18/11/12

Le minacce dell'Economist, la strategia di Hollande e le considerazioni di Jacques Sapir

La copertina dell'Economist ha chiaramente indicato la Francia come la prossima bomba pronta ad esplodere nel mezzo della crisi dell'eurozona. 

Questo il succo dell'articolo, che ha il senso di un vero e proprio avvertimento al governo socialista di Hollande:


L'Economist osserva come da anni il paese abbia perso competitività nei confronti della Germania, soprattutto da quando i tedeschi hanno tagliato i costi e hanno spinto sull'acceleratore delle riforme. Senza la possibilità della svalutazione, la Francia ha fatto ricorso alla spesa pubblica e al debito pubblico, che è passato dal 22% del PIL dei primi anni '80 a oltre il 90% di adesso.



Anche il clima del business in Francia è peggiorato. Le imprese francesi sono gravate da una regolamentazione troppo rigida del mercato del lavoro – con un carico fiscale e contributivo eccezionalmente alto. In breve, troppe imprese in Francia sono poco competitive e il settore pubblico del paese vive al di sopra dei propri mezzi.
 Le elezioni sono state vinte dalla sinistra, che ora avrebbe miglior gioco rispetto alla destra nel convincere i sindacati ad accettare i necessari cambiamenti.  Eppure, davanti alla gravità dei problemi economici della Francia, Mr Holland sembra ancora tiepido. Ha anche già approvato una serie di misure sinistroidi, tra cui un'aliquota di imposta al 75% sui redditi alti, un aumento delle imposte sulle società, sulla ricchezza, le plusvalenze e i dividendi, un salario minimo più elevato e un parziale ritorno indietro da un innalzamento dell'età pensionabile già precedentemente approvato.
Insomma, il suo partito socialista rimane arretrato e ostile al capitalismo. Tutti i paesi della zona euro stanno facendo riforme strutturali, e la Francia rischia di essere lasciata indietro da Italia e Spagna. Lo special report dell'Economist sull'Italia (nel giugno 2011) si concentrava sul fallimento delle riforme sotto Silvio Berlusconi, e per la fine dell'anno Berlusconi era fuori, e il cambiamento è cominciato. Gli investitori finora sono stati indulgenti verso la Francia, ma prima o poi ci sarà la resa dei conti. Non si può sfidare l'economia troppo a lungo.
 A meno che il signor Holland non dimostri di essere veramente impegnato a cambiare il percorso del suo paese, la Francia perderà la fiducia degli investitori e della Germania. Il sentiment dei mercati può cambiare rapidamente. La crisi potrebbe colpire già dall'anno prossimo. La Francia, piuttosto che la Spagna o l'Italia, potrebbe essere il luogo dove il destino dell'euro sarà deciso. Mr Holland non deve aspettare oltre a disinnescare la bomba ad orologeria posta nel cuore dell'Europa.

La foto delle baguettes esplosive in prima pagina ha passato la misura, e la Francia ha reagito con indignazione. Il Ministro dell'Industria Told Arnaud Montebourg su radio Europe 1 ha dichiarato: "Onestamente, The Economist non si è distinto per senso di equilibrio", paragonando il giornale britannico al settimanale satirico francese che nel mese di settembre ha attirato le critiche internazionali per i fumetti sul profeta Maometto.
Il Ministro delle Finanze Pierre Moscovici ha rilasciato un'intervista al FT in cui ha dichiarato che “la Francia non è il grande malato d'Europa, ma rimane la quinta più grande economia al mondo, e dispone di tutte le risorse necessarie a ristabilire la sua competitività." Moscovici ha detto che le proiezioni del governo su una crescita dello 0.8% nel 2013 “non sono irrealizzabili", specialmente se l'eurozona si stabilizza.
Ma aldilà del fosco quadro dipinto dall'Economist e dalle sue più o meno velate minacce al governo Hollande perché si pieghi alle "necessarie" riforme strutturali  – e aldilà della difesa d'ufficio del ministro delle finanze francese – qual'è la reale situazione del paese?



Ecco cosa ne pensa l'economista Jacques Sapir, che in un articolo sul suo blog commenta il provvedimento di detassazione delle imprese approvato dal governo e la strategia di Hollande. 

I retroscena di un annuncio : Jean-Marc Ayrault e  il “credito d’imposta”

 

di Jacques Sapir - Martedì 6 Novembre, dopo la relazione sulla competitività dell'industria francese da parte di Louis Gallois, il primo ministro Jean-Marc Ayrault ha fatto un annuncio importante. La velocità della sua reazione è sembrata sorprendente, ma in realtà, queste misure erano già pronte da settembre. Fanno parte della strategia del governo, che continua a sperare in una ripresa della crescita a partire dall'estate del 2013.

Tali misure, infatti, sono costituite da un credito d'imposta per le imprese di 20 miliardi di euro (10 miliardi nel 2013 e 5 miliardi nel 2014 e 2015), crediti d'imposta che saranno finanziati da aumenti di 10 miliardi (in realtà 7 miliardi) dell'IVA per il 2014, e tagli di spesa (di norma 5 miliardi all'anno, ma che in realtà dovranno essere più alti per raggiungere i 13 miliardi mancanti) nel 2014 e 2015. In realtà, ciò equivale a restituire alle imprese i 10 miliardi di aumento del prelievo fiscale deciso dalla legge finanziaria 2013, e non ci saranno che 10 miliardi di denaro fresco, distribuito tra il 2014 e 2015.
L'impatto di queste misure sarà più alto nel 2013, perché nel 2014 e 2015 sarà più che compensato dagli aumenti delle tasse e dai tagli alla spesa di bilancio.

[...] Le misure annunciate dal Presidente del Consiglio hanno dunque l'effetto di compensare l'impatto del risanamento dei conti pubblici della legge finanziaria 2013, diluendone gli effetti nel tempo. Ma perché tornare indietro prima di saltare? Soprattutto perché il governo è convinto che la crescita globale verrà in suo soccorso a partire dall'estate del 2013, e che è utile rimandare al 2014 alcune delle scosse di assestamento, perché queste saranno più che compensate dal ritorno alla crescita. Sarebbe una buona politica se ci fossero seri motivi di ritenere plausibile il ritorno alla crescita. Ma l'unico argomento portato dal Presidente della Repubblica (in una intervista recentemente pubblicata da Le Monde 1 ) è molto debole "Siamo al terzo anno di crisi. La ripresa ci sarà, è una questione di ciclo."

L'esistenza dei cicli economici è una storia molto vecchia, che ha dato luogo a numerosi dibattiti 2. Ma non basta invocare l'esistenza di un ciclo economico per risparmiarsi lo sforzo di un'analisi fondata. Molto concretamente, occorre mostrare come i meccanismi che hanno portato alla contrazione dovrebbero portare a un'ulteriore espansione. Perché, e questo è quello che sembra ignorare il Presidente, ci sono crisi che non sono "cicliche". In questo caso, la crescita prevista dovrebbe verificarsi negli Stati Uniti. Ma nulla nei dati disponibili fa prevedere un rapido ritorno alla crescita capace di tirare l'economia europea e francese.

[...]

Le conseguenze della rielezione di B. Obama

Da questo punto di vista, è chiaro che la rielezione di B. Obama non risolve nulla. Il Presidente si troverà presto di fronte a delle scelte importanti, che finora ha evitato, affidando alla politica monetaria il compito di risolvere tutto. Le banche degli Stati Uniti sono minacciate da un accumulo di "Prestiti agli studenti" fino a 1.000 miliardi, di cui presumibilmente circa il 20% non saranno rimborsati. A causa degli equilibri politici in seno al Congresso, è chiaro che deve essere trovato un compromesso, e questo compromesso imporrà una diminuzione del disavanzo e degli sforzi per controllare (e non ridurre) il debito (pubblico) che ammonta a 16.000 miliardi di dollari. Un aumento dell'offerta di moneta dovrebbe compensare, in parte, le misure fiscali e di bilancio restrittive e consentire alle banche di passare senza troppi danni questa nuova crisi che si annuncia dei "Prestiti agli studenti". Se l'accordo sarà fatto in questa direzione, ciò significa che il dollaro continuerà a deprezzarsi contro l'euro e le esportazioni statunitensi diventeranno più competitive. La crescita degli Stati Uniti non sarà quindi di alcun beneficio per noi.
 
Ma c'è uno scenario molto più pessimista. Non è da escludere che il compromesso sarà solo parziale, e che il "Muro Fiscale" (Fiscal Cliff) che minaccia l'economia degli Stati Uniti diventerà una realtà. In questo caso, avremmo un forte aumento del dollaro (il che sarebbe un bene per le nostre esportazioni), ma un crollo della domanda interna negli Stati Uniti, che farebbe precipitare l'economia in depressione per un periodo di 2 o 3 anni almeno. In questo scenario, le banche sarebbero seriamente minacciate dal crescente fallimento dei loro debitori interni.

Qualunque sia l'esito della lotta tra il Presidente e il Congresso, l'Europa non può, e non deve quindi contare, sulla crescita degli Stati Uniti come "traino" dell'economia globale.

 

Conseguenze per la Francia

Torniamo quindi alla politica del governo francese.

La speranza di essere "salvati" dalla crescita estera non tiene. Si tratta di un gioco d'azzardo, e come abbiamo già avuto l'occasione di scrivere, di una scommessa stupida. La diluizione nel tempo dello shock dell'aggiustamento fiscale non salverà il governo. La disoccupazione continuerà a crescere rapidamente, e nel giugno 2013 ci saranno probabilmente tra i 3,4 e i 3,5 milioni di disoccupati (secondo Pôle Emploi). La differenza può venire principalmente dal ritmo della creazione dei posti di lavoro agevolati. L'aumento proseguirà nel secondo semestre, forse a un ritmo più lento, e si prevede di raggiungere dai 3,6 ai 3,7 milioni di disoccupati alla fine del 2013. Nelle condizioni attuali, è chiaro che il potenziale di crescita dell'economia francese sarà debole per l'anno 2014. Tuttavia, è proprio su quest'anno che peserà una parte dello shock dell'aggiustamento, che sarà stato compensato dalle misure di JM Ayrault. L'aumento della disoccupazione dovrebbe essere compresa tra 300.000 e 500.000 disoccupati, il che significa che a dicembre 2014 avremo tra i 3,9 milioni e i 4,2 milioni di disoccupati. Va ricordato che queste stime sono "coeteris paribus" e che ogni nuovo aggiustamento di bilancio peggiorerà le cose. Allo stato attuale, l'aumento della disoccupazione rispetto a quando François Hollande è stato eletto sarà dal 30% al 40%. Anche se le misure a sostegno della competitività sortiranno un effetto positivo, portando alla creazione di 300.000 posti di lavoro dal 2014 al 2017 – il che è molto dubbio - la disoccupazione continuerà ad aumentare rispetto a giugno 2012.

Non è chiaramente più il tempo di aggiustamenti, ma di una rottura con le politiche che sono state condotte finora. E dobbiamo ricordare che l'unico modo per recuperare di colpo e durevolmente la competitività dell'economia francese, sia rispetto alla Germania all'interno dell'eurozona che rispetto ai nostri concorrenti esteri, passa da una svalutazione dal 20% al 30% - e la svalutazione comporta la dissoluzione dell'eurozona. Il collegamento tra l'euro e il tasso di disoccupazione non è mai stato così evidente come oggi.


  1. Intervista realizzata il 25 ottobre e pubblicata il 1 ° novembre.[ ]
  2. Jacques Sapir, Les Trous noirs de la science économique – Essai sur l’impossibilité de penser le temps et l’argent, Albin Michel, Paris, 2000. Idem, “Cycles économiques et relations entre l’investissement, l’emploi et la productivité dans le cas de l’URSS : un modèle” in B. Chavance Ed. Régulations, Cycles et crises dans les économies socialistes, Éditions de l’École des Hautes Études en Sciences Sociales, Paris, 1987, pp. 159 à 182. []
  3. Jacques Sapir, « From Financial Crisis to Turning Point. How the US ‘Subprime Crisis’ turned into a worldwide One and Will Change the World Economy » in Internationale Politik und Gesellschaft, n°1/2009, pp. 27-44. Idem,  Global finance in Crisis : a provisional account of the ‘subprime’ crisis and how we got into it », real-world economics review, issue n° 46, 18 mai 2008, URL http://www.paecon.net/PAEReview/issue46/Sapir46.pdf []

13 commenti:

  1. Ancora una volta ci hai fatto un grande regalo con questo articolo. Rappresentanti veramente una grande risorsa per chi, come me, litiga un po con l'inglese.
    Se posso approfittare ancora una volta della tua disponibilità, vorrei segnalarti un articolo del THE GUARDIAN, buono anche per Voci dalla Germania.
    Ecco il link :
    http://m.guardian.co.uk/commentisfree/2012/aug/21/mini-jobs-germany-britain?cat=commentisfree&type=article

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  2. non voglio insegnare niente a nessuno, è ben lungi dal mio modo di vedere i rapporti umani, ma posso solo ripetere ciò che ho scritto in un commento di alcune settimane fa': credo di poter dire che ancora non è stato capito che la crisi attuale è direttamente collegata con il sistema di produzione capitalistico perchè non consente più di realizzare il plusvalore voluto dai capitalisti, per cui, e quindi non esiste differenza tra il capitale cosidetto produttivo e i cosidetti pescecani della finanza (son sempre gli stessi), il CAPITALE deve ridurre in schiavitù il popolo lavoratore e contemporaneamente appriopriarsi, grazie alle tonnellate di denaro senza valore su cui siede, dei beni e delle ricchezze del mondo. Quindi l'alternativa è tra la guerra, che grazie alle distruzioni che provoca rilancia, seppur limitatamente nel tempo la produzione, o il dare un altro senso alla società e la modo di produrre capitalistico, cioè riuscire a mettere all'angolo il capitalismo e i capitalisti. Solo due tedeschi, per quel che ne so io, ma il sono un piccolo proletrario di provincia, hanno scritto esaurientemente sul problema. I tedeschi nel frattempo stanno a tutti sulle palle, però ci sono oppositori del potere tedesco che sono veramente in gamba. Il libro (in tedesco) si chiama: "Die groß Entwertung", die E. Lohoff e N. Trenkle, Unrast Verlag (www.unrast-verlag.de), 48043 Münster. Questo libro amplia e può ancora di più ampliare la discussione sulla attuale crisi e aprire gli occhi sul perchè e sul come uscire dalla crisi. È la seconda volta che cito questo libro. La prima volta mi fu risposta "non conosco il tedesco" vediamo ora: In ogni caso auguri, quando vrrà giù tutto sarà interessante confrontare le opinioni di prima e di dopo.
    emilio

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    1. Ciao Emilio, facci tu una sintesi di quanto sostiene il libro che citi. Io personalmente non leggo il tedesco.
      Comunque sicuramente il capitalismo basato sul principio del massimo profitto sta mostrando la sua potenzialità altamente distruttiva. Io sono per l'economia civile e per una distribuzione basata sul principio della equità e reciprocità.

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  3. Buongiorno,
    se ti devo dire la mia,il downgrade della francia
    mi ha fatto piacere,e ne sono veramente contento,
    visto che sono d'accordo con Bagnai,
    che dice che l'euro,verrà messo in discussione
    quando anche la Francia inizierà a subire i morsi della crisi.

    Questo,spero faccia avvicinare il momento
    della discussione seria sulla moneta unica.
    Un'altro nel gruppo dei brutti,sporchi e cattivi !!

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    1. Certo, prima le minacce, poi il downgrade, tutto secondo copione. Prima i nodi arrivano al pettine e prima se ne esce, sono d'accordo.

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  4. Hollande, come il Berlusca, fara' la fine dello Zappaterra; cosi' vogliono "the powers that be".

    Facciamo il tifo per il crollo della Francia, non per una questione genetica di antipatia nei loro confronti (solamente), ma perche' questo portera' alla fine dell'Euro, lo strumento di sopraffazione di Herr Professor & friends.

    Avete sentito l'ultima di Van Rompuy, il puffo maledetto? Una volta di piu' ci voleva far assaggiare la sua frusta sul tema: riduzione budget Europeo: indovinate chi avrebbe dovuto pagare di piu', (malefico puffo dei miei stivali)?

    Carmen, senti, ho letto il tuo commento, ma prima di distribuire bisogna produrre ricchezza giusto? Altrimenti che distribuiamo?

    Certo, molta ricchezza di tanti parassiti che ben conosciamo potrebbe ben essere redistribuita; ma non scordiamoci che siamo nell'epoca di Internet; i capitali si muovono in meno di 1 s., garantito.

    E' un po' come la storia di tassare di piu' i porti dove attraccano gli yachts tutti con bandiera Panamense; adesso sono tutti in Croazia, Corsica, Slovenia....e i nostri porti sono vuoti: bell'affare Professo' !!

    Quindi PURTROPPO bisogna essere pragmatici e piu' furbi, a mio parere.


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    1. Ma occorrerà per forza porre dei limiti alla circolazione dei capitali, credo...

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    2. Concordo con Persil al 100%.
      In sostanza, focalizzare sull'accentuazione degli squilibri distributivi determinata da questa "crisi indotta", cioè programmatica e intrinsecamente strutturale, senza curarsi delle cause è fuorviante.
      Non si tratta, genericamente e indistintamente, di una crisi del "capitalismo", avido, disumano e sfruttatore.
      Ciò sarebbe vero se i paesi interessati non avessero delle Costituzioni democratiche intessute non solo di diritti fondamentali ma anche "sociali".
      Il problema è l'euro.
      La sua strisciante violenza eversiva delle Costituzioni e qundi della democrazia redistributiva, socialmente "aperta" e quindi orientata alla crescita (euro=stagnazione o recessione)...pur nel capitalismo.
      Che non è un fenomeno inevitabile di concentrazione della ricchezza, come ha dimostrato la crescita occidentale nei primi 30 anni del post II-WW.
      Dire che non basta parlare di "cattiva finanza" è altrettanto generico.
      Il fenomeno si manifesta con la liberalizzazione internazionale della circolazione dei capitali cumulata con l'idea "politica", -non dibattuta e condivisa consapevolmente e democraticamente, grazie a una stampa controllata in un disegno verticistico di propaganda-, dei vincoli valutari, cambi fissi, e moneta unica.

      Sui riflessi mondiali di tale impostazione possiamo allargare il campo di indagine e vedere come l'europa "lisbonizzata", sia il più grande esperimento restauratore che la Storia abbia mai registrato, finora più riuscito e stabile della stessa "controriforma" del 500-600.
      Non ci sono infatti "potenze" (come gli Ottomani o gli Stati in espansione coloniale) capaci di bilanciarla. Tutto è lasciato ai popoli interessati: o credono nelle Costituzioni democratiche, cercando di "conoscerle" e rivendicarne le applicazioni aggiornate di fronte ai rispettivi governi che le violano, o il cerchio si chiuderà a favore di uno "specifico" tipo di capitalismo...

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    3. Non so se ho dato questa impressione, ma non sto sostenendo che il capitalismo in sè sia inevitabilmente distruttivo e disumano. L'età dell'oro del capitalismo del trentennio 50-70, ce lo ha dimostrato. E' sicuramente possibile una versione umana e illuminata del capitalismo. Piuttosto, io mi sono rappresentata le vicende in questo modo: che benché la piena occupazione, e il riconoscimento dei diritti non solo economici ma anche sociali, sia senz'altro fattibile all'interno dell'economia di mercato capitalistica, tuttavia esistono dei blocchi sociali portatori di interessi contrapposti che non accettano quella condivisione del potere e quella redistribuzione che naturalmente sono implicate da un capitalismo di successo che porti alla piena occupazione. Da qui la liberalizzazione dei capitali e i vincoli di cambio, da qui la moneta unica, come barriere poste alla democrazia sociale.

      Certo, a questo punto a me sembra che il capitalismo stesso sia incompatibile con la democrazia, se inteso, però, come modo di scambio dominato dall'obiettivo del massimo profitto individuale.
      Invece, l'economia di mercato potrebbe benissimo convivere con il principio dell'economia "civile", di cui parla Zamagni - che sembra abbia trovato una applicazione proprio qui da noi in Italia durante la breve stagione dell'Umanesimo - e che comporta che le regole e le istituzioni che presiedono agli scambi siano orientate al bene comune, indirizzando i comportamenti reali, anche se mossi da moventi antisociali. E' d'altra parte chiaro che, nonostante le buone leggi e il buon governo siano di grande importanza, la realizzazione effettiva di tutto questo comporta che le "virtù civiche" siano abbastanza diffuse tra la popolazione.
      La stessa metafora della mano invisibile di Smith può essere interpretata nel senso che l'armonia collettiva emergerà dall'interazione di individui liberi, sì, ma le cui motivazioni includano, però, il bene comune.

      E sono molto d'accordo quindi che alla fine tutto dipenderà dai popoli interessati, se riusciremo nonostante il forte vento contrario a comprendere e a far valere le istituzioni democratiche conquistate nell'età dell'oro...

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  5. Sul libro "Die große Entwertung". La casa editrice lo presenta cosí: "Perchè speculazione e debito pubblico non sono la causa della crisi.Nell'attuale globale crollo del mercato finanziario si scaricano le contraddizioni della società capitalistica. L'acuto impeto della crisi trova il suo sfogo nei mercati finanziari, la sua origine è però ben più profonda. Niente è più falso del credere alla leggendas della pugnalata alle spalle, la sana economia reale cade vittima dell'infinita avidità di un pugno di banchieri e speculanti. Al contrario, le ragioni varie e molteplici. Lo storicamente inaudito decollo della sovrastruttura finanziaria negli ultimi tre decenni non era altro che la forma del processo e del provvisorio rinvio della fondamentale crisi della società capitalistica. Un modo di produrre che si basa sullo sfruttamento della forza lavoro umana a causa della spaventosa crescita della produtività durante la terza rivoluzione industriale, deve finir per cozzare sui propri confini strutturali. La società non ha mai vissuto al disopra dei prorpi metzzi, al contrario, la società è troppo ricca per il capitalismo."
    Il libro si divide in tre parti: 1° parte: "I limiti della valorizzazione del capitale nella terza rivoluzione industriale". 2° parte: "La logica del capitale fittizio". 3° parte: "Lo sviluppo storico del capitale fittizio".
    Nel libro vengono analizzati origine e sviluppo della crisi del 1929 e quindi il boom dopo la seconda guerra mondiale, il crescere continuo della produttività e le sue conseguenze, lo scock petrolifero e la conseguente crisi, con la nascita del mercato finanziario moderno e col divenire merce della stessa moneta, il problema dellla superaccumulazione e della mancanza di sbocchi nella econimia produttiva. Naturalmente viene analizzato e descritto che non ci sono produttori buoni e banchieri e speculatori cattivi, perchè tutti lavorano di concerto, son capitalisti.
    Spero che questa breve nota dia un'idea sul libro. Per quel che mi riguarda mi auguro che venga tradotto al più presto in italiano
    emilio

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  6. Grazie Emilio.
    Credo che dare la colpa della crisi alla cattiva finanza sia solo vedere la punta dell'iceberg, sono molto d'accordo. Naturalmente bisognerebbe leggere il libro di cui ci parli, però mi sembra da quel che tu riassumi che non sia in contrasto con la causa profonda delle crisi, già individuata da Keynes tanti anni fa, che risiede essenzialmente nel problema della domanda (e alla carenza di domanda si supplisce col debito). Inutile avere tanta produttività se non si supera il conflitto sociale per la distribuzione. O forse andremo a esportare nei pianeti ricchi del sistema solare...

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    1. o altrimenti, e sarebbe la soluzione, produrre per la società con la società e in società e non per realizzare plusvalore basato sullo sfruttamento di tutto e tutti.
      emilio

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