Terza ed ultima parte della approfondita analisi dello storico Perry Anderson sulle istituzioni europee pubblicata sulla London Review of Books, dove si prendono in esame il Parlamento europeo, la Banca centrale e il Consiglio europeo. Mentre il primo è un organo poco importante e privo dei poteri tipici del legislativo, la cui la vera funzione è quella di simulare quella legittimazione democratica che i federalisti ancora sognano in un imprecisato futuro, gli altri due sono i veri depositari del potere. La Banca centrale si può considerare l'istituzione più potente, perché gode di un'assoluta indipendenza ed è capace di prendere decisioni rapide e fortemente impattanti senza dover seguire i tipici procedimenti complicati e macchinosi degli altri organi europei. L'importanza dell'ultima cruciale istiutuzione, il Consiglio europeo, è legata alla transizione da Stato-nazione a Stato-membro, in seguito alla quale i governi nazionali, invece di esprimersi in quanto rappresentanti della sovranità popolare, privilegiano il coordinamento con gli altri governi dell'Unione, che dagli anni '80 convergono tutti verso le prescrizioni del neoliberismo, e riescono ad indurre il consenso verso le nuove politiche antisociali presentandole come un vincolo esterno e una necessità derivante da questo nuovo modello di comunità. A questo fine giocano un ruolo importante altri due fattori. Il primo è il codice operativo rigorosamente basato sul segreto e sul presunto consenso unanime dei 27, dove in realtà le decisioni sono prese dai paesi dominanti. Il secondo è tutto il repertorio della pubblicità di immagine basato sui valori dei diritti umani, della pace e della solidarietà, che a ben vedere confligge con la realtà e ha anche poca presa sulle popolazioni a cui è rivolta. Questa la conclusione della ricca e dettagliata disamina di Anderson: "la paura dell'ignoto è il tessuto connettivo più importante" di questa Unione.
Qui la Prima parte, dove si parla della Corte di giustizia, uno tra gli organi più decisivi e meno trasparenti dell'Unione
Qui la Seconda parte, dove si parla della Commissione europea, organo dal poderoso apparato burocratico e decisivo per assicurare l'allineamento degli stati agli obiettivi dell'Unione.
di Perry Anderson, London Review of
Books, gennaio 2021
E il Parlamento
europeo? Composto ora da 705 deputati, ripartiti tra i 27 stati dell'Unione
per ridurre un po' il peso dei paesi più grandi (Germania in particolare), e che fa
la spola mensilmente tra Bruxelles e Strasburgo, con le sue aspirazioni a un
futuro federalista per l'Europa è stato uno storico alleato della Commissione e
della Corte. La Commissione avrebbe voluto diventare ciò che Hallstein si
aspettava che fosse, l'esecutivo di governo dell'Europa, e l'Assemblea - è
stata ufficialmente designata Parlamento solo negli anni '80 - ha cercato di
diventare l’organo legislativo dell'Europa, verso cui questo esecutivo sarebbe
stato responsabile: speranze che non si sono concretizzate. Tuttavia, nel tempo
il Parlamento ha acquisito una propria infrastruttura burocratica sostanziale –
composta attualmente di circa settemila funzionari - e un numero limitato di
poteri, di cui i tre più significativi sono il diritto alla "codecisione"
con il Consiglio sulla legislazione proposta dalla Commissione; la possibilità
di respingere - ma non modificare - il bilancio proposto dalla Commissione; e di rifiutare - ma non eleggere - i commissari scelti dal presidente della
Commissione. Non ha il diritto di eleggere un governo, di iniziativa
legislativa, di imporre tributi, di decidere il welfare o di determinare una
politica estera. In breve, è una parvenza molto riduttiva di parlamento, come
comunemente inteso.
Gli elettori ne sono consapevoli e hanno mostrato scarso
interesse nel Parlamento. L'affluenza alle elezioni europee è notoriamente
scarsa, in calo costante per quattro decenni fino a un punto in cui la sua
ripresa a poco più del 50% nel 2018 potrebbe essere salutata come il segno,
finalmente, di una solida democrazia europea, se non si stesse ancora dieci
punti al di sotto dell’affluenza del 1979, quando si tennero le prime elezioni
del genere. E la maggior parte dei cittadini che si prendono la briga di andare
alle urne, nemmeno votano sulle questioni europee. Piuttosto, nel votare a
favore o contro i partiti in lista, esprimono le loro opinioni sull'operato dei
loro governi nazionali. Il risultato è un'assemblea composta da circa duecento
partiti eterocliti, che poi si riuniscono in sei o sette gruppi, la cui unità
non è profonda - i legami tra i deputati nelle delegazioni nazionali sono
spesso più stretti che con i loro affiliati paneuropei. Non può emergere alcuna
divisione tra governo e opposizione, perché non c'è un governo da formare o contro
il quale opporsi. Lo schema piuttosto è per le grandi coalizioni, come in
Germania, che riuniscono unioni di centrodestra e centrosinistra per
controllare i procedimenti, ed eleggono tra i loro ranghi i principali
responsabili e i presidenti delle commissioni più importanti dell'assemblea,
con un apporto variabile da parte dei liberali e dei verdi. La differenza politica tra le due principali
coalizioni, in generale abbastanza sbiadita a livello nazionale, diventa quasi
del tutto invisibile nelle successive ricombinazioni che avvengono a Bruxelles
e Strasburgo.
Come ci si potrebbe aspettare, in questo organismo enorme,
eterogeneo, in gran parte cerimoniale, i deputati hanno poco interesse a
partecipare realmente a ciò che accade. La presenza media è di circa il 45 per
cento. Praticamente tutto il lavoro è distaccato nelle commissioni, dove a
porte chiuse si svolgono i misteri del 'trilogo': cioè i rappresentanti del
Parlamento si consultano con i rappresentanti del Consiglio dei ministri e
della Commissione su quali proposte legislative di iniziativa della Commissione, di solito
autorizzate dagli Stati membri e dai loro rappresentanti permanenti a
Bruxelles, possono essere accettate per la trasmissione al voto in aula - le
discussioni ruotano principalmente attorno a questioni di procedura piuttosto
che di sostanza. Come osserva Christopher Bickerton, "tra il 2009 e il 2013, l'81% delle proposte è stata approvata in prima
lettura tramite il metodo del trilogo. Solo il 3 per cento ha raggiunto la
terza lettura, che è il luogo in cui i testi vengono discussi nelle sessioni
plenarie del Parlamento”. Questa è l'alchimia della codecisione.
Nel 2014, quando l'affluenza alle urne era appena del 42,5
per cento, il Parlamento ha lanciato una campagna con ampio sostegno mediatico per trasformare le elezioni in un esercizio paneuropeo di volontà democratica:
ciascuno dei gruppi politici avrebbe nominato un candidato alla presidenza della Commissione - dal punto di vista legale per concessione del Consiglio - e il gruppo che avesse
ottenuto il maggior numero di seggi, dotato del sostegno del Parlamento, avrebbe
elevato quindi il suo Spitzenkandidat alla presidenza della Commissione, come
qualsiasi altra assemblea legislativa avrebbe potuto votare un governo in carica. Il
centro-destra ha ottenuto la maggior parte dei voti; il suo candidato era Jean-Claude
Juncker. Dopo un certo tergiversare, la Merkel ha convinto il Consiglio ad
accettarlo e Juncker è diventato presidente della Commissione, forte di circa
il 10 per cento dell'elettorato europeo. Se non ci fosse riuscita, ha dichiarato
Habermas alla Frankfurter Allgemeine Zeitung, sarebbe stato "un proiettile
al cuore del progetto europeo". Cinque anni dopo Macron ha puntato i piedi
e il prossimo presidente è stato scelto secondo le regole dal Consiglio,
ignorando lo sfortunato Spitzenkandidat. Indignato per questo rifiuto alle sue
pretese, si è parlato di ribellione in Parlamento, che pur non avendo il
diritto di selezionare, può respingere un presidente della Commissione. Ma
questo non avrebbe provocato una crisi del progetto europeo? La terrificante
prospettiva di un aperto disaccordo tra le sue istituzioni ha placato
abbastanza gli spiriti da consentire a Ursula von der Leyen di entrare in
carica.
La funzione del Parlamento europeo, che non aggrega né
canalizza i desideri degli elettori, dai quali una volta chiuse le urne si
distacca completamente, è, come ha affermato lo studioso italiano Stefano
Bartolini, "un consolidamento delle élite". Cioè, un processo in cui
le parti colludono tra loro per offrire l'apparenza di un'assemblea
democratica, dietro la quale si sono comodamente trincerate le consorterie
oligarchiche. Le quali sarebbero ben felici di ottenere più poteri, ma non
hanno alcun interesse a cederne alcuno a coloro che, solo nominalmente, rappresentano.
L'ampiezza del divario tra l'istituzione e le popolazioni sottostanti si può
giudicare dalle rare occasioni in cui queste ultime hanno potuto far sentire
direttamente la propria voce. Nei Paesi Bassi, l'affluenza alle elezioni
europee del 2004 è stata solo del 39%. Un anno dopo l’affluenza ha raggiunto il
63% in occasione del referendum sul progetto di Trattato costituzionale - che,
sebbene sostenuto dall'80% della delegazione olandese a Strasburgo / Bruxelles,
è stato respinto dal 62% degli elettori olandesi. Il Parlamento non è quello
che sembra, ed è la componente meno significativa dell'Unione. Vuol dire che è
poco più di una decantata foglia di fico? Non proprio. Le apparenze contano e,
a suo modo, il Parlamento svolge un ruolo costruttivo per l'Unione in quanto
offre una sorta di legittimazione, come richiesto da qualsiasi ordine liberale che
si rispetti. Per quanto limitato possa essere il coinvolgimento dei cittadini,
i sondaggi paneuropei sincronizzati sono meglio di niente, e i loro beneficiari
possono continuare a sperare che un giorno nascerà un vero e vitale sistema
politico federale.
Di tutt'altro ordine
politico è la Banca centrale europea, creata per gestire la moneta unica
entrata in vigore nel 1999. Oggi è una delle più potenti istituzioni dell'UE,
qualcuno direbbe la più potente. Con sede a Francoforte, il suo consiglio
direttivo è composto dai capi delle banche centrali dei paesi della zona euro e
dai sei membri del consiglio esecutivo, che si riuniscono ogni due settimane. I
suoi procedimenti, a differenza di quelli della Fed o della Banca
d'Inghilterra, ma in linea con quelli della Corte di giustizia europea, sono
segreti. Occasionalmente, a differenza della Corte di giustizia, un membro può
dimettersi, ma le sue decisioni sono formalmente unanimi. Nessun dissenso viene
mai reso pubblico. Il Trattato di Maastricht ha conferito l'indipendenza
assoluta alla banca, che opera senza nessuno dei contrappesi - Congresso, Casa
Bianca, Tesoro - che circondano la Fed, inserendola in un contesto politico in
cui è pubblicamente responsabile. A differenza di qualsiasi altra banca
centrale, l'indipendenza della BCE non è solo statutaria, non ha regole o
finalità che possono essere modificate con decisione parlamentare: è soggetta
solo alla revisione dei trattati. A differenza della Commissione, del
Parlamento, della Corte di giustizia o persino del Consiglio, i suoi
procedimenti non sono complicati e macchinosi. Può agire con una velocità e un
impatto che nessun'altra istituzione dell'UE può eguagliare.
Maastricht ha dato alla BCE un unico obiettivo. Laddove la
Fed è incaricata dal Congresso di garantire la massima occupazione e la
stabilità dei prezzi, l'unica responsabilità della BCE era quella di garantire
la stabilità monetaria in quella che sarebbe diventata l'Eurozona. Fin
dall'inizio, come gli economisti sapevano e non pochi avevano sottolineato, le
economie che avrebbero dovuto adottare l'euro, molto diverse per dimensioni,
composizione e livello di sviluppo, non soddisfacevano in alcun modo i criteri
di un’ ''area valutaria ottimale" come definita dall'economista Robert Mundell
e altri. Anzi il contrario. Ma questo non ha scoraggiato la Commissione Delors
che ha guidato il progetto, poiché i suoi obiettivi erano politici piuttosto
che economici: in parte vincolare una Germania riunificata all'interno della
Comunità, ma più in generale creare una moneta che legasse gli stati che l’avessero
adottata così strettamente insieme, che sarebbero poi stati obbligati a far seguire
all'unione monetaria l'unione politica. Come obiettivo esplicito, era troppo per
Maastricht, dove le speranze federaliste erano state deluse dalla
contrattazione intergovernativa di tipo tradizionale. Tuttavia, il trattato creò
un'Unione economica e monetaria europea, e i politici lì riuniti che hanno
firmato il documento generalmente hanno dato poca attenzione a quali avrebbero potuto
essere le sue conseguenze, una volta che non sarebbero più stati in carica. La
porta di un'unione politica non venne aperta; né fu preclusa.
La separazione tra mezzi e fini si fece presto sentire. Wim
Duisenberg, il rude banchiere olandese che divenne il primo presidente della
BCE, si vantava di essere un deciso campione dell'ortodossia finanziaria, secondo
le migliori idee anglosassoni. Eppure era felicissimo quando la Grecia, dopo
aver adeguatamente preparato i suoi libri, prontamente adottò l'euro. Le sue
ragioni non erano economiche, ma politiche. Sebbene la moneta unica non fosse,
per chi la amministrava, una semplice scorciatoia per il federalismo, essa era
- come avrebbe detto Giandomenico Majone, pensatore più fedele ai principi
classici - un "progetto di prestigio" volto a elevare il profilo dell’UE nel
mondo. Un decennio dopo, l'Eurozona avrebbe pagato per questa vanità.
Jean-Claude Trichet, il francese che successivamente prese il timone di
Francoforte, era una figura più morbida, ma altrettanto cieca. La sua risposta
alla crisi finanziaria globale è stata prociclica: aumentare i tassi di
interesse per costringere i governi a tagliare la spesa pubblica, imponendo
l'austerità come cura per il crollo. Il suo successore, Mario Draghi, è stato
ampiamente celebrato per aver invertito la rotta, iniettando denaro nelle
economie della zona euro con l'acquisto di titoli di stato e una generosa dose
di altre forme di liquidità. In effetti, tra i due c'era molto più in comune di
quanto generalmente si creda. Draghi, responsabile di un vasto programma di
privatizzazioni in Italia, era più apertamente neoliberista, e dalle pagine del
Wall Street Journal aveva dichiarato obsoleto il contratto sociale europeo. Ma
nell'agosto 2011, i due scrissero insieme una lettera segreta a Berlusconi,
allora primo ministro italiano, chiedendo che ricorresse a un meccanismo di
emergenza da Guerra Fredda per tagliare le pensioni e altre spese pubbliche -
una violazione senza precedenti del mandato della banca. Tre mesi dopo
Berlusconi non c'era più. Da parte sua, Trichet, alla fine del suo mandato, era
arrivato a ricorrere a meccanismi di elusione del divieto, posto dal Trattato
di Maastricht, di acquisto di titoli del debito pubblico da parte della banca.
Lodando il suo capo, l'ex direttore generale alla Ricerca della BCE, Lucrezia
Reichlin, ha detto al Financial Times nel febbraio 2012: "L'intero concetto di aggirare le regole
europee e fare QE senza chiamarlo QE, è stato estremamente intelligente".
Cinque mesi dopo, Draghi annunciava al pubblico della City:
"Nell'ambito del nostro mandato, la
BCE è pronta a fare tutto il necessario (what ever it takes) per preservare
l'euro" Dopo essersi vantato della superiorità della performance
economica della zona euro rispetto a quella di Stati Uniti e Giappone
(quest'ultimo ritenuto meno "socialmente coeso" rispetto all'Unione,
dove metà dei giovani di Italia, Spagna e Grecia erano disoccupati), concludeva
chiarendo quale fosse in definitiva la posta in gioco della crisi. Nessuno
dovrebbe "sottovalutare la quantità di capitale politico investito
nell'euro". Ed era per salvaguardarlo che sarebbe stata necessaria
l'ultima ratio regis del momento: "operazioni
mirate di rifinanziamento a più lungo termine", "transazioni monetarie definitive" e
tutto il resto, ovvero modi intelligenti per aggirare le regole europee, restando
"nell'ambito del mandato"
della banca, e ciò in palese violazione degli articoli 123 e 125 del Trattato di
Lisbona. A tempo debito, la legalità di questi interventi sarebbe stata
contestata dinanzi alla Corte di giustizia. Ma così come non ha avuto alcun problema
nel reinterpretare il Trattato di Roma per arrogarsi dei poteri di cui non si
trova traccia nel documento firmato dai Sei, così la Corte di giustizia non ne
ha avuto nessuno nel decidere che Lisbona intendeva il contrario di ciò che era
scritto. Poiché ora non si trattava di leggere in un trattato ciò che non
conteneva, ma di eliminare da un trattato ciò che conteneva; le contorsioni
richieste erano, nelle parole di Horsley, "erculee". La commedia dei
giudici che spiegano solennemente che l'assistenza finanziaria nell'ambito del
meccanismo europeo di stabilità costituiva un atto di politica economica, non
monetaria, ed era quindi perfettamente in regola, mentre le transazioni
monetarie definitive erano uno strumento di politica monetaria, non economica,
e quindi erano anch’esse perfettamente in regola, richiede la penna mordace di un
Jonathan Swift. Che cosa significava effettivamente la "clausola di non salvataggio"
dell'articolo 125? Quei salvataggi andavano bene, fintanto che servivano
"l'obiettivo più alto" di preservare l'euro. O, con le parole di van
Middelaar, infrangere le regole significava essere fedeli al contratto.
In Germania i tentativi successivi, nel 1974, 1986, 1993 e
2009, di contestare la validità delle normative o dei trattati della Comunità
dinanzi alla Corte costituzionale del paese hanno tutti prodotto lo stesso
risultato. I giudici di Karlsruhe hanno dichiarato che la Grundgesetz tedesca - la Legge fondamentale - non può essere ignorata dalla Corte europea, ma poiché
nessuna violazione del genere si è "finora" o "ancora"
verificata, il caso non sussiste. L'anno scorso è stata chiamata ancora una
volta, questa volta a pronunciarsi sulla legalità della benedizione data dalla
Corte di giustizia europea al programma di acquisto di obbligazioni della BCE.
Ancora una volta ha rifiutato di affermarne l’illegalità, pur osservando che la
proporzionalità dei suoi effetti non era stata adeguatamente valutata e
incaricando il governo tedesco e la Bundesbank di condurre tale valutazione e
garantire un'adeguata proporzionalità. Negli Euromedia c’è stata la rivolta. Il
Financial Times era furioso. "Il
tribunale tedesco ha piazzato una bomba sotto l'ordinamento giuridico dell'UE",
ha gridato Martin Sandbu. La corte ha "lanciato
un missile legale al cuore dell'UE. Il suo giudizio è straordinario. È un attacco
alle basi dell’economia, all'integrità della banca centrale, alla sua
indipendenza e all'ordinamento giuridico dell'UE ", ha tuonato Martin
Wolf. "Gli storici del futuro
potrebbero segnare questo come il punto di svolta decisivo nella storia dell'Europa,
verso la disintegrazione". La Bundesverfassungsgericht, la Corte
federale tedesca, è un corpo per lo più sdentato, come indicano le sue sentenze
diligentemente sospese. Meglio conosciuto per aver ribaltato docilmente la
Legge fondamentale tedesca per consentire a Schröder e Merkel nel 2005 di
organizzare un'elezione incostituzionale prima che fossero fissate le elezioni,
si prende cura di evitare gravi offese ai detentori del potere. È improbabile
che Berlino e Francoforte abbiano molte difficoltà a rimettere a dormire
Karlsruhe.
“Fatta la legge, trovato l'inganno” è un proverbio italiano di
saggezza popolare. L'adagio implica che coloro che fanno la legge e quelli che la
ingannano non siano gli stessi. Ciò che distingue l'Unione è che le due parti coincidono.
Nelle mani della Corte europea e del coro dei suoi ammiratori, il termine stato
di diritto è giunto a significare, più o meno, un malgoverno di avvocati che
non si fermeranno davanti a nulla per piegare i testi a loro piacimento, a
scapito delle normali interpretazioni secondo un principio di giustizia. Ma che
importa, se si soddisfano bisogni più elevati - la sopravvivenza di un'unione
monetaria da cui dipendono mercato del lavoro, tasse, trasferimenti e
prosperità per tutti? Ma, come più di uno scrittore ha risposto, banchieri e
giudici sono le autorità più competenti per determinare quali dovrebbero essere
le pensioni o gli stipendi? Certamente, in queste faccende fanno abbastanza
bene, per quanto li riguarda. Ma la loro è la qualifica più appropriata? Il
motto di Fritz Scharpf è valido: nell'UE sono proprio quelle istituzioni che
hanno il maggiore impatto sulla vita quotidiana della maggior parte delle
persone che sono tenute più lontane dalla responsabilità democratica - la Corte
di giustizia europea, la Banca centrale europea, la Commissione europea.
La meno lontana è l'ultima delle istituzioni dell'Unione, il
Consiglio europeo, poiché comprende capi di governo che godono di maggioranze
in parlamenti autentici, frutto di elezioni significative. In quanto tale, è
diventata la massima autorità dell'Unione. Il “Passaggio all’Europa” di Van Middelaar è in gran parte la storia
dell’ascesa del Consiglio a questa posizione, e la sua affermazione secondo cui
il Consiglio è ora il principale motore dell'integrazione europea è
giustificata. Quello che non fa è guardare oltre le apparenze. Che tipo di
veicolo sta avanzando? Questo è l'argomento del più fondamentale di tutti i
lavori sull'UE dell'ultimo decennio, “L'integrazione europea” di Christopher
Bickerton, il cui titolo anodino, condiviso con dozzine di altri libri,
nasconde la sua particolarità, che si manifesta nel sottotitolo: “Dagli Stati
nazionali agli Stati membri”. Tutti hanno un'idea di cosa sia uno Stato-nazione
e molti sanno che 27 paesi (con l'uscita del Regno Unito) sono Stati membri
dell'Unione europea. Qual è la differenza concettuale tra i due? La definizione
di Bickerton è succinta. "Il concetto di Stato membro esprime un
cambiamento fondamentale nella struttura politica dello Stato, con legami
orizzontali tra gli esecutivi nazionali che hanno la precedenza sui legami
verticali tra i governi e le loro società." Questo sviluppo lo ha colpito
per la prima volta, spiega, al momento del referendum irlandese sul trattato di
Lisbona. “Quando è stato annunciato il
risultato del No, i membri del governo irlandese hanno espresso un misto di
sorpresa e imbarazzo: sorpresa perché non avevano familiarità con i sentimenti
prevalenti all'interno della propria popolazione e imbarazzo perché il voto comprometteva
molte delle promesse che avevano fatto ai loro pari nelle precedenti riunioni
a Bruxelles"(La descrizione è un eufemismo. Avvistato quella sera
fuori da un pub a Dublino, Brian Lenihan, all'epoca ministro delle finanze, era
bianco come un lenzuolo).
Come è avvenuta la transizione da Stato-nazione a Stato
membro? Dopo la seconda guerra mondiale - qui Bickerton segue Alan Milward e
John Ruggie - in Europa occidentale è stato raggiunto un compromesso di classe
tra capitale e lavoro, che ha assunto la forma organizzativa di uno stato
corporativo impegnato per la piena occupazione, una serie di servizi di welfare
e di trasferimenti. Basato su una crescita economica costante, il consenso
ideologico di questo periodo presumeva un forte coinvolgimento del governo
nella vita economica e assicurava un tenore di vita popolare in aumento.
Eppure, allo stesso tempo, "un contratto sociale più egualitario e
redistributivo" rispetto agli anni prebellici "ha coinciso con un
restringimento dello spettro politico": l’abbandono delle posizioni
radicali da parte della sinistra presagiva una più ampia depoliticizzazione e una
mancanza di sperimentazione politica che hanno portato al predominio dei
partiti di centro. La generale crisi economica degli anni '70 ha visto il
dissolvimento di questo compromesso di classe, con una crescita rallentata, l’aumento
delle agitazioni sindacali e le idee Keynesiane soppiantate dalle dottrine
Hayekiane e dalla Scuola delle scelte pubbliche, indifferenti al contratto
sociale. Per un certo periodo, i governi hanno continuato a provare le solite
ricette, ma all'inizio degli anni '80 era arrivato il neoliberismo, introdotto
dalla Thatcher, seguita dall'inversione di marcia di Mitterrand e dalla
repressione degli scioperi danesi, belgi e britannici. Liberati dalle pressioni
del lavoro organizzato, i governi iniziarono a convergere verso la
deregolamentazione e le privatizzazioni, per aprire i mercati all'innovazione e
alla concorrenza, secondo le prescrizioni del nuovo periodo. L'Atto Unico
Europeo del 1985 ne ha segnato il recepimento a livello comunitario.
Il rilancio della dinamica dell'integrazione sotto Delors fu
quindi il risultato di un modello di cambiamento politico interno in cui le
priorità politiche erano diventate le riduzioni fiscali, la repressione
salariale e il ritorno alle ortodossie finanziarie di stampo classico. Continuare a ottenere
il consenso degli elettori a questa linea non è mai stato facile, ma
con l'approfondirsi dei processi di integrazione, che comportano un
coordinamento ministeriale sempre più stretto oltre frontiera, i governi avrebbero
potuto presentare le misure impopolari come necessità derivanti dalla
costituzione della Comunità. Dai tempi di Montesquieu e Madison in poi, il
costituzionalismo implicava l'idea di un'autolimitazione della volontà politica
allo scopo di salvaguardare le libertà individuali: un insieme di vincoli
interni - divisione dei poteri, pesi e contrappesi – volti ad assicurare la nazione
contro la tirannia, sia da parte dei monarchi che da parte della massa. Il
formato liberale standard dello Stato-nazione si era così consolidato nel corso
del tempo. Con l'avvento della Comunità europea, una volta che la Corte di
giustizia è riuscita a darle, praticamente se non formalmente, un valore
costituzionale, gli stati membri hanno accettato una serie di vincoli esterni
di forma radicalmente diversa. "Il soggetto attivo, vale a dire i popoli, non gestiscono il potere normativo", scrive Bickerton:
“Piuttosto, i governi
nazionali si impegnano a limitare i loro propri poteri al fine di contenere il
potere politico delle popolazioni nazionali. Invece di esprimere sé stessi in
quanto potere costituente attraverso questa architettura costituzionale, i
governi nazionali cercano di limitare il potere popolare vincolandosi
ad un insieme esterno di regole, procedure e norme. L’esercizio della
sovranità popolare all’interno del paese, che serve a unire stato e società, è
sostituito da vincoli esterni al potere nazionale intesi come un modo per
separare la volontà popolare dal processo di decisione politica.”
Quando la Guerra Fredda finì, nel 1990, i dirigenti europei
avevano consolidato la transizione da stato-nazione a stato-membro. Con
Maastricht e la proclamazione dell'unione monetaria, i vincoli che ciò
comportava aumentarono naturalmente, così come la loro convenienza per i
governi che cercavano di imporre normative neoliberiste di un tipo o dell'altro
ai loro cittadini. Nel 1992-93 Giuliano Amato ha attuato una "correzione
fiscale" - cioè un pacchetto di austerità - pari a non meno del 6 per
cento del PIL italiano in nome del vincolo esterno imposto dall'Unione. Quando
la moneta unica, lungi dal portare una rinnovata crescita e prosperità, ha fatto
precipitare l'Italia in una prolungata stagnazione e recessione e l'intera zona
euro in crisi, la risposta non è stata quella di allentare le regole di
appartenenza, ma di irrigidirle ulteriormente, con la spettacolare costrizione
della sovranità popolare sancita nel Fiscal Compact del 2012. In questo
trattato, i vincoli esterni dell'Unione furono scritti per la prima volta, per
volere tedesco, all’interno delle Costituzioni degli Stati membri e i loro bilanci
annuali, considerati tradizionalmente il cuore della politica interna, divennero
oggetto di sorveglianza e direzione da parte di inviati di Bruxelles.
Sebbene l'attrito sia raramente assente da tali visite, la
disciplina che esse rappresentano è stata per la maggior parte accettata come
parte dell'ordine naturale delle cose. 'Per
gli Stati membri', scrive Bickerton, 'l'Eurozona
non è solo un'unione monetaria, ma anche un sistema collettivo per
l'elaborazione di politiche macroeconomiche coordinate a cui appartengono tutti
e che per molti versi è alle fondamenta delle loro identità e interessi come
Stati membri." Non da ultimo proteggendo gli inviati di Bruxelles
dall'intrusione di potenziali proteste, poiché le conclusioni dei comitati di
esperti - ratificate in conclavi ministeriali, annunciate dai capi di governo e
presentate ai cittadini in patria come fatto compiuto - diventano la norma. In
questo processo, ciò che contraddistingue l'UE come struttura politica a sé, diversa
dalle altre, è la presunzione di consenso e i protocolli che ne derivano, che
formano il suo codice operativo. A Bruxelles, gli emissari delle diverse
nazioni si confrontano su questioni riguardanti i loro settori specialistici,
sviluppando uno spirito di corpo e un'identificazione professionale con il lato
tecnico delle loro discussioni, in un sistema progettato per escludere
l'imprevedibilità del dibattito pubblico o del disaccordo politico. Lo stesso
schema vale più in alto, poiché le decisioni vengono passate al Consiglio dei ministri
nella sezione di competenza e, ove richiesto, fino allo stesso Consiglio
europeo, dove il risultato è consacrato con fotografie di circostanza e
comunicati all’unanimità. L'imperativo del consenso è tutto. "Questo spiega perché il processo decisionale
dell'UE è così riservato e manca di ciò che è considerato elementare nella vita
politica a livello nazionale", dove il conflitto è aperto e normale,
osserva Bickerton.
Strutturalmente, egli giudica lo Stato-membro una forma
sociale 'fragile e contraddittoria', allo stesso tempo potente nell'immunizzare
i governi nazionali contro le pressioni sociali interne, e debole perché priva
di radici lontanamente paragonabili ai legami verticali tra governi e popolazioni
dello Stato-nazione classico. La forma di politica nazionale a cui dà origine,
spesso mantenuta per contrapporre una tecnocrazia dominante a un populismo di
opposizione, tende piuttosto a una combinazione maligna dei due, con i leader
che mescolano una posizione populista sull'immigrazione con un approccio
tecnocratico all'economia, come Sarkozy, o atteggiamenti come quello di Blair, manager
pragmatico vicino ai sentimenti della gente comune; Macron offre l'ultima
versione della miscela. La superficialità dell'attaccamento delle élite ai
cittadini che rappresentano rafforza inevitabilmente il loro senso di
solidarietà reciproca nel club dei leader dell’Unione, dove si riuniscono ogni
due mesi circa. Ma la appartenenza offerta dal club non è, come dice Bickerton,
un rifugio stabile. Visto storicamente, lo Stato-membro è una "forma di
stato solida ma vuota".
Istituzionalmente, tuttavia, si è andata riempiendo. Dal
2017, il Consiglio europeo possiede per le sue sessioni bimestrali una nuova
sede a Bruxelles, satura di simboli - la forma di lanterna per il bagliore caldo
irradiato dalle sue deliberazioni, la policroma degli allestimenti per la
diversità dei popoli da esse illuminati - dove si riuniscono i capi di stato e
di governo, più i presidenti della Commissione e del Consiglio stesso. A turno
sono affiancati dall'Eurogruppo dei ministri delle finanze dell'Eurozona, che
si riunisce mensilmente, e il cui presidente può anche partecipare al Consiglio
su invito, come anche dall'Alto Rappresentante degli Affari esteri e della
sicurezza (notevolmente meno importante) dell'Unione. Sebbene sia la suprema
autorità politica dell'Unione, il Consiglio europeo in sé non legifera: le
leggi sono questioni di ordine inferiore che si svolgono nelle trattative dei triloghi
sottostanti. La competenza del Consiglio europeo sono le grandi decisioni dell'Unione:
essenzialmente, la gestione delle crisi, la revisione dei trattati e la
politica estera. Cioè, problemi economici urgenti e di "sicurezza"
(cioè rifugiati); questioni costituzionali (la parola è bandita dal Trattato di
Lisbona, ma il fatto resta); rapporti con le altre potenze (e la periferia
dell'UE, dove pende l'allargamento nei Balcani). È qui che sorgono gli
"allarmi" che invitano alle coraggiose "decisioni" dei
racconti dell'Unione di van Middelaar. Esempi notevoli: gestione della
delinquenza greca; utilizzare la venalità turca; replicare al rigetto del
progetto di Costituzione con una revisione dello stesso a Lisbona; punire la
Russia per l'annessione; e la Gran Bretagna per la diserzione.
In linea di principio, l'anello debole nella competenza del
Consiglio è l’economia, poiché non ha autorità sulla BCE, la cui indipendenza è
assoluta e il cui potere sulle economie dell'Unione è senza rivali. In pratica,
l'Eurogruppo fornisce un collegamento informale, in quanto un rappresentante
della banca è presente alle sue riunioni, ancora più riservate di quelle del
Consiglio stesso, anche perché la presenza alle stesse della banca, in deroga
alla sua indipendenza, richiede un velo di discrezione. Per formazione e visione,
i ministri delle finanze tendono ad avere idee simili, come ha scoperto
Varoufakis nel suo breve periodo con l'Eurogruppo. I disaccordi sono più
frequenti in seno al Consiglio. Prima delle sue riunioni, i partecipanti
possono manifestare posizioni controverse, mentre durante e dopo di esse, le
fughe di notizie - solitamente voci confuse a uso e consumo dei media -
riporteranno scontri di opinione, vincitori e vinti nelle discussioni, a
piacere dei leaker. Ma i procedimenti stessi rimangono nascosti al pubblico e si
risolvono in decisioni che sono praticamente sempre annunciate all’unanimità,
in linea con la prassi comune a tutte le istituzioni dell'UE.
Nel caso del Consiglio, la posta in gioco in tali
dimostrazioni di unanimità è molto di più che non la generica omertà della
classe politica europea. Perché la verità che ci sta dietro è scomodamente in
contrasto con la formalità della sua composizione, in cui tutti gli Stati
membri sono tecnicamente uguali e possono bloccare decisioni in conflitto con
quelli che ritengono essere interessi nazionali vitali. La realtà, ovviamente,
è che con le grandi disparità tra i paesi, che variano nella popolazione da ottanta
milioni a mezzo milione, sono due stati - Germania e Francia - quelli che guidano de facto il
procedimento, in ragione delle loro dimensioni e del loro potere. Nella coppia,
erede del trattato che De Gaulle firmò con Adenauer, la Germania è ora la più
forte e la più grande economicamente. Ma sebbene questo vantaggio la renda
primus inter pares, il suo margine di superiorità e il suo peso relativo
all'interno della zona euro nel suo insieme sono troppo limitati per
conferirgli l'egemonia che i suoi teorici più audaci le rivendicano. La Francia
resta militarmente più forte e diplomaticamente più esperta, e nel rapporto
ciascuno dipende dall'altro in egual misura. Dal momento che non sono sempre d'accordo, e
in tanti casi non sempre possono insistere, non tutte le decisioni del Consiglio
sono una traduzione della loro volontà. Semplicemente, senza bisogno di alcun
accenno di veto, nessuna proposta che non sia di loro gradimento ha la minima
possibilità di passare, mentre qualsiasi proposta dietro la quale si
uniscono con forza congiunta può essere diversamente modulata, ma non sarà
contrastata dalle altre due dozzine di paesi del Consiglio. Il Trattato di
Maastricht è stato il frutto di un patto tra Mitterrand e Kohl; il Trattato di
Lisbona, tra Merkel e Sarkozy; l'attuale Pacchetto Covid, tra Macron e Merkel.
In tutti i casi l'iniziativa è arrivata, inarrestabile, da Berlino e Parigi. In
tutti i casi, dei dettagli sono stati modificati per adattarsi agli stati
minori, senza che l’orientamento venisse alterato.
L'unica occasione in cui una proposta importante su cui
Germania e Francia insistevano ha incontrato un'opposizione intransigente, il
Fiscal Compact su cui la Gran Bretagna ha posto il veto nel 2011, ha messo in luce la realtà della
struttura del potere in Europa. Senza indugio, Berlino e Parigi hanno
semplicemente aggirato il Consiglio con uno strumento internazionale al di
fuori del quadro giuridico dell'UE, il Trattato di stabilità, coordinamento e
governance, a cui tutti gli altri Stati membri hanno debitamente aderito. L'effetto
è stato esattamente lo stesso. Cameron è stato lasciato a lamentarsi del fatto
che Merkel e Hollande non si erano nemmeno preoccupati di rispettare le
apparenze, mettendo insieme questo accordo nei locali dell'Unione a Bruxelles.
La lezione è chiara. Se i due egemoni europei dovessero incontrare -
post-Brexit - un'ostinazione simile in una questione a cui attribuiscono
importanza, possono rispondere con un trattato internazionale bilaterale (o multilaterale),
aggirando l'ostacolo allo stesso modo. Non è una coincidenza che Jean-Claude
Piris abbia concluso il suo libro del 2012, Il
futuro dell'Europa, sottolineando quanto possa essere conveniente e
fruttuoso il ricorso a tali trattati "aggiuntivi". Allo stato
attuale, tuttavia, con la Gran Bretagna fuori gioco, non c'è molto bisogno del
dispositivo. Un fatto particolare da solo è sufficiente per chiarire le
prospettive e il potere del duo franco-tedesco. Ci sono stati tre presidenti
del Consiglio europeo da quando l'ufficio è stato creato nel 2010. Di questi,
due sono stati belgi, un paese con poco più del 2% della popolazione
dell'Unione. Perché? Perché si può fare affidamento sui politici poco
appariscenti di uno stato debole, opportunamente situato tra Francia e Germania,
per non ostacolare nessuno dei due, ma per facilitare le buone intenzioni di
entrambi.
È stato spesso osservato che l'organizzazione istituzionale
dell'UE è un sistema politico sui generis, una costruzione che è più facile
definire negativamente che positivamente. Non è, come è abbastanza ovvio, una
democrazia parlamentare, per la mancanza di divisione tra governo e opposizione,
di competizione tra i partiti per le cariche o responsabilità nei confronti
degli elettori. Non c'è nemmeno separazione tra potere esecutivo e legislativo,
sulla falsariga americana; né un collegamento tra loro, secondo il modello
britannico o continentale, in cui l’esecutivo è investito da un organo legislativo
eletto verso cui rimane responsabile. Piuttosto è il contrario: un esecutivo
non eletto detiene il monopolio dell'iniziativa legislativa, mentre il potere
giudiziario, investito di un'indipendenza non soggetta ad alcuna verifica o
controllo costituzionale, emette decisioni che sono effettivamente insindacabili,
che siano conformi o meno ai trattati su cui nominalmente si basano. La regola
dei procedimenti dell'Unione - che siano presieduti da giudici, banchieri,
burocrati, deputati o primi ministri – è, ove possibile, il segreto, e il loro
esito, l'unanimità.
Nelle parole di Majone, il suo critico liberale più
perspicace, il mondo in cui vive l'Unione è un mondo in cui "il linguaggio della politica democratica è
in gran parte incomprensibile". Unico nella storia costituzionale
moderna, egli osserva, "il modello
non è Atene, ma Sparta, dove l'assemblea popolare votava sì o no alle proposte
avanzate dal Consiglio degli anziani, ma non aveva il diritto di proporre
misure per conto proprio". La cultura politica delle élite dell’Unione
assomiglia a quella della Restaurazione europea e degli eventi successivi, prima delle
riforme sul diritto di voto del XIX secolo, "quando la politica era considerata un monopolio virtuale di gabinetti,
diplomatici e alti burocrati". L'habitus mentale e istituzionale
dell'Europa del vecchio regime è ancora vivo nel "sistema di governo presunto postmoderno dell'UE". In sostanza,
l'ordine dell'Unione è quello di un'oligarchia.
Da un orizzonte storico si potrebbe rispondere, sì, ma la
Restaurazione ha portato in Europa la pace, che è durata per quarant'anni, se
non un secolo se la si vede in maniera più ampia. L'integrazione europea, per
quanto antidemocratica nella struttura, non ha ottenuto lo stesso risultato per
tre quarti di secolo, dopo le terribili guerre intestine del 1914 e del 1939?
Nel credo ufficiale dell'UE, probabilmente nessun'altra affermazione viene
ripetuta con tanta insistenza, e i movimenti che mettono in discussione
l'Unione sono spesso attaccati come portatori del bacillo di guerre future. La
verità, naturalmente, è che dopo il 1945 non c'è mai stato alcun rischio di un
altro scoppio di ostilità tra Germania e Francia, o qualsiasi altro dei paesi
dell'Europa occidentale, perché la Guerra Fredda ha reso l'intera regione un
protettorato americano. La NATO, non la CEE, ha posto fine ai conflitti
militari del passato. Come una volta disse causticamente Albert Hirschman:
"la Comunità europea è arrivata un
po' in ritardo nella storia per la sua missione solennemente proclamata, di evitare
ulteriori guerre tra le principali nazioni dell'Europa occidentale."
Beneficiaria della Pax Americana piuttosto che sua progenitrice, l'Unione ha
affrontato la sua prima vera prova come custode della pace in Europa dopo la
guerra fredda. Ed è fallita miseramente, non prevenendo, ma alimentando, la
guerra nei Balcani, poiché la Germania appoggiava la secessione slovena dalla
Jugoslavia, miccia che ha innescato i successivi conflitti omicidi che l'UE,
trascinata sulla scia di Helmut Kohl, si è dimostrata incapace di moderare o far
cessare. Ancora una volta non è stata Bruxelles, ma Washington a decidere
definitivamente il destino della regione. Anche l'allargamento dell'Unione agli
ex paesi del Patto di Varsavia, suo principale traguardo storico, ha seguito le
orme degli Stati Uniti, con la loro inclusione nella Nato prima del loro
ingresso nell'UE.
I diritti umani sono un altro punto d'onore nel repertorio
delle pubbliche relazioni dell'Unione. Il Consiglio d'Europa, che comprende
venti Stati non membri dell'UE, tra cui Russia, Turchia, Georgia e Azerbaigian,
ha istituito una Convenzione sui diritti umani e un tribunale per proteggerli già
nel 1953, le cui disposizioni sono state sostanzialmente riprodotte nel 2000
nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, col tentativo dell'UE di rubare la bandiera del Consiglio facendola propria. Come accade anche altrove,
la proclamazione e l'osservazione di tali diritti non sono la stessa cosa. La
brutalità ordinaria della polizia è certamente minore che negli Stati Uniti,
dove anche le condizioni carcerarie sono peggiori e i reclusi sono molto più
numerosi. Ma in questo l'UE non si distingue dal Canada o dai paesi dell'Europa
occidentale che non appartengono all'Unione. Per essere più espliciti, quando
l'America ha richiesto la cooperazione europea nelle renditions, i membri dell'UE hanno ottemperato all'assistenza nei
rapimenti e nella fornitura di camere di tortura sul suolo dell'Unione,
documentata e denunciata da un procuratore svizzero al Consiglio d'Europa, senza
che un dito fosse alzato dall'UE per denunciare i responsabili. Laddove le
infrazioni alla sua carta provengano da governi non graditi, come attualmente
in Ungheria e Polonia, l'Unione minaccerà sanzioni. Laddove provengano da governi con i quali desidera mantenere buoni rapporti, chiuderà un occhio o
cercherà di renderle accettabili, anche se le infrazioni sono molto più estreme
- come nell'occupazione militare di lunga data e nella pulizia etnica di un territorio
dell'Unione nella parte settentrionale di Cipro; per non parlare della terra di
Israele, sin dall'inizio della storia della Comunità invitata a prendere in
considerazione l'adesione, e più recentemente definita membro onorario
dall’Alto Rappresentante dell'Unione per gli Affari Esteri. Per quanto riguarda
i rifugiati, il record di disumanità europea nell'Egeo e in Libia parla da sé.
La migrazione è diventata in gran parte una questione di sicurezza.
La solidarietà, un altro termine importante nel lessico
dell'UE, si riferisce a due caratteristiche della sua immagine di sé. La prima
sottolinea i fondi strutturali e di coesione, il 30 per cento del bilancio
della Commissione erogato ai paesi e alle regioni più poveri dell'Unione per i
trasporti, l'ambiente e altri progetti. Sebbene non siano sempre ben spesi,
sono veramente redistributivi e storicamente hanno avuto un impatto
significativo sui maggiori beneficiari: Spagna, Grecia, Portogallo e Irlanda. Di
maggiori dimensioni è la politica agricola comune, che eroga oltre il 40 per
cento del bilancio ed è regressiva, con la maggior parte del denaro che va agli
agricoltori più ricchi, soprattutto in Francia, anche se i milionari che
avevano i requisiti per beneficiarne in Gran Bretagna hanno raccolto la più
grande bonanza in assoluto. Combinati insieme, l'effetto patrimoniale dei due
tipi di spesa è probabilmente neutro, forse negativo. In secondo luogo la solidarietà si riferisce alla "politica sociale" europea, definita in
senso lato come misure per ridurre la vulnerabilità dei lavoratori salariati e
delle loro famiglie, e dei cittadini meno abbienti in generale, ai capricci del
mercato. Wolfgang Streeck ne ha tracciato l'evoluzione dagli anni Sessanta ad
oggi. In origine, queste misure consistevano in tentativi di alterare le
relazioni capitale-lavoro promuovendo la co-determinazione industriale, che
avrebbe dato ai lavoratori diritti di rappresentanza nei consigli di
amministrazione, a cui si opponeva il mondo degli affari. La direttiva
Vredeling che dà forma a queste speranze è stata abbandonata dopo
l'approvazione dell'Atto unico europeo e l'attenzione si è spostata sulle
questioni di salute, sicurezza e pari opportunità.
Su insistenza di Delors, che proclamava la necessità di
un'Europa sociale, l'Unione monetaria creata a Maastricht fu accompagnata, nel
folto delle clausole aggiunte e sussidiarie al trattato, da un Capitolo sociale
che prometteva il rafforzamento dei diritti dei lavoratori, dal quale la Gran
Bretagna effettuò l’opt-out. Da questo pezzo simbolico è derivato così poco,
osserva Streeck, che la sua successiva adozione da parte del New Labour "non ha fatto nulla per prevenire l'aumento
della disuguaglianza, il declino della contrattazione collettiva e il deterioramento
delle condizioni di lavoro nel Regno Unito negli anni che seguirono".
In tutta l'UE, sono stati anni in cui le imprese hanno attaccato con successo
la fornitura di servizi pubblici da parte dello stato in nome del diritto alla
concorrenza, mentre la Corte di giustizia ha inferto duri colpi ai diritti
sindacali. L'attuale Pilastro europeo dei diritti sociali, annunciato nel 2017,
non inverte la tendenza: in quanto serie uniforme di ingiunzioni indirizzate a Stati membri con enormi differenze tra loro, è
in gran parte rimasto lettera morta. Nelle arene pubbliche e accademiche,
commenta Streeck, i discorsi su un'Europa sociale sono svaniti man mano che
l'UE viene identificata principalmente come un veicolo di "pace universale, diritti umani e progressismo,
piuttosto che come alternativa al capitalismo sfrenato". La sua
conclusione: "Ciò che sembra chiaro
è che il progetto, risalente agli anni '70, di uno Stato sociale europeo
sovranazionale che dia una definizione politica a un ‘modello sociale europeo’ è
giunto al termine".
E che dire della crescita economica europea, in queste
circostanze? Mentre tra il 1900 e il 1950 il PIL dell'Europa occidentale è
cresciuto di circa il 2% all'anno, dal 1950 al 1973 correva al 5% all'anno, una
velocità senza precedenti nella sua storia. Ma quanto di questa crescita era dovuto
all'integrazione? In quegli anni la Germania occidentale e l'Italia crescevano
del 5% all'anno, la Francia del 4%, il Belgio del 3,5% e i Paesi Bassi del
3,4%. Ma al di fuori della CECA e della CEE, l'Austria registrava un tasso di
crescita medio annuo del 4,9%, la Spagna del 5,8%, il Portogallo del 5,9% e la
Grecia del 6,2%. La domanda prebellica repressa, l'intervento statale e la
cooperazione internazionale hanno giocato un ruolo. Dato che il boom è iniziato
un decennio prima della CEE, l'integrazione da sola non può spiegare questi
rapidi tassi di crescita. L'impatto della CEE sul boom non è mai stato oggetto
di una ricerca condotta con reale accuratezza. Ma se c’è stato, è stato ridotto e potrebbe anche essere stato negativo. Nella visione di Patel
di questo periodo, non vi è stata "praticamente
nessuna pressione pubblica per presentare un resoconto chiaro dei risultati
economici del processo di integrazione". La Comunità non era in questa
fase particolarmente neoliberista, come avvenuto qualche tempo dopo. Sebbene la
politica della concorrenza possa essere stata modellata dagli ordo-liberali
tedeschi negli anni '60, il loro impatto era ancora altamente selettivo, senza
incidenza sulla maggior parte del bilancio, che era dominato dalle
concessioni agli agricoltori francesi, che essi detestavano. Strutturalmente,
l'integrazione europea è "nata
tecnocratica", ed è rimasta tale. Per i suoi cittadini, la Comunità
era ciò che Patel definisce un "adiaphoron":
cioè, secondo la filosofia stoica, "una questione che non ha alcun merito
morale né demerito". Tale era l'indifferenza popolare nei suoi confronti
che alla fine degli anni '60 solo il 36 per cento dei suoi abitanti poteva
individuare correttamente tutti e sei i membri della CEE.
Come è andata l'Eurozona dal 1973? Nel 2000 l'Agenda di
Lisbona del Consiglio europeo prometteva aumenti di produttività del 4%
all'anno, circa il doppio del tasso statunitense. In realtà, l’aumento è stato
tra lo 0,5 e l'1% all'anno. Per quanto riguarda la crescita complessiva, ecco i
dati.
Crescita del PIL nella zona euro
Anni - crescita media del PIL
1973-79 2.7
1984-94 2.5
1994-1998 2.3
1999-2003 2.1
2004-08 1.8
2012-19 1.2
In altre parole, un calo costante dal 1973, anche prima del
crollo del 2020, quando nei primi sei mesi dell'anno il PIL è sceso del 15,7
per cento. Per quanto riguarda il contributo dell'integrazione al record, Barry
Eichengreen e Andreas Boltho - due economisti impegnati a dimostrare i benefici
dell'unità europea - hanno calcolato, in un documento del 2008, che nel lungo
periodo, dai tempi della CECA a quelli dell'UEM, 'i redditi europei oggi sarebbero stati inferiori di circa il 5% in
assenza dell'UE.” Non è un risultato epocale. Nemmeno il commercio intra-UE
è aumentato notevolmente dall'Unione, poiché la sopravvalutazione dell'euro ha favorito
le importazioni da Stati Uniti, Cina e altri paesi, sviando il commercio interno
all'UE. Più in generale, l'eterogeneità socio-economica e geopolitica dei
quindici membri dell'Unione (nel 1995), poi ulteriormente ampliata dall'arrivo
di altri dodici nel successivo decennio, ha reso sempre meno possibile arrivare
a decisioni comuni efficienti in senso paretiano. In pratica, l'allargamento
ad Est ha reso impossibile l'"Europa sociale" concepita da Delors,
poiché il reddito medio dei nuovi membri dell'Unione era solo il 40 per cento
della media dei quindici membri dell'Europa occidentale. Le risorse dell'UE
erano insufficienti per colmare il divario.
Il contrasto tra Occidente e Oriente non è stata l'unica
frattura nell'Unione. Per Bolkestein, da destra, la moneta unica era affetta da
un difetto congenito. La sua fatale debolezza, ha detto in un discorso pubblico
nel 2012, risiedeva:
“nel tentativo di
servire due gruppi di paesi dalla cultura economica molto diversa, le terre del
Nord che rispettavano regole e disciplina e le terre del Mediterraneo che cercavano
soluzioni politiche ai problemi economici. Il primo gruppo - Germania, Paesi
Bassi, Finlandia e altri - voleva solidità; il secondo voleva la solidarietà,
il che significa i soldi di altre persone. [Risate nell'auditorium. Bolkestein
non rise.] Non poteva andare bene, e non è andata bene. Herman Van Rompuy aveva
ragione a definire l'euro un sonnifero: i paesi del Mediterraneo potevano
godere di tassi di interesse artificialmente bassi, cosa che facevano in
abbondanza, sognando un ‘dolce far niente ‘(in italiano)”.
Per Claus Offe, da sinistra, è chiaro che “l'euro ha reso il capitalismo democratico
europeo più capitalistico e meno democratico'', svincolando i mercati
finanziari dagli stati ed esponendo gli stati alle loro vicissitudini, in un
sistema che Offe non giudica più favorevolmente, anche se per ragioni opposte,
di Bolkestein. "L'euro sotto il
regime della BCE generalizza eccessivamente la politica monetaria tra economie
ampiamente divergenti e in differenti fasi del ciclo economico. Invece di
"una taglia unica che veste tutti", ci troviamo di fronte a una "taglia
unica che non va bene a nessuno", a causa dell'incapacità istituzionale
della politica monetaria di rispondere alle specificità dei paesi e delle loro
situazioni.” Non appena fatta
disinvoltamente questa affermazione, tuttavia, Offe l’ha solennemente ritirata.
Perché c'è un paese su cui questo giudizio non è valido: è il suo. Dati gli
enormi vantaggi che la Germania trae dall'euro, Offe scrive:
“Qualsiasi governo
tedesco immaginabile farà tutto quanto in suo potere per mantenere intatta la
moneta comune evitando il default di qualsiasi stato membro dell'Euroclub.
Perché questa moneta consente al governo tedesco di vivere in un mondo ideale,
in cui il piacere non è seguito dal dolore, il che significa che un surplus di
esportazioni non è seguito dall'apprezzamento della valuta del paese, che ne limiterebbe
le dimensioni.”
Le cose stanno diversamente, come è ovvio, dalla parte di
chi riceve tale surplus. La cintura degli stati meridionali e dell’est sta
pagando il prezzo di un'unione monetaria mal concepita che ora non è più
reversibile. Anche se “l'introduzione
dell'euro in una zona valutaria fondamentalmente difettosa è stato un errore
enorme, ormai sarebbe un enorme errore semplicemente annullare quell'errore'',
poiché lo scioglimento dell'Eurozona sarebbe “equivalente a uno tsunami di natura economica oltre che ad una regressione
politica”. Da qui la "trappola"
in cui si trova l'Europa: non può andare né avanti né indietro.
Fritz Scharpf, da cui Offe ha cercato consiglio, è meno
categorico. Nel 2015 egli ha concluso che la decisione dell'UE di salvare la
moneta unica anziché smantellarla stava creando un regime dell'euro
economicamente repressivo e politicamente autoritario, che era enormemente
controproducente. Costringendo gli Stati membri in difficoltà ad adottare
l'austerità fiscale e la svalutazione interna, riducendo i costi del lavoro con
gli effetti del beggar-thy-neighbour mercantilista,
di una permanente pressione al ribasso sui redditi da lavoro, sui trasferimenti
sociali e sui trasferimenti pubblici, la politica ufficiale era “completamente priva di legittimità
democratica”. In futuro, ha sostenuto Scharpf, gran parte dell'acquis
comunitario dovrebbe essere de-costituzionalizzato, riportandolo alle
condizioni ordinarie di riesame e revisione legislativa. Per il momento, nessun
politico responsabile lo considera fattibile. Ma se un secondo grande shock,
paragonabile all'impatto della crisi finanziaria globale, colpisse il sistema,
la democrazia europea dovrebbe essere ricostruita dal basso verso l'alto,
ripristinando le necessarie barriere all'interferenza del mercato, sia a livello
sovranazionale che nazionale.
L'ultima parola, e la più cupa, viene da Dani Rodrik.
L'analogia storica più vicina all'euro, come lo conosciamo oggi, potrebbe
essere il Gold Standard antecedente alla prima guerra mondiale, prima che ci
fosse uno stato assistenziale sviluppato o politiche anticicliche. Ma entrambi ora
esistono e complicano i compiti che l'Unione si trova davanti. La democrazia,
la sovranità e la globalizzazione possono essere felicemente combinate?
Purtroppo, non esiste una democrazia su scala europea e le riforme adottate
dalla crisi del 2008 - unione bancaria, controllo fiscale più rigoroso - hanno
reso l'Unione ancora più tecnocratica, meno responsabile e più distante dagli
elettorati europei. Ciò che l’esempio americano dimostra è che le élite europee
devono fare una scelta: optare per l'unione politica a costo della sovranità
nazionale, o per la sovranità nazionale a costo dell'unione politica. Le
soluzioni intermedie - un po' di democrazia a livello nazionale, un po' a
livello dell'UE - non funzioneranno. La realtà, conclude Rodrik, è che potrebbe
essere troppo tardi per intraprendere la prima strada, sperando che infine emerga un demos europeo corrispondente a una federazione europea. Se è
così, è difficile vedere come una moneta unica possa essere riconciliata con politiche
più democratiche. Potrebbe essere meglio abbandonare la speranza che un giorno
l'unione economica possa dimostrarsi compatibile con una ricostituita democrazia, e chiedersi invece quale grado di integrazione
economica può essere compatibile con la democrazia delle istituzioni attualmente
esistenti.
Quindi, se cerchiamo risultati positivi nella performance
complessiva dell'UE da Maastricht in poi, non è facile trovarli. Pace
internazionale, diritti umani, solidarietà sociale, crescita economica: la
dispensa è piuttosto vuota. Tuttavia, come i difensori possono sottolineare,
non è completamente vuota. Sono evidenti due caratteristiche dell'UE che fanno
una reale differenza nella vita di molti dei suoi cittadini. La prima è la
comodità di viaggiare senza passaporto nella zona Schengen, che esclude ancora
Bulgaria, Romania, Croazia, Cipro e Irlanda dell'UE, ma include Islanda,
Norvegia, Liechtenstein e Svizzera all'esterno dell'UE. Più in generale, in
seguito al mercato unico c'è una varietà di prodotti sugli scaffali dei
supermercati, con l'Unione che considera i suoi cittadini come consumatori
piuttosto che come soggetti politici. La perdita di relativamente modeste possibilità come queste non
passerebbe senza proteste; l'abitudine è una forza potente negli affari umani. Inoltre
in questo secolo le aspettative politiche nelle società avanzate sono diminuite
quasi ovunque. Se la pubblicità dell'Unione per la propria immagine, pubblicità
per la quale spende una fortuna ogni anno, non incontra altro che una svogliata
acquiescenza, e non certo un attivo sostegno da parte delle popolazioni a cui è
rivolta, questo è comunque sufficiente per i suoi scopi. La paura dell'ignoto è
il tessuto connettivo più importante.
Alcuni dei libri consultati nella stesura di questo saggio:
Project Europe: A History by Kirin Klaus Patel (Cambridge,
2020)
Juges et avocats généraux de la Cour de Justice de l’Union
européenne (1952-1972): Une approche biographique de l’histoire d’une
révolution juridique by Vera Fritz (Vittorio Klostermann, 2018)
Vichy dans la ‘solution finale’: Histoire du commissariat
général aux questions juives (1941-44) by Laurent Joly (Grasset, 2006)
Servir l’état français: L’administration en France de 1940 à
1944 by Marc Olivier Baruch (Fayard, 1997)
‘Michel Gaudet, a Law Entrepreneur: The Role of the Legal
Service of the European Executives in the Invention of EC Law and the Birth of
the Common Market Law Review’ by Julie Bailleux (Common Market Law Review, Vol.
50, 2013)
The European Court’s Political Power: Selected Essays by Karen
Alter (Oxford, 2009)
‘Establishing a Constitutional Practice of European Law: The
History of the Legal Service of the European Executive, 1952-65’ by Morten
Rasmussen (Contemporary European History, Vol. 21, 2012)
Politik und Justiz by Hans Peter Ipsen (Hanseatische
Verlagsanstalt, 1937)
Europa und das 3. Reich: Einigungsbestrebungen im deutschen
Machtbereich 1939-45 by Hans Werner Neulen (Universitas, 1987)
Great Judgments of the European Court of Justice: Rethinking
the Landmark Decisions of the Foundational Period by William Phelan (Cambridge,
2019)
The Constitution of European Democracy by Dieter Grimm
(Oxford, 2017)
The Court of Justice of the European Union as an
Institutional Actor: Judicial Lawmaking and Its Limits by Thomas Horsley (Cambridge,
2018)
‘Constitutionalism and the Many Faces of Federalism’ by Koen
Lenaerts (American Journal of Comparative Law, Vol. 38, 1990)
Brokering Europe: Euro-Lawyers and the Making of a
Transnational Polity by Antoine Vauchez (Cambridge, 2015)
The Future of Europe: Towards a Two-Speed EU? by Jean-Claude
Piris (Cambridge, 2012)
European Civil Service in (Times of) Crisis: A Political
Sociology of the Changing Power of Eurocrats by Didier Georgakakis (Palgrave
Macmillan, 2017)
Restructuring Europe: Centre Formation, System Building and
Political Structuring between the Nation-State and the European Union by
Stefano Bartolini (Oxford, 2005)
Europe as the Would-be World Power: The EU at Fifty by
Giandomenico Majone (Cambridge, 2009)
Rethinking the Union of Europe Post-Crisis: Has Integration
Gone Too Far? by Giandomenico Majone (Cambridge, 2014)
European Integration: From Nation-States to Member States by
Christopher Bickerton (Oxford, 2012)
Europe Entrapped by Claus Offe (Polity, 2015)