Michel Onfray, filosofo e saggista francese, confronta la risposta, brutale, del regime di Macron nei confronti del movimento dei gilet gialli con l'atteggiamento tenuto da Polizia e ministero dell'Interno in occasione della rivolta delle banlieue del 2005. La strategia della repressione brutale fin qui seguita da Macron - contrapposta a quella di allora, di contenere le violenze e attenersi al mantenimento dell'ordine - tradisce la volontà politica di fomentare i disordini per poter scatenare la violenza di Stato in difesa estrema dell'ordine liberale fortemente contestato dal popolo.
di Michel Onfray, 4 febbraio 2019
"Io sono il frutto di una forma di brutalità della storia." Macron, 13 febbraio 2018, di fronte alla stampa.
Certo, lo Stato incarna bene questo Moloch che ha il monopolio legittimo della forza: ma per fare cosa?
A parte l'irenismo radicale, essendo la natura umana quella che è, non si tratta di immaginare un mondo in cui non ci sia più bisogno di esercito o polizia, tribunali o prigioni, legge e giustizia. Se siamo d'accordo che il molestatore non è l'abusato, l'aggressore l'aggredito, il ladro il derubato, il rapinatore il rapinato, occorre che una serie di meccanismi sociali permettano di fermare il molestatore, l'aggressore, il ladro, il rapinatore, per portarli davanti ai tribunali che giudicano i fatti dal punto di vista della legge e del diritto, e mandare le persone giudicate colpevoli a scontare la pena in nome della riparazione del danno subito dall'aggredito, dal derubato, dal rapinato, dal molestato, ma anche per proteggere gli altri cittadini dalla pericolosità di questi criminali. Dando per acquisito che possono esistere delle circostanze aggravanti o attenuanti, e che tutti, a prescindere dalla loro imputazione, hanno il diritto alla difesa e alla riabilitazione una volta scontata la pena.
Che l'uso legittimo della forza presupponga che essa possa essere usata per mantenere la legalità – questa dovrebbe essere una verità ovvia... Ma quando, a metà settembre 2018, i gilet gialli proclamano, all'inizio delle loro giornate di rabbia, che il loro potere d'acquisto non permetterà loro di pagare le ulteriori tasse obbligatorie per legge che aumentano il prezzo del carburante alla pompa, non mettono in pericolo la democrazia e la Repubblica, poiché fanno appello agli articoli 13 e 14 della Carta dei diritti l'uomo e, non dimentichiamo, del cittadino. Con il loro movimento, essi rivendicano uno di quei diritti che questo testo fondamentale concede loro. L'ho già menzionato, ma va ricordato che l'articolo 13 della Dichiarazione dei diritti dell'uomo recita: "Per il mantenimento della pubblica forza e per le spese d'amministrazione è indispensabile una comune contribuzione, la quale dev'essere ugualmente ripartita fra tutti i cittadini in ragione delle loro facoltà". E il seguente articolo: "Tutti i cittadini hanno il diritto di comprovare o da se stessi o tramite i loro rappresentanti la necessità della pubblica contribuzione, di approvarla liberamente, di seguirne l'applicazione, di determinarne la quota, la riscossione e la durata." I gilet gialli non hanno rifiutato l'imposta, come la propaganda dei media ripete da settimane per assimilarli al populismo fascista, ma solo dichiarato che non hanno più i mezzi finanziari per pagarla! Una risposta appropriata da parte del governo avrebbe soffocato la rabbia sul nascere. Invece, la risposta è stata immediatamente bellicosa: da qui l'origine della violenza.
Questo spirito bellicoso ha preso la forma che sappiamo; elementi del linguaggio del potere macroniano sono stati trasmessi e poi abbondantemente diffusi dalle "élite": il movimento dei gilet gialli era una rivolta di estrema destra, una rivendicazione populista che sapeva di camicie brune, un movimento che puzzava di "fascio". Bernard-Henri Lévy ne ha parlato da subito in questo modo, insieme a ... Mélenchon e Clémentine Autain, Coquerel e la CGT (Confederazione sindacale del lavoro, ndt), che hanno partecipato al coro "populicida" insieme a tutti gli editorialisti della stampa di Maastricht.
[...]
Questa violenza simbolica, il cui braccio armato è costituito dai media del sistema, si accompagna a una violenza poliziesca. Si sa che le parole uccidono, ma, per farlo, hanno bisogno di attori violenti: il potere dispone di un certo numero di agenti di polizia e di funzionari di giustizia i quali, sapendo di beneficiare di una copertura da parte del ministro dell'Interno e quindi dell'Eliseo e di Macron, si abbandonano alla violenza.
Mi sono ritrovato in una dibattuito televisivo con Jean-Marc Michaud, l'uomo che ha perso un occhio a causa di una flash-ball. Ha espresso tutta la sua rabbia contro il tiratore, e lo posso comprendere. La prima reazione di chi ha subito violenza è di voler rispondere nello stesso modo. Si riceve un colpo, e non si ha voglia d'altro che di restituirlo moltiplicato per cento. Il cervello rettiliano comanda, quando la corteccia non fa il suo lavoro.
Ma certamente c'è una responsabilità del tiratore: se egli sa che dovrà rendere conto alla giustizia per non essersi comportato secondo le procedure – tra cui quella, fondamentale, di non mirare alla testa – allora probabilmente si comporterà diversamente.
Ma quando si sa che si può beneficiare dell'impunità del potere, allora si tira o si colpisce senza esitazione, e, come ho potuto constatare io stesso a Caen, in mezzo ad un'esaltazione non dissimulata da parte di chi assiste alle percosse, ai pestaggi, alle persone sbattute violentemente a terra, ammanettate, ma anche, in alcuni casi, denudate e palpate...
Ho già detto altrove che supponevo che alcuni agenti di polizia si stessero infiltrando tra i cosiddetti casseur per alimentare la teoria del potere secondo la quale tutti i gilet gialli sono violenti. Dopo aver dato questa informazione, alcuni gilet gialli mi hanno fatto sapere per posta che ne avevano le prove. Tornerò su questo argomento quando verrà il momento.
Ma senza concentrarsi su questo caso particolare, si può leggere quanto scrive un sindaco di destra, quindi non un gauchista, Xavier Lemoine, che fornisce un'informazione interessante. Afferma su Le Figaro che, come sindaco di Montfermeil, ha scoperto che "la polizia ha represso in minor misura le rivolte delle banlieue nel 2005 rispetto ai gilet gialli" (29 gennaio 2019). E questo dice tutto.
Il sindaco nota che nel 2005 non ci sono stati morti e solo pochi feriti tra i ribelli, anche se i rivoltosi avevano scelto la violenza come loro unico mezzo di espressione. Egli ne dà una ragione: la polizia allora aveva scelto di mantenere l'ordine e non, come Macron, una logica di repressione. Mantenere l'ordine non è reprimere. Sono due scelte politiche molto diverse ideologicamente, politicamente, strategicamente, tatticamente - e anche moralmente. Emmanuel Macron ha deliberatamente scelto di reprimere e non di mantenere l'ordine. Il capo dello Stato quindi non ha voluto contenere la violenza delle rivendicazioni, ma scatenare la violenza di Stato. È un progetto.
Xavier Lemoine osserva che la scelta di mantenere l'ordine, come indicano le parole, cerca soprattutto di mantenere l'ordine, così da evitare il disordine. Tornerò su questo: non mi si farà credere che lasciare che l'Avenue degli Champs-Elysées venga disselciata davanti agli obiettivi delle telecamere di BFMTV per quasi un'ora, non rifletta il fatto che la polizia non aveva la consegna di impedire i disordini, ma, al contrario, di favorirli, lasciando che questi ciotoli dei marciapiedi diventassero proiettili da lanciare su obiettivi umani o materiali...
Parlando della sua città, Xavier Lemoine afferma: "Nel 2005 tutte (sic) le rivendicazioni sono state espresse con la violenza. All'epoca, tuttavia, le autorità di polizia hanno adottato la modalità di intervento più appropriata per reprimere questa violenza. Da un punto di vista tecnico, il loro attacco è stato flessibile ed efficace. Anche quando erano presi di mira dai rivoltosi, i poliziotti e la gendarmeria hanno mostrato grande moderazione nell'uso della forza. Oggi, al contrario, nessuno può sostenere che tutte le rivendicazioni dei 'gilet gialli' siano espresse con la violenza. Inoltre, nel 2005, non c'erano donne tra i rivoltosi, mentre le donne sono massicciamente presenti nei ranghi dei 'gilet gialli'. Non tenerne conto è privarsi di un elemento fondamentale di analisi. Contrariamente a quanto può suggerire il potere delle immagini, la maggior parte dei 'gilet gialli' non partecipa alle riprovevoli violenze commesse durante le manifestazioni. Tuttavia, da sabato 8 dicembre la polizia privilegia la repressione, non il mantenimento dell'ordine". Al giornalista che gli chiede di chiarire cosa distingue l'applicazione della legge dalla repressione, Xavier Lemoine risponde: "Il mantenimento dell'ordine consiste da un lato nel permettere a una manifestazione di fluire nel modo più pacifico possibile, e dall'altro nel contenere la violenza al fine di ridurla. Questo obiettivo non impedisce alla polizia di intervenire nei confronti di persone decise ad atti di violenza "- Penso a coloro che disselciano Avenue des Champs Elysées ...
Egli prosegue: "Ma ai manifestanti pacifici sono sempre lasciate delle vie d'uscita. Le persone che lo vogliono possono sempre andarsene quando la situazione degenera. La repressione, invece, consiste nel combattere contro gruppi di persone senza necessariamente distinguere tra individui violenti e manifestanti pacifici, che possono anche essere lontani tra loro. Ebbene, nella crisi attuale la polizia ricorre troppo spesso alle 'reti', che impediscono alle persone circondate di abbandonare i luoghi. È facile quindi fare confusione tra dimostranti molto diversi tra loro. Quanti tra coloro a cui è stato cavato un occhio avevano sfasciato vetrine, automobili, saccheggiato negozi? Allo stesso modo, la distinzione tra criminali 'confermati' e incensurati dovrebbe essere molto più attenta." Per Xavier Lemoine, la polizia sta obbedendo a un potere che ha scelto la repressione e la brutalità. Obbediscono. Il primo responsabile, quindi il colpevole, è colui che dà l'ordine. E poiché non si può pensare che Castaner o Philippe prendano la decisione da soli, è il capo dello Stato a cui deve essere imputata la scelta della repressione, quindi la responsabilità di ogni ferita inflitta. Quando questo stesso capo di Stato afferma in modo insensibile in Egitto che le forze dell'ordine non hanno causato alcuna morte, se non quella della signora Redoine a Marsiglia, egli mente. Ed è personalmente responsabile di questa morte [1]. Il bruto è lui.
Leggiamo ancora Xavier Lemoine: "Non incrimino la polizia, che obbedisce, come è naturale, alle istruzioni del ministro degli Interni. Ma do la colpa a queste istruzioni, che mi sembrano tradire il desiderio di spingersi agli estremi, aumentare la violenza, per giustificare una repressione. Non ho nessuna accondiscendenza verso la violenza premeditata di rivoltosi o gruppi di estremisti. Ma responsabilità della politica è anche sapere come disinnescare un grido di angoscia, invece di alimentarlo demonizzando i 'gilet gialli'. Nel 2005 i governanti non hanno mai fatto commenti così dispregiativi sui rivoltosi del tempo. Attualmente, una parte significativa della violenza proviene da manifestanti senza precedenti penali, disperati e infuriati. Si sentono provocati dalla rigidità della risposta della polizia. Le dinamiche della folla aiutano, 'radicalizzano' . Le reazioni istintive si esprimono brutalmente. Nel 2005 nessuna dimostrazione era stata autorizzata dalla prefettura e tutte erano degenerate in rivolte. Tuttavia, a quel tempo a Seine-Saint-Denis non c'è stata nessuna carica dei corpi speciali antisommossa o della polizia a cavallo. Oggi, sì. Quattordici anni fa la polizia non ha fatto ricorso a tiri ad altezza d'uomo, orizzontali, e a breve distanza. Oggi, sì. Perché questi due pesi e due misure dello Stato tra le rivolte urbane del 2005 e le manifestazioni di protesta dei 'gilet gialli' ? Non penso che la polizia sia stata negligente nel 2005; dico che sono troppo 'duri' oggi."
Che il presidente Macron abbia scelto la linea dura della repressione contro la linea repubblicana di mantenimento dell'ordine è quindi dimostrato. Egli ha al suo servizio la stampa di Maastricht, in altre parole i media dominanti, inclusi quelli del servizio pubblico televisivo, ha al suo servizio la polizia, l'esercito, quindi le forze dell'ordine, e ha anche provato a coinvolgere la macchina della giustizia. Ciò è evidenziato da un articolo del Canard enchaîné (30 gennaio 2019) intitolato "Le incredibili istruzioni dell'ufficio del pubblico ministero sui gilet gialli", che riporta in dettaglio come il ministero della Giustizia ha comunicato per email con i giudici della Procura di Parigi su come trattare i gilet gialli: dopo un arresto, anche se è stato commesso per errore, si deve comunque mantenere l'iscrizione nell'archivio dei precedenti penali, anche "quando i fatti non costituiscono reato". La comunicazione specifica anche che bisogna depositare gli atti, anche se "i fatti contestati sono di lieve entità" e anche nel caso provato "di un'irregolarità della procedura"! In questi casi, arresto per errore, reati non suffragati da elementi di prova, irregolarità procedurali, è consigliabile fermare le persone e non liberarle fino a dopo le manifestazioni del sabato, per impedire che ai cittadini ingiustamente arrestati sia data la possibilità di esercitare il loro diritto di sciopero, va ricordato, un diritto garantito dalla Costituzione? Punto 7 del preambolo ...
Aggiungiamo che la legge anti-casseur proposta da Macron prevede semplicemente di stabilire una presunzione di colpevolezza nei confronti di chiunque sia sospettato di essere solidale con la causa dei gilet gialli. Sospettato da chi? Dalla stessa giustizia a cui il potere chiede, in primo luogo, di tenere in custodia una persona anche arrestata per errore, in secondo luogo di rilasciarla solo dopo la fine delle dimostrazioni, in terzo luogo di seguire la stessa procedura anche nel caso di errore procedurale, in quarto luogo di non preoccuparsi che i fatti siano provati e non irrilevanti, dato che la giustizia macroniana, sostenuta dalla polizia macroniana all'ordine dell'ideologia macroniana, che è puramente e semplicemente quella dello Stato di Maastricht, ha deciso che deve essere così. Mélenchon ha parlato a questo proposito di ritorno delle lettre de cachet, e non ha torto su questo.
La violenza genealogica, che è la base delle prime rivendicazioni dei gilet gialli, è prima di tutto quella imposta dal sistema politico liberale instaurato imperativamente dallo Stato di Maastricht dal 1992. Quando Macron dice che le radici del male sono antiche, lo sa fin troppo bene, perché è uno degli uomini la cui breve vita è stata interamente dedicata all'instaurazione di questo programma liberale che si rivela forte con i deboli, come vediamo nelle nostre strade da dodici settimane, e debole con i forti, come dimostrato dalla legislazione a loro favore - dalla soppressione dell'ISF (l'imposta sulle grandi fortune, ndt) al rifiuto di toccare i paradisi fiscali, alla tolleranza verso l'evasione delle imposte da parte del GAFA (Google, Apple, Facebook e Amazon, ndt) .
La violenza di questo Stato di Maastricht contro i più deboli, i più disarmati, i meno istruiti, i più lontani dalle megalopoli francesi o da Parigi; la violenza di questo Stato di Maastricht sui più precari in assoluto, sulle persone modeste che portano da sole il peso di una globalizzazione felice per gli altri; la violenza di questo Stato di Maastricht su quelli dimenticati dalle nuove compassioni del politicamente corretto; la violenza di questo Stato di Maastricht contro le donne single, le madri single, le vedove con le pensioni di vecchiaia tagliate, le donne costrette ad affittare il loro utero a uno sperma mercenario, vittime della violenza coniugale derivante dalla povertà, giovani ragazzi o ragazze che si prostituiscono per pagare i loro studi; la violenza di questo Stato di Maastricht sugli abitanti delle campagne privati giorno dopo giorno dei servizi pubblici che loro ancora finanziano con la tassazione indiretta; la violenza di questo Stato di Maastricht sui contadini che si impiccano ogni giorno perché la professione di fede ecologista dei maastrichtiani delle città non si confonde con l'ecologia quando si tratta del piatto dei francesi riempito di carni avariate, di prodotti tossici, di chimica cancerogena, di cibo che arriva dall'altra parte del pianeta senza curarsi delle tracce di CO2, anche se sono bio; la violenza di questo Stato di Maastricht sulle generazioni di bambini rincretiniti da una scuola che ha cessato di essere repubblicana e che lascia alle ragazze e ai ragazzi la possibilità di uscirne non grazie ai loro talenti, ma grazie agli appoggi delle loro famiglie ben nate; la violenza di questo Stato di Maastricht che ha proletarizzato i giovani la cui unica speranza è la sicurezza di un posto di lavoro da poliziotto, da gendarme, da soldato o da guardia carceraria e il cui compito è gestire con la violenza legale i rifiuti del sistema liberale; la violenza di questo Stato di Maastricht sui piccoli padroni, i commercianti, gli artigiani che non conoscono vacanze, svaghi, fine settimana, serate fuori - questa violenza, sì, è la prima violenza. Questi sono quelli che non hanno generato violenza, ma solo in origine una protesta contro l'aumento del carburante.
La risposta del potere, quindi di Macron, a questa ammissione di povertà dei poveri è stata immediatamente la criminalizzazione ideologica. I media, agli ordini, hanno gridato al lupo fascista. Da diversi mesi, questo è il loro pane quotidiano: secondo i ricchi che li governano, i poveri sarebbero antisemiti, razzisti, omofobi, violenti, cospirazionisti - "bastardi" ha detto Bernard Henri Lévy a Ruquier. Questa è la vecchia variazione sul tema: classi lavoratrici, classi pericolose. È l'antifona di tutti i poteri borghesi quando hanno paura.
Pertanto, il capo dello Stato mobilita i media che disinformano, la polizia che dà la caccia al manifestante, la giustizia che li schiaffa dentro, la prigione che li parcheggia quando l'ospedale non li cura dopo le percosse. Quando capiremo che questi sono i pezzi di un puzzle dispotico?
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12/02/19
Michel Onfray - Il Bruto
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18/04/18
La violenta realtà della Svezia sta sostituendo la sua immagine pacifica
Nonostante il concetto di “modello svedese” tenda a far percepire questo paese come un esempio di sicurezza e tolleranza, la realtà che ormai non si può più nascondere è che la Svezia viene sempre più additata come un caso di integrazione fallita. Lo riporta un articolo pubblicato sul sito Politico: gli eventi di cronaca smentiscono puntualmente i funzionari governativi, che cercano ancora di trasmettere il messaggio che “l’integrazione procede bene”. Ormai i paesi confinanti considerano sempre più la Svezia come monito vivente di quello che succede a una nazione che accetta un’immigrazione incontrollata ben oltre la sua capacità di efficace integrazione.
Di Paulina Neuding, 16 aprile 2018
Stoccolma — La Svezia potrà anche essere nota per la sua musica pop, per l’IKEA e per il suo sistema di protezione sociale generoso. Ma è sempre più associata anche a un numero crescente di reclute dello Stato Islamico, alle esplosioni e agli assalti con bombe a mano.
All’inizio dell’anno, nel giro di due settimane, nel paese ci sono state cinque esplosioni. Ormai la cosa non è inusuale – gli Svedesi si sono abituati ai titoloni sui crimini violenti, alle intimidazioni dei testimoni e alle esecuzioni delle gang. In un paese a lungo noto per la sua sicurezza, gli elettori hanno scelto “legge e ordine” come la questione più importante alla vigilia delle elezioni di settembre.
Tuttavia l’argomento del crimine è delicato, e il dibattito sulla questione, nella società scandinava in cui il consenso viene orientato dai media, viene delimitato dai tabù.
Per comprendere la questione del crimine in Svezia, è importante notare che la Svezia ha tratto beneficio dal diffuso declino della violenza omicida nelle società occidentali, in particolare per quello che riguarda la violenza spontanea e le uccisioni legate all’alcolismo. Tuttavia il calo totale degli omicidi in Svezia è stato molto minore che nei paesi confinanti.
Gli omicidi legati alle gang, ormai principalmente un fenomeno legato a uomini con un background da immigrati nelle comunità parallele del paese, sono aumentati da 4 all’anno nei primi anni ’90 a circa 40 nello scorso anno. A causa di ciò, la Svezia è passata da essere un paese con un basso livello di criminalità ad avere tassi di omicidi significativamente più alti rispetto alla media dei paesi dell’Europa Occidentale. Il disordine sociale, con auto date a fuoco, attacchi ai primi soccorritori e persino rivolte, è un fenomeno ricorrente.
Le sparatorie sono diventate così comuni che non ottengono più nemmeno i titoli dei giornali, a meno che siano spettacolari o implichino omicidi. Le notizie degli assalti sono velocemente rimpiazzate dai titoli sugli eventi sportivi e sulle celebrità, e i lettori sono ormai desensibilizzati nei confronti della violenza. Per la generazione precedente, bombe contro la polizia e rivolte erano eventi estremamente rari. Oggi leggere di questi incidenti è considerato parte della normalità quotidiana.
Il crescente livello di violenza non è passato inosservato da parte dei vicini scandinavi della Svezia. I norvegesi usano comunemente la frase “condizioni svedesi” per descrivere il crimine e il disordine sociale. Il punto di vista della Danimarca è stato esplicitato quando il presidente della NATO e Primo ministro danese Anders Fogh Rasmussen ha dichiarato in un’intervista a una TV svedese: “Uso spesso la Svezia come esempio deterrente”.
Come reazione il governo svedese ha lanciato una campagna internazionale per “l’immagine della Svezia” per minimizzare la crescita del crimine, sia con una strategia sui media sia attraverso campagne pagate con i soldi delle tasse. Durante una visita alla Casa Bianca lo scorso marzo, il Primo ministro svedese Stefan Löfven ha ammesso che il suo paese ha problemi con la criminalità e in particolare con le sparatorie, ma ha negato l’esistenza di “zone no-go” (zone in pratica al di fuori del controllo dello Stato, dove è pericoloso avventurarsi, NdVdE). Il ministro dell’istruzione svedese, Gustav Fridolin, è stato in Ungheria ed ha lanciato lo stesso messaggio.
Ma la realtà è diversa per chi vive sul territorio: il capo del sindacato dei paramedici Ambulansförbundet, Gordon Grattidge, e il suo predecessore Henrik Johansson mi hanno riferito recentemente in un’intervista che alcuni isolati sono senza dubbio delle zone no-go per le ambulanze – a meno che non vengano scortate dalla polizia.
Gli svedesi non sono abituati a grandiose manifestazioni di orgoglio nazionale, ma il concetto di un “Modello svedese” – quello su cui il paese ha molto da insegnare al mondo – è una parte essenziale nell'immagine di sé della nazione.
Dal momento che il crimine è intimamente legato al fallimento del paese nell’integrazione degli immigrati, la crescita della violenza è un argomento delicato. Quando il governo svedese e l’opposizione si riferiscono alla Svezia come una “superpotenza umanitaria”, perché ha aperto le porte a più immigrati in relazione al numero di abitanti rispetto a tutti gli altri paesi dell’UE, ci credono davvero. Il che ha provocato contorsioni notevoli.
In marzo, il ministro del Mercato del lavoro, Ylva Johansson, è apparsa alla BBC, dove ha dichiarato che il numero di casi di stupri e violenze sessuali stava “diminuendo, diminuento, diminuendo”. In realtà, era vero proprio il contrario, cosa che la Johansson ha più tardi ammesso, scusandosi.
Analogamente, in un editoriale sul Washington Post, l’ex Primo Ministro Carl Bildt ha descritto la politica di immigrazione del paese come una storia di successo. Non si è soffermato sulla questione dei crimini violenti. A seguito di ripetuti attacchi a dicembre contro istituzioni ebree – incluso il bombardamento di una sinagoga a Göteborg – Bildt ha utilizzato lo stesso giornale per sostenere che l’antisemitismo non è un problema rilevante in Svezia.
“Storicamente, in Svezia sono stati i cattolici ad essere visti come una minaccia pericolosa, che doveva essere combattuta e limitata” ha sostento Bildt, apparentemente inconsapevole che le leggi da lui citate si applicavano anche agli ebrei. I matrimoni misti erano illegali e l’ostilità si basava sull’idea che gli ebrei fossero una razza inferiore. Il tentativo di Bildt di relativizzare l’attuale antisemitismo con argomenti storici strani ed errati dimostra quanto nervosamente le élite svedesi reagiscono alle notizie negative che riguardano il loro paese.
Un altro esempio spettacolare è il sito ufficiale del governo, nella sezione “Fatti riguardo all’immigrazione, all’integrazione e al crimine in Svezia”, che vorrebbe sfatare i miti riguardanti il paese. Una delle “false affermazioni” che il governo vorrebbe sfatare è che “non molto tempo fa, la Svezia ha conosciuto il suo primo attacco terroristico di stampo islamico”.
La cosa è sorprendente, considerate che il Jihadista uzbeko Rakhmat Akilov si è dichiarato colpevole dell’assalto terroristico su un camion che ha ucciso cinque persone a Stoccolma lo scorso aprile e ha giurato fedeltà all’ISIS prima dell’assalto stesso. Akilov, che al momento è sotto processo, ha orgogliosamente ribadito il suo sostegno all’ISIS e dichiarato che il suo intento era di uccidere cittadini svedesi. Aveva inoltre contatti documentati con jihadisti internazionali.
Il pretesto del governo per negare l’attacco terroristico islamico in Svezia è che nessun gruppo islamico l’ha rivendicato ufficialmente. Data l’importanza che oggi viene attribuita alla lotta alle “fake news”, la manomissione da parte del governo svedese di fatti politicamente scomodi risulta particolarmente irresponsabile.
A volte serve un osservatore esterno per mettere le cose nella giusta prospettiva. Un recente articolo di Bojan Pancevski sul Sunday Times di Londra ha puntato l'attenzione sull’immigrazione e i crimini violenti. L’articolo ha destato scalpore in Svezia e viene visto da molti almeno in parte come il motivo per cui i ministri degli Esteri del Regno Unito e del Canada hanno emesso “consigli per chi viaggia” nei riguardi del paese, citando il rischio di esplosioni e crimini legati alle gang. “Danno l'idea che la violenza sia fuori controllo”, ha dichiarato Stefan Sintéus, il capo della polizia di Malmö.
Non sembra che il capo della polizia si renda conto che sia i “consigli per chi viaggia”, sia l’articolo possano riflettere una qualche realtà. Dopo tutto, solo pochi giorni prima la stazione di polizia di Malmö era stata oggetto di un assalto con bombe a mano. Mentre nei primi giorni del mese una macchina della polizia è stata distrutta da un’esplosione, sempre nella stessa città.
I funzionari forse saranno rassegnati alla situazione. Ma per un paese dell’Europa Occidentale in tempo di pace, è ragionevole ritenere questi livelli di violenza come fuori controllo.
Di Paulina Neuding, 16 aprile 2018
Stoccolma — La Svezia potrà anche essere nota per la sua musica pop, per l’IKEA e per il suo sistema di protezione sociale generoso. Ma è sempre più associata anche a un numero crescente di reclute dello Stato Islamico, alle esplosioni e agli assalti con bombe a mano.
All’inizio dell’anno, nel giro di due settimane, nel paese ci sono state cinque esplosioni. Ormai la cosa non è inusuale – gli Svedesi si sono abituati ai titoloni sui crimini violenti, alle intimidazioni dei testimoni e alle esecuzioni delle gang. In un paese a lungo noto per la sua sicurezza, gli elettori hanno scelto “legge e ordine” come la questione più importante alla vigilia delle elezioni di settembre.
Tuttavia l’argomento del crimine è delicato, e il dibattito sulla questione, nella società scandinava in cui il consenso viene orientato dai media, viene delimitato dai tabù.
Per comprendere la questione del crimine in Svezia, è importante notare che la Svezia ha tratto beneficio dal diffuso declino della violenza omicida nelle società occidentali, in particolare per quello che riguarda la violenza spontanea e le uccisioni legate all’alcolismo. Tuttavia il calo totale degli omicidi in Svezia è stato molto minore che nei paesi confinanti.
Gli omicidi legati alle gang, ormai principalmente un fenomeno legato a uomini con un background da immigrati nelle comunità parallele del paese, sono aumentati da 4 all’anno nei primi anni ’90 a circa 40 nello scorso anno. A causa di ciò, la Svezia è passata da essere un paese con un basso livello di criminalità ad avere tassi di omicidi significativamente più alti rispetto alla media dei paesi dell’Europa Occidentale. Il disordine sociale, con auto date a fuoco, attacchi ai primi soccorritori e persino rivolte, è un fenomeno ricorrente.
Le sparatorie sono diventate così comuni che non ottengono più nemmeno i titoli dei giornali, a meno che siano spettacolari o implichino omicidi. Le notizie degli assalti sono velocemente rimpiazzate dai titoli sugli eventi sportivi e sulle celebrità, e i lettori sono ormai desensibilizzati nei confronti della violenza. Per la generazione precedente, bombe contro la polizia e rivolte erano eventi estremamente rari. Oggi leggere di questi incidenti è considerato parte della normalità quotidiana.
Il crescente livello di violenza non è passato inosservato da parte dei vicini scandinavi della Svezia. I norvegesi usano comunemente la frase “condizioni svedesi” per descrivere il crimine e il disordine sociale. Il punto di vista della Danimarca è stato esplicitato quando il presidente della NATO e Primo ministro danese Anders Fogh Rasmussen ha dichiarato in un’intervista a una TV svedese: “Uso spesso la Svezia come esempio deterrente”.
Come reazione il governo svedese ha lanciato una campagna internazionale per “l’immagine della Svezia” per minimizzare la crescita del crimine, sia con una strategia sui media sia attraverso campagne pagate con i soldi delle tasse. Durante una visita alla Casa Bianca lo scorso marzo, il Primo ministro svedese Stefan Löfven ha ammesso che il suo paese ha problemi con la criminalità e in particolare con le sparatorie, ma ha negato l’esistenza di “zone no-go” (zone in pratica al di fuori del controllo dello Stato, dove è pericoloso avventurarsi, NdVdE). Il ministro dell’istruzione svedese, Gustav Fridolin, è stato in Ungheria ed ha lanciato lo stesso messaggio.
Ma la realtà è diversa per chi vive sul territorio: il capo del sindacato dei paramedici Ambulansförbundet, Gordon Grattidge, e il suo predecessore Henrik Johansson mi hanno riferito recentemente in un’intervista che alcuni isolati sono senza dubbio delle zone no-go per le ambulanze – a meno che non vengano scortate dalla polizia.
Gli svedesi non sono abituati a grandiose manifestazioni di orgoglio nazionale, ma il concetto di un “Modello svedese” – quello su cui il paese ha molto da insegnare al mondo – è una parte essenziale nell'immagine di sé della nazione.
Dal momento che il crimine è intimamente legato al fallimento del paese nell’integrazione degli immigrati, la crescita della violenza è un argomento delicato. Quando il governo svedese e l’opposizione si riferiscono alla Svezia come una “superpotenza umanitaria”, perché ha aperto le porte a più immigrati in relazione al numero di abitanti rispetto a tutti gli altri paesi dell’UE, ci credono davvero. Il che ha provocato contorsioni notevoli.
In marzo, il ministro del Mercato del lavoro, Ylva Johansson, è apparsa alla BBC, dove ha dichiarato che il numero di casi di stupri e violenze sessuali stava “diminuendo, diminuento, diminuendo”. In realtà, era vero proprio il contrario, cosa che la Johansson ha più tardi ammesso, scusandosi.
Analogamente, in un editoriale sul Washington Post, l’ex Primo Ministro Carl Bildt ha descritto la politica di immigrazione del paese come una storia di successo. Non si è soffermato sulla questione dei crimini violenti. A seguito di ripetuti attacchi a dicembre contro istituzioni ebree – incluso il bombardamento di una sinagoga a Göteborg – Bildt ha utilizzato lo stesso giornale per sostenere che l’antisemitismo non è un problema rilevante in Svezia.
“Storicamente, in Svezia sono stati i cattolici ad essere visti come una minaccia pericolosa, che doveva essere combattuta e limitata” ha sostento Bildt, apparentemente inconsapevole che le leggi da lui citate si applicavano anche agli ebrei. I matrimoni misti erano illegali e l’ostilità si basava sull’idea che gli ebrei fossero una razza inferiore. Il tentativo di Bildt di relativizzare l’attuale antisemitismo con argomenti storici strani ed errati dimostra quanto nervosamente le élite svedesi reagiscono alle notizie negative che riguardano il loro paese.
Un altro esempio spettacolare è il sito ufficiale del governo, nella sezione “Fatti riguardo all’immigrazione, all’integrazione e al crimine in Svezia”, che vorrebbe sfatare i miti riguardanti il paese. Una delle “false affermazioni” che il governo vorrebbe sfatare è che “non molto tempo fa, la Svezia ha conosciuto il suo primo attacco terroristico di stampo islamico”.
La cosa è sorprendente, considerate che il Jihadista uzbeko Rakhmat Akilov si è dichiarato colpevole dell’assalto terroristico su un camion che ha ucciso cinque persone a Stoccolma lo scorso aprile e ha giurato fedeltà all’ISIS prima dell’assalto stesso. Akilov, che al momento è sotto processo, ha orgogliosamente ribadito il suo sostegno all’ISIS e dichiarato che il suo intento era di uccidere cittadini svedesi. Aveva inoltre contatti documentati con jihadisti internazionali.
Il pretesto del governo per negare l’attacco terroristico islamico in Svezia è che nessun gruppo islamico l’ha rivendicato ufficialmente. Data l’importanza che oggi viene attribuita alla lotta alle “fake news”, la manomissione da parte del governo svedese di fatti politicamente scomodi risulta particolarmente irresponsabile.
A volte serve un osservatore esterno per mettere le cose nella giusta prospettiva. Un recente articolo di Bojan Pancevski sul Sunday Times di Londra ha puntato l'attenzione sull’immigrazione e i crimini violenti. L’articolo ha destato scalpore in Svezia e viene visto da molti almeno in parte come il motivo per cui i ministri degli Esteri del Regno Unito e del Canada hanno emesso “consigli per chi viaggia” nei riguardi del paese, citando il rischio di esplosioni e crimini legati alle gang. “Danno l'idea che la violenza sia fuori controllo”, ha dichiarato Stefan Sintéus, il capo della polizia di Malmö.
Non sembra che il capo della polizia si renda conto che sia i “consigli per chi viaggia”, sia l’articolo possano riflettere una qualche realtà. Dopo tutto, solo pochi giorni prima la stazione di polizia di Malmö era stata oggetto di un assalto con bombe a mano. Mentre nei primi giorni del mese una macchina della polizia è stata distrutta da un’esplosione, sempre nella stessa città.
I funzionari forse saranno rassegnati alla situazione. Ma per un paese dell’Europa Occidentale in tempo di pace, è ragionevole ritenere questi livelli di violenza come fuori controllo.
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