimazione democratica.
di Adam Tooze, 12 maggio 2020
tradotto in collaborazione con Enjolras
tradotto in collaborazione con Enjolras
Per decenni, la politica monetaria è stata considerata un fatto
tecnico, non politico. La pandemia ha posto fine per sempre a questa illusione.
In Europa, una sentenza della Corte costituzionale tedesca
secondo cui la Banca centrale europea (BCE) non avrebbe giustificato adeguatamente un programma di acquisto titoli iniziato nel 2015 sta creando
confusione nello scenario politico e finanziario. Alcuni suggeriscono che
potrebbe portare al disfacimento dell'euro. A prima vista può essere difficile
capire il perché. Sì, gli acquisti sono stati enormi: oltre 2 trilioni di euro
di debito pubblico. Ma sono stati fatti anni fa. E gli argomentiti sollevati
dalla corte sono criptici. Quindi come può una cosa del genere assumere tanta
importanza?
Lo scontro giuridico in Europa è significativo non solo
perché la BCE è la seconda banca centrale più importante al mondo e non solo
perché la stabilità finanziaria globale dipende dalla stabilità della zona
euro. Ma porta anche alla superficie quella che dovrebbe essere una questione fondamentale
della amministrazione di governo moderna: qual è il giusto ruolo delle banche
centrali? Qual è la base politica delle loro azioni? Chi, eventualmente,
dovrebbe supervisionare le banche centrali?
Come ha confermato lo shock finanziario COVID-19, le banche
centrali sono le prime responsabili della politica economica. Tengono le redini
dell'economia globale. Ma a differenza dei Ministeri del Tesoro nazionali che
agiscono dall'alto attraverso la tassazione e la spesa pubblica, le banche
centrali sono sul mercato. Mentre il Tesoro ha un bilancio limitato dal voto parlamentare
o congressuale, la potenza di fuoco della banca centrale è essenzialmente
illimitata. Il denaro creato dalle banche centrali appare solo nei loro
bilanci, non nel debito dello stato. Le banche centrali non devono aumentare le
tasse o trovare acquirenti del loro debito. Questo dà loro un potere enorme.
Ma come viene esercitato questo potere e entro quale quadro di regole la politica economica trova la sua legittimazione. Il paradigma della
moderna banca centrale che si sta discutendo nella spartana aula di tribunale della
città tedesca di Karlsruhe è stato impostato mezzo secolo fa, nel mezzo delle turbolenze
dell'inflazione e dell'instabilità politica degli anni '70. Negli ultimi anni è
stato sottoposto a crescenti pressioni. Il ruolo delle banche centrali si è
notevolmente ampliato.
In gran parte del mondo, in particolare negli Stati Uniti,
il dibattito pubblico su questo è stato notevolmente ridotto. Sebbene il contenzioso
in Germania sia per molti versi oscuro, ha il merito di mettere in evidenza
questa fondamentale questione della governance moderna. Di fronte all'arroganza
del tribunale tedesco potrebbe esserci la tentazione di ritirarsi in difesa
dello status quo. Sarebbe un errore. Sebbene sia per molti versi fallace, il
giudizio della corte rivela un reale divario tra la realtà della banca centrale
del 21° secolo e la interpretazione convenzionale della sua mission, ereditata dal 20° secolo. Ciò di cui abbiamo
bisogno è una nuova costituzione monetaria.
L'orgoglioso distintivo indossato dai moderni banchieri
centrali è quello dell'indipendenza. Ma cosa significa? Quando è sorta l'idea, nel 20° secolo, l'indipendenza della banca centrale significava soprattutto liberazione dalle direttive dei politici, ispirate dalle loro preoccupazioni a breve termine.
Al contrario, ai banchieri centrali sarebbe stato consentito di impostare la
politica monetaria nel modo da loro ritenuto più opportuno, di solito al fine
non solo di ridurre l'inflazione, ma di instaurare un permanente clima di
fiducia nella stabilità monetaria, ciò che gli economisti chiamano “ancorare le aspettative sui prezzi”.
L'analogia, ironia della sorte, era con i giudici, i quali,
nell'esercizio del difficile compito di dispensare giustizia, avevano ottenuto
l'indipendenza dal potere esecutivo e legislativo, secondo la classica tripartizione dei poteri. Con il valore del denaro sganciato dall'oro, dopo il
crollo del sistema di Bretton Woods nei primi anni '70, le banche centrali
indipendenti sono diventate le guardiane del bene collettivo della stabilità
dei prezzi.
L'idea di base era che esiste un trade-off tra inflazione e
disoccupazione. Lasciati a se stessi, elettori e politici avrebbero optato per
una bassa disoccupazione al prezzo di una maggiore inflazione. Ma, come
dimostrava l'esperienza degli anni '70, quella scelta era miope. L'inflazione
non sarebbe rimasta stabile. Avrebbe subito una accelerazione progressiva, in
modo che quello che inizialmente poteva sembrare un ragionevole compromesso si
sarebbe presto deteriorato in una pericolosa instabilità e una crescente
dislocazione dell’economia. I mercati finanziari avrebbero reagito scaricando i
titoli. Il valore delle valute sarebbe precipitato, portando a una spirale di
crisi.
Sotto la minaccia incombente di questo scenario disastroso,
è emersa l'idea dell'indipendenza della banca centrale. La banca doveva fungere
da istituzione contro-maggioritaria. Era incaricata di fare tutto il necessario
per raggiungere un solo obiettivo: mantenere bassa l'inflazione. Dare alla
banca centrale una posizione quasi costituzionale avrebbe dissuaso i politici incoscienti
dal tentare politiche espansive. I politici dovevano sapere in anticipo che la
banca centrale sarebbe stata tenuta a rispondere con tassi di interesse
draconiani. Contemporaneamente, oltre ad essere un deterrente per i politici,
questo avrebbe mandato un segnale rassicurante ai mercati finanziari. Ristabilire
la credibilità con quel bacino elettorale sarebbe stato doloroso, ma
il risultato nel tempo sarebbero stati dei tassi di interesse più bassi.
La stabilità dei prezzi si sarebbe quindi raggiunta con un livello di
disoccupazione meno pesante. Non si poteva sfuggire al trade-off, ma si sarebbe
potuto migliorarne i termini, rassicurando gli investitori più potenti che il
loro interesse per la bassa inflazione sarebbe stato prioritario.
Era un modello basato su una serie di ipotesi sull'economia
(il trade-off tra inflazione e disoccupazione), sui mercati finanziari globali
(il loro potere sanzionatorio), sulla politica (l'eccesso di spesa come la
strategia preferita per ottenere il voto) e sulla società in generale (la presenza
di forze sociali significative che fanno pressioni per un'alta occupazione
indipendentemente dall'inflazione). Il modello era basato anche su una visione cinica
della storia moderna ed era più o meno esplicitamente in contrasto con la politica
democratica: in primo luogo nel senso che faceva ipotesi ciniche sulle
motivazioni degli elettori e dei politici, ma anche nel senso più generale che al
posto del dibattito, dell’accordo collettivo e delle scelte, favoriva il
calcolo tecnocratico, l'indipendenza istituzionale e le regole non
discrezionali.
Questa visione conservatrice si legittimava facendo
riferimento a fasi storiche traumatiche. La Bundesbank tedesca fondata dopo la
seconda guerra mondiale sulla scia di due ondate di iperinflazione - durante la
Repubblica di Weimar e come conseguenza della catastrofica sconfitta della
Germania nel 1945 - era la progenitrice di queste idee. La Federal Reserve americana dal canto suo si è convertita all'ortodossia anti-inflazionistica nel 1979, sotto la guida
di Paul Volcker. L'atmosfera era quella
del famoso discorso del presidente Jimmy Carter sul malessere americano
aggravato dall'ansia globale per la debolezza del dollaro, dopo ripetuti
tentativi da parte delle amministrazioni Nixon, Ford e Carter di stabilizzare l'inflazione attraverso la regolamentazione dei prezzi da parte del governo e la
concertazione tra sindacati e imprese. La politica democratica aveva fallito.
Era tempo che i banchieri centrali agissero utilizzando tassi di interesse
altissimi. Che porre fine all'inflazione in questo modo avrebbe significato l’abbandono
di qualsiasi impegno per la piena occupazione, fatto precipitare nella crisi il
cuore industriale americano e indebolito permanentemente il lavoro organizzato,
non era solo responsabilità di Volcker. Non c'era, secondo la famosa espressione
di allora, nessuna alternativa.
Negli anni '90, la banca centrale indipendente che
combatteva l'inflazione era diventata un modello globale lanciato nell'Est
Europa post-comunista e in quelli che ora venivano chiamati i "mercati
emergenti". Insieme alle corti
costituzionali indipendenti e all'adesione globale ai diritti umani, le banche
centrali indipendenti facevano parte dell'armatura che limitava la sovranità
popolare nella "terza ondata di democrazia" di Samuel Huntington. Se
la libertà di movimento dei capitali era la cintura, l'indipendenza della banca
centrale era la fibbia del Washington Consensus sul libero mercato degli anni
'90.
Per la comunità dei banchieri centrali indipendenti, quelli
erano tempi d'oro. Ma, come per molti altri aspetti, quell'età dell'oro è ormai
lontana. Negli ultimi decenni le banche centrali sono diventate più potenti
che mai. Ma con l'espansione del loro ruolo (e dei loro bilanci) è andata
perduta la chiarezza di intenti. Il gigantesco aumento di potere e responsabilità
ottenuto dalla Fed e delle sue controparti in tutto il mondo in reazione al COVID-19 non fa che confermare questa evoluzione. Raramente c’è stato un mandato
formale, ma si è chiaramente verificata un'enorme espansione del loro mandato.
Nel caso americano, dove l'estensione è stata più evidente, ha comportato una
trasformazione nascosta dello stato, proprio della Costituzione degli Stati
Uniti, che ha avuto luogo in un modo ad hoc sotto la pressione della crisi, con ben
poche opportunità per un dibattito e un’argomentazione seria.
Gli economisti conservatori guardano con orrore a come il
paradigma degli anni '90 è andato in pezzi. Una banca centrale che interviene
così profondamente come fanno ora le moderne banche centrali, non distorce i prezzi e gli incentivi? Non
persegue la ridistribuzione sociale facendola entrare dalla finestra?
Non minerà la disciplina competitiva dei mercati del credito? Una banca
centrale il cui bilancio è carico di acquisti di emergency bond non cadrà nel circolo vizioso di dipendenza dei debitori stressati di cui acquista i debiti?
Queste preoccupazioni sono alla base del dramma della corte
costituzionale tedesca. Ma per sapere come rispondere, dobbiamo iniziare
facendo ciò che né il tribunale tedesco né i difensori della BCE hanno fatto
finora, vale a dire spiegare come il diffuso modello dell'indipendenza della
banca centrale è andato in pezzi dagli anni '90.
Le ipotesi sulla politica e sull'economia alla base del
modello della banca centrale indipendente negli anni '80 e '90 non sono mai
state altro che un'interpretazione parziale della realtà dell'economia politica
della fine del XX secolo. In verità, la visione allarmistica da loro evocata
non era tanto una descrizione della realtà, quanto un mezzo per far avanzare la
spinta verso la disciplina del mercato, lontano dai politici eletti e dal
lavoro organizzato. Nel terzo decennio del 21° secolo, tuttavia, i presupposti
politici ed economici sottostanti sono diventati del tutto obsoleti, tanto per
il successo della visione del mercato quanto per i suoi fallimenti.
Innanzitutto, la lotta contro l'inflazione è stata vinta. In
effetti, è stata vinta in modo così decisivo che gli economisti ora si chiedono
se l'idea di base di un trade-off tra l'inflazione e la disoccupazione sia ancora
valida. Per 30 anni, le economie avanzate hanno vissuto in un regime di bassa
inflazione. Le banche centrali che una volta erano preparate alla lotta contro
l'inflazione, ora lottano per evitare la deflazione. Per convenzione, il
livello minimo sicuro di inflazione è del 2 percento. La Banca del Giappone, la
Fed e la BCE hanno sistematicamente fallito nel mantenere l'inflazione in linea
con l'obiettivo. Sono stati gli sforzi disperati della BCE volti a garantire che
l'eurozona nel 2015 non scivolasse nella deflazione che la scorsa settimana hanno portato al dramma
nell'aula di tribunale tedesca. I giganteschi acquisti di
obbligazioni della BCE sono stati progettati per inondare di liquidità il
sistema creditizio, nella speranza di stimolare la domanda.
Molto prima che gli avvocati iniziassero a discutere, la
professione economica si stava già ponendo dei dubbi su questa situazione. I
fattori chiave più ovvi della cosiddetta bassa inflazione sono gli spettacolari
incrementi di efficienza ottenuti attraverso la globalizzazione, il vasto
bacino di nuovi lavoratori che sono stati agganciati all'economia mondiale
attraverso l'integrazione della Cina e di altre economie di esportazione
asiatiche e il drammatico indebolimento dei sindacati, a cui hanno contribuito
fortemente le campagne anti-inflazione, la deindustrializzazione e l'elevata
disoccupazione degli anni '70 e '80. La
distruzione del lavoro organizzato ha minato la capacità dei lavoratori di
chiedere aumenti salariali. Questa mancanza di pressione inflazionistica ha
reso le banche centrali moderne incapaci di incidere, anche in presenza della
più gigantesca espansione monetaria. Per quanto aumenti lo stock di denaro, non
sembra mai manifestarsi in aumenti dei prezzi.
Né è solo l'economia che è in tilt. Mentre il modello
classico presupponeva che i politici fossero fiscalmente irresponsabili e
quindi avessero bisogno di banche centrali indipendenti per allinearsi, si
scopre che una massa critica di funzionari eletti ha creduto ciecamente nel modello
degli anni '90. Negli ultimi decenni non abbiamo assistito a un inarrestabile
aumento del debito, ma a ripetuti sforzi per tenere in equilibrio i conti, in
particolare nella zona euro sotto la guida tedesca. Contrariamente alla sua
reputazione, l'Italia è stata una seguace devota dell'austerità, in prima linea
nella disciplina fiscale. Ma anche gli Stati Uniti, almeno sotto le
amministrazioni democratiche. I politici hanno fatto campagna per il
consolidamento fiscale e la riduzione del debito anziché per le promesse di
investimenti e occupazione. Nella lenta agonia della ripresa dalla crisi del
2008, il problema per i banchieri centrali non era la spesa eccessiva, ma
l'incapacità dei governi di fornire uno stimolo fiscale adeguato.
Piuttosto che sindacati ostili e politici incapaci, ciò che
ha preoccupato i banchieri centrali è stata l'instabilità finanziaria. I
mercati finanziari, che si presumeva fossero fonte di disciplina, hanno dimostrato la loro irresponsabilità
("esuberanza irrazionale"), la loro tendenza al panico e la loro
inclinazione a una profonda instabilità. Sono inclini a bolle, fasi alterne di
espansione e contrazione. Ma piuttosto che cercare di domare quei cicli, le
banche centrali, con la Fed in testa, si sono impegnate a fungere da totale backstop
del sistema finanziario - prima nel 1987
dopo il crollo del mercato azionario globale, poi dopo il crash della new
economy degli anni '90, ancora più drammaticamente nel 2008, e ora su una scala
davvero senza precedenti in risposta al COVID-19. L'offerta di liquidità è lo
slogan in base al quale le banche centrali ora sostengono l'intero sistema
finanziario su base quasi permanente.
Con orrore dei conservatori di tutto il mondo, l'arena in
cui le banche centrali ora perseguono questo esercizio di equilibrismo è il
mercato del debito pubblico. Le obbligazioni pubbliche non sono solo obbligazioni
dei contribuenti. Per i creditori del governo, sono i sicuri asset su cui sono
costruite le piramidi del credito privato. Questa qualità di Giano bifronte del
debito crea una tensione fondamentale. Mentre gli economisti conservatori lanciano
l’anatema sulle banche centrali che comprano il debito del governo con emissione
di moneta considerandola una scivolosa deriva verso l'iperinflazione, la realtà della moderna
finanza basata sul mercato è che si basa proprio su questa transazione: lo
scambio di obbligazioni con denaro contante, se necessario mediato dalla banca
centrale.
Uno degli effetti collaterali del massiccio intervento della
banca centrale nei mercati obbligazionari è che i tassi di interesse sono molto
bassi, in molti casi vicini allo zero e talvolta persino negativi. Quando le
banche centrali comprano gli asset dai privati, aumentano i prezzi e riducono i
rendimenti. Di conseguenza, lungi dall'essere il temibile mostro che era una
volta, il mercato obbligazionario è diventato un cagnolino. In Giappone, una
volta uno dei motori della speculazione finanziaria, il controllo della Banca
del Giappone è ormai così assoluto che la negoziazione di obbligazioni avviene
solo sporadicamente, a prezzi effettivamente stabiliti dalla banca centrale.
Piuttosto che temere i bond vigilantes, il mantra tra i traders di obbligazioni
è "Non combattere la Fed".
L'intervento della banca centrale aiuta a controllare i rischi
del sistema finanziario, ma non ne ostacola la crescita, né crea condizioni di
parità. Mentre i gestori di fondi di grande peso e i loro clienti vanno a
caccia dei migliori rendimenti nei mercati azionari e di canali di investimento
esotici ed esclusivi come il private equity e gli hedge funds, assumendo così rischi
più elevati, gli investitori più cauti si trovano dalla parte dei perdenti. I
bassi tassi di interesse danneggiano i risparmiatori, i fondi pensione e i
fondi assicurativi sulla vita che devono offrire rendimenti sicuri a lungo
termine sui loro portafogli. Ed è stato proprio questo gruppo di interesse il
pilastro del contenzioso di fronte alla corte costituzionale tedesca.
I querelanti e i loro avvocati incolpano la banca centrale di
aver abbassato i tassi di interesse, avvantaggiando i debitori incapaci a spese
dei risparmiatori parsimoniosi. Ciò che essi ignorano sono le pressioni economiche
più profonde a cui la stessa banca centrale sta rispondendo. Se c'è un eccesso
di risparmio, se i tassi di investimento sono bassi, se i governi, in
particolare il governo tedesco, non stanno assumendo nuovi prestiti ma
rimborsando il debito, l’effetto è di deprimere i tassi di interesse.
Il risultato di questa combinazione di forze economiche,
politiche e finanziarie è un panorama economico che, per gli standard della
fine del 20° secolo, può solo sembrare capovolto. I bilanci delle banche
centrali sono gonfiati in modo grottesco, ma i prezzi (ad eccezione delle
attività finanziarie) scivolano verso la deflazione. Prima del lockdown del
COVID-19, la bassa disoccupazione non si traduceva più in aumenti salariali.
Con tassi di interesse a lungo termine vicini allo zero, i politici si rifiutavano
comunque di prendere in prestito denaro per investimenti pubblici. La risposta
dei banchieri centrali, nel disperato tentativo di impedire uno scivolamento
nella deflazione autoindotta, è stata quella di aggiungere stimoli su stimoli.
Negli Stati Uniti, almeno per questo aspetto, l'elezione di
Donald Trump a Presidente ha contribuito a ripristinare un certo grado di
normalità, anche se in un modo un po’ perverso. Spinto dai repubblicani al
Congresso, la sua amministrazione non ha mostrato alcuna inibizione verso
enormi deficit per finanziare tagli di imposte regressivi. A parte la retorica
anti-immigrazione, la carta vincente di Trump nel 2020 sarebbe stata un'economia
in forte crescita. Nel 2019, la Fed sembrava essere diretta nel territorio
familiare delle politiche compensative, aumentando i tassi di interesse per
evitare il surriscaldamento dell’economia. Il presidente Jerome Powell non ha certamente
apprezzato il bullismo del presidente contro i rialzi dei tassi, ma almeno la
Fed non era persa in quella casa di matti di bassa crescita, bassa
inflazione, bassi tassi di interesse e bassa spesa pubblica con cui la Banca
del Giappone e la BCE dovevano fare i conti.
Dagli anni '90, la Banca del Giappone ha intrapreso un
esperimento di politica monetaria dopo l'altro. E guidata attraverso la
profonda crisi della zona euro dalla leadership di Mario Draghi, anche la BCE
ha intrapreso i propri esperimenti. Questi sforzi si sono dimostrati efficaci
nel fornire in una certa misura la stabilità finanziaria. Hanno trasformato i banchieri
centrali in eroi. Ma hanno anche sostanzialmente modificato il significato di
indipendenza. Nel paradigma emerso dalle crisi degli anni '70, l'indipendenza
significava moderazione e rispetto dei limiti dell'autorità delegata. Nella
nuova era, ha avuto più a che fare con l'indipendenza di azione e di iniziativa. Il
più delle volte è stata la banca centrale da sola a salvare la situazione.
Mentre nella maggior parte del mondo questo è stato
accettato con uno spirito pragmatico - era rassicurante pensare che qualcuno,
almeno, era al comando - nella zona euro non è mai stato così facile. Il governo del cancelliere Helmut Kohl aveva venduto l'abbandono del marco agli
elettori tedeschi con la promessa che la BCE sarebbe stata come la
Bundesbank. Le era vietato finanziare direttamente i deficit
e, nella speranza di limitare un'indebita influenza nazionale, aveva una responsabilità politica limitata. Il suo mandato era semplicemente quello di
garantire la stabilità dei prezzi.
Questa è sempre stata una scommessa, che è dipesa dalla
volontà degli italiani e dei francesi, dato che pure loro hanno voce in
capitolo nell’euro-sistema, a dire il vero. Le loro élite finanziarie hanno
spinto per una moneta comune in parte perché cercavano un modo di limitare la
loro stessa classe politica indisciplinata, e in parte perché scommettevano che
come membri dell’eurozona avrebbero avuto una maggiore possibilità di piegare
le politiche monetarie europee nella direzione da loro voluta, se le loro banche
centrali nazionali fossero state costrette dalla pressione dei mercati a
seguire la Bundesbank. Nei primi anni dell’euro, il compromesso ha funzionato
con soddisfazione di tutti. Ma è sempre stato fragile. Dopo che la crisi
finanziaria del 2008 ha costretto la BCE a un drastico incremento della sua
attività, comprando titoli pubblici e privati, intervenendo per limitare i
tassi di interesse pagati dai membri più deboli dell’eurozona, spingendo le
banche a prestare attraverso complesse manipolazioni dei tassi di interesse, il
conflitto era prevedibile. Questa tensione è esplosa la scorsa settimana nella
Corte Costituzionale tedesca.
Secondo la maggior parte delle opinioni in materia
finanziaria, il crescente “attivismo” della BCE è ampiamente benvenuto. È
quella parte della complessa costituzione europea che funziona come una vera
autorità e agisce come un’istituzione federale. Nonostante un sostegno
riluttante da parte dell’opinione pubblica tedesca, la cancelliera Angela
Merkel impostava la sua politica europea sul tacito consenso alla
BCE per fare tutto ciò che fosse necessario. Consentire alla BCE
di gestire gli spread (i differenziali dei tassi di
interesse pagati dai paesi più deboli rispetto alla Germania) era più
facile che risolvere la questione di fondo su come rendere gestibile il debito
italiano. Ma un’opinione pubblica recalcitrante in Germania
non si è mai riconciliata con questa realtà. Per loro la BCE è il capro espiatorio
delle loro lamentele su come è cambiata la politica economica nell’ultimo decennio.
La incolpano di frodare i risparmiatori con la sua politica dei bassi tassi di
interesse. La incolpano di incoraggiare l’indebitamento dei vicini dell’Europa
del sud. Gli esponenti della vecchia religione economica tedesca del libero
mercato vedono il credito facile come sovversivo della disciplina dei mercati. In definitiva,
sospettano che la BCE sia surrettiziamente impegnata in una politica redistributiva di
tipo keynesiano, ovvero di fare ciò che il modello nazionale tedesco di economia
sociale di mercato avrebbe dovuto escludere totalmente. Per
questi tedeschi la
BCE è un’agenzia opaca e tecnocratica che si arroga poteri che dovrebbero
appartenere ai parlamenti nazionali, aprendo la strada alla pericolosa china del superstato europeo. E per loro non è certo casuale il fatto
che questa creazione sia opera di un machiavellico italiano con connessioni d’affari
transatlantiche, Mario Draghi.
Per la parte di opinione pubblica che è sempre stata
sospettosa verso l’euro, l’impegno di Draghi a fare “whatever it takes” del 2012 è stato il colpo finale. Alternativa
per la Germania (AfD) è nata nel 2013. In origine non era un partito
anti-immigrazione, ma un’alternativa della destra economica alla connivenza di
Berlino con le bizzarrie della BCE. Nel momento in cui AfD ha consolidato la
propria posizione come partito anti-establishment che rappresentava la protesta
della destra soprattutto nella Germania dell’est, il suo programma è cambiato.
Ma Bernd Lucke, uno dei fondatori di AfD che poi ha lasciato il partito, è
stato tra i promotori della causa sulla quale la Corte Costituzionale tedesca
si è espressa la scorsa settimana.
Nel frattempo in Germania l’influente testata giornalistica Bild ha portato avanti una feroce campagna
contro Draghi, rappresentandolo, lo scorso settembre, come un vampiro che
succhia il sangue dei risparmiatori tedeschi. E perfino la leadership della
Bundesbank, sia quella attuale sia le sue figure emerite, non ha mai mancato di
associarsi all’opposizione pubblica contro le politiche espansive della BCE.
Difendere la forza dell’euro contro la gestione spendacciona e inflattiva
dell’Europa del sud funzionava bene con l’ambiente patriottico nazionale. Ma
finché la Merkel preferiva cooperare con la leadership della BCE, questa
opposizione rimaneva marginale. Ciò che ha fatto saltare gli ingranaggi sono
stati i pesi e contrappesi della
Costituzione tedesca, garantiti dalla Corte Costituzionale.
La Corte Costituzionale tedesca, nella sonnacchiosa città di
Karlsruhe, ha una concezione molto “attivista” del proprio ruolo nella politica
tedesca, presentandosi come “la corte dei cittadini”, e non ha paura di
ribaltare programmi politici nazionali su questioni che vanno dall’assistenza all’infanzia
alle prestazioni sociali, fino agli sviluppi futuri del progetto europeo. Fin
dagli anni ’90 la Corte Costituzionale ha esercitato un vigile controllo
sull’espansione continua dei poteri europei. Pone la questione della difesa della
sovranità nazionale, insistendo sul proprio diritto di sorvegliare continuamente
le istituzioni europee sulla loro conformità alle regole fondamentali della
Costituzione tedesca.
Qualsiasi ulteriore espansione dell’attivismo della BCE
stimola dunque un rinnovato attivismo legale della Corte. Le Outright Monetary
Transactions, strumento di Draghi annunciato nel 2012 consistente in un
programma potenzialmente illimitato di acquisto titoli dei paesi dell’eurozona
in crisi di debito pubblico, sono state contestate da una coalizione di
ricorrenti sia della destra che della sinistra tedesca. Solo nell’estate del
2015 la Corte è arrivata finalmente, a malincuore, a giudicarle accettabili.
Quando infine Draghi ha lanciato un ampio programma di
acquisto di titoli nel 2015, dello stesso tipo di quelli già avviati dalla Fed
e dalla Banca del Giappone anni prima, è immediatamente scattata una nuova contestazione.
Nel 2017 la Corte ha dato un giudizio preliminare, ma ha rinviato il caso alla
Corte Europea di Giustizia. Nel dicembre 2018 la Corte Europea di Giustizia ha
dichiarato il programma di Draghi conforme ai trattati europei. Ma i giudici della
Corte Costituzionale tedesca non erano soddisfatti delle motivazioni presentate
e hanno chiesto delle audizioni nel 2019. Dopo mesi di deliberazioni, Karlsruhe
avrebbe dovuto emettere il proprio giudizio il 24 marzo, ma è stato posticipato
di una settimana a causa della pandemia da coronavirus.
Questo si è rivelato provvidenziale, perché i mercati
finanziari a marzo erano in crisi. Tra il 12 e il 18 marzo la BCE non era riuscita
a calmare le acque, e i tassi di interesse pagati dall’Italia sul
debito pubblico stavano crescendo. Grazie all’intervento
massiccio della BCE, sono poi tornati a diminuire. Christine Lagarde, capo
della Bce, ha promesso di proseguire con ulteriori acquisti fino a oltre 700
miliardi di euro, o finché necessario. Per calmare i mercati erano necessarie
discrezione e liberalità, precisamente ciò che i critici tedeschi della BCE
temevano di più e avevano criticato incessantemente del programma di acquisto di
titoli del 2015.
Tutto questo ha reso ancora più significativo il giudizio di
Karlsruhe sul programma di acquisto titoli del 2015. Cosa potrebbe segnalare
questa sentenza sul quantitative easing (QE) di Draghi per le future possibili
azioni della Lagarde contro la crisi? Come potrebbe la Corte influenzare il
corso del dibattito in Germania? Le iniziali audizioni del 2019 non erano
sembrate favorevoli alla BCE. La selezione di testimonianze degli esperti
sentiti dalla Corte era tedenziosa e conservatrice. La Corte ha dato pieno
sfogo alle proteste delle piccole banche tedesche contro i bassi tassi di
interesse che la politica della BCE consentiva loro di offrire ai
risparmiatori. È stato come se la Corte avesse convocato le compagnie
petrolifere, e solo loro, per fornire pareri sulla questione delle tasse sugli
idrocarburi.
Come previsto, la sentenza è stata uno shock. La questione
che alla fine si è dimostrata decisiva è apparentemente un aspetto concettuale
che riguarda la distinzione tra la politica monetaria e la politica fiscale.
La Corte Costituzionale tedesca ha dichiarato che la BCE, nel perseguire il suo
sforzo di spingere l’inflazione verso il 2 percento, ha oltrepassato i limiti delle
sue competenze - la politica monetaria -
e si è avventurata nell’area della politica fiscale, che secondo i trattati
europei deve rimanere di competenza dei governi nazionali.
Questa distinzione non è affatto ovvia. Era stata stabilita
originariamente nei trattati sia per tutelare le prerogative nazionali che per
assicurare che l’attenzione della BCE alla stabilità dei prezzi fosse al riparo
da qualsiasi intromissione di partiti che avrebbero cercato di dare priorità ad
altri aspetti come l’occupazione e la crescita. Questa distinzione è uno dei
dogmi centrali della scuola economica tedesca nota come ordoliberalismo. Ma una
volta che la politica monetaria viene effettuata su ampia scala, questa
distinzione diventa di fatto priva di significato.
La Corte Europea di Giustizia in Lussemburgo ha
ragionevolemente adottato il parere che la BCE abbia rispettato il suo mandato,
giustificando le sue politiche rispetto all’obiettivo dei prezzi e perseguendo
un mix di politiche che è tipico delle banche centrali moderne. È proprio a
questo approccio informale adottato dalla Corte Europea di Giustizia che
Karlsruhe obietta. La Corte Europea di Giustizia ha cassato il caso senza
valutare la proporzionalità del compromesso sottostante, ha tuonato la Corte Costituzionale
tedesca. Così facendo ha mancato ai suoi doveri e ha agito ultra vires, cioè
oltre la propria autorità. Toccava dunque alla Corte tedesca giudicare sulla questione,
ed essa ha debitamente stabilito che la BCE non ha risposto in modo
soddisfacente alle questioni economiche sollevate dai testimoni della corte. La
stessa BCE sarebbe perciò andata oltre il proprio mandato, secondo la Corte tedesca.
Dato che la Corte tedesca non ha effettiva giurisdizione
sulla BCE, la sentenza è stata emessa contro il governo tedesco, che avrebbe
mancato al suo dovere di proteggere i ricorrenti dagli eccessi delle politiche
della BCE. Come sottolineato da Karlsruhe, la sua sentenza non avrà effetto
immediato. La BCE ha tempo tre mesi per fornire convincente prova di avere
complessivamente compensato gli impatti economici delle proprie politiche
limitandone gli effetti collaterali. In mancanza, alla Bundesbank viene fatta
richiesta di cessare ogni cooperazione all’acquisto titoli sotto il programma
lanciato nel 2015.
La sentenza è stata emessa in un’aula di giustizia in cui
venivano fatte rigorosamente osservare le misure di distanziamento sociale,
sebbene i giudici non indossassero le mascherine. Il Presidente
Andreas Voßkuhle, il cui mandato di 12 anni presso la Corte
termina questo mese, ha fatto notare che la sentenza potrebbe essere
interpretata come una sfida alla solidarietà necessaria per superare
la crisi da COVID-19. Ha perciò aggiunto, come
rassicurazione, che la sentenza si applica solo al programma lanciato nel 2015.
Non c’è necessità, pertanto, di alcun immediato cambiamento di politica
monetaria. I mercati finora hanno reagito senza scosse alla sentenza. Ma la
decisione di Karlsruhe è, nondimeno, uno shock.
Si tratta di una sfida spettacolare alla gerarchia della Corte
di giustizia europea. Anziché limitarsi a valutare la conformità delle
politiche della BCE con la Costituzione tedesca, la Corte si è arrogata il
diritto di valutare la conformità delle azioni della BCE al diritto dei
trattati europei, un’area esplicitamente lasciata alla Corte di Giustizia Europea.
Questo farà certamente il gioco di quelli che in Polonia e in Ungheria sono
determinati a sfidare le norme dell’Unione Europea. Non ci è voluto molto
perché il vice-ministro alla giustizia polacco manifestasse il suo entusiastico
sostegno alla decisione di Karlsruhe. Questo potrebbe, alla fine, rivelarsi
l’effetto più importante e duraturo.
Ma la sentenza è spettacolare anche per un altro motivo.
Chiedendo alla BCE di giustificare la sua politica di QE, la Corte tedesca ha
messo in dubbio non solo una specifica politica, ma l’intera logica
dell’indipendenza della banca centrale. Cosa più importante, lo ha fatto non
solo formalmente, ma anche sostanzialmente. Ha rivelato le basi politiche e
materiali che sottostanno alla regola dell’indipendenza.
L’affermazione secondo cui la BCE avrebbe oltrepassato il
limite tra politica monetaria e fiscale è, come proposizione astratta, una
tautologia più che uno scandalo. Solo nelle fantasie ordoliberali uno può
immaginarsi una politica monetaria che funzioni puramente per conto proprio
senza avere un impatto sull’economia reale. Di fatto, incidere sull’attività
economica abbassando il costo dell’indebitamento è precisamente l’obiettivo
della politica monetaria. Lungi dal trascurare l’impatto economico delle proprie
politiche monetarie, questo è precisamente ciò che la BCE fa per tutto il
tempo.
Nondimeno, agganciandosi a questa apparentemente assurda
distinzione, la Corte ha di fatto segnato un cambiamento storico significativo.
Il cambiamento non è quello dalla politica monetaria a quella fiscale, ma da
una banca centrale il cui lavoro è quello di frenare l’inflazione a una il cui
lavoro è prevenire la deflazione - da
una banca centrale con un obiettivo politico ristretto a una che agisce da
acquirente di ultima istanza per sostenere l’intero sistema finanziario in caso
di crisi. La Corte tedesca ha ragione a denunciare il gioco di prestigio con
cui la BCE giustifica un insieme di politiche completamente nuovo facendo
riferimento allo stesso vecchio mandato della garanzia sulla stabilità dei
prezzi. Ma ciò che la Corte tedesca trascura è che non è una questione di
scelte da parte della BCE, ma una necessità di fronte a circostanze storiche.
Facendosi strada nel legalese e negli argomenti astrusi, le
rimostranze portate davanti alla Corte dai
ricorrenti sono che il mondo è cambiato. La BCE avrebbe dovuto essere
loro alleata nel sostenere un ordine nel quale gli eccessi di spesa pubblica
venivano frenati, le rivendicazioni salariali e l’inflazione venivano disciplinate,
e i parsimoniosi risparmiatori venivano ricompensati con solidi profitti. La
realtà alla quale si sono trovati di fronte negli ultimi 10 anni è ben diversa.
Sospettano un imbroglio e danno la colpa alle bizzarre nuove politiche della
BCE e della sua leadership italiana. Anziché prendere distanza, riconoscendo il
significato storico della crisi e chiedendo una rivalutazione generale del
ruolo delle banche centrali in relazione a una situazione economica
radicalmente diversa, la Corte Costituzionale tedesca si è fatta portavoce dei
reclami dei ricorrenti, li ha ricollegati all’espressione di diritti
democratici fondamentali, e ha lanciato la sfida alle fondamenta dell’ordine
giuridico europeo.
La sua disponibilità ad assumersi questo ruolo riflette, senza
dubbio, il risentimento di fronte all’usurpazione della propria supremazia a
opera della Corte Europea di Giustizia. La decisione riflette, in questo senso,
la preoccupazione di dover difendere la sovranità nazionale tedesca. Ma
riflette anche lo shock cognitivo di non riuscire a capacitarsi del nuovo ruolo
delle banche centrali in un modo radicalmente cambiato. Ciò che viene messo in
luce da tutto questo sono i limiti delle attuali modalità di legittimazione
della banca centrale, tra cui la narrazione della banca centrale
indipendente, nel preciso momento in cui siamo diventati più
dipendenti che mai dalle azioni decisive delle banche centrali.
Per comprendere l’effetto decisivo di questa sentenza,
immaginatevi un altro corso della storia. Immaginate una corte di giustizia
come quella di Karlsruhe che viene adita alla metà degli anni ’80 negli Stati
Uniti per valutare se la Fed di Volcker abbia adeguatamente soppesato l’impatto
economico dei suoi selvaggi aumenti dei tassi di interesse sui lavoratori delle
acciaierie della Rust Belt. Oppure, cosa solo lievemente più plausibile,
immaginate un’udienza alla Corte Costituzionale spagnola o italiana sulla
questione se i loro governi siano stati o meno negligenti nel non pretendere
spiegazioni dalla BCE per le decisioni del 2008 o del 2011 di aumentare i tassi
di interesse nel momento in cui l’economia europea stava scivolando nella prima
e poi nella seconda recessione. Le preoccupazioni tedesche sull’inflazione in
quei momenti critici avevano avuto più peso dei danni alle opportunità di
occupazione di milioni di cittadini in tutta l’eurozona? Karlsruhe avrebbe dato
ascolto al caso portato avanti da uno sfortunato cittadino tedesco che avesse
perso il lavoro a causa delle disastrose mosse di politica monetaria?
Certo, le decisioni della BCE furono criticate al tempo. Ma quelle
critiche non furono considerate degne di considerazioni di rango costituzionale.
Si trattava solo di politica, ed è compito della banca centrale, nonché misura
della sua indipendenza, trascurare e ignorare tali obiezioni.
L’impatto politico della sentenza della Corte è stato
rivelatore. Da parte tedesca, il consiglio direttivo dell’Unione
Cristiano Democratica di Angela Merkel ha immediatamente espresso il suo sostegno
alla decisione della Corte. Così pure ha fatto il portavoce di AfD, Friedrich
Merz, possibile successore di destra della Merkel, che ci fa sapere che
considera ora il governo tenuto a esercitare verifiche preventive su qualsiasi
futura espansione del raggio di azione della BCE.
La reazione della Commissione Europea e della BCE non è
stata meno immediata. Hanno chiuso i ranghi attorno alla Corte Europea di Giustizia.
Il chiaro messaggio che hanno mandato è che loro sono legati alle leggi e alle
istituzioni europee. Dopo qualche giorno dalla deliberazione, la BCE ha dichiarato,
con la massima noncuranza, che ha preso nota della sentenza di Karlsruhe ma
intende ignorarla, dato che essa risponde al Parlamento Europeo e alla Corte
Europea, e non alla Corte Costituzionale tedesca. La Corte Europea di Giustizia
ha già sentenziato nel dicembre 2018 sul programma di acquisto titoli, sotto
richiesta della Corte tedesca. Non c’è appello. Il caso è
chiuso.
Questo lascia il governo tedesco e la Bundesbank in una
strettoia. Il governo Tedesco, da parte sua, spesso riesce ad andare avanti per
anni senza attuare pienamente le più ambiziose sentenze della Corte tedesca. Il
ministro delle finanze social-democratico a Berlino, che coltiva la propria
immagine di sostenitore delle politiche pro-europee, ha minimizzato. Il punto
nevralgico sarà la Bundesbank, che è sia un’agenzia tedesca, che deve
rispondere alla Corte Costituzionale tedesca, ma anche un membro
dell’euro-sistema, e in quanto tale vincolata per statuto alla BCE.
finanziare la risposta alla crisi da emergenza COVID-19. I risentimenti
in Italia e Spagna verso la Germania sono già su toni piuttosto alti. Si
potrebbe prendere la richiesta della Corte tedesca
di limitare l’espansione della BCE come una richiesta di,
invece, espandere il raggio d’azione delle politiche fiscali europee. La BCE stessa
ha già sostenuto precisamente questo argomento. Ma purtroppo le stesse forze
politiche che in Germania hanno portato il caso davanti alla Corte Costituzionale
si oppongono anche a un cambiamento verso il federalismo fiscale.
Dato il conservatorismo economico e la “hybris” della Corte
tedesca, nonché la prospettiva di una sequela di sfide in tutta la UE da parte di
forze sempre meno amichevoli, una posizione forte dal lato europeo sarebbe
auspicabile. Ma sarebbe deprecabile se la BCE rispondesse al donchisciottesco
assalto tedesco contro la realtà delle banche centrali del 21esimo secolo
ritirandosi in un bunker difensivo.
Se non fosse già evidente, lo shock da COVID-19 ha reso
chiaro oltre ogni ragionevole dubbio che le circostanze politiche ed economiche
dalle quali è emerso originariamente il modello di banca
centrale indipendente sono cambiate, non solo in Germania o
in Europa, ma in tutto il mondo. Questo rende il classico paradigma dell’indipendenza
legata alla lotta all’inflazione obsoleto, e getta dubbi sui modelli di delega
ristretta. Per affrontare le nuove circostanze nelle quali i problem reali sono
la minaccia della deflazione, la stabilità del sistema finanziario e la passività
della politica fiscale, la BCE, come tutte le sue controparti, ha perseguito
una politica che va ben al di là della stabilità dei prezzi convenzionalmente
intesa. Di fatto, in Europa la BCE è l’unico agente impegnato in una politica
economica degna di questo nome. Date le limitazioni del suo mandato, questo
implica necessariamente un certo grado di opacità. Nonostante il suo tentativo
di agire nell’ombra, la sentenza di Karlsruhe si è rivelata utile per portare
alla luce il gioco della BCE.
Rispondere trincerandosi dietro la difesa dell’indipendenza
della banca centrale potrà essere inevitabile nel breve termine. Ma le cose seguiranno
il loro corso. La risposta più costruttiva sarebbe quella di spingere per un
più ampio mandato che garantisca che la banca centrale bilanci effettivamente
la stabilità dei prezzi con altre necessità. Il secondo degli obiettivi della
banca sarebbe certamente l’occupazione, e non gli interessi dei risparmiatori
tedeschi. Ma un dibattito aperto sull’ampiezza del mandato della BCE rappresenterebbe
un passo in avanti per la politica europea. La politica di aggiustamento e
correzione dei trattati non è facile, certo. Richiede coraggio politico. Ma la
richiesta stessa non andrebbe presentata e cassata come una stravaganza.
Dopotutto la Fed ha un duplice mandato. Di fianco alla stabilità dei prezzi c’è
l’Humphrey-Hawkins Act, che pone l’obiettivo di raggiungere il massimo tasso di
occupazione possibile. Come dimostra la storia della Fed, questo è lungi dall’essere
un obiettivo vincolante. Ma dal 2008 questo obiettivo ha fornito alla Fed
l’ampiezza di mezzi necessaria a espandere il proprio raggio d’azione.
L’espansione delle attività è stata in gran parte rimessa
alla discrezionalità dei tecnici. Spingere per una discussione sull’ampliamento
del mandato della BCE dovrebbe invece essere l’opposto. L’obiettivo dovrebbe
essere quello di incoraggiare un’ampia discussione sull’ampliamento degli obiettivi
delle banche centrali. Di nuovo, l’esempio statunitense potrebbe essere di
ispirazione. Il
duplice mandato della Fed è, un po’ sorprendentemente,
figlio delle lotte progressiste combattute negli anni ’60 e ’70 (per la
precisione, delle lotte dei movimenti per i diritti civili sotto la leadership
di Coretta Scott King) per l’equità sociale in cima ai programmi di politica
macroeconomica. Questo può sembrare forzato, ma i progressisti non possono sottrarsi
alla sfida. Non dovrebbero restare prigionieri del mito degli anni ’90 dell’indipendenza
della banca centrale.
Due nuovi problemi rendono la questione cruciale in questo
momento. Uno è rappresentato dalle conseguenze finanziarie della crisi da COVID-19,
che graverà su tutti con debiti giganteschi. Il bilancio della banca centrale è
un meccanismo cruciale per la gestione di questi debiti. L’altra questione è la
transizione verso l’energia verde e la necessità di rendere le nostre società
più resilienti di fronte agli shock ambientali che arriveranno. Questo
richiederà una maggiore spesa pubblica, ma anche di riorientare il credito privato
verso investimenti sostenibili. In questo processo, anche la banca centrale ha
un ruolo chiave. L’attuale mandato impone che questi problemi vengano costretti
entro i vincoli della stabilità finanziaria. È tempo di assumere un approccio
politico più diretto e aperto.
Il modello di indipendenza della banca centrale è emerso dal
crollo del sistema di Bretton Woods e dalla necessità di ancorare i prezzi durante
la Grande Inflazione degli anni ’70. L’ampia gamma di interventi portati avanti
dalle bance centrali di tutto il mondo è emersa dalle crisi di un sistema
finanziario integrato a livello globale. Si tratta di interventi resi possibili
dall’assenza di rischi inflattivi. Fino ad ora sono riusciti a impedire la
catastrofe. Ma mancano di un orientamento ben definito e di un nuovo fondamento
democratico.
Noi apprezziamo la stabilità dei prezzi, ma nel bene e nel
male le forze che una volta la rendevano un problema urgente non sono più
pressanti. Quest’unico obiettivo non è più sufficiente a definire il mandato della
più importante istituzione della politica economica. La stabilità finanziaria è
essenziale, ma le attuali relazioni incestuose tra bance centrali e sistemi
finaziari tendono, se non altro, a legittimare e incoraggiare le pericolose
speculazioni di un’élite eternamente dedita ad arricchire sé stessa. D’altra
parte la bassa crescita, la disuguaglianza e la disoccupazione sono alla radice
di molti dei nostri mali sociali, e al tempo stesso del problema del peso del debito,
dato che la gestione del debito pubblico dipende in maniera cruciale dalla
crescita dell’economia. Infine, non possiamo più negare di trovarci di fronte a
problematiche ambientali fondamentali, che pongono una drammatica sfida
generazionale sugli investimenti.
Queste sono le sfide politiche del terzo decennio del 21°
secolo. La moneta e la finanza devono giocare un ruolo chiave nell’affrontarle.
E le banche centrali devono quindi essere al centro della politica economica.
Fingere che non sia così significa negare la logica dell’economia e la effettiva
evoluzione delle banche centrali negli ultimi decenni. Dovremmo anche
riconoscere, però, che questa espansione confligge con l’effettiva istituzione
politica delle banche centrali, e specialmente con quella della BCE. Definire
la loro posizioni in termini di indipendenza, di mandati strettamente definiti e
di regole, significa limitare la loro responsabilità democratica. Questa era
l’intenzione esplicita della reazione conservatrice alle turbolenze degli anni
’70.
Se l’Europa vuole uscire dall’impasse creato dalla sentenza
della Corte tedesca, nella quale un’istituzione si erge a controllore di un’altra
per volere di una minoranza risentita e guidata dai propri interessi, dobbiamo
uscire da questa storica opacità. Farlo non è certamente privo di rischi. Ma
non lo è nemmeno tentare di aggiustare la situazione per proseguire con lo
status quo. Dopo oltre mezzo secolo da Bretton Woods e dall’imposizione della
moneta a corso forzoso, dopo vent’anni dall’istituzione dell’euro, è tempo di dare
al nostro sistema finanziario e monetario nuovi fini costituzionali. Nel farlo,
l’Europa non solo metterebbe a tacere i suoi demoni interni, ma offrirebbe
anche un modello per il resto del mondo.
Adam Tooze è professore di storia e direttore dell’European
Institute alla Columbia University. Il suo ultimo libro è "Crashed: How a Decade of Financial Crises Changed the World", e
attualmente sta lavorando a una storia delle crisi climatiche. Su Twitter: @adam_tooze
Grazie del vostro ottimo lavoro.
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