26/09/12

Ma è vero che l'eccessiva rigidità del mercato del lavoro creava disoccupazione e che la flessibilità la riduce?

Il nostro presidente del consiglio non elettivo ha sostenuto recentemente che lo Statuto dei lavoratori, pur proponendosi nelle sue buone intenzioni la tutela della "supposta" (ha dei dubbi?) parte debole del rapporto di lavoro, in realtà era controproducente,  e per le troppe tutele e la troppa rigidità otteneva l'effetto contrario. Ecco perché si rende necessaria la riforma "strutturale" del mercato del lavoro, per introdurre ancor più flessibilità e aumentare l'occupazione.
Ma su quali argomenti si basano queste considerazioni?



Uno studio della prof. Antonella Stirati dell'Università di Roma Tre, Crescita e “riforma” del mercato del lavoro, contenuto nell'e-book Oltre l'Austerità, analizza gli argomenti a favore della flessibilità, e gli argomenti contrari, e ci fornisce un quadro chiaro del perché - dopo anni di flessibilità - ci troviamo... in stato di piena occupazione...?!




Ecco un sunto delle argomentazioni di Stirati:


Ma è vero che l'eccessiva rigidità del mercato del lavoro creava disoccupazione? E che la flessibilità ha favorito la creazione di posti di lavoro?

1. Gli argomenti utilizzati per sostenere le politiche di “flessibilità” 
 
Un primo argomento è che la flessibilità del lavoro ridurrebbe il costo del lavoro per le imprese inducendo una flessibilità verso il basso dei salari reali (cioè in termini di potere d’acquisto), perché la riduzione delle tutele tende ad indebolire i sindacati e in generale a rendere i lavoratori più ricattabili e quindi meno in grado di contrattare sulle condizioni retributive e di lavoro - e il minor salario favorirebbe le assunzioni.
Secondo la teoria economica tradizionale (pre-keynesiana e oggi di nuovo in auge) infatti esiste una relazione inversa tra costo del lavoro per l’impresa e occupazione di lavoro, a parità di altre circostanze.
 
Un altro argomento addotto a favore della riforma del mercato del lavoro è che questa, attraverso la riduzione dei costi per le imprese, porterebbe ad una riduzione dei prezzi dei beni esportati rispetto a quelli di altri paesi concorrenti e quindi favorirebbe una maggiore competitività internazionale dell’Italia. Cioè, si sostiene, poiché a livello europeo non è più possibile svalutare il cambio, quei paesi che hanno perso competitività all’interno e all’esterno dell’eurozona devono ridurre i prezzi dei propri prodotti, consentendo così la crescita delle esportazioni - e una ripresa dell'economia guidata dalle esportazioni che farebbe aumentare l'occupazione. 
 
Infine, un terzo argomento è che la flessibilità nell’uso del lavoro favorirebbe una maggiore produttività/efficienza delle imprese.

2. Argomenti generali contro la flessibilità

Per quanto concerne la prima tesi, cioè che una riduzione del costo del lavoro per le imprese porterebbe comunque ad una maggiore occupazione, essa è molto controversa sul piano teorico: la analisi keynesiana mette in luce che la diminuzione dei salari reali, in quanto riduce la propensione al consumo (cioè la quota del reddito destinata al consumo), tende a ridurre la domanda aggregata di beni e servizi, e quindi a ridurre il livello di produzione (che si adegua alla domanda) e di conseguenza a ridurre anche l’occupazione. Nell’aggregato le imprese assumeranno più lavoratori solo se avranno l’opportunità di vendere una maggiore quantità di beni e servizi, e la questione è dunque di capire se una riduzione dei salari potrà portare ad una maggiore domanda di beni e servizi – la risposta è no, semmai il contrario, tranne che per una eventuale capacità di stimolare le esportazioni.

E veniamo così a valutare il secondo argomento, quello secondo il quale la flessibilità del mercato del lavoro, e la conseguente flessibilità dei salari, potrebbe migliorare la competitività internazionale del paese e quindi le esportazioni nette. A questo riguardo il primo punto da mettere in evidenza è che il concetto di competitività è relativo, e nel momento in cui le politiche di flessibilizzazione di salari e lavoro vengono richieste/imposte a un gran numero di economie Europee, l’effetto complessivo è quello di una “deflazione salariale” generalizzata, cioè di una rincorsa competitiva al ribasso dagli effetti positivi molto incerti e con effetti negativi sicuri - soprattutto se la politica di contenimento dei costi e dei prezzi viene sistematicamente perseguita, come è avvenuto sinora, anche dal paese europeo che ha un vantaggio competitivo e un grande surplus commerciale, cioè la Germania 1.

Veniamo infine all’idea che una maggiore flessibilità del lavoro favorisca la produttività delle imprese. Certo, la maggiore facilità di licenziamento realizzata attraverso la precarizzazione e la rimozione della protezione dal licenziamento ha la capacità di rendere più ricattabili e quindi più “disciplinati” i lavoratori…Ma la competitività internazionale delle imprese richiede altro: tecnologia, capacità innovativa. Il grado di innovazione tecnologica e quindi di produttività delle imprese è fortemente legato ai nuovi investimenti – ma questi ultimi sono stimolati da un contesto di crescita della domanda e della produzione. Inoltre è stato argomentato da vari economisti che proprio l’aumento dei salari può costituire un incentivo ad innovare per le imprese, in modo da ricercare nella tecnologia una via per ridurre i costi, piuttosto che ridurli attraverso un maggiore sfruttamento del lavoro. L’opportunità di perseguire quest’ultima strada, favorita dalla de-regolamentazione del mercato del lavoro, tende ad incentivare una “via bassa” al contenimento dei costi che finisce per danneggiare il paese e la sua capacità tecnologica.

3. Cosa suggeriscono i dati? 
 
I dati aggregati1, relativi all’insieme dell’eurozona, suggeriscono che, su un periodo di tempo molto lungo, la caduta del costo del lavoro è stata associata ad un aumento del tasso di disoccupazione.
La caduta della quota salari rispetto al PIL, iniziata negli anni ’80 e proseguita sino a oggi, è associata ad un significativo aumento del tasso di disoccupazione rispetto alla fase precedente (anni ’60 e ’70).
 
Per quanto riguarda più specificamente il rapporto tra gli indici di protezione del lavoro (di cui è un esempio l’articolo 18 recentemente “riformato” in Italia) e i tassi di disoccupazione, i dati documentano l’assenza di una relazione significativa. 
 
Risultati analoghi si ottengono confrontando gli indici di protezione all’impiego con i tassi di disoccupazione dei giovani. Osservando i dati è possibile affermare che non esiste una correlazione tra disoccupazione giovanile e rigidità del mercato del lavoro per i paesi OCSE considerati. 
 
Per quanto riguarda la produttività, nel nostro paese sia la produttività che il PIL sono cresciuti quanto e spesso di più di quanto crescessero in media nell’unione europea sino a circa la metà degli anni ’903, e solo a partite dalla metà degli anni ‘90 entrambe le grandezze (Pil aggregato e valore aggiunto per addetto) hanno iniziato a crescere in Italia meno che in altri paesi. Logica vorrebbe quindi che non si attribuisse la cattiva performance italiana a partire dalla fine degli anni ’90 a fattori – quali le “rigidità del mercato del lavoro” - che erano presenti in misura maggiore quando PIL e produttività crescevano significativamente sia in termini assoluti che relativamente agli altri paesi. Che cosa è cambiato dunque nell’economia italiana nella seconda metà degli anni novanta? I cambiamenti più significativi paiono i seguenti: 1) è aumentata la flessibilità del mercato del lavoro: abolizione della scala mobile e riforma della contrattazione, con le riforme Treu del 1997 e Biagi del 2003 che hanno esteso la possibilità di ricorrere a forme contrattuali atipiche; 2) è peggiorata ulteriormente e significativamente la distribuzione del reddito, con un rapporto tra reddito medio da lavoro dipendente e valore aggiunto per addetto che a metà del 2000 era il più basso in Europa; 3) si sono avute politiche di bilancio pubblico volte alla realizzazione di avanzi primari (il saldo primario, cioè al netto del pagamento degli interessi, rimane positivo sino al 2008)
Questi fattori hanno contribuito negativamente alla crescita della domanda e del Pil, disincentivando quindi anche gli investimenti, mentre le “riforme” del mercato del lavoro in particolare possono aver scoraggiato le imprese dall’utilizzare lo strumento dell’innovazione per ridurre i costi, preferendo la più facile riduzione diretta del costo del lavoro.





1 Si potrebbe recuperare nelle esportazioni verso i paesi esterni all’eurozona, ma l’apprezzamento dell’euro rispetto al dollaro (che risente dei surplus della Germania e dei paesi del centro) oggi rende difficile questo passaggio, senza considerare il fatto che la maggior parte del nostro commercio estero è intraeuropeo.
2I dati cui si riferisce il paragrafo sono reperibili nell studio di Antonella Stirati sopra citato.
3L’indice di produttività relativa dell’Italia rispetto agli altri paesi dell’unione europea a 14 paesi, stimato da Eurostat e posto pari a 100 per tutti i paesi nel 2000, passa da 85 a 103 in Italia tra il 1960 e il 1995 e poi inizia a scendere, arrivando a 93 nel 2007.

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