Il resoconto di Bloomberg sull'accordo al vertice UE conclusosi nelle prime ore del mattino dopo una nottata di trattative, mette in luce come il governo italiano abbia ottenuto molto più di quanto non siano riusciti a ottenere, in anni di suppliche, i governi precedenti. E anche se l'accordo non sembra poter risolvere il problema, ma semplicemente rimanda a soluzioni future che non saranno facili da attuare, la novità è che l'Italia ha fatto sentire chiaramente la propria voce, mettendo gli altri paesi di fronte alla necessità di tentare di risolvere il problema. Che poi l'Unione europea possa effettivamente riuscirci, questo è certamente un altro paio di maniche.
di John Follain, Gregory Viscusi e Patrick Donahue, 29 giugno 2018
Il nuovo primo ministro italiano, Giuseppe Conte, è uscito dal suo primo summit dell'Unione europea con un pacchetto di misure per arginare il flusso dei migranti e condividere l'onere di gestire gli arrivi.
Durante i colloqui a Bruxelles, che si sono conclusi dopo le 4:30 di venerdì, gli stati membri hanno concordato di incrementare la sicurezza delle frontiere, istituire centri di detenzione per gestire i richiedenti asilo e imporre controlli più severi alle ONG che salvano i migranti sul Mar Mediterraneo. Un funzionario italiano ha detto che Conte ha ottenuto circa il 70% di quello che avrebbe voluto.
"L'Italia non è più sola", ha detto il premier ai giornalisti mentre lasciava la sede del vertice.
In seguito all'accordo, che ha disinnescato la disputa che apriva vecchie e nuove fratture all'interno dell'UE, l'euro è salito dello 0,8%.
I colloqui sono ripresi venerdì mattina con due ore di ritardo rispetto a quanto previsto, con i 27 leader che, dopo la partenza del primo ministro Theresa May, rientrata a Londra, hanno discusso sullo stato dei negoziati sulla Brexit. La dichiarazione, che contiene un avvertimento sui rischi di un divorzio senza accordo, è stata approvata in meno di un minuto, secondo il primo ministro maltese Joseph Muscat, che ha fatto il confronto con le quasi nove ore impiegate per l'accordo sui migranti. Non è ancora chiaro se l'accordo aiuterà la cancelliera tedesca Angela Merkel a evitare una rivolta del suo partito gemello bavarese, l'Unione sociale cristiana, che potrebbe privarla della maggioranza parlamentare. I primi segnali sono promettenti, poiché Hans Michelbach, un vice leader del CSU - e moderato all'interno del partito - ha accolto favorevolmente l'accordo. "È un segnale positivo che le cose si stanno muovendo in Europa nella giusta direzione. Dobbiamo riconoscere che c'è stato movimento e da parte nostra questo può certamente essere visto come positivo", ha detto alla televisione tedesca ARD.
Alexander Dobrindt, un altro funzionario della CSU fortemente critico nei confronti del cancelliere, ha affermato che avrebbe esaminato attentamente l'accordo, notando che contiene delle dichiarazioni sui flussi migratori interni che sono la principale preoccupazione della Germania.
All'interno dell'Unione permangono divisioni profonde tra coloro che hanno una posizione relativamente liberista nei confronti della migrazione, come Merkel o Pedro Sanchez della Spagna, e leader come l'ungherese Viktor Orban. Quest'ultimo al suo arrivo ha detto ai giornalisti che "l'invasione deve essere fermata". Dopo un'impennata nel 2015 i flussi migratori sono effettivamente diminuiti drasticamente.
Nella preparazione dei colloqui, l'amministrazione populista di Conte ha animatamente discusso con la Spagna e in particolare con la Francia per la sua decisione di bandire le navi di salvataggio migranti dall'attracco nei porti italiani. E tuttavia nel corso dei negoziati a Bruxelles il Presidente francese Emmanuel Macron ha assunto un ruolo chiave nella gestione dell'accordo.
Conte e Macron si sono brevemente confrontati prima che iniziassero i colloqui e poi hanno tenuto due incontri separati faccia a faccia durante la notte. Un funzionario italiano ha accolto con favore quello che ha definito un cambio di atteggiamento da parte francese. L'immagine dei due leader che lavorano insieme - a un certo punto Macron ha twittato una foto - potrebbe aiutare a ristabilire i rapporti tra i due governi, che nelle ultime settimane si sono scambiati insulti.
"Con Giuseppe Conte stiamo lavorando insieme per trovare un accordo europeo sulla condivisione dei rifugiati", ha scritto Macron in un tweet.
Molto dell'accordo rimane poco chiaro, tuttavia, non ultimo il fatto se sia effettivamente possibile implementarlo più di quanto non sia accaduto con i precedenti tentativi di condivisione degli oneri. La promessa di nuovi fondi UE per combattere la migrazione illegale potrebbe aiutare. Ma finora l'Italia, la Spagna, il Belgio e la Bulgaria hanno tutti dichiarato che non accetteranno l'invito a creare nuovi centri su base volontaria.
Giovedì, Conte aveva minacciato di bloccare l'intero programma del summit a meno che non avesse ottenuto il sostegno richiesto. Alla fine ha ottenuto più di qualsiasi altra cosa i suoi predecessori siano riusciti a strappare in anni di suppliche, da quando la crisi dell'immigrazione è esplosa nel 2015.
Tuttavia, la lotta per riuscire a condividere queste misure dà il segnale delle ulteriori battaglie che saranno necessarie in futuro, poiché i sostenitori della linea dura, in paesi come l'Austria, l'Italia e l'Europa dell'est, sentono che questo è il momento di portare avanti la loro causa. In un discorso al Bundestag, giovedì, Merkel ha avvertito che la questione dell'immigrazione "potrebbe trasformarsi in un problema che mette in gioco il destino dell'Unione europea".
Mentre lasciava il summit, la Merkel ha sorriso stancamente salutando l'accordo come un "messaggio positivo". Macron l'ha considerato un approccio coerente al fenomeno della migrazione e ha dichiarato:
"Questo è il frutto di uno sforzo congiunto ed è il frutto di una cooperazione a livello europeo, mentre un mancato accordo o delle decisioni a livello nazionale non sarebbero state né efficaci né durature".
29/06/18
Bloomberg - I populisti italiani spingono l'UE a irrigidire le politiche sull'immigrazione
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28/06/18
È stata l’amministrazione Obama a creare la crisi europea dei rifugiati
Questo articolo di Strategic Culture ha il merito di individuare la vera causa della migrazione di massa attualmente in atto dai paesi dell’Africa e del Medio Oriente verso l’Europa: non inevitabili calamità naturali, ma aggressive politiche neocolonialiste messe in atto dall’America di Obama e appoggiate da alcuni stati europei. L’articolo prende alcune posizioni opinabili – per esempio la feroce critica all’attuale amministrazione USA, pur ammettendo che le responsabilità maggiori sono da ricercarsi nella precedente - tuttavia ha il grosso merito di fare chiarezza su quale sia il nemico da combattere: non i popoli europei che si ribellano a questa immigrazione, non gli immigrati stessi, che ne sono le prime vittime, bensì il neocolonialismo occidentale.
Di Eric Zuesse, 24 giugno 2018
Il 18 giugno l'attuale Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha sostenuto che la leadership della Germania e delle altre nazioni dell'UE, ha causato la crisi dei rifugiati che l'Europa sta affrontando:
"Il popolo tedesco si rivolta contro la sua leadership dal momento che l’immigrazione sta mettendo in crisi la già fragile coalizione di Berlino. La criminalità in Germania è in aumento. Un grave errore commesso in tutta Europa ammettere milioni di persone che hanno così fortemente e violentemente cambiato la sua cultura!"
Il governo USA sta chiaramente mentendo. È lo stesso governo americano ad avere causato questa crisi, che gli europei faticano ad affrontare. La crisi esisterebbe se gli Stati Uniti non avessero invaso e cercato di rovesciare (e in alcuni casi effettivamente rovesciato) i governi in Libia, Siria e altri Paesi - i posti da cui questi rifugiati stanno scappando? Il governo degli Stati Uniti e alcuni dei suoi alleati in Europa (quelli ai quali in realtà deve davvero andare parte della responsabilità di questa crisi) hanno causato queste guerre e questi colpi di Stato, ma il governo tedesco non era tra di loro, né lo erano molti altri Stati in Europa. Se il governo americano non avesse condotto queste invasioni, probabilmente neanche la Francia avrebbe partecipato. Il solo governo degli Stati Uniti è responsabile di avere creato questi rifugiati. Il governo americano stesso ha creato questo enorme fardello in Europa e ancora si rifiuta di accettare i rifugiati che esso stesso ha prodotto, dopo avere invaso e bombardato per rovesciare il governo (tra gli altri) della Libia, e poi della Siria e avendo sostenuto Al Qaeda nell'organizzare ed armare jihadisti da tutto il mondo per mandarli in Siria, per rovesciare il governo e sostituirlo con uno scelto dall’alleato-chiave mediorientale degli Stati Uniti, la famiglia reale Saudita, proprietaria dell’Arabia Saudita, e determinata a conquistare la Siria. Trump dà la colpa ad Angela Merkel per il fatto - in sostanza - che è stata alleata del regime USA, un regime aggressivo da decenni, e di cui lo stesso Trump è ora leader, anziché mettere fine alla situazione e ripristinare la democrazia negli Stati Uniti e in questo modo, ripristinare la pace e la libertà (dagli USA) nelle altre nazioni, in Europa e altrove (ad esempio in Siria, Yemen ecc.). Trump accusa la Merkel, non se stesso e il suo predecessore - cioè non le persone che nei fatti hanno creato questi rifugiati.
Non posso immaginare un’ipocrisia più pura di questa, che oggi proviene da Trump, non più da Obama, colui che, in realtà, è stato la causa del problema.
Come sostiene uno studio del 2016, "Una panoramica degli immigrati del Medio Oriente nell'UE: origine, status quo e sfide" nel suo sommario:
"L'UE ha la più alta percentuale di popolazione immigrata; ha una popolazione di 56 milioni di persone nate all'estero. E a causa della guerra perenne e del caos in Medio Oriente, l'ammontare della popolazione trasferita nella regione, soprattutto il numero dei rifugiati, è la maggiore del mondo intero... Ci sono un grande numero di rifugiati e richiedenti asilo che si dirigono verso i paesi dell'Unione Europea. Dopo la primavera araba, soprattutto dopo lo scoppio della guerra civile in Siria nel 2011 e l’ascesa dello "Stato islamico" nel 2013, l'intera UE ha sperimentato la più grande ondata di rifugiati dalla seconda guerra mondiale."
Tutte queste invasioni sono state, e sono, invasioni che provengono da paesi dove il regime degli Stati Uniti vuole rovesciare il governo.
Per comprendere l'origine più profonda di questo problema, si deve capire innanzitutto la continua ossessione del regime USA per la conquista della Russia post-comunista e post patto di Varsavia; e, in secondo luogo, è necessario comprendere la conseguente e coerente ossessione del regime USA, dopo la presunta fine della guerra fredda, di assumere il controllo dei paesi alleati della Russia, compresi non solo quelli all'interno dell'Unione Sovietica e del relativo Patto militare di Varsavia, ma anche in Medio Oriente, soprattutto Siria e Iran, ma anche Paesi come la Libia, dove il leader era di nome un sunnita, ma tuttavia in buoni rapporti con la Russia. (Il link ci fornisce la documentazione non solo di ciò che viene detto qui, ma documenta anche che l'alleanza tra le due aristocrazie, degli Stati Uniti e dell'Arabia Saudita, è essenziale all'obiettivo medio-orientale dell'aristocrazia USA; e l’aristocrazia di Israele serve come un agente essenziale dei Sauditi a questo proposito cruciale, perché i Sauditi si basano pesantemente sul regime israeliano per fare la loro attività di lobby a Washington. In altre parole: l’obiettivo permanente dell'America è quello di isolare la Russia per poter infine prendere il controllo della Russia stessa. Questa è in definitiva la causa della crisi dei rifugiati in Europa).
All’inizio della promessa era post-guerra fredda, nel 1990, il regime USA, sotto l’allora Presidente George Herbert Walker Bush, si accordò privatamente e ripetutamente con il regime URSS, sotto l’allora presidente Mikhail Gorbaciov, per porre fine alla guerra fredda – assicurando che la NATO non si sarebbe espansa “nemmeno di un centimetro verso est” – e che non ci sarebbero state ulteriori alleanze degli Stati Unite contro l’URSS (che sarebbe presto diventata la sola Russia). Il regime USA promise che non avrebbe ammesso nella NATO alcuno dei Paesi che allora facevano parte del Patto di Varsavia (Albania, Bulgaria, Cecoslovacchia, Ungheria, Polonia e Romania) né dei Paesi della stessa URSS fuori dalla Russia (Armenia, Azerbaijan, Bielorussia, Estonia, Georgia, Kazakistan, Kirghizia, Lettonia, Lituania, Moldavia, Tagikistan, Turkmenistan, Ucraina e Uzbekistan), tranne la parte est della Germania. Il regime USA stava semplicemente mentendo. Ma il governo Russo rispettò tutti i suoi impegni. La Russia era ora intrappolata, a causa della fiducia di Gorbaciov nei bugiardi, il cui vero obiettivo era la conquista del mondo – non la pace.
Oggi la NATO include tutti i paesi dell’ex patto di Varsavia, e ora il regime USA sta puntando a portare a bordo anche la Bosnia, la Georgia, l’ex Repubblica Yugoslava di Macedonia e l’Ucraina. La Georgia e l’Ucraina sarebbero i primi paesi ex URSS – non semplicemente ex membri del patto di Varsavia, ma già parti dell’URSS stessa – ad unirsi all’alleanza militare anti-russa, se una di esse sarà ammessa. La sola possibilità che ciò accada va ben oltre quello che l’ingenuo Gorbaciov avrebbe mai potuto immaginare. Non aveva la minima idea di quanto malvagio fosse (e sia ancora) il Deep State american (quello che controlla l’America). Ma ora noi lo sappiamo. La storia è chiara e univoca a riguardo.
Il portavoce della NATO, la Brookings Institution, titolava il 15 novembre 2001, "L'allargamento della NATO prosegue; espansione dell'alleanza e completamento dell’integrazione europea " fingendo che questa espansione avesse lo scopo di aiutare i cittadini europei, e non di conquistare la Russia.
L’Ucraina ha il più lungo confine europeo della Russia, e quindi è stata il primo obiettivo degli USA. Ma prima di impadronirsene gli USA avevano provato nel 2008 ad aizzare la Georgia contro la Russia, e il georgiano Mikheil Saakashvili fu un agente statunitense chiave in quel tentativo. Saakashvili venne poi coinvolto nel violento colpo di stato che rovesciò il governo ucraino liberamente eletto nel febbraio 2014. Saakashvili organizzò il contingente georgiano di cecchini che furono mandati in Ucraina per sparare sulla folla in Piazza Maidan e che uccise sia poliziotti sia dimostranti, in modo che le pallottole sembrassero provenire dalla polizia (Berkut) e/o da altre forze del governo ucraino democraticamente eletto. (Aprite questo link per vedere due sicari georgiani che descrivono a cuor leggero la loro partecipazione al colpo di Stato, e si riferiscono al ruolo dell’ex presidente georgiano Saakashvili nel colpo. Ecco una raccolta di video più completa che descrive e mostra il colpo di stato stesso. Come ho fatto notare, la testimonianza di questi sicari georgiani è totalmente coerente con quanto ha stabilito l’indagine del Ministro degli Esteri UE il 24 febbraio 2014 riguardo i sicari che “erano gli stessi sicari che uccidevano persone di entrambi gli schieramenti” e che questi sicari provenivano “dal nuovo governo di coalizione” e non dal governo che stava per essere disarcionato - insomma si è trattato di un colpo di Stato, non di una “rivoluzione” come la gente di Obama sostenne, e come la gente di Trump ora sostiene. Il regime USA ha agenti in tutti i paesi dell’ex URSS – non solo in Europa Occidentale.
Il colpo di stato di Obama per strappare l’Ucraina alla sua precedente neutralità e farne immediatamente un paese neo-nazista selvaggiamente ostile alla Russia ha distrutto l’Ucraina – non solo dal punto di vista dell’UE, ma (e aprite il link se non lo sapete già) dal punto di vista degli stessi ucraini. Chi non vorrebbe andarsene da lì?
L’Europa ha rifugiati proveniente anche dall’Ucraina, non solo (anche se principalmente) dal Medio Oriente.
Il nemico dell’Europa non è l’élite russa, ma quella americana. Il nemico sono le industrie che controllano le multinazionali internazionali americane – non i miliardari che controllano le multinazionali russe; sono le persone che controllano il governo USA, e nessun russo, i veri decision maker, che sono dietro le politiche europee. Perché l’Europa progredisca, è necessario che gli europei sappiano chi sono i loro veri nemici. La radice di tutti i problemi sono gli USA, il falso alleato dell’Europa. L’attuale America non è l’America del Piano Marshall. Il governo USA è ormai nelle mani di gangster. E vogliono dominare il mondo. La crisi europea dei rifugiati non è che una delle semplici conseguenze.
Infatti, Obama iniziò, prima del 2011, a pianificare queste operazioni di cambio di regime in Libia, Siria e Ucraina. Ma, in ogni caso, nessuna delle operazioni di cambio di regime che hanno causato l’attuale – e senza precedenti - flusso di immigrati in Europa è iniziato a causa di quello che hanno fatto i leader europei (salvo la loro cooperazione col regime USA). Il nemico dell’Europa oggi è il governo USA, che è tutt’altro che amico dei popoli europei. Quando Trump dà la colpa di questa crisi ai leader europei sta semplicemente mentendo e calunniando.
E questo fatto è aggiuntivo alla simile bugia calunniosa di Trump contro gli stessi immigrati. L’8 maggio, il giornale tedesco Die Welt titolava: "Il numero dei reati scende al livello più basso dal 1992" e riferiva che il ministro degli interni tedesco, Horst Seehofer, annunciava le statistiche dei crimini nazionali per il 2017, dicendo: "La Germania è diventata più sicura," più sicura che negli ultimi 30 anni. Seehofer è un membro dell'amministrazione della Cancelliera Merkel che sta provando a sostituirla facendo appello alla forte parte anti-immigrazione del suo partito conservatore, ma perfino lui ha dovuto ammettere, in sostanza, che l’uscita contro gli immigrati che Trump aveva fatto il 18 giugno è una grossa bugia; l'esatto opposto della verità. Il commento twittato da Trump era quindi una calunnia non solo nei confronti della Merkel e degli altri leader europei, ma anche dei profughi che il regime degli Stati Uniti stesso aveva prodotto. Che vergogna! Quanto dovrebbe vergognarsi Trump?
La crisi dei rifugiati non è causata dai rifugiati stessi; e nemmeno dai leader europei; è dovuto al regime USA che mente praticamente sempre – le persone che controllano davvero il Governo Americano e le multinazionali americane.
Il 21 giugno, Manlio Dinucci di Global Research titolava "Il circuito della morte nel ‘Mediterraneo allargato'" e esordiva dicendo: "I media e gli attori politici, concentrati come sono sul flusso migratorio dal sud al nord attraverso il Mediterraneo, stanno trascurando gli altri flussi del mediterranei – quelli che vanno da nord a sud, composti da forze militari e da armi." Ma chi vende più armi nel mondo sono gli Stati Uniti, non l'Unione Europea; quindi porre tutta l’attenzione sui miliardari europei è sbagliato. I principali colpevoli sono sullo stesso lato dell'Atlantico di Trump, e ciò che viene ignorato, su entrambi i lati dell'Atlantico. Il vero problema non è dall’altra parte del Mediterraneo; è dall’altra parte dell'Atlantico. Ecco dove si trova il nemico dell'Europa.
Il 7 agosto 2015, avevo scritto “Gli USA stanno distruggendo l’Europa”, dicendo che:
"In Libia, Siria, Ucraina e in altri paesi della periferia o confinanti con l’Europa, il Presidente USA Barack Obama ha perseguito una politica di destabilizzazione, e perfino bombardamenti e altre forme di assistenza militare, che hanno spinto milioni di rifugiati a lasciare quei paesi periferici per dirigersi verso l’Europa, alimentando i sentimenti di estrema destra anti-immigrazione e di conseguenza destabilizzando la situazione politica in tutta Europa, non solo sulle periferie, ma finanche nell’Europa del Nord. "
La situazione non è cambiata con Trump.
Di Eric Zuesse, 24 giugno 2018
Il 18 giugno l'attuale Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha sostenuto che la leadership della Germania e delle altre nazioni dell'UE, ha causato la crisi dei rifugiati che l'Europa sta affrontando:
"Il popolo tedesco si rivolta contro la sua leadership dal momento che l’immigrazione sta mettendo in crisi la già fragile coalizione di Berlino. La criminalità in Germania è in aumento. Un grave errore commesso in tutta Europa ammettere milioni di persone che hanno così fortemente e violentemente cambiato la sua cultura!"
Il governo USA sta chiaramente mentendo. È lo stesso governo americano ad avere causato questa crisi, che gli europei faticano ad affrontare. La crisi esisterebbe se gli Stati Uniti non avessero invaso e cercato di rovesciare (e in alcuni casi effettivamente rovesciato) i governi in Libia, Siria e altri Paesi - i posti da cui questi rifugiati stanno scappando? Il governo degli Stati Uniti e alcuni dei suoi alleati in Europa (quelli ai quali in realtà deve davvero andare parte della responsabilità di questa crisi) hanno causato queste guerre e questi colpi di Stato, ma il governo tedesco non era tra di loro, né lo erano molti altri Stati in Europa. Se il governo americano non avesse condotto queste invasioni, probabilmente neanche la Francia avrebbe partecipato. Il solo governo degli Stati Uniti è responsabile di avere creato questi rifugiati. Il governo americano stesso ha creato questo enorme fardello in Europa e ancora si rifiuta di accettare i rifugiati che esso stesso ha prodotto, dopo avere invaso e bombardato per rovesciare il governo (tra gli altri) della Libia, e poi della Siria e avendo sostenuto Al Qaeda nell'organizzare ed armare jihadisti da tutto il mondo per mandarli in Siria, per rovesciare il governo e sostituirlo con uno scelto dall’alleato-chiave mediorientale degli Stati Uniti, la famiglia reale Saudita, proprietaria dell’Arabia Saudita, e determinata a conquistare la Siria. Trump dà la colpa ad Angela Merkel per il fatto - in sostanza - che è stata alleata del regime USA, un regime aggressivo da decenni, e di cui lo stesso Trump è ora leader, anziché mettere fine alla situazione e ripristinare la democrazia negli Stati Uniti e in questo modo, ripristinare la pace e la libertà (dagli USA) nelle altre nazioni, in Europa e altrove (ad esempio in Siria, Yemen ecc.). Trump accusa la Merkel, non se stesso e il suo predecessore - cioè non le persone che nei fatti hanno creato questi rifugiati.
Non posso immaginare un’ipocrisia più pura di questa, che oggi proviene da Trump, non più da Obama, colui che, in realtà, è stato la causa del problema.
Come sostiene uno studio del 2016, "Una panoramica degli immigrati del Medio Oriente nell'UE: origine, status quo e sfide" nel suo sommario:
"L'UE ha la più alta percentuale di popolazione immigrata; ha una popolazione di 56 milioni di persone nate all'estero. E a causa della guerra perenne e del caos in Medio Oriente, l'ammontare della popolazione trasferita nella regione, soprattutto il numero dei rifugiati, è la maggiore del mondo intero... Ci sono un grande numero di rifugiati e richiedenti asilo che si dirigono verso i paesi dell'Unione Europea. Dopo la primavera araba, soprattutto dopo lo scoppio della guerra civile in Siria nel 2011 e l’ascesa dello "Stato islamico" nel 2013, l'intera UE ha sperimentato la più grande ondata di rifugiati dalla seconda guerra mondiale."
Tutte queste invasioni sono state, e sono, invasioni che provengono da paesi dove il regime degli Stati Uniti vuole rovesciare il governo.
Per comprendere l'origine più profonda di questo problema, si deve capire innanzitutto la continua ossessione del regime USA per la conquista della Russia post-comunista e post patto di Varsavia; e, in secondo luogo, è necessario comprendere la conseguente e coerente ossessione del regime USA, dopo la presunta fine della guerra fredda, di assumere il controllo dei paesi alleati della Russia, compresi non solo quelli all'interno dell'Unione Sovietica e del relativo Patto militare di Varsavia, ma anche in Medio Oriente, soprattutto Siria e Iran, ma anche Paesi come la Libia, dove il leader era di nome un sunnita, ma tuttavia in buoni rapporti con la Russia. (Il link ci fornisce la documentazione non solo di ciò che viene detto qui, ma documenta anche che l'alleanza tra le due aristocrazie, degli Stati Uniti e dell'Arabia Saudita, è essenziale all'obiettivo medio-orientale dell'aristocrazia USA; e l’aristocrazia di Israele serve come un agente essenziale dei Sauditi a questo proposito cruciale, perché i Sauditi si basano pesantemente sul regime israeliano per fare la loro attività di lobby a Washington. In altre parole: l’obiettivo permanente dell'America è quello di isolare la Russia per poter infine prendere il controllo della Russia stessa. Questa è in definitiva la causa della crisi dei rifugiati in Europa).
All’inizio della promessa era post-guerra fredda, nel 1990, il regime USA, sotto l’allora Presidente George Herbert Walker Bush, si accordò privatamente e ripetutamente con il regime URSS, sotto l’allora presidente Mikhail Gorbaciov, per porre fine alla guerra fredda – assicurando che la NATO non si sarebbe espansa “nemmeno di un centimetro verso est” – e che non ci sarebbero state ulteriori alleanze degli Stati Unite contro l’URSS (che sarebbe presto diventata la sola Russia). Il regime USA promise che non avrebbe ammesso nella NATO alcuno dei Paesi che allora facevano parte del Patto di Varsavia (Albania, Bulgaria, Cecoslovacchia, Ungheria, Polonia e Romania) né dei Paesi della stessa URSS fuori dalla Russia (Armenia, Azerbaijan, Bielorussia, Estonia, Georgia, Kazakistan, Kirghizia, Lettonia, Lituania, Moldavia, Tagikistan, Turkmenistan, Ucraina e Uzbekistan), tranne la parte est della Germania. Il regime USA stava semplicemente mentendo. Ma il governo Russo rispettò tutti i suoi impegni. La Russia era ora intrappolata, a causa della fiducia di Gorbaciov nei bugiardi, il cui vero obiettivo era la conquista del mondo – non la pace.
Oggi la NATO include tutti i paesi dell’ex patto di Varsavia, e ora il regime USA sta puntando a portare a bordo anche la Bosnia, la Georgia, l’ex Repubblica Yugoslava di Macedonia e l’Ucraina. La Georgia e l’Ucraina sarebbero i primi paesi ex URSS – non semplicemente ex membri del patto di Varsavia, ma già parti dell’URSS stessa – ad unirsi all’alleanza militare anti-russa, se una di esse sarà ammessa. La sola possibilità che ciò accada va ben oltre quello che l’ingenuo Gorbaciov avrebbe mai potuto immaginare. Non aveva la minima idea di quanto malvagio fosse (e sia ancora) il Deep State american (quello che controlla l’America). Ma ora noi lo sappiamo. La storia è chiara e univoca a riguardo.
Il portavoce della NATO, la Brookings Institution, titolava il 15 novembre 2001, "L'allargamento della NATO prosegue; espansione dell'alleanza e completamento dell’integrazione europea " fingendo che questa espansione avesse lo scopo di aiutare i cittadini europei, e non di conquistare la Russia.
L’Ucraina ha il più lungo confine europeo della Russia, e quindi è stata il primo obiettivo degli USA. Ma prima di impadronirsene gli USA avevano provato nel 2008 ad aizzare la Georgia contro la Russia, e il georgiano Mikheil Saakashvili fu un agente statunitense chiave in quel tentativo. Saakashvili venne poi coinvolto nel violento colpo di stato che rovesciò il governo ucraino liberamente eletto nel febbraio 2014. Saakashvili organizzò il contingente georgiano di cecchini che furono mandati in Ucraina per sparare sulla folla in Piazza Maidan e che uccise sia poliziotti sia dimostranti, in modo che le pallottole sembrassero provenire dalla polizia (Berkut) e/o da altre forze del governo ucraino democraticamente eletto. (Aprite questo link per vedere due sicari georgiani che descrivono a cuor leggero la loro partecipazione al colpo di Stato, e si riferiscono al ruolo dell’ex presidente georgiano Saakashvili nel colpo. Ecco una raccolta di video più completa che descrive e mostra il colpo di stato stesso. Come ho fatto notare, la testimonianza di questi sicari georgiani è totalmente coerente con quanto ha stabilito l’indagine del Ministro degli Esteri UE il 24 febbraio 2014 riguardo i sicari che “erano gli stessi sicari che uccidevano persone di entrambi gli schieramenti” e che questi sicari provenivano “dal nuovo governo di coalizione” e non dal governo che stava per essere disarcionato - insomma si è trattato di un colpo di Stato, non di una “rivoluzione” come la gente di Obama sostenne, e come la gente di Trump ora sostiene. Il regime USA ha agenti in tutti i paesi dell’ex URSS – non solo in Europa Occidentale.
Il colpo di stato di Obama per strappare l’Ucraina alla sua precedente neutralità e farne immediatamente un paese neo-nazista selvaggiamente ostile alla Russia ha distrutto l’Ucraina – non solo dal punto di vista dell’UE, ma (e aprite il link se non lo sapete già) dal punto di vista degli stessi ucraini. Chi non vorrebbe andarsene da lì?
L’Europa ha rifugiati proveniente anche dall’Ucraina, non solo (anche se principalmente) dal Medio Oriente.
Il nemico dell’Europa non è l’élite russa, ma quella americana. Il nemico sono le industrie che controllano le multinazionali internazionali americane – non i miliardari che controllano le multinazionali russe; sono le persone che controllano il governo USA, e nessun russo, i veri decision maker, che sono dietro le politiche europee. Perché l’Europa progredisca, è necessario che gli europei sappiano chi sono i loro veri nemici. La radice di tutti i problemi sono gli USA, il falso alleato dell’Europa. L’attuale America non è l’America del Piano Marshall. Il governo USA è ormai nelle mani di gangster. E vogliono dominare il mondo. La crisi europea dei rifugiati non è che una delle semplici conseguenze.
Infatti, Obama iniziò, prima del 2011, a pianificare queste operazioni di cambio di regime in Libia, Siria e Ucraina. Ma, in ogni caso, nessuna delle operazioni di cambio di regime che hanno causato l’attuale – e senza precedenti - flusso di immigrati in Europa è iniziato a causa di quello che hanno fatto i leader europei (salvo la loro cooperazione col regime USA). Il nemico dell’Europa oggi è il governo USA, che è tutt’altro che amico dei popoli europei. Quando Trump dà la colpa di questa crisi ai leader europei sta semplicemente mentendo e calunniando.
E questo fatto è aggiuntivo alla simile bugia calunniosa di Trump contro gli stessi immigrati. L’8 maggio, il giornale tedesco Die Welt titolava: "Il numero dei reati scende al livello più basso dal 1992" e riferiva che il ministro degli interni tedesco, Horst Seehofer, annunciava le statistiche dei crimini nazionali per il 2017, dicendo: "La Germania è diventata più sicura," più sicura che negli ultimi 30 anni. Seehofer è un membro dell'amministrazione della Cancelliera Merkel che sta provando a sostituirla facendo appello alla forte parte anti-immigrazione del suo partito conservatore, ma perfino lui ha dovuto ammettere, in sostanza, che l’uscita contro gli immigrati che Trump aveva fatto il 18 giugno è una grossa bugia; l'esatto opposto della verità. Il commento twittato da Trump era quindi una calunnia non solo nei confronti della Merkel e degli altri leader europei, ma anche dei profughi che il regime degli Stati Uniti stesso aveva prodotto. Che vergogna! Quanto dovrebbe vergognarsi Trump?
La crisi dei rifugiati non è causata dai rifugiati stessi; e nemmeno dai leader europei; è dovuto al regime USA che mente praticamente sempre – le persone che controllano davvero il Governo Americano e le multinazionali americane.
Il 21 giugno, Manlio Dinucci di Global Research titolava "Il circuito della morte nel ‘Mediterraneo allargato'" e esordiva dicendo: "I media e gli attori politici, concentrati come sono sul flusso migratorio dal sud al nord attraverso il Mediterraneo, stanno trascurando gli altri flussi del mediterranei – quelli che vanno da nord a sud, composti da forze militari e da armi." Ma chi vende più armi nel mondo sono gli Stati Uniti, non l'Unione Europea; quindi porre tutta l’attenzione sui miliardari europei è sbagliato. I principali colpevoli sono sullo stesso lato dell'Atlantico di Trump, e ciò che viene ignorato, su entrambi i lati dell'Atlantico. Il vero problema non è dall’altra parte del Mediterraneo; è dall’altra parte dell'Atlantico. Ecco dove si trova il nemico dell'Europa.
Il 7 agosto 2015, avevo scritto “Gli USA stanno distruggendo l’Europa”, dicendo che:
"In Libia, Siria, Ucraina e in altri paesi della periferia o confinanti con l’Europa, il Presidente USA Barack Obama ha perseguito una politica di destabilizzazione, e perfino bombardamenti e altre forme di assistenza militare, che hanno spinto milioni di rifugiati a lasciare quei paesi periferici per dirigersi verso l’Europa, alimentando i sentimenti di estrema destra anti-immigrazione e di conseguenza destabilizzando la situazione politica in tutta Europa, non solo sulle periferie, ma finanche nell’Europa del Nord. "
La situazione non è cambiata con Trump.
27/06/18
FT - Perché l'industria tedesca dovrebbe temere una Brexit senza accordo
Un eventuale mancato accordo sulla Brexit - osserva sul Financial Times il direttore di Eurointelligence Wolfgang Münchau - sarebbe dannoso soprattutto per la Germania e per la sua industria automobilistica, già fortemente colpita in uno dei suoi maggiori mercati di esportazione dalla minaccia dei dazi di Trump. In questo quadro, una guerra commerciale anche con l'UK provocherebbe all'economia mercantilista della Germania, che punta tutto sulle esportazioni, l'equivalente di un arresto cardiaco. E per ironia della sorte, a finire intrappolati nei contro-dazi cinesi all'America sono proprio i fiammanti Suv Mercedes e BMW prodotti negli USA !
di Wolfgang Münchau, 24 giugno 2018
Le prospettive per le case automobilistiche sono sensibilmente peggiorate dopo il referendum del Regno Unito sulla Brexit
Alcuni eventi producono conseguenze importanti. Altri invece non riescono a incidere. La promessa di rinvio al Parlamento della decisione sulla Brexit rientra tra questi ultimi. La Camera dei Comuni ha respinto un astuto meccanismo che avrebbe potuto portare a un ribaltamento della Brexit.
Esiste poi un'altra categoria di eventi che riescono a diventare determinanti, ma non nella maniera che appare ovvia. Un esempio potrebbe essere la minaccia di Donald Trump di imporre tariffe alle importazioni di automobili. Ma cos'ha a che fare questo con la Brexit?
L'aspettativa delle tariffe di Trump ha il potenziale per cambiare il modo in cui l'UE guarderà alle sue future relazioni commerciali con il Regno Unito.
Per capirlo, immaginiamo che i negoziati sulla Brexit falliscano. Il Regno Unito si ritirerebbe dall'UE a marzo del prossimo anno senza un accordo. Le merci britanniche che entrano nell'UE sarebbero soggette alle tariffe UE e viceversa. L'UE applica un dazio del 10% sulle importazioni di automobili. Il Regno Unito potrebbe reciprocamente imporre dei dazi.
Consideriamo ora la posizione delle case automobilistiche tedesche. Secondo l'associazione tedesca dell'industria automobilistica, il paese l'anno scorso ha esportato 769.000 automobili nel Regno Unito, il suo principale mercato di esportazione. Gli Stati Uniti sono al secondo posto, con 494.000 automobili. Le case automobilistiche tedesche esportano 258.000 veicoli prodotti in Germania anche in Cina, oltre a quelli prodotti negli stabilimenti statunitensi e cinesi.
Se il Regno Unito fosse costretto a una hard Brexit con un cosiddetto "effetto precipizio", nel giro di pochi mesi l'industria automobilistica tedesca si troverebbe a fronteggiare nuovi dazi in entrambi i suoi maggiori mercati di esportazione. La settimana scorsa la Daimler-Benz ha lanciato un profit warning, proprio in relazione al previsto aumento delle tariffe cinesi sulle auto Mercedes prodotte negli Stati Uniti.
Immaginate cosa potrebbe succedere quando nel 2019 gli Stati Uniti imporranno tariffe sulle auto europee, e dopo si avesse la Brexit, probabilmente a distanza di pochi mesi. Se il Regno Unito partecipasse a una guerra tariffaria, l'industria subirebbe l'equivalente commerciale di un arresto cardiaco.
Tutto questo si sommerebbe al crescente scandalo sulle emissioni diesel. Mercedes potrebbe dover richiamare 774.000 auto per rimuovere i dispositivi software incriminati. A questo si aggiunga l'impatto commerciale a lungo termine del divieto del diesel nelle città, l'aumento delle vendite di auto elettriche e il complesso impatto dell'intelligenza artificiale, e le prospettive per l'industria tedesca peggiorate sensibilmente dopo il referendum sulla Brexit.
Ovviamente, l'UE non sta negoziando la Brexit a beneficio dell'industria tedesca. Né dovrebbe farlo. Angela Merkel dopo il referendum sulla Brexit del 2016 ha detto che non vuole che i capi dell'industria intervengano in queste delicate trattative. Ma il cancelliere tedesco non ha il margine di manovra politica di cui avrebbe bisogno per perseverare in una posizione che potrebbe provocare la perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro. L'ultima cosa di cui ha bisogno è una guerra commerciale intra-europea.
Anche la geopolitica è cambiata dopo il referendum sulla Brexit. Trump pone una duplice sfida per la Germania e l'UE - sia sul commercio che sulla politica estera. Il ritiro degli Stati Uniti dall'accordo nucleare iraniano e dall'accordo sul clima di Parigi hanno riavvicinato l'UE e il Regno Unito. E il primo ministro britannico Theresa May si è rivelato un alleato affidabile per l'UE. Gli interessi del Regno Unito e dell'UE sono ora più allineati rispetto a due anni fa.
Un'unione doganale con un accesso al mercato unico soltanto per le merci sarebbe molto utile al perseguimento del reciproco interesse, più di qualsiasi altro progetto Brexit con i paesi con cui si sono svolti negoziati: Norvegia, Svizzera o Canada. Ridurrebbe gli effetti economici per entrambe le parti, rispetterebbe gli impegni sul confine irlandese e manterrebbe l'integrità del mercato unico.
Affinché una unione doganale possa funzionare fino in fondo, i prodotti dovrebbero rimanere soggetti alle regole del mercato interno dell'UE. Il Regno Unito diventerebbe formalmente membro del mercato unico. Detto questo, l'UE è in grado di offrire un accordo doganale personalizzato, per le merci ma non per i servizi, con i vari diritti e obblighi che derivano da questo accordo.
Questo trasformerebbe il Regno Unito in uno stato vassallo, come sostengono alcuni dei Brexiters? Ovviamente no. Il Regno Unito non sarebbe soggetto ai trattati europei. L'unione doganale stabilirebbe restrizioni chiare ma limitate della sovranità: non accordi commerciali con paesi terzi in relazione ai manufatti; accettazione degli standard di produzione dell'UE; e un impegno minimo sulla libertà di movimento, ma ben al di sotto degli obblighi che si applicano oggi.
Non c'è paragone con i vincoli alla sovranità che derivano dalla piena adesione all'UE. E queste concessioni sono banali rispetto ai paralizzanti costi economici, sociali e politici di una hard Brexit senza accordo.
L'argomento decisivo a favore di un'unione doganale deriva dagli avvenimenti densi di conseguenze che si sono manifestati dopo il referendum, per il Regno Unito e per l'Unione europea.
di Wolfgang Münchau, 24 giugno 2018
Le prospettive per le case automobilistiche sono sensibilmente peggiorate dopo il referendum del Regno Unito sulla Brexit
Alcuni eventi producono conseguenze importanti. Altri invece non riescono a incidere. La promessa di rinvio al Parlamento della decisione sulla Brexit rientra tra questi ultimi. La Camera dei Comuni ha respinto un astuto meccanismo che avrebbe potuto portare a un ribaltamento della Brexit.
Esiste poi un'altra categoria di eventi che riescono a diventare determinanti, ma non nella maniera che appare ovvia. Un esempio potrebbe essere la minaccia di Donald Trump di imporre tariffe alle importazioni di automobili. Ma cos'ha a che fare questo con la Brexit?
L'aspettativa delle tariffe di Trump ha il potenziale per cambiare il modo in cui l'UE guarderà alle sue future relazioni commerciali con il Regno Unito.
Per capirlo, immaginiamo che i negoziati sulla Brexit falliscano. Il Regno Unito si ritirerebbe dall'UE a marzo del prossimo anno senza un accordo. Le merci britanniche che entrano nell'UE sarebbero soggette alle tariffe UE e viceversa. L'UE applica un dazio del 10% sulle importazioni di automobili. Il Regno Unito potrebbe reciprocamente imporre dei dazi.
Consideriamo ora la posizione delle case automobilistiche tedesche. Secondo l'associazione tedesca dell'industria automobilistica, il paese l'anno scorso ha esportato 769.000 automobili nel Regno Unito, il suo principale mercato di esportazione. Gli Stati Uniti sono al secondo posto, con 494.000 automobili. Le case automobilistiche tedesche esportano 258.000 veicoli prodotti in Germania anche in Cina, oltre a quelli prodotti negli stabilimenti statunitensi e cinesi.
Se il Regno Unito fosse costretto a una hard Brexit con un cosiddetto "effetto precipizio", nel giro di pochi mesi l'industria automobilistica tedesca si troverebbe a fronteggiare nuovi dazi in entrambi i suoi maggiori mercati di esportazione. La settimana scorsa la Daimler-Benz ha lanciato un profit warning, proprio in relazione al previsto aumento delle tariffe cinesi sulle auto Mercedes prodotte negli Stati Uniti.
Immaginate cosa potrebbe succedere quando nel 2019 gli Stati Uniti imporranno tariffe sulle auto europee, e dopo si avesse la Brexit, probabilmente a distanza di pochi mesi. Se il Regno Unito partecipasse a una guerra tariffaria, l'industria subirebbe l'equivalente commerciale di un arresto cardiaco.
Tutto questo si sommerebbe al crescente scandalo sulle emissioni diesel. Mercedes potrebbe dover richiamare 774.000 auto per rimuovere i dispositivi software incriminati. A questo si aggiunga l'impatto commerciale a lungo termine del divieto del diesel nelle città, l'aumento delle vendite di auto elettriche e il complesso impatto dell'intelligenza artificiale, e le prospettive per l'industria tedesca peggiorate sensibilmente dopo il referendum sulla Brexit.
Ovviamente, l'UE non sta negoziando la Brexit a beneficio dell'industria tedesca. Né dovrebbe farlo. Angela Merkel dopo il referendum sulla Brexit del 2016 ha detto che non vuole che i capi dell'industria intervengano in queste delicate trattative. Ma il cancelliere tedesco non ha il margine di manovra politica di cui avrebbe bisogno per perseverare in una posizione che potrebbe provocare la perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro. L'ultima cosa di cui ha bisogno è una guerra commerciale intra-europea.
Anche la geopolitica è cambiata dopo il referendum sulla Brexit. Trump pone una duplice sfida per la Germania e l'UE - sia sul commercio che sulla politica estera. Il ritiro degli Stati Uniti dall'accordo nucleare iraniano e dall'accordo sul clima di Parigi hanno riavvicinato l'UE e il Regno Unito. E il primo ministro britannico Theresa May si è rivelato un alleato affidabile per l'UE. Gli interessi del Regno Unito e dell'UE sono ora più allineati rispetto a due anni fa.
Un'unione doganale con un accesso al mercato unico soltanto per le merci sarebbe molto utile al perseguimento del reciproco interesse, più di qualsiasi altro progetto Brexit con i paesi con cui si sono svolti negoziati: Norvegia, Svizzera o Canada. Ridurrebbe gli effetti economici per entrambe le parti, rispetterebbe gli impegni sul confine irlandese e manterrebbe l'integrità del mercato unico.
Affinché una unione doganale possa funzionare fino in fondo, i prodotti dovrebbero rimanere soggetti alle regole del mercato interno dell'UE. Il Regno Unito diventerebbe formalmente membro del mercato unico. Detto questo, l'UE è in grado di offrire un accordo doganale personalizzato, per le merci ma non per i servizi, con i vari diritti e obblighi che derivano da questo accordo.
Questo trasformerebbe il Regno Unito in uno stato vassallo, come sostengono alcuni dei Brexiters? Ovviamente no. Il Regno Unito non sarebbe soggetto ai trattati europei. L'unione doganale stabilirebbe restrizioni chiare ma limitate della sovranità: non accordi commerciali con paesi terzi in relazione ai manufatti; accettazione degli standard di produzione dell'UE; e un impegno minimo sulla libertà di movimento, ma ben al di sotto degli obblighi che si applicano oggi.
Non c'è paragone con i vincoli alla sovranità che derivano dalla piena adesione all'UE. E queste concessioni sono banali rispetto ai paralizzanti costi economici, sociali e politici di una hard Brexit senza accordo.
L'argomento decisivo a favore di un'unione doganale deriva dagli avvenimenti densi di conseguenze che si sono manifestati dopo il referendum, per il Regno Unito e per l'Unione europea.
26/06/18
L'Unione Europea intende approvare la controversa legge-bavaglio sul copyright di Internet
Per un governo sovranazionale, che non sia emanazione dei cittadini, e saldamente "al riparo dal processo elettorale", permettere l'esistenza di una struttura aperta e democratica come Internet è pericoloso, perché rende impossibile controllare l’informazione. E il controllo è indispensabile, per convincere i cittadini che tutto va bene e che hanno il migliore dei governi possibili. Per questo motivo da anni la Commissione Europea tenta di calare sulla rete una struttura di controllo che permetta un accesso selettivo sia ai contenuti sia agli utenti.
Per anni una visione così orwelliana dei canali di comunicazione sarebbe sembrata da relegare a regimi autoritari e non democratici, ma dopo le rivelazioni di Snowden dovrebbe essere chiaro che non è affatto così: in Occidente censura e controllo non vengono, per scelta, esercitati direttamente dai governi, ma sono affidati direttamente alle grandi multinazionali del web come Facebook, Twitter, Google, Amazon, in cambio di lucrative opportunità di affari e pubblicità grazie ai dati degli utenti.
Oggi, con la nuova direttiva europea sulla protezione del diritto d’autore, siamo di fronte a una nuova, ancora più pericolosa minaccia per la libertà d'informazione. Se approvata, questa nuova legislazione rischierebbe di silenziare a tutti gli effetti qualsiasi voce indipendente, fuori dal coro e dissidente. Incoraggiamo dunque vivamente i lettori a firmare l'appello lanciato da Byoblu per sensibilizzare gli Eurodeputati ad opporsi a questa direttiva.
Di James Vincent, 20 giugno 2018
L'Unione europea ha compiuto il primo passo verso l'approvazione di una nuova legislazione sul diritto d'autore che secondo i suoi critici rischia di distruggere Internet.
Lo scorso 20 giugno la commissione per gli affari giuridici dell'UE (JURI) ha votato a favore della legislazione, denominata “Direttiva sul diritto d'autore”. Se buona parte del testo della direttiva non è altro che un aggiornamento del linguaggio tecnico per la legge sul copyright nell'era di Internet, al suo interno include due disposizioni molto controverse. Si tratta dell'articolo 11 che introduce una "tassa sui link", che costringerebbe piatteforme online come Facebook e Google ad acquistare licenze da società di media prima di poter linkare qualsiasi contenuto; e l'articolo 13 sul "filtro di caricamento", che richiederebbe il controllo di violazione del copyright su tutto ciò che è stato caricato online nell'UE. (Lo si può immaginare come il sistema Content ID di YouTube, ma per l'intero Internet.)
I legislatori europei critici verso la legislazione affermano che, nonostante le iniziali buone intenzioni - come la protezione dei diritti d'autore - questi articoli sono formulati in modo vago e passibili di abuso. "Le misure per risolvere il problema sono catastrofiche e finiranno col danneggiare proprio le stesse persone che intendono proteggere", ha detto ai giornalisti l'eurodeputata verde Julia Reda questa settimana. Dopo il voto di stamattina, Reda ha dichiarato a The Verge: "È una giornata triste per internet... ma la lotta non è ancora finita".
Sia l'articolo 11 sia l'articolo 13 sono stati approvati questa mattina dalla commissione JURI, ma non diventeranno legislazione ufficiale finché non saranno approvati dall'intero Parlamento europeo in seduta plenaria. Non esiste ancora un calendario preciso per il voto, ma dovrebbe probabilmente aver luogo tra il dicembre di quest'anno e la prima metà del 2019.
Joe McNamee, direttore esecutivo dell'associazione per i diritti digitali EDRi, ha dichiarato a The Verge che sebbene l'esito della decisione JURI stamattina sia stato estremamente deludente, ci sono segnali che le reazioni negative contro la legislazione stiano avendo un effetto significativo.
"Mi è stato detto che il volume di chiamate, email e sms ricevuti da tutti i membri del Parlamento ha indotto anche chi non faceva parte del comitato [JURI] a iniziare a preoccuparsi", afferma McNamee. "Queste iniziative rendono ogni giorno più improbabile una maggioranza [al Parlamento europeo]".
Tuttavia, non è solo un voto plenario del Parlamento europeo che deciderà il destino della direttiva sul diritto d'autore. Attualmente, la legislazione dovrebbe anche essere discussa in quelli che sono noti come "negoziati a tre" - discussioni a porte chiuse tra legislatori e stati membri dell'UE. Lo scopo sarebbe di accelerare il processo di adozione di nuove leggi, ma secondo alcuni sono opachi e antidemocratici. Non è chiaro se la direttiva sul copyright sia soggetta a tali negoziati. [La commissione JURI ha poi deciso di sottoporla a questi negoziati, ma i deputati hanno la possibilità di avanzare obiezioni il mese prossimo). Se i negoziati a tre procedono, aumentano le possibilità che gli articoli 11 e 13 vengano convertiti in legge. "È molto meno probabile che [la legislazione] venga respinta dopo questo processo", afferma McNamee.
Se la legislazione venisse approvata nella sua forma attuale, l’effetto sarebbe devastante. L'articolo 13, ad esempio, prevede la creazione di un filtro automatico per tutti i contenuti online caricati nell'UE, che verrebbero verificati con un database di licenze di copyright. Il sistema sarebbe costoso da creare, impossibile da aggiornare e sarebbero facili gli abusi dei troll dei diritti d'autore. Tim Berners-Lee e Jimmy Wales mettono in guardia sul fatto che ciò trasformerebbe Internet in uno "strumento per la sorveglianza e il controllo automatizzati dei suoi utenti".
Che la direttiva sul diritto d'autore abbia superato il primo ostacolo legislativo senza emendamenti non lascia presagire ovviamente nulla di buono. Ma secondo McNamee esistono tutte le condizioni perché i legislatori europei possano essere persuasi a votare contro la legge, soprattutto considerando che devono affrontare una rielezione al Parlamento europeo nel maggio del prossimo anno.
"È già successo che, in vista delle elezioni, cattive proposte di legge siano state rigettate", afferma McNamee, riferendosi alla legislazione ACTA del 2012, anch’essa volta a regolamentare la violazione del copyright online con disposizioni formulate in modo oscuro. "Sappiamo che i cittadini potrebbero essere scoraggiati, ma le loro opinioni vengono ascoltate e prese in considerazione", dice. "JURI non è il Parlamento".
Per anni una visione così orwelliana dei canali di comunicazione sarebbe sembrata da relegare a regimi autoritari e non democratici, ma dopo le rivelazioni di Snowden dovrebbe essere chiaro che non è affatto così: in Occidente censura e controllo non vengono, per scelta, esercitati direttamente dai governi, ma sono affidati direttamente alle grandi multinazionali del web come Facebook, Twitter, Google, Amazon, in cambio di lucrative opportunità di affari e pubblicità grazie ai dati degli utenti.
Oggi, con la nuova direttiva europea sulla protezione del diritto d’autore, siamo di fronte a una nuova, ancora più pericolosa minaccia per la libertà d'informazione. Se approvata, questa nuova legislazione rischierebbe di silenziare a tutti gli effetti qualsiasi voce indipendente, fuori dal coro e dissidente. Incoraggiamo dunque vivamente i lettori a firmare l'appello lanciato da Byoblu per sensibilizzare gli Eurodeputati ad opporsi a questa direttiva.
Di James Vincent, 20 giugno 2018
L'Unione europea ha compiuto il primo passo verso l'approvazione di una nuova legislazione sul diritto d'autore che secondo i suoi critici rischia di distruggere Internet.
Lo scorso 20 giugno la commissione per gli affari giuridici dell'UE (JURI) ha votato a favore della legislazione, denominata “Direttiva sul diritto d'autore”. Se buona parte del testo della direttiva non è altro che un aggiornamento del linguaggio tecnico per la legge sul copyright nell'era di Internet, al suo interno include due disposizioni molto controverse. Si tratta dell'articolo 11 che introduce una "tassa sui link", che costringerebbe piatteforme online come Facebook e Google ad acquistare licenze da società di media prima di poter linkare qualsiasi contenuto; e l'articolo 13 sul "filtro di caricamento", che richiederebbe il controllo di violazione del copyright su tutto ciò che è stato caricato online nell'UE. (Lo si può immaginare come il sistema Content ID di YouTube, ma per l'intero Internet.)
I legislatori europei critici verso la legislazione affermano che, nonostante le iniziali buone intenzioni - come la protezione dei diritti d'autore - questi articoli sono formulati in modo vago e passibili di abuso. "Le misure per risolvere il problema sono catastrofiche e finiranno col danneggiare proprio le stesse persone che intendono proteggere", ha detto ai giornalisti l'eurodeputata verde Julia Reda questa settimana. Dopo il voto di stamattina, Reda ha dichiarato a The Verge: "È una giornata triste per internet... ma la lotta non è ancora finita".
Sia l'articolo 11 sia l'articolo 13 sono stati approvati questa mattina dalla commissione JURI, ma non diventeranno legislazione ufficiale finché non saranno approvati dall'intero Parlamento europeo in seduta plenaria. Non esiste ancora un calendario preciso per il voto, ma dovrebbe probabilmente aver luogo tra il dicembre di quest'anno e la prima metà del 2019.
Joe McNamee, direttore esecutivo dell'associazione per i diritti digitali EDRi, ha dichiarato a The Verge che sebbene l'esito della decisione JURI stamattina sia stato estremamente deludente, ci sono segnali che le reazioni negative contro la legislazione stiano avendo un effetto significativo.
"Mi è stato detto che il volume di chiamate, email e sms ricevuti da tutti i membri del Parlamento ha indotto anche chi non faceva parte del comitato [JURI] a iniziare a preoccuparsi", afferma McNamee. "Queste iniziative rendono ogni giorno più improbabile una maggioranza [al Parlamento europeo]".
Tuttavia, non è solo un voto plenario del Parlamento europeo che deciderà il destino della direttiva sul diritto d'autore. Attualmente, la legislazione dovrebbe anche essere discussa in quelli che sono noti come "negoziati a tre" - discussioni a porte chiuse tra legislatori e stati membri dell'UE. Lo scopo sarebbe di accelerare il processo di adozione di nuove leggi, ma secondo alcuni sono opachi e antidemocratici. Non è chiaro se la direttiva sul copyright sia soggetta a tali negoziati. [La commissione JURI ha poi deciso di sottoporla a questi negoziati, ma i deputati hanno la possibilità di avanzare obiezioni il mese prossimo). Se i negoziati a tre procedono, aumentano le possibilità che gli articoli 11 e 13 vengano convertiti in legge. "È molto meno probabile che [la legislazione] venga respinta dopo questo processo", afferma McNamee.
Se la legislazione venisse approvata nella sua forma attuale, l’effetto sarebbe devastante. L'articolo 13, ad esempio, prevede la creazione di un filtro automatico per tutti i contenuti online caricati nell'UE, che verrebbero verificati con un database di licenze di copyright. Il sistema sarebbe costoso da creare, impossibile da aggiornare e sarebbero facili gli abusi dei troll dei diritti d'autore. Tim Berners-Lee e Jimmy Wales mettono in guardia sul fatto che ciò trasformerebbe Internet in uno "strumento per la sorveglianza e il controllo automatizzati dei suoi utenti".
Che la direttiva sul diritto d'autore abbia superato il primo ostacolo legislativo senza emendamenti non lascia presagire ovviamente nulla di buono. Ma secondo McNamee esistono tutte le condizioni perché i legislatori europei possano essere persuasi a votare contro la legge, soprattutto considerando che devono affrontare una rielezione al Parlamento europeo nel maggio del prossimo anno.
"È già successo che, in vista delle elezioni, cattive proposte di legge siano state rigettate", afferma McNamee, riferendosi alla legislazione ACTA del 2012, anch’essa volta a regolamentare la violazione del copyright online con disposizioni formulate in modo oscuro. "Sappiamo che i cittadini potrebbero essere scoraggiati, ma le loro opinioni vengono ascoltate e prese in considerazione", dice. "JURI non è il Parlamento".
25/06/18
In Grecia più di una persona su tre è a rischio povertà
Se gli storici del futuro dovessero indicare un esempio della propaganda europeista negli anni terminali della moneta unica, potrebbero scegliere i toni usati per l'accordo firmato venerdì scorso dall'Eurogruppo per suggellare il ritorno della Grecia al finanziamento del debito attraverso il mercato. Non solo la Grecia sarà costretta a politiche di austerità per decenni (dovrà garantire un surplus primario del 3,5% del PIL fino al 2022 e del 2,2% fino al 2060!) - fonte KeepTalkingGreece - , ma più di un terzo della popolazione rimane a rischio povertà - fonte Ekathimerini -, percentuale che salirebbe ad oltre il 50% senza i sussidi sociali. E i tagli a pensioni e indennizzi continueranno anche nei prossimi anni. Insomma, la cura ha avuto successo, ma il paziente è morto - l'importante è che i creditori della Grecia abbiano avuto indietro il proprio denaro e che la Grecia continui a garantire la loro rendita, sotto la disciplina dei mercati e con la benedizione del governo Tsipras.
Più di un terzo della popolazione del paese - il 34,8% o 3,7 milioni di persone - è considerata a rischio povertà o di esclusione sociale secondo il sondaggio 2017 dell'ELSTAT (l'ente nazionale delle statistiche) sui redditi delle famiglie e le condizioni di vita.
La cifra è scesa lievemente se confrontata con l'anno precedente, perché nel 2016 era considerato a rischio povertà o esclusione sociale il 35,6% della popolazione, o 3,79 milioni di persone.
I dati mostrano che il rischio è maggiore tra le persone in età lavorativa (da 18 a 64 anni) - il 38,6%. In particolare, nel medesimo gruppo di età il rischio in Grecia è di gran lunga maggiore tra gli stranieri - ne è toccato il 62,9% - contro il 36,5% dei greci tra i 18 e i 64 anni.
La soglia di povertà è stata fissata sul reddito annuale di 4.560 euro per persona e di 9.576 euro per famiglia formata da due adulti e due bambini di età inferiore a 14 anni. Le famiglie a rischio povertà o esclusione sociale sono 789.585 su un totale di 4.162.442 famiglie in Grecia.
Senza i sussidi sociali, il 50,8% della popolazione del paese sarebbe considerato a rischio povertà, la qual cosa indica l'impatto che pensioni e sussidi sociali - come l'indennità per i percettori di piccole pensioni (EKAS) e il sussidio alla disoccupazione - hanno sulla vita delle persone.
L'atmosfera del venerdì mattina è buona. I creditori della Grecia esultano, i media internazionali e persino quelli tedeschi salutano l'accordo dell'Eurogruppo come "la fine della crisi greca", "la Grecia esce dal salvataggio" e "il debito greco è sostenibile". Ma l'Eurogruppo dei 19 ministri delle finanze non ha concesso alla Grecia nessuna riduzione del debito. Nemmeno tassi di interesse più bassi o clausole di crescita. Quello che hanno fatto è estendere:
L'accordo, raggiunto nelle prime ore del mattino di venerdì a causa delle obiezioni tedesche sul tempo di estensione del debito, apre la strada anche all'uscita della Grecia dal suo programma di salvataggio di 8 anni.
Inoltre, la Grecia ottiene una tranche di 15 miliardi di euro, un cosiddetto "buffer" che è un ulteriore prestito. Di questi 15 miliardi, 3,3 possono essere usati per ripagare i prestiti del FMI. [...]
Nella dichiarazione ufficiale, l'Eurogruppo dà il benvenuto all'impegno della Grecia a mantenere:
[...]
Il presidente dell'Eurogruppo, Mario Centeno, a valle dell'incontro ha detto: "Possiamo affermare con sicurezza che il debito greco è sostenibile in futuro, facciamo le congratulazioni alla Grecia".
Tra le altre cose ha aggiunto che la Grecia ha emanato 450 interventi legislativi soltanto nel contesto del 3° programma di salvataggio. Non ha osato menzionare quelli connessi al salvataggio nei primi due programmi di aggiustamento fiscale.
Con misure di lungo termine fino al 2060, i guai della Grecia non sono davvero finiti il 22 giugno né finiranno il 18 agosto, quando uscirà ufficialmente dal 3° programma di salvataggio. [...]
Ma più essenziale è vedere come questo "grande accordo", come "la più grande solidarietà che il mondo abbia mai mostrato" (così ha detto il direttore del ESM Regling) influenzerà la vita e le tasche dei greci. Di sicuro le pensioni saranno ulteriormente tagliate nel 2019 e i poveri saranno tassati col restringimento dell'area tax-free (i redditi non tassati) nel 2020.
Alla fine dei giochi, ci ritroviamo al punto di partenza, con un debito ben più altro rispetto al 2010: nel 2010 il debito greco ammontava a 262 miliardi, nel 2018 a 323 miliardi di euro.
Più di un terzo della popolazione del paese - il 34,8% o 3,7 milioni di persone - è considerata a rischio povertà o di esclusione sociale secondo il sondaggio 2017 dell'ELSTAT (l'ente nazionale delle statistiche) sui redditi delle famiglie e le condizioni di vita.
La cifra è scesa lievemente se confrontata con l'anno precedente, perché nel 2016 era considerato a rischio povertà o esclusione sociale il 35,6% della popolazione, o 3,79 milioni di persone.
I dati mostrano che il rischio è maggiore tra le persone in età lavorativa (da 18 a 64 anni) - il 38,6%. In particolare, nel medesimo gruppo di età il rischio in Grecia è di gran lunga maggiore tra gli stranieri - ne è toccato il 62,9% - contro il 36,5% dei greci tra i 18 e i 64 anni.
La soglia di povertà è stata fissata sul reddito annuale di 4.560 euro per persona e di 9.576 euro per famiglia formata da due adulti e due bambini di età inferiore a 14 anni. Le famiglie a rischio povertà o esclusione sociale sono 789.585 su un totale di 4.162.442 famiglie in Grecia.
Senza i sussidi sociali, il 50,8% della popolazione del paese sarebbe considerato a rischio povertà, la qual cosa indica l'impatto che pensioni e sussidi sociali - come l'indennità per i percettori di piccole pensioni (EKAS) e il sussidio alla disoccupazione - hanno sulla vita delle persone.
L'atmosfera del venerdì mattina è buona. I creditori della Grecia esultano, i media internazionali e persino quelli tedeschi salutano l'accordo dell'Eurogruppo come "la fine della crisi greca", "la Grecia esce dal salvataggio" e "il debito greco è sostenibile". Ma l'Eurogruppo dei 19 ministri delle finanze non ha concesso alla Grecia nessuna riduzione del debito. Nemmeno tassi di interesse più bassi o clausole di crescita. Quello che hanno fatto è estendere:
- - il rimborso degli interessi sul debito EFSF e la maturazione dei titoli greci di 10 anni;
- - una rigorosa austerità;
- - una stretta supervisione;
- - e più "riforme".
L'accordo, raggiunto nelle prime ore del mattino di venerdì a causa delle obiezioni tedesche sul tempo di estensione del debito, apre la strada anche all'uscita della Grecia dal suo programma di salvataggio di 8 anni.
Inoltre, la Grecia ottiene una tranche di 15 miliardi di euro, un cosiddetto "buffer" che è un ulteriore prestito. Di questi 15 miliardi, 3,3 possono essere usati per ripagare i prestiti del FMI. [...]
Nella dichiarazione ufficiale, l'Eurogruppo dà il benvenuto all'impegno della Grecia a mantenere:
- - un surplus primario del 3,5% del PIL fino al 2022
- - un surplus primario del 2,2% del PIL in media nel periodo dal 2023 al 2060.
[...]
Il presidente dell'Eurogruppo, Mario Centeno, a valle dell'incontro ha detto: "Possiamo affermare con sicurezza che il debito greco è sostenibile in futuro, facciamo le congratulazioni alla Grecia".
Tra le altre cose ha aggiunto che la Grecia ha emanato 450 interventi legislativi soltanto nel contesto del 3° programma di salvataggio. Non ha osato menzionare quelli connessi al salvataggio nei primi due programmi di aggiustamento fiscale.
Con misure di lungo termine fino al 2060, i guai della Grecia non sono davvero finiti il 22 giugno né finiranno il 18 agosto, quando uscirà ufficialmente dal 3° programma di salvataggio. [...]
Ma più essenziale è vedere come questo "grande accordo", come "la più grande solidarietà che il mondo abbia mai mostrato" (così ha detto il direttore del ESM Regling) influenzerà la vita e le tasche dei greci. Di sicuro le pensioni saranno ulteriormente tagliate nel 2019 e i poveri saranno tassati col restringimento dell'area tax-free (i redditi non tassati) nel 2020.
Alla fine dei giochi, ci ritroviamo al punto di partenza, con un debito ben più altro rispetto al 2010: nel 2010 il debito greco ammontava a 262 miliardi, nel 2018 a 323 miliardi di euro.
24/06/18
Eurointelligence - Perché un'Italia senza paura è così pericolosa per l'UE
Dalla rassegna stampa di Eurointelligence una importante osservazione sulla vera novità dello scenario politico europeo: l’attuale governo italiano non desta scalpore tanto per le sue posizioni politiche, sebbene divergenti e non allineate, quanto per la sua inedita mancanza di paura e sudditanza. Paura e sudditanza che in precedenza avevano sempre caratterizzato la classe di governo del nostro Paese - e peraltro anche i commentatori politici italiani - obbligandoci a subire pedissequamente regole e normative anche profondamente contrarie ai nostri interessi.
Eurointelligence, 22 giugno 2018
Il vero pericolo che viene dall'Italia per l'UE non è un ipotetico piano di uscita dall'euro. O una presa di posizione più dura sull'immigrazione. Questo è un tipo di diavolo che conosciamo.
La vera minaccia viene da un'improvvisa perdita della paura. È la paura dell'isolamento che nel corso dei decenni ha tenuto in riga l'Italia, pronta ad accettare ogni normativa anche manifestamente contraria all'interesse del Paese, come la direttiva sulla risoluzione delle banche o anche il trattato dell'ESM, almeno per come è costruito.
Dopo che Giuseppe Conte aveva minacciato di non recarsi questa domenica al mini-summit sull’immigrazione, Angela Merkel lo ha chiamato per assicurargli che la bozza di risoluzione sarebbe stata messa da parte. Conte ha ottenuto un impegno: che da questo incontro non sarebbe arrivata alcuna conclusione. Questa è anche la posizione dei paesi di Visegrad, con cui l'Italia è allineata.
Il primo segno concreto dell'assertività italiana è arrivato a Bruxelles ieri, secondo una cronaca riportata dal Corriere della Sera. Fabrizio Massari, l'ambasciatore italiano, ha formulato una riserva formale sui fondi che l'UE ha stanziato per la Turchia e l'Africa. Il documento sottolinea giustamente che la presentazione di una riserva formale al Coreper spesso prefigura un voto negativo al Consiglio. L'articolo scrive che l'Italia passa dalle parole ai fatti.
”L'Italia si sta predisponendo, senza paura delle conseguenze, a una vera e propria guerra diplomatica: sa che potrebbe non ottenere nulla, ma sembra fermamente convinta di non poter fare passi indietro, anche a costo di isolarsi”.
Dobbiamo ancora vedere la reazione formale dell'Italia alle riforme dell'eurozona, ma dubitiamo che le idee franco-tedesche sopravviveranno al filtro politico italiano. Se è previsto un cambiamento del trattato, questo governo italiano richiederà come minimo la fine del fiscal compact e delle relative regole fiscali. Anche il PD lo aveva chiesto durante la campagna elettorale.
La paura dell'isolamento rimane però nel DNA dei commentatori politici italiani. Massimo Franco scrive sul Corriere della Sera che con questa amministrazione questo rischio rimarrà sempre sullo sfondo. Ricordiamo che uno dei primi atti di Matteo Renzi come primo ministro è stato quello di cercare di farsi fotografare con la Merkel - dopo avere a lungo denunciato le sue politiche nella fase precedente alla sua ascesa al governo. Ora è evidentemente diverso.
Ciò che rende Matteo Salvini così pericoloso per l'UE è la sua completa mancanza di paura. Un tipo di politico deciso e ostinato, che nell'UE la Merkel non aveva ancora incontrato. Conte non decide da solo. Egli agisce in accordo con le istruzioni dei suoi due leader. Sull'immigrazione, è Salvini quello che conta.
In questo nuovo clima politico non è intelligente da un punto di vista diplomatico per Germania e Francia perseguire la loro classica diplomazia pre-summit. La Merkel ha disperatamente bisogno di un accordo nel giro di una settimana per tenere insieme il suo governo. Cosa che sembra sempre più improbabile. Dubitiamo che Conte accetterà di firmare qualsiasi pezzo di carta che affermi che l'Italia prenderà i rifugiati dalla Germania. Accetterà solo proposte finalizzate a proteggere le frontiere esterne dell'UE. Sono in atto dei tentativi di placare la nuova amministrazione italiana. È trapelata una bozza di conclusioni del Consiglio europeo della prossima settimana che prevede le piattaforme di sbarco regionali.
Notiamo anche due importanti nomine che sembrano aver scioccato alcuni osservatori. Una è quella di Claudio Borghi alla presidenza della commissione Bilancio della Camera dei deputati; l'altra è quella di Alberto Bagnai alla commissione Finanze del Senato. Sono due euroscettici. Hanno all’attivo diverse pubblicazioni sull'uscita italiana dall'euro.
Abbiamo sempre detto che la campagna contro Paolo Savona era una falsa pista. Non pensiamo che questo governo pianifichi un'uscita dall'euro - anche se pensiamo che metterà in atto preparativi tecnici. Ma con Borghi e Bagnai ai posti di comando del Parlamento, il ministero delle Finanze è fortemente costretto. Lo spread delle obbligazioni italiane ieri a un certo punto è salito a 242,6 punti base e le azioni sono calate del 2%. La Repubblica ha osservato che Salvini si stava ancora riprendendo dal rifiuto della nomina di Savona a ministro delle Finanze.
Eurointelligence, 22 giugno 2018
Il vero pericolo che viene dall'Italia per l'UE non è un ipotetico piano di uscita dall'euro. O una presa di posizione più dura sull'immigrazione. Questo è un tipo di diavolo che conosciamo.
La vera minaccia viene da un'improvvisa perdita della paura. È la paura dell'isolamento che nel corso dei decenni ha tenuto in riga l'Italia, pronta ad accettare ogni normativa anche manifestamente contraria all'interesse del Paese, come la direttiva sulla risoluzione delle banche o anche il trattato dell'ESM, almeno per come è costruito.
Dopo che Giuseppe Conte aveva minacciato di non recarsi questa domenica al mini-summit sull’immigrazione, Angela Merkel lo ha chiamato per assicurargli che la bozza di risoluzione sarebbe stata messa da parte. Conte ha ottenuto un impegno: che da questo incontro non sarebbe arrivata alcuna conclusione. Questa è anche la posizione dei paesi di Visegrad, con cui l'Italia è allineata.
Il primo segno concreto dell'assertività italiana è arrivato a Bruxelles ieri, secondo una cronaca riportata dal Corriere della Sera. Fabrizio Massari, l'ambasciatore italiano, ha formulato una riserva formale sui fondi che l'UE ha stanziato per la Turchia e l'Africa. Il documento sottolinea giustamente che la presentazione di una riserva formale al Coreper spesso prefigura un voto negativo al Consiglio. L'articolo scrive che l'Italia passa dalle parole ai fatti.
”L'Italia si sta predisponendo, senza paura delle conseguenze, a una vera e propria guerra diplomatica: sa che potrebbe non ottenere nulla, ma sembra fermamente convinta di non poter fare passi indietro, anche a costo di isolarsi”.
Dobbiamo ancora vedere la reazione formale dell'Italia alle riforme dell'eurozona, ma dubitiamo che le idee franco-tedesche sopravviveranno al filtro politico italiano. Se è previsto un cambiamento del trattato, questo governo italiano richiederà come minimo la fine del fiscal compact e delle relative regole fiscali. Anche il PD lo aveva chiesto durante la campagna elettorale.
La paura dell'isolamento rimane però nel DNA dei commentatori politici italiani. Massimo Franco scrive sul Corriere della Sera che con questa amministrazione questo rischio rimarrà sempre sullo sfondo. Ricordiamo che uno dei primi atti di Matteo Renzi come primo ministro è stato quello di cercare di farsi fotografare con la Merkel - dopo avere a lungo denunciato le sue politiche nella fase precedente alla sua ascesa al governo. Ora è evidentemente diverso.
Ciò che rende Matteo Salvini così pericoloso per l'UE è la sua completa mancanza di paura. Un tipo di politico deciso e ostinato, che nell'UE la Merkel non aveva ancora incontrato. Conte non decide da solo. Egli agisce in accordo con le istruzioni dei suoi due leader. Sull'immigrazione, è Salvini quello che conta.
In questo nuovo clima politico non è intelligente da un punto di vista diplomatico per Germania e Francia perseguire la loro classica diplomazia pre-summit. La Merkel ha disperatamente bisogno di un accordo nel giro di una settimana per tenere insieme il suo governo. Cosa che sembra sempre più improbabile. Dubitiamo che Conte accetterà di firmare qualsiasi pezzo di carta che affermi che l'Italia prenderà i rifugiati dalla Germania. Accetterà solo proposte finalizzate a proteggere le frontiere esterne dell'UE. Sono in atto dei tentativi di placare la nuova amministrazione italiana. È trapelata una bozza di conclusioni del Consiglio europeo della prossima settimana che prevede le piattaforme di sbarco regionali.
Notiamo anche due importanti nomine che sembrano aver scioccato alcuni osservatori. Una è quella di Claudio Borghi alla presidenza della commissione Bilancio della Camera dei deputati; l'altra è quella di Alberto Bagnai alla commissione Finanze del Senato. Sono due euroscettici. Hanno all’attivo diverse pubblicazioni sull'uscita italiana dall'euro.
Abbiamo sempre detto che la campagna contro Paolo Savona era una falsa pista. Non pensiamo che questo governo pianifichi un'uscita dall'euro - anche se pensiamo che metterà in atto preparativi tecnici. Ma con Borghi e Bagnai ai posti di comando del Parlamento, il ministero delle Finanze è fortemente costretto. Lo spread delle obbligazioni italiane ieri a un certo punto è salito a 242,6 punti base e le azioni sono calate del 2%. La Repubblica ha osservato che Salvini si stava ancora riprendendo dal rifiuto della nomina di Savona a ministro delle Finanze.
22/06/18
Lucio Baccaro: Italia e Europa, la corda troppo tirata rischia di rompersi
Intervistato dal settimanale tedesco Die Zeit, il professor Lucio Baccaro, direttore del Max-Planck-Institut für Gesellschaftsforschung di Colonia, esprime il suo punto di vista sull'attuale evoluzione del sistema politico in Italia e sui futuri possibili scenari. Un'eventuale disgregazione dell'unione monetaria, ipotesi un tempo ritenuta poco plausibile, appare sempre più realistica e anche auspicabile.
di Thomas Aussheuer, 13 Giugno 2018
Il nuovo governo italiano scuote l'Unione europea, perfino la fine della moneta unica è diventata concepibile. Una conversazione con il noto politologo Lucio Baccaro sulla crisi del suo Paese e su una disgregazione concordata dell'Eurozona
DIE ZEIT: Signor Baccaro, l'Italia scuote l'Europa. I neofascisti della Lega formano un governo con il fuoco fatuo del Movimento Cinque Stelle. Come si è arrivati a questo punto?
Lucio Baccaro: L'economia italiana ha ristagnato per vent'anni. Il prodotto interno lordo pro capite è ancora inferiore a quello del 1999. L'alto livello di debito pubblico deriva principalmente dagli anni '70 e '80, quando fu creato lo stato sociale italiano. A quell'epoca iniziò ad accumularsi l'indebitamento con cui il Paese si trova a lottare ancora oggi (qui è opportuno precisare che in realtà i dati raccontano un'altra storia: dagli anni '70 sino ai primi anni '80 il debito pubblico italiano era molto contenuto, tra il 40 e il 60 % del Pil, ndVdE). Dagli anni '90 in poi l'Italia, con l'eccezione del 2009, ha registrato ogni anno un avanzo primario.
ZEIT: Sembrerebbe che l'Italia stia tornando a crescere economicamente?
Baccaro: Io non la vedo così. L'Italia è ancora il Paese la cui economia sta crescendo meno di tutti gli altri paesi in Europa, incluso il Regno Unito. E i dati recenti suggeriscono che i consumi e le esportazioni sono in calo.
ZEIT: Il filosofo Angelo Bolaffi, in un'intervista al Süddeutsche Zeitung, ha affermato che la crisi italiana ha poco a che fare con l'introduzione dell'euro.
Baccaro: Penso che abbia torto su questo. A mio parere, l'adesione all'euro ha ridotto il tasso di crescita italiano. Ovviamente non si può dire con certezza, perché non possiamo riportare indietro la ruota della storia e vedere cosa sarebbe successo se l'Italia fosse rimasta fuori dall'euro. Una cosa è certa: prima dell'introduzione della moneta unica l'economia italiana cresceva altrettanto velocemente o addirittura più velocemente rispetto ad altri Paesi europei.
ZEIT: Lei si è fatto un nome come ricercatore studiando le convergenze nello sviluppo del sistema economico e di quello politico. Ora i neofascisti del Nord si stanno coalizzando con un partito anti-establishment che ha avuto molto successo al Sud. Entrambe queste forze politiche rappresentano, come direbbe lei, un blocco sociale. Lo trova sorprendente?
Baccaro: Al contrario, sono sorpreso che il collasso del sistema partitico tradizionale non si sia verificato prima. La ragione per me - per spiegarlo con un'affermazione del politologo Fritz Scharpf - è la mancanza di "legittimità dell'output". Con un ritornello di rito, i precedenti governi Monti, Letta, Renzi e Gentiloni hanno continuato a ripetere che la crisi era stata superata e che si poteva intravvedere una luce in fondo al tunnel.
In realtà, le condizioni economiche non sono migliorate in modo sostenibile. Matteo Renzi del Partito Democratico (PD) ha riscontrato un certo successo perché è stato in grado di presentarsi come un politico nuovo che avrebbe portato la tanto sperata svolta. Così non è stato.
ZEIT: E proprio perché i problemi sono rimasti gli stessi che gli elettori continuano a regalare i loro voti ai politici più radicali?
Baccaro: Decidono di dare il loro voto a volti e partiti ancora più nuovi e che promettono un cambiamento di rotta ancora più forte. L'Italia è costantemente alla ricerca di nuovo personale politico e di nuovi partiti, in quanto il loro ciclo di vita si accorcia sempre più.
ZEIT: Che cosa collega la sinistra anti-istituzionale alla destra radicale più statalista?
Baccaro: La coalizione di Lega e Cinque Stelle è meno strana di quanto possa sembrare a prima vista. Entrambi sono partiti anti-sistema, entrambi rappresentano il "popolo" rispetto alle "élite". Entrambi sono euroscettici, la Lega ancora più del Movimento Cinque Stelle, che recentemente ha rallentato la sua retorica anti-UE, principalmente per ragioni tattiche. I due partiti hanno molto in comune - altrimenti non sarebbero stati in grado di concordare un programma governativo in così poco tempo.
ZEIT: Quanto pensa che sia pericoloso il fronte italiano?
Baccaro: La Lega si è trasformata in un partito sciovinista e difensore dello stato sociale sulla falsa riga del Fronte Nazionale di Marine Le Pen o del Fidesz di Viktor Orbán. Il suo programma economico è di destra sulle questioni fiscali e di politica pubblica, ma al contempo vuole rafforzare il ruolo dello Stato nell'economia. Non è per uno smantellamento dello stato sociale, ma per la restrizione dell'accesso alla cittadinanza e l'esclusione degli stranieri. La retorica del "Prima gli italiani!" è il suo grido di battaglia centrale.
ZEIT: E i Cinque Stelle?
Baccaro: È un partito più difficile da giudicare. I loro elettori sono più istruiti di quelli del tipico partito anti-sistema. Sembra essere un partito veramente cross-class, che ottiene voti da tutti i ceti sociali, sebbene sia particolarmente forte nel Sud del paese e tra l'elettorato giovane.
ZEIT: Il movimento Cinque Stelle è ancora un partito di sinistra?
Baccaro: È difficile a dirsi. Le loro posizioni politiche sono troppo sottili per questo. I temi cardine sono l'enfasi sul "popolo" in contrasto con i politici di professione, la lotta alla corruzione, un maggiore controllo degli eletti da parte degli elettori, il rafforzamento della democrazia diretta e una sorta di "reddito di cittadinanza". Se questa proposta sia di sinistra o di destra, dipende dalla struttura politica del reddito del cittadino. Finora, i Cinque Stelle hanno accettato senza troppa resistenza la proposta della Lega di introdurre una tassa regressiva. Se questo aumenta la disuguaglianza sociale, può essere compensata in parte dal reddito di cittadinanza. Ma non è detto che vada così. Tra l'altro, il catalogo delle misure punitive contro i migranti proposto dalla Lega è stato accettato anche dal movimento Cinque Stelle.
ZEIT: Il suo predecessore Wolfgang Streeck accusava l'UE di accerchiare i paesi membri con una fitta rete di regolamentazioni neoliberiste, contribuendo così a eliminare qualsiasi spazio di manovra nazionale e alimentando in questo modo la protesta populista, sia da sinistra che da destra. Condivide la sua opinione?
Baccaro: Sono d'accordo con questo punto di vista, ma lo formulerei in un altro modo. Le regole di coordinamento dell'area dell'euro prevedono un solo meccanismo di adeguamento: la svalutazione interna. Se un paese ha un deficit della bilancia dei pagamenti, deve compensarlo provocando la deflazione nei confronti degli altri paesi membri. Questo non solo è doloroso, ma anche inefficace. Le unioni monetarie, tuttavia, possono funzionare solo se dispongono di meccanismi che garantiscano che le misure siano assorbite in modo simmetrico da tutti i membri. In altre parole, i paesi in eccedenza devono fare la loro parte nell'adeguamento. La strategia di svalutazione interna ha portato alla perdita totale di credibilità della politica.
ZEIT: Si sta riferendo al surplus della Germania. Come mai è la Germania a svolgere il ruolo di cattivo in questo gioco?
Baccaro: La maggior parte degli italiani è stufa delle politiche di austerità. Non sono più disposti ad accettare l'argomentazione secondo la quale basterà che mettano in atto ulteriori riforme strutturali e poi potranno prosperare felici sotto il sole. Ci sono state molte riforme negli ultimi anni, come quella delle pensioni e del mercato del lavoro e non hanno portato alcuna crescita.
ZEIT: Lei è molto gentile nei confronti della Germania. Che cosa hanno sbagliato la signora Merkel e il signor Schäuble?
Baccaro: La rabbia degli italiani è diretta principalmente contro i loro stessi politici, non contro i tedeschi. E la maggioranza è contraria al ritorno alla lira. Tuttavia, gli articoli offensivi apparsi di recente sulla stampa tedesca hanno attirato l'attenzione e hanno alimentato molta animosità. E per quanto riguarda la signora Merkel, il signor Schäuble o altri politici: trovo difficile accusarli di qualcosa di diverso dalla miopia. Sono politici eletti che fanno ciò che pensano sia meglio per i loro elettori. Finora, la strategia di crescita tedesca ha funzionato bene, anche se ciò non vale per tutta la popolazione. L'errore di alcuni politici tedeschi, tuttavia, è di credere che ciò che ha funzionato in Germania probabilmente funzioni anche altrove. Ma si deve comprendere che è impossibile avere tutte le economie orientate all'esportazione allo stesso tempo. E i politici tedeschi dovrebbero capire che la corda rischia di rompersi quando è troppo tirata. E forse si romperà davvero.
ZEIT: Emmanuel Macron vuole impedirlo e propone un parlamento dell'eurozona. Una soluzione di questo tipo potrebbe evitare l'impressione fatale che sia la Germania l'unica a prendere decisioni in Europa?
Baccaro: Sì, un parlamento dell'eurozona potrebbe aiutare. Ma dovrebbe avere un potere reale, un bilancio europeo con capacità di tassazione su scala europea. Inoltre, dovrebbe essere in grado di legittimare democraticamente l'introduzione di meccanismi di regolazione simmetrici. Ciò trasformerebbe l'eurozona in una vera unione politica. Per il momento, però, non vedo molte possibilità. Non abbiamo bisogno di un parlamento che abbia solo un potere simbolico.
ZEIT: Angela Merkel ha tenuto Emmanuel Macron in attesa di una risposta per mesi. L'iniziativa di Macron è già fallita, soprattutto ora che l'Italia ha un governo eurocritico al potere e l'Europa dovrebbe parlare con una sola voce dopo la débacle del G7?
Baccaro: Al contrario, la posizione di Macron potrebbe essere rafforzata da questa situazione di turbolenza. Il governo tedesco potrebbe rendersi conto di dover agire. A mio parere, tuttavia, le proposte di Macron non sono sufficientemente avanzate. Né saranno in grado di risolvere la crisi italiana - e questa crisi è la più grande minaccia per l'UE.
ZEIT: Cosa la preoccupa del piano di Macron?
Baccaro: Contro la resistenza tedesca, Macron vuole una certa condivisione del rischio nel debito nazionale. Allo stesso tempo, vuole rafforzare la capacità dei mercati finanziari di punire paesi con alti debiti, come l'Italia. Temo che tutto questo acceleri piuttosto che porre fine alla crisi. Supponendo che ci sia un attacco speculativo da parte dei mercati, allora il governo italiano non si accontenterebbe di negoziare semplicemente un memorandum con la Troika di Bruxelles senza combattere. Tutto sarebbe possibile a quel punto. Potrebbe essere la fine dell'euro.
ZEIT: Il governo potrebbe semplicemente dimettersi?
Baccaro: Sì, la pressione della zona euro e del mercato finanziario potrebbe portare a una capitolazione del governo, come nel caso del governo greco nel 2015. Tuttavia, a mio avviso, questo scenario è improbabile. La mia ipotesi è che se il nuovo governo dovesse trovarsi con le spalle al muro - come successe allora al governo greco - farebbe saltare in aria la casa. Di fronte a uno scenario diverso l'UE potrebbe accettare che in Italia la priorità vada alla crescita e che il paese mantenga standard di deficit meno rigidi.
ZEIT: L'entusiasmo tedesco a riguardo sarebbe piuttosto scarso.
Baccaro: Il governo federale dovrebbe cambiare rotta per quanto riguarda la riforma della zona euro. Ma non credo che questo sia molto probabile.
ZEIT: Non c'è altra soluzione?
Baccaro: Assolutamente. Bisognerebbe ammettere che le economie dell'area dell'euro sono troppo diverse per una pacifica convivenza. Ecco perché, infine, sarebbe necessario negoziare i termini per un divorzio consensuale. Quest'ultimo dovrebbe essere progettato in modo che in seguito i partner possano continuare a parlarsi.
ZEIT: Se l'euro fallisce, allora l'Europa fallisce.
Baccaro: Penso di aver chiarito che quello che potrebbe crollare è l'euro e, si spera, non l'Europa. In effetti, siamo a un punto critico. Dobbiamo assolutamente separare l'idea dell'Europa dalla realtà concreta dell'euro. Il fallimento dell'euro, se dovesse arrivare, non deve portare al fallimento dell'Europa.
di Thomas Aussheuer, 13 Giugno 2018
Il nuovo governo italiano scuote l'Unione europea, perfino la fine della moneta unica è diventata concepibile. Una conversazione con il noto politologo Lucio Baccaro sulla crisi del suo Paese e su una disgregazione concordata dell'Eurozona
DIE ZEIT: Signor Baccaro, l'Italia scuote l'Europa. I neofascisti della Lega formano un governo con il fuoco fatuo del Movimento Cinque Stelle. Come si è arrivati a questo punto?
Lucio Baccaro: L'economia italiana ha ristagnato per vent'anni. Il prodotto interno lordo pro capite è ancora inferiore a quello del 1999. L'alto livello di debito pubblico deriva principalmente dagli anni '70 e '80, quando fu creato lo stato sociale italiano. A quell'epoca iniziò ad accumularsi l'indebitamento con cui il Paese si trova a lottare ancora oggi (qui è opportuno precisare che in realtà i dati raccontano un'altra storia: dagli anni '70 sino ai primi anni '80 il debito pubblico italiano era molto contenuto, tra il 40 e il 60 % del Pil, ndVdE). Dagli anni '90 in poi l'Italia, con l'eccezione del 2009, ha registrato ogni anno un avanzo primario.
ZEIT: Sembrerebbe che l'Italia stia tornando a crescere economicamente?
Baccaro: Io non la vedo così. L'Italia è ancora il Paese la cui economia sta crescendo meno di tutti gli altri paesi in Europa, incluso il Regno Unito. E i dati recenti suggeriscono che i consumi e le esportazioni sono in calo.
ZEIT: Il filosofo Angelo Bolaffi, in un'intervista al Süddeutsche Zeitung, ha affermato che la crisi italiana ha poco a che fare con l'introduzione dell'euro.
Baccaro: Penso che abbia torto su questo. A mio parere, l'adesione all'euro ha ridotto il tasso di crescita italiano. Ovviamente non si può dire con certezza, perché non possiamo riportare indietro la ruota della storia e vedere cosa sarebbe successo se l'Italia fosse rimasta fuori dall'euro. Una cosa è certa: prima dell'introduzione della moneta unica l'economia italiana cresceva altrettanto velocemente o addirittura più velocemente rispetto ad altri Paesi europei.
ZEIT: Lei si è fatto un nome come ricercatore studiando le convergenze nello sviluppo del sistema economico e di quello politico. Ora i neofascisti del Nord si stanno coalizzando con un partito anti-establishment che ha avuto molto successo al Sud. Entrambe queste forze politiche rappresentano, come direbbe lei, un blocco sociale. Lo trova sorprendente?
Baccaro: Al contrario, sono sorpreso che il collasso del sistema partitico tradizionale non si sia verificato prima. La ragione per me - per spiegarlo con un'affermazione del politologo Fritz Scharpf - è la mancanza di "legittimità dell'output". Con un ritornello di rito, i precedenti governi Monti, Letta, Renzi e Gentiloni hanno continuato a ripetere che la crisi era stata superata e che si poteva intravvedere una luce in fondo al tunnel.
In realtà, le condizioni economiche non sono migliorate in modo sostenibile. Matteo Renzi del Partito Democratico (PD) ha riscontrato un certo successo perché è stato in grado di presentarsi come un politico nuovo che avrebbe portato la tanto sperata svolta. Così non è stato.
ZEIT: E proprio perché i problemi sono rimasti gli stessi che gli elettori continuano a regalare i loro voti ai politici più radicali?
Baccaro: Decidono di dare il loro voto a volti e partiti ancora più nuovi e che promettono un cambiamento di rotta ancora più forte. L'Italia è costantemente alla ricerca di nuovo personale politico e di nuovi partiti, in quanto il loro ciclo di vita si accorcia sempre più.
ZEIT: Che cosa collega la sinistra anti-istituzionale alla destra radicale più statalista?
Baccaro: La coalizione di Lega e Cinque Stelle è meno strana di quanto possa sembrare a prima vista. Entrambi sono partiti anti-sistema, entrambi rappresentano il "popolo" rispetto alle "élite". Entrambi sono euroscettici, la Lega ancora più del Movimento Cinque Stelle, che recentemente ha rallentato la sua retorica anti-UE, principalmente per ragioni tattiche. I due partiti hanno molto in comune - altrimenti non sarebbero stati in grado di concordare un programma governativo in così poco tempo.
ZEIT: Quanto pensa che sia pericoloso il fronte italiano?
Baccaro: La Lega si è trasformata in un partito sciovinista e difensore dello stato sociale sulla falsa riga del Fronte Nazionale di Marine Le Pen o del Fidesz di Viktor Orbán. Il suo programma economico è di destra sulle questioni fiscali e di politica pubblica, ma al contempo vuole rafforzare il ruolo dello Stato nell'economia. Non è per uno smantellamento dello stato sociale, ma per la restrizione dell'accesso alla cittadinanza e l'esclusione degli stranieri. La retorica del "Prima gli italiani!" è il suo grido di battaglia centrale.
ZEIT: E i Cinque Stelle?
Baccaro: È un partito più difficile da giudicare. I loro elettori sono più istruiti di quelli del tipico partito anti-sistema. Sembra essere un partito veramente cross-class, che ottiene voti da tutti i ceti sociali, sebbene sia particolarmente forte nel Sud del paese e tra l'elettorato giovane.
ZEIT: Il movimento Cinque Stelle è ancora un partito di sinistra?
Baccaro: È difficile a dirsi. Le loro posizioni politiche sono troppo sottili per questo. I temi cardine sono l'enfasi sul "popolo" in contrasto con i politici di professione, la lotta alla corruzione, un maggiore controllo degli eletti da parte degli elettori, il rafforzamento della democrazia diretta e una sorta di "reddito di cittadinanza". Se questa proposta sia di sinistra o di destra, dipende dalla struttura politica del reddito del cittadino. Finora, i Cinque Stelle hanno accettato senza troppa resistenza la proposta della Lega di introdurre una tassa regressiva. Se questo aumenta la disuguaglianza sociale, può essere compensata in parte dal reddito di cittadinanza. Ma non è detto che vada così. Tra l'altro, il catalogo delle misure punitive contro i migranti proposto dalla Lega è stato accettato anche dal movimento Cinque Stelle.
ZEIT: Il suo predecessore Wolfgang Streeck accusava l'UE di accerchiare i paesi membri con una fitta rete di regolamentazioni neoliberiste, contribuendo così a eliminare qualsiasi spazio di manovra nazionale e alimentando in questo modo la protesta populista, sia da sinistra che da destra. Condivide la sua opinione?
Baccaro: Sono d'accordo con questo punto di vista, ma lo formulerei in un altro modo. Le regole di coordinamento dell'area dell'euro prevedono un solo meccanismo di adeguamento: la svalutazione interna. Se un paese ha un deficit della bilancia dei pagamenti, deve compensarlo provocando la deflazione nei confronti degli altri paesi membri. Questo non solo è doloroso, ma anche inefficace. Le unioni monetarie, tuttavia, possono funzionare solo se dispongono di meccanismi che garantiscano che le misure siano assorbite in modo simmetrico da tutti i membri. In altre parole, i paesi in eccedenza devono fare la loro parte nell'adeguamento. La strategia di svalutazione interna ha portato alla perdita totale di credibilità della politica.
ZEIT: Si sta riferendo al surplus della Germania. Come mai è la Germania a svolgere il ruolo di cattivo in questo gioco?
Baccaro: La maggior parte degli italiani è stufa delle politiche di austerità. Non sono più disposti ad accettare l'argomentazione secondo la quale basterà che mettano in atto ulteriori riforme strutturali e poi potranno prosperare felici sotto il sole. Ci sono state molte riforme negli ultimi anni, come quella delle pensioni e del mercato del lavoro e non hanno portato alcuna crescita.
ZEIT: Lei è molto gentile nei confronti della Germania. Che cosa hanno sbagliato la signora Merkel e il signor Schäuble?
Baccaro: La rabbia degli italiani è diretta principalmente contro i loro stessi politici, non contro i tedeschi. E la maggioranza è contraria al ritorno alla lira. Tuttavia, gli articoli offensivi apparsi di recente sulla stampa tedesca hanno attirato l'attenzione e hanno alimentato molta animosità. E per quanto riguarda la signora Merkel, il signor Schäuble o altri politici: trovo difficile accusarli di qualcosa di diverso dalla miopia. Sono politici eletti che fanno ciò che pensano sia meglio per i loro elettori. Finora, la strategia di crescita tedesca ha funzionato bene, anche se ciò non vale per tutta la popolazione. L'errore di alcuni politici tedeschi, tuttavia, è di credere che ciò che ha funzionato in Germania probabilmente funzioni anche altrove. Ma si deve comprendere che è impossibile avere tutte le economie orientate all'esportazione allo stesso tempo. E i politici tedeschi dovrebbero capire che la corda rischia di rompersi quando è troppo tirata. E forse si romperà davvero.
ZEIT: Emmanuel Macron vuole impedirlo e propone un parlamento dell'eurozona. Una soluzione di questo tipo potrebbe evitare l'impressione fatale che sia la Germania l'unica a prendere decisioni in Europa?
Baccaro: Sì, un parlamento dell'eurozona potrebbe aiutare. Ma dovrebbe avere un potere reale, un bilancio europeo con capacità di tassazione su scala europea. Inoltre, dovrebbe essere in grado di legittimare democraticamente l'introduzione di meccanismi di regolazione simmetrici. Ciò trasformerebbe l'eurozona in una vera unione politica. Per il momento, però, non vedo molte possibilità. Non abbiamo bisogno di un parlamento che abbia solo un potere simbolico.
ZEIT: Angela Merkel ha tenuto Emmanuel Macron in attesa di una risposta per mesi. L'iniziativa di Macron è già fallita, soprattutto ora che l'Italia ha un governo eurocritico al potere e l'Europa dovrebbe parlare con una sola voce dopo la débacle del G7?
Baccaro: Al contrario, la posizione di Macron potrebbe essere rafforzata da questa situazione di turbolenza. Il governo tedesco potrebbe rendersi conto di dover agire. A mio parere, tuttavia, le proposte di Macron non sono sufficientemente avanzate. Né saranno in grado di risolvere la crisi italiana - e questa crisi è la più grande minaccia per l'UE.
ZEIT: Cosa la preoccupa del piano di Macron?
Baccaro: Contro la resistenza tedesca, Macron vuole una certa condivisione del rischio nel debito nazionale. Allo stesso tempo, vuole rafforzare la capacità dei mercati finanziari di punire paesi con alti debiti, come l'Italia. Temo che tutto questo acceleri piuttosto che porre fine alla crisi. Supponendo che ci sia un attacco speculativo da parte dei mercati, allora il governo italiano non si accontenterebbe di negoziare semplicemente un memorandum con la Troika di Bruxelles senza combattere. Tutto sarebbe possibile a quel punto. Potrebbe essere la fine dell'euro.
ZEIT: Il governo potrebbe semplicemente dimettersi?
Baccaro: Sì, la pressione della zona euro e del mercato finanziario potrebbe portare a una capitolazione del governo, come nel caso del governo greco nel 2015. Tuttavia, a mio avviso, questo scenario è improbabile. La mia ipotesi è che se il nuovo governo dovesse trovarsi con le spalle al muro - come successe allora al governo greco - farebbe saltare in aria la casa. Di fronte a uno scenario diverso l'UE potrebbe accettare che in Italia la priorità vada alla crescita e che il paese mantenga standard di deficit meno rigidi.
ZEIT: L'entusiasmo tedesco a riguardo sarebbe piuttosto scarso.
Baccaro: Il governo federale dovrebbe cambiare rotta per quanto riguarda la riforma della zona euro. Ma non credo che questo sia molto probabile.
ZEIT: Non c'è altra soluzione?
Baccaro: Assolutamente. Bisognerebbe ammettere che le economie dell'area dell'euro sono troppo diverse per una pacifica convivenza. Ecco perché, infine, sarebbe necessario negoziare i termini per un divorzio consensuale. Quest'ultimo dovrebbe essere progettato in modo che in seguito i partner possano continuare a parlarsi.
ZEIT: Se l'euro fallisce, allora l'Europa fallisce.
Baccaro: Penso di aver chiarito che quello che potrebbe crollare è l'euro e, si spera, non l'Europa. In effetti, siamo a un punto critico. Dobbiamo assolutamente separare l'idea dell'Europa dalla realtà concreta dell'euro. Il fallimento dell'euro, se dovesse arrivare, non deve portare al fallimento dell'Europa.
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21/06/18
KTG - La Germania ha guadagnato 2,9 miliardi di euro grazie alla crisi della Grecia, dal 2010
Keep Talking Greece commenta la notizia recentemente rilasciata dalla Bundesbank, la quale ammette di avere accumulato circa 2,9 miliardi di euro di profitti dai titoli di stato greci, i cui tassi di interesse erano esplosi nel 2010 con la crisi economica e la speculazione finanziaria. La notizia è stata rilasciata a seguito di un'inchiesta avviata dal partito tedesco dei Verdi. Da un certo punto di vista sembra disdicevole che la Germania consolidi il proprio bilancio pubblico approfittando degli elevati tassi di interesse imposti alla disastrata Grecia, dall'altro questo è esattamente ciò che i rapporti di forza determinati dalle vigenti regole europee consentono.
di Keep Talking Greece, 21 giugno 2018
La Germania ha accumulato circa 2,9 miliardi di euro di profitti dai tassi di interesse dal primo salvataggio della Grecia, nel 2010, fino a oggi. Questa è la risposta ufficiale data dal governo federale tedesco a una richiesta esposta dal Partito dei Verdi di Berlino. I profitti sono stati trasmessi alla Bundesbank e, da lì, al bilancio federale.
Le entrate sono venute soprattutto dall'acquisto dei titoli pubblici greci all'interno del cosiddetto programma SMP (Securities Markets Program) della Banca Central Europea (BCE).
Precedenti accordi tra il governo di Atene e i paesi dell'eurozona prevedevano che questi ultimi avrebbero restituito alla Grecia i profitti provenienti da tale programma se Atene avesse rispettato tutte le condizioni di austerità e le riforme imposte in cambio dei salvataggi. Tuttavia, in base alla risposta data da Berlino, tali fondi sarebbero stati restituiti allo stato greco e all'ESM solo nel 2013 e nel 2014. I soldi del fondo di salvataggio sono stati versati su un conto separato.
Secondo quanto affermato dal governo federale, fino al 2017 la Bundesbank aveva raccolto 3,4 miliardi di euro di interessi dagli acquisti all'interno dell'SMP. Nel 2013 aveva ritrasferito alla Grecia circa 527 milioni di euro, e nel 2014 aveva versato all'ESM circa 387 milioni di euro. Pertanto, il profitto netto è stato di circa 2,5 miliardi di euro.
Oltre a questo, 400 milioni di euro di profitti provenienti da interessi sono stati incamerati dalla banca statale KfW.
"Contrariamente ai miti della destra, la Germania ha fortemente beneficiato dalla crisi della Grecia", ha detto Sven Christian Kindler, esperto economico dei Verdi, chiedendo una riduzione del debito della Grecia.
"Non è accettabile che il governo federale ricapitalizzi il proprio bilancio con miliardi di euro di gettiti provenienti dai tassi di interesse imposti alla Grecia", ha polemizzato Kindler. "La Grecia ha fatto pesanti sacrifici per risparmiare e si è attenuta ai propri impegni, ora è tempo che anche l'Eurogruppo mantenga le proprie promesse", ha sottolineato.
L'eurogruppo si riunirà oggi [21 giugno, NdT] per approvare l'ultima tranche di aiuti alla Grecia e per prendere eventuali decisioni cruciali sulla regolamentazione del debito greco, prima che il paese termini, in agosto, il terzo programma di aggiustamento fiscale.
Secondo Klaus Regling, capo dell'ESM, la Grecia ha ricevuto prestiti per oltre 270 miliardi di euro.
di Keep Talking Greece, 21 giugno 2018
La Germania ha accumulato circa 2,9 miliardi di euro di profitti dai tassi di interesse dal primo salvataggio della Grecia, nel 2010, fino a oggi. Questa è la risposta ufficiale data dal governo federale tedesco a una richiesta esposta dal Partito dei Verdi di Berlino. I profitti sono stati trasmessi alla Bundesbank e, da lì, al bilancio federale.
Le entrate sono venute soprattutto dall'acquisto dei titoli pubblici greci all'interno del cosiddetto programma SMP (Securities Markets Program) della Banca Central Europea (BCE).
Precedenti accordi tra il governo di Atene e i paesi dell'eurozona prevedevano che questi ultimi avrebbero restituito alla Grecia i profitti provenienti da tale programma se Atene avesse rispettato tutte le condizioni di austerità e le riforme imposte in cambio dei salvataggi. Tuttavia, in base alla risposta data da Berlino, tali fondi sarebbero stati restituiti allo stato greco e all'ESM solo nel 2013 e nel 2014. I soldi del fondo di salvataggio sono stati versati su un conto separato.
Secondo quanto affermato dal governo federale, fino al 2017 la Bundesbank aveva raccolto 3,4 miliardi di euro di interessi dagli acquisti all'interno dell'SMP. Nel 2013 aveva ritrasferito alla Grecia circa 527 milioni di euro, e nel 2014 aveva versato all'ESM circa 387 milioni di euro. Pertanto, il profitto netto è stato di circa 2,5 miliardi di euro.
Oltre a questo, 400 milioni di euro di profitti provenienti da interessi sono stati incamerati dalla banca statale KfW.
"Contrariamente ai miti della destra, la Germania ha fortemente beneficiato dalla crisi della Grecia", ha detto Sven Christian Kindler, esperto economico dei Verdi, chiedendo una riduzione del debito della Grecia.
"Non è accettabile che il governo federale ricapitalizzi il proprio bilancio con miliardi di euro di gettiti provenienti dai tassi di interesse imposti alla Grecia", ha polemizzato Kindler. "La Grecia ha fatto pesanti sacrifici per risparmiare e si è attenuta ai propri impegni, ora è tempo che anche l'Eurogruppo mantenga le proprie promesse", ha sottolineato.
L'eurogruppo si riunirà oggi [21 giugno, NdT] per approvare l'ultima tranche di aiuti alla Grecia e per prendere eventuali decisioni cruciali sulla regolamentazione del debito greco, prima che il paese termini, in agosto, il terzo programma di aggiustamento fiscale.
Secondo Klaus Regling, capo dell'ESM, la Grecia ha ricevuto prestiti per oltre 270 miliardi di euro.
La peste neoliberista: AIDS e globalizzazione
Secondo Jason Hickel della London School of Economics, la spaventosa epidemia di AIDS che colpisce in particolare l'Africa sub-sahariana è causata principalmente dal modello di migrazioni cicliche, retaggio coloniale e oggi caratteristica fondante della globalizzazione, che incoraggia ed impone comportamenti a rischio tra popolazioni sradicate e senza difese. A pagarne le conseguenze sono in primo luogo le donne, i contadini più poveri e le masse di disoccupati non qualificati. L'approccio attuale, focalizzato su un paternalismo culturale che rasenta il razzismo, si rivela disastroso, e i risultati della sua disfatta sono evidenti.
Non è difficile scorgere in questa analisi similitudini con le politiche attuate negli ultimi anni nei paesi periferici dell'Unione Europea, in particolare la Grecia e l'Italia. Ciò che a nostro avviso manca a questa lucida esposizione è un'efficace proposta di soluzioni alternative, al di là di generici appelli per riformare istituzioni sovranazionali come l'FMI e la Banca Mondiale, eventualità effettivamente poco probabili e comunque fuori dalla portata del singolo individuo atomizzato e sradicato. Solo una presa di coscienza su base nazionale degli africani, nella maniera auspicata da Thomas Sankara, ed oggi promossa da personalità come Kemi Seba, può restituire agli africani l'orgoglio e la dignità. Quella dignità che i fautori dell'immigrazione incontrollata continuano a negare, mortificando legittime aspirazioni di giustizia e libertà e perpetuando il modello coloniale che, solo a parole, pretendono di combattere.
Di Jason Hickel, 30 luglio 2012
Perché, nonostante i miliardi di dollari di interventi e trent’anni di appelli di alto profilo, l'AIDS rimane un problema così pressante?
In particolare, è sconcertante il caso dell'Africa meridionale, dove circa il 20 per cento della popolazione adulta è affetta dall’HIV. Nel mio paese, lo Swaziland [secondo l'UNICEF, lo Swaziland ha il più alto tasso di diffusione dell'HIV al mondo, NdT], si arriva fino al 42% nelle donne seguite durante la gravidanza. Si tratta di cifre inquietanti in qualsiasi contesto, ma che risultano davvero spaventose alla luce del massiccio sforzo di prevenzione che è stato avviato sin dagli anni 80. Chiaramente nella lotta contro l'AIDS qualcosa non funziona.
La campagna anti-AIDS sta fallendo principalmente perché si basa su una percezione errata del problema. È basata sull'ipotesi che l’incidenza dell'AIDS rifletta una cultura di promiscuità sessuale, depravazione morale e fondamentale ignoranza degli africani. Questo è il motivo per cui i principali programmi contro l’AIDS - promossi dalla Banca Mondiale, UNAIDS e dalla maggior parte delle ONG - promuovono come principali soluzioni "consapevolezza" e "cambiamenti nel modo di comportarsi".
Questa narrazione non solo sottintende un razzismo di fondo, ma è anche, semplicemente, falsa: i sudafricani conoscono bene l'HIV/AIDS. In realtà, le statistiche dimostrano che la maggior parte di loro è perfettamente informata, spesso meglio degli occidentali. Il problema è che questa conoscenza non si traduce in modifiche del comportamento. Uno studio recente dimostra che la consapevolezza "influisce sul comportamento di, al massimo, una persona su quattro - generalmente i più ricchi". In altre parole, i programmi di "cambiamento del comportamento" falliscono in tre casi, contro uno in cui sono efficaci.
Questo spiega molte cose. I ricchi rispondono alle campagne di sensibilizzazione perché la loro partecipazione a comportamenti sessuali a rischio è volontaria. Non è così per i poveri. Per loro, i comportamenti sessuali a rischio sono generalmente imposti da fattori strutturali al di fuori del loro controllo. Nell'Africa meridionale, i poveri sono spesso costretti ad emigrare per lavoro e a prostituirsi solo per guadagnarsi da vivere. Questi sono i fattori chiave della trasmissione dell'HIV, e necessitano di un nuovo approccio al problema. Invece di prendere di mira il comportamento sessuale, bisogna focalizzarsi sulle condizioni in cui tale comportamento sessuale si verifica. È qui che risiede la vera patologia. In Africa del sud ciò implica capovolgere la responsabilità: dalle vittime dell'AIDS a una serie specifica di potenti attori, che hanno manipolato l'economia regionale a proprio vantaggio, e contestualmente sottoposto milioni di persone a condizioni che facilitano la diffusione dell'HIV. L'AIDS non è una malattia, è un sintomo - il sintomo di un’ingiustizia.
Il circuito di migrazione della forza lavoro
Una delle ragioni per cui l'Africa meridionale ha tassi di HIV più elevati rispetto ad altre regioni povere è il suo caratterizzarsi per un particolare sistema di migrazioni cicliche. Durante l'era coloniale, i capitalisti europei avevano bisogno di offerta costante di lavoratori neri a buon mercato per le loro miniere, piantagioni e fabbriche. A questo scopo, limitavano l'accesso degli africani ai terreni coltivabili e imponevano tasse per spingerli sul mercato del lavoro. Ma gli europei non volevano che i lavoratori africani si stabilissero in modo permanente nelle aree urbane. Trasferivano invece i lavoratori in modo temporaneo e poi li rispedivano nelle "riserve autoctone", quando non servivano più.
Il sistema di migrazioni cicliche ha permesso agli europei di ottenere profitti enormi. Le aziende potevano pagare i lavoratori migranti molto meno di quanto gli abitanti permanenti delle città richiedessero per sostenere le loro famiglie, poiché la differenza era colmata da attività di sussistenza non pagate svolte nelle riserve. Questo sistema continua fino ai nostri giorni: ad esempio, i lavoratori non qualificati in Sudafrica provengono fin dal Malawi, e tornano a casa mediamente una volta all'anno.
Quando l'HIV ha colpito il continente nei primi anni 80, si è diffuso rapidamente attraverso queste reti di migrazione. Si trattava di un'epidemia annunciata. In Sudafrica la diffusione dell'HIV è quasi tre volte più alta tra i lavoratori migranti rispetto ai non migranti. La migrazione favorisce i comportamenti sessuali ad alto rischio tra gli uomini che sono lontani per lunghi periodi di tempo, e questo aumenta di dieci volte le infezioni da HIV nelle loro partner.
Questi alti tassi d’infezione da HIV hanno a che fare con le condizioni che caratterizzano le destinazioni dei migranti, come le miniere e le piantagioni. Sono zone di iper-sfruttamento: gli alti tassi di infortuni, depressione e solitudine tra i lavoratori, insieme alla costante disponibilità di alcol e prostitute che i gestori mettono a disposizione per scoraggiare il dissenso, sono tutti fattori che incoraggiano comportamenti a rischio. La carenza di servizi sanitari in queste zone comporta che anche le malattie veneree facilmente curabili non vengano curate, il che aumenta la probabilità di trasmissione dell'HIV fino al 400 per cento. Questo è il motivo per cui i tassi d’infezione più alti al mondo si trovano nei luoghi di lavoro dei migranti, dove raggiungono talvolta il 70%.
Se le persone conoscono questi rischi, allora perché emigrano? Detto in poche parole: di solito non hanno scelta. Le rimesse inviate a casa dai migranti sono fondamentali per la sopravvivenza delle famiglie e molte di esse non hanno altra fonte di reddito; non possono permettersi di rinunciare a questi necessari redditi in nome della solidarietà geografica. Quando le famiglie vengono forzatamente disperse in tutto il subcontinente, "astinenza" e "fedeltà" - i valori promossi dalle campagne di prevenzione dell'HIV - diventano ideali impossibili, sia per gli uomini che per le donne.
Le regole imposte dall'Occidente
Se il sistema coloniale limitava fortemente le opzioni di sostentamento degli africani, il nuovo capitalismo globalizzato è andato ben oltre. A partire dal 1980, il FMI e la Banca Mondiale hanno imposto la terapia d'urto del libero mercato alle economie africane in linea con i principi neoliberali. Lo hanno fatto attraverso "programmi di riforme strutturali" che hanno ridotto la spesa per i servizi come la sanità, imposto la privatizzazione dei beni pubblici e l'abolizione dei dazi commerciali (una delle principali fonti di reddito per i paesi poveri), allo scopo di aprire nuovi mercati e creare "opportunità di investimento" per le aziende occidentali. Hanno anche alzato i tassi di interesse per mantenere bassa l'inflazione, in modo che il valore dei debiti verso l'Occidente non diminuisse, anche se ciò ostacolava la capacità dei governi di stimolare la crescita.
L’idea sottostante era che le riforme strutturali avrebbero generato sviluppo. È avvenuto tutt’altro. L'Africa sub-sahariana godeva di un tasso di crescita pro capite costante dell'1,6 per cento durante gli anni 60 e 70, ma a partire dagli anni 80 la crescita cominciò a scendere a un tasso dello 0,7 per cento all'anno. Il PIL medio con le riforme strutturali si è ridotto di circa il 10%, e il numero di africani che vivono sotto la soglia di povertà è quasi raddoppiato. La disuguaglianza è cresciuta a ritmi senza precedenti, arricchendo le élite locali corrotte (basta considerare la rapida ascesa della borghesia nera del Sudafrica) a spese di un crescente sottoproletariato.
Queste politiche hanno colpito particolarmente gli agricoltori rurali. L'abolizione dei controlli su prezzi, sussidi e dazi ha reso più difficile la sussistenza degli agricoltori. Inoltre, le regole del libero scambio hanno permesso alle grandi aziende agricole, spesso di proprietà estera, di impossessarsi di vaste aree dei migliori terreni agricoli della regione. Di conseguenza, gli agricoltori sono costretti a trasferirsi in baraccopoli urbane, in cerca di miglior fortuna. Ma dal momento che nelle città non trovano impieghi regolari, non possono permettersi di trasferirsi in modo permanente, e continuano a spostarsi. Una forma di colonialismo 2.0.
Prostituzione
L'altro fattore chiave della trasmissione dell'HIV nell'Africa australe è la prostituzione. La maggior parte dei guru dell'AIDS parlano di prostituzione come se fosse una scelta consapevole delle donne, oppure attribuiscono agli uomini africani il ruolo di predatori sessuali. Ma non è così semplice. Le donne si prostituiscono con uomini più ricchi di loro perché non hanno accesso alle risorse necessarie per vivere. Ciò comporta spesso la rinuncia al controllo sui termini del rapporto sessuale, come l'uso del preservativo.
A queste condizioni, le campagne che si concentrano sulla promozione della consapevolezza tra le donne hanno scarso effetto. Tutte le indagini arrivano alla conclusione che una maggiore conoscenza non aiuta le donne ad evitare comportamenti sessuali a rischio: la loro disperazione economica è tanto grave da superare le preoccupazioni per la propria salute. In altre parole, le donne sono disposte a rischiare una minaccia per la salute (HIV) per allontanarne un'altra, più immediata (la fame).
Le donne che riescono a trovare un lavoro stabile hanno meno incentivi a prostituirsi, ma impieghi di questo tipo sono quasi impossibili da trovare. Le riforme strutturali hanno decimato i livelli di occupazione, esponendo le industrie nascenti ad una concorrenza devastante e a tassi di interesse proibitivi. Il tasso di disoccupazione si avvicina attualmente al 40% in gran parte della regione - un dato molto peggiore di prima che le banche occidentali si presentassero con le loro promesse di "sviluppo".
L'Organizzazione Mondiale del Commercio si è unita al saccheggio delle economie africane sin dai suoi inizi, nel 1995, contribuendo direttamente all’incidenza di AIDS nella regione. Ad esempio, l'industria tessile dello Swaziland, un tempo prospera, è stata annientata nel 2005, quando l'OMC ha liberalizzato il commercio tessile globale. Le fabbriche sono state costrette a chiudere da un giorno all'altro, i produttori si sono trasferiti in Asia dove la manodopera era meno costosa, e circa 30.000 donne sono rimaste senza lavoro. Molte di queste donne sono finite nel giro della prostituzione per sopravvivere, e la lotta contro l'AIDS ha subito una monumentale battuta d'arresto.
Farmaci salvavita
Una delle cose più inquietanti dell'epidemia di AIDS è che la si sarebbe potuta arginare facilmente se si fossero utilizzati fin dal primo stadio i farmaci antiretrovirali salvavita (ARV). Non solo gli ARV prevengono che dalla fase di infezione da HIV si passi allo sviluppo dell’AIDS, ma riducono anche i tassi di trasmissione della malattia e incoraggiano le persone a sottoporsi al test.
Ma le società farmaceutiche occidentali hanno fatto cartello per portare il prezzo di questi farmaci essenziali fuori dalla portata dei poveri. Una volta introdotti nel mercato, gli ARV brevettati costavano fino a 15.000 dollari per un anno di cura. I produttori di generici avrebbero potuto produrre gli stessi farmaci per una piccola frazione di quel prezzo, ma l'OMC li ha vietati con l'accordo TRIPS del 1995 per proteggere il monopolio di Big Pharma.
Solo nel 2003 l'OMC ha ceduto alle pressioni degli attivisti e ha permesso all'Africa meridionale di importare farmaci generici, ma a quel punto era troppo tardi - la diffusione dell'HIV aveva già raggiunto proporzioni devastanti. In altre parole, gran parte dell’incidenza di AIDS nella regione può essere direttamente attribuita alle regole dell'OMC e alle corporazioni che le hanno difese. E sono pronti a colpire ancora: l'OMC abolirà le esenzioni dai brevetti per i paesi poveri dopo il 2016. [Nel 2016, l'OMC ha deciso di estendere l'esenzione dai brevetti sui farmaci per i paesi più poveri fino al 2033, NdT]
La mancanza di farmaci di base è andata di pari passo con il collasso generale delle istituzioni sanitarie pubbliche. Le riforme strutturali e le politiche commerciali dell'OMC hanno costretto gli Stati a tagliare le spese per ospedali e personale al fine di ripagare gli odiosi debiti all'Occidente. Lo Swaziland, epicentro del mondo dell'AIDS, è stato duramente colpito da questi tagli. Quando l’ho visitato l'ultima volta, ho scoperto che molte cliniche un tempo attive erano vuote e fatiscenti. Il neoliberismo ha sistematicamente distrutto la prima linea di difesa contro l'AIDS.
Il punto è che le politiche che negano ai poveri l'accesso alle medicine salvavita e distruggono l'assistenza sanitaria pubblica provengono dalle stesse istituzioni e interessi che hanno contribuito in primo luogo a creare le condizioni per la trasmissione dell'HIV.
Inversione della colpa
Alla luce di tutto ciò, la retorica di "responsabilità individuali", "modifiche dei comportamenti" e "depravazione morale" che definisce il dibattito sull'AIDS comincia a sembrare abbastanza grottesca. Parliamoci chiaro: non è la cultura dei contadini e dei lavoratori africani a essere moralmente depravata, ma la cultura di istituzioni come l'OMC e il FMI. L'economista Joseph Stiglitz ha descritto queste istituzioni come le più corrotte e anti-democratiche del mondo, gestite da una cabala di interessi aziendali delle élite.
La neoliberalizzazione forzata dell'Africa non è solo frutto della cieca devozione a ideali economici in seguito rivelatisi sbagliati. Era stata progettata per creare crisi e debito. Gli stati occidentali, le banche e le multinazionali hanno guadagnato miliardi di dollari dalle privatizzazioni, dall'estrazione mineraria, dalla manodopera a basso costo e dal pagamento del debito: un flusso netto di ricchezza dai paesi poveri ai paesi ricchi, che supera di gran lunga i magri aiuti che scorrono nella direzione opposta.
Se qualcuno ha bisogno di modificare il suo comportamento, questo qualcuno sono le istituzioni che hanno orchestrato una simile rapina. L'epidemia di AIDS è un sintomo della crisi che costoro hanno causato, e continuerà a infuriare finché il saccheggio perdura.
Se si vuole seriamente contrastare l'AIDS, è necessario un nuovo approccio. Dobbiamo liberare i paesi poveri dall'obbligo delle riforme strutturali, in modo che possano ricostruire le loro economie usando dazi, sovvenzioni, spesa pubblica e bassi tassi di interesse, le stesse politiche utilizzate dai paesi ricchi. Dobbiamo cancellare i debiti “odiosi”, in modo che i paesi poveri possano spendere soldi per servizi sanitari e non per pagare interessi. Dobbiamo modificare i TRIPS perché la distribuzione dei farmaci salvavita sfugga alle logiche del lucro. E dobbiamo modificare l'accordo sull'agricoltura dell'OMC, per vietare il dumping di prodotti agricoli sovvenzionati nei paesi poveri. Ciò significa riformare la Banca Mondiale, il FMI e l'OMC, dove il potere di voto è monopolizzato da nazioni ricche e interessi particolari.
La Banca Mondiale e la Fondazione Gates - i maggiori finanziatori delle campagne di prevenzione dell'AIDS - non possono essere incaricati di questi compiti, in quanto hanno interessi chiari nelle stesse politiche (debito, riforme strutturali e leggi sui brevetti) che hanno creato il problema.
Per concludere, combattere l'AIDS significa sfidare il potere delle nazioni ricche sulle risorse del pianeta; significa creare un mondo in cui le politiche economiche vengono decise democraticamente e dove il capitale è al servizio dell'umanità piuttosto che il contrario. La crisi dell'AIDS offre un'opportunità straordinaria per farlo. Con oltre un milione di morti l’anno a causa dell'AIDS nella sola Africa meridionale, non c'è mai stato un mandato più potente per chiamare a rispondere delle loro azioni i princìpi del capitalismo neoliberale.
Non è difficile scorgere in questa analisi similitudini con le politiche attuate negli ultimi anni nei paesi periferici dell'Unione Europea, in particolare la Grecia e l'Italia. Ciò che a nostro avviso manca a questa lucida esposizione è un'efficace proposta di soluzioni alternative, al di là di generici appelli per riformare istituzioni sovranazionali come l'FMI e la Banca Mondiale, eventualità effettivamente poco probabili e comunque fuori dalla portata del singolo individuo atomizzato e sradicato. Solo una presa di coscienza su base nazionale degli africani, nella maniera auspicata da Thomas Sankara, ed oggi promossa da personalità come Kemi Seba, può restituire agli africani l'orgoglio e la dignità. Quella dignità che i fautori dell'immigrazione incontrollata continuano a negare, mortificando legittime aspirazioni di giustizia e libertà e perpetuando il modello coloniale che, solo a parole, pretendono di combattere.
Di Jason Hickel, 30 luglio 2012
Perché, nonostante i miliardi di dollari di interventi e trent’anni di appelli di alto profilo, l'AIDS rimane un problema così pressante?
In particolare, è sconcertante il caso dell'Africa meridionale, dove circa il 20 per cento della popolazione adulta è affetta dall’HIV. Nel mio paese, lo Swaziland [secondo l'UNICEF, lo Swaziland ha il più alto tasso di diffusione dell'HIV al mondo, NdT], si arriva fino al 42% nelle donne seguite durante la gravidanza. Si tratta di cifre inquietanti in qualsiasi contesto, ma che risultano davvero spaventose alla luce del massiccio sforzo di prevenzione che è stato avviato sin dagli anni 80. Chiaramente nella lotta contro l'AIDS qualcosa non funziona.
La campagna anti-AIDS sta fallendo principalmente perché si basa su una percezione errata del problema. È basata sull'ipotesi che l’incidenza dell'AIDS rifletta una cultura di promiscuità sessuale, depravazione morale e fondamentale ignoranza degli africani. Questo è il motivo per cui i principali programmi contro l’AIDS - promossi dalla Banca Mondiale, UNAIDS e dalla maggior parte delle ONG - promuovono come principali soluzioni "consapevolezza" e "cambiamenti nel modo di comportarsi".
Questa narrazione non solo sottintende un razzismo di fondo, ma è anche, semplicemente, falsa: i sudafricani conoscono bene l'HIV/AIDS. In realtà, le statistiche dimostrano che la maggior parte di loro è perfettamente informata, spesso meglio degli occidentali. Il problema è che questa conoscenza non si traduce in modifiche del comportamento. Uno studio recente dimostra che la consapevolezza "influisce sul comportamento di, al massimo, una persona su quattro - generalmente i più ricchi". In altre parole, i programmi di "cambiamento del comportamento" falliscono in tre casi, contro uno in cui sono efficaci.
Questo spiega molte cose. I ricchi rispondono alle campagne di sensibilizzazione perché la loro partecipazione a comportamenti sessuali a rischio è volontaria. Non è così per i poveri. Per loro, i comportamenti sessuali a rischio sono generalmente imposti da fattori strutturali al di fuori del loro controllo. Nell'Africa meridionale, i poveri sono spesso costretti ad emigrare per lavoro e a prostituirsi solo per guadagnarsi da vivere. Questi sono i fattori chiave della trasmissione dell'HIV, e necessitano di un nuovo approccio al problema. Invece di prendere di mira il comportamento sessuale, bisogna focalizzarsi sulle condizioni in cui tale comportamento sessuale si verifica. È qui che risiede la vera patologia. In Africa del sud ciò implica capovolgere la responsabilità: dalle vittime dell'AIDS a una serie specifica di potenti attori, che hanno manipolato l'economia regionale a proprio vantaggio, e contestualmente sottoposto milioni di persone a condizioni che facilitano la diffusione dell'HIV. L'AIDS non è una malattia, è un sintomo - il sintomo di un’ingiustizia.
Il circuito di migrazione della forza lavoro
Una delle ragioni per cui l'Africa meridionale ha tassi di HIV più elevati rispetto ad altre regioni povere è il suo caratterizzarsi per un particolare sistema di migrazioni cicliche. Durante l'era coloniale, i capitalisti europei avevano bisogno di offerta costante di lavoratori neri a buon mercato per le loro miniere, piantagioni e fabbriche. A questo scopo, limitavano l'accesso degli africani ai terreni coltivabili e imponevano tasse per spingerli sul mercato del lavoro. Ma gli europei non volevano che i lavoratori africani si stabilissero in modo permanente nelle aree urbane. Trasferivano invece i lavoratori in modo temporaneo e poi li rispedivano nelle "riserve autoctone", quando non servivano più.
Il sistema di migrazioni cicliche ha permesso agli europei di ottenere profitti enormi. Le aziende potevano pagare i lavoratori migranti molto meno di quanto gli abitanti permanenti delle città richiedessero per sostenere le loro famiglie, poiché la differenza era colmata da attività di sussistenza non pagate svolte nelle riserve. Questo sistema continua fino ai nostri giorni: ad esempio, i lavoratori non qualificati in Sudafrica provengono fin dal Malawi, e tornano a casa mediamente una volta all'anno.
Quando l'HIV ha colpito il continente nei primi anni 80, si è diffuso rapidamente attraverso queste reti di migrazione. Si trattava di un'epidemia annunciata. In Sudafrica la diffusione dell'HIV è quasi tre volte più alta tra i lavoratori migranti rispetto ai non migranti. La migrazione favorisce i comportamenti sessuali ad alto rischio tra gli uomini che sono lontani per lunghi periodi di tempo, e questo aumenta di dieci volte le infezioni da HIV nelle loro partner.
Questi alti tassi d’infezione da HIV hanno a che fare con le condizioni che caratterizzano le destinazioni dei migranti, come le miniere e le piantagioni. Sono zone di iper-sfruttamento: gli alti tassi di infortuni, depressione e solitudine tra i lavoratori, insieme alla costante disponibilità di alcol e prostitute che i gestori mettono a disposizione per scoraggiare il dissenso, sono tutti fattori che incoraggiano comportamenti a rischio. La carenza di servizi sanitari in queste zone comporta che anche le malattie veneree facilmente curabili non vengano curate, il che aumenta la probabilità di trasmissione dell'HIV fino al 400 per cento. Questo è il motivo per cui i tassi d’infezione più alti al mondo si trovano nei luoghi di lavoro dei migranti, dove raggiungono talvolta il 70%.
Se le persone conoscono questi rischi, allora perché emigrano? Detto in poche parole: di solito non hanno scelta. Le rimesse inviate a casa dai migranti sono fondamentali per la sopravvivenza delle famiglie e molte di esse non hanno altra fonte di reddito; non possono permettersi di rinunciare a questi necessari redditi in nome della solidarietà geografica. Quando le famiglie vengono forzatamente disperse in tutto il subcontinente, "astinenza" e "fedeltà" - i valori promossi dalle campagne di prevenzione dell'HIV - diventano ideali impossibili, sia per gli uomini che per le donne.
Le regole imposte dall'Occidente
Se il sistema coloniale limitava fortemente le opzioni di sostentamento degli africani, il nuovo capitalismo globalizzato è andato ben oltre. A partire dal 1980, il FMI e la Banca Mondiale hanno imposto la terapia d'urto del libero mercato alle economie africane in linea con i principi neoliberali. Lo hanno fatto attraverso "programmi di riforme strutturali" che hanno ridotto la spesa per i servizi come la sanità, imposto la privatizzazione dei beni pubblici e l'abolizione dei dazi commerciali (una delle principali fonti di reddito per i paesi poveri), allo scopo di aprire nuovi mercati e creare "opportunità di investimento" per le aziende occidentali. Hanno anche alzato i tassi di interesse per mantenere bassa l'inflazione, in modo che il valore dei debiti verso l'Occidente non diminuisse, anche se ciò ostacolava la capacità dei governi di stimolare la crescita.
L’idea sottostante era che le riforme strutturali avrebbero generato sviluppo. È avvenuto tutt’altro. L'Africa sub-sahariana godeva di un tasso di crescita pro capite costante dell'1,6 per cento durante gli anni 60 e 70, ma a partire dagli anni 80 la crescita cominciò a scendere a un tasso dello 0,7 per cento all'anno. Il PIL medio con le riforme strutturali si è ridotto di circa il 10%, e il numero di africani che vivono sotto la soglia di povertà è quasi raddoppiato. La disuguaglianza è cresciuta a ritmi senza precedenti, arricchendo le élite locali corrotte (basta considerare la rapida ascesa della borghesia nera del Sudafrica) a spese di un crescente sottoproletariato.
Queste politiche hanno colpito particolarmente gli agricoltori rurali. L'abolizione dei controlli su prezzi, sussidi e dazi ha reso più difficile la sussistenza degli agricoltori. Inoltre, le regole del libero scambio hanno permesso alle grandi aziende agricole, spesso di proprietà estera, di impossessarsi di vaste aree dei migliori terreni agricoli della regione. Di conseguenza, gli agricoltori sono costretti a trasferirsi in baraccopoli urbane, in cerca di miglior fortuna. Ma dal momento che nelle città non trovano impieghi regolari, non possono permettersi di trasferirsi in modo permanente, e continuano a spostarsi. Una forma di colonialismo 2.0.
Prostituzione
L'altro fattore chiave della trasmissione dell'HIV nell'Africa australe è la prostituzione. La maggior parte dei guru dell'AIDS parlano di prostituzione come se fosse una scelta consapevole delle donne, oppure attribuiscono agli uomini africani il ruolo di predatori sessuali. Ma non è così semplice. Le donne si prostituiscono con uomini più ricchi di loro perché non hanno accesso alle risorse necessarie per vivere. Ciò comporta spesso la rinuncia al controllo sui termini del rapporto sessuale, come l'uso del preservativo.
A queste condizioni, le campagne che si concentrano sulla promozione della consapevolezza tra le donne hanno scarso effetto. Tutte le indagini arrivano alla conclusione che una maggiore conoscenza non aiuta le donne ad evitare comportamenti sessuali a rischio: la loro disperazione economica è tanto grave da superare le preoccupazioni per la propria salute. In altre parole, le donne sono disposte a rischiare una minaccia per la salute (HIV) per allontanarne un'altra, più immediata (la fame).
Le donne che riescono a trovare un lavoro stabile hanno meno incentivi a prostituirsi, ma impieghi di questo tipo sono quasi impossibili da trovare. Le riforme strutturali hanno decimato i livelli di occupazione, esponendo le industrie nascenti ad una concorrenza devastante e a tassi di interesse proibitivi. Il tasso di disoccupazione si avvicina attualmente al 40% in gran parte della regione - un dato molto peggiore di prima che le banche occidentali si presentassero con le loro promesse di "sviluppo".
L'Organizzazione Mondiale del Commercio si è unita al saccheggio delle economie africane sin dai suoi inizi, nel 1995, contribuendo direttamente all’incidenza di AIDS nella regione. Ad esempio, l'industria tessile dello Swaziland, un tempo prospera, è stata annientata nel 2005, quando l'OMC ha liberalizzato il commercio tessile globale. Le fabbriche sono state costrette a chiudere da un giorno all'altro, i produttori si sono trasferiti in Asia dove la manodopera era meno costosa, e circa 30.000 donne sono rimaste senza lavoro. Molte di queste donne sono finite nel giro della prostituzione per sopravvivere, e la lotta contro l'AIDS ha subito una monumentale battuta d'arresto.
Farmaci salvavita
Una delle cose più inquietanti dell'epidemia di AIDS è che la si sarebbe potuta arginare facilmente se si fossero utilizzati fin dal primo stadio i farmaci antiretrovirali salvavita (ARV). Non solo gli ARV prevengono che dalla fase di infezione da HIV si passi allo sviluppo dell’AIDS, ma riducono anche i tassi di trasmissione della malattia e incoraggiano le persone a sottoporsi al test.
Ma le società farmaceutiche occidentali hanno fatto cartello per portare il prezzo di questi farmaci essenziali fuori dalla portata dei poveri. Una volta introdotti nel mercato, gli ARV brevettati costavano fino a 15.000 dollari per un anno di cura. I produttori di generici avrebbero potuto produrre gli stessi farmaci per una piccola frazione di quel prezzo, ma l'OMC li ha vietati con l'accordo TRIPS del 1995 per proteggere il monopolio di Big Pharma.
Solo nel 2003 l'OMC ha ceduto alle pressioni degli attivisti e ha permesso all'Africa meridionale di importare farmaci generici, ma a quel punto era troppo tardi - la diffusione dell'HIV aveva già raggiunto proporzioni devastanti. In altre parole, gran parte dell’incidenza di AIDS nella regione può essere direttamente attribuita alle regole dell'OMC e alle corporazioni che le hanno difese. E sono pronti a colpire ancora: l'OMC abolirà le esenzioni dai brevetti per i paesi poveri dopo il 2016. [Nel 2016, l'OMC ha deciso di estendere l'esenzione dai brevetti sui farmaci per i paesi più poveri fino al 2033, NdT]
La mancanza di farmaci di base è andata di pari passo con il collasso generale delle istituzioni sanitarie pubbliche. Le riforme strutturali e le politiche commerciali dell'OMC hanno costretto gli Stati a tagliare le spese per ospedali e personale al fine di ripagare gli odiosi debiti all'Occidente. Lo Swaziland, epicentro del mondo dell'AIDS, è stato duramente colpito da questi tagli. Quando l’ho visitato l'ultima volta, ho scoperto che molte cliniche un tempo attive erano vuote e fatiscenti. Il neoliberismo ha sistematicamente distrutto la prima linea di difesa contro l'AIDS.
Il punto è che le politiche che negano ai poveri l'accesso alle medicine salvavita e distruggono l'assistenza sanitaria pubblica provengono dalle stesse istituzioni e interessi che hanno contribuito in primo luogo a creare le condizioni per la trasmissione dell'HIV.
Inversione della colpa
Alla luce di tutto ciò, la retorica di "responsabilità individuali", "modifiche dei comportamenti" e "depravazione morale" che definisce il dibattito sull'AIDS comincia a sembrare abbastanza grottesca. Parliamoci chiaro: non è la cultura dei contadini e dei lavoratori africani a essere moralmente depravata, ma la cultura di istituzioni come l'OMC e il FMI. L'economista Joseph Stiglitz ha descritto queste istituzioni come le più corrotte e anti-democratiche del mondo, gestite da una cabala di interessi aziendali delle élite.
La neoliberalizzazione forzata dell'Africa non è solo frutto della cieca devozione a ideali economici in seguito rivelatisi sbagliati. Era stata progettata per creare crisi e debito. Gli stati occidentali, le banche e le multinazionali hanno guadagnato miliardi di dollari dalle privatizzazioni, dall'estrazione mineraria, dalla manodopera a basso costo e dal pagamento del debito: un flusso netto di ricchezza dai paesi poveri ai paesi ricchi, che supera di gran lunga i magri aiuti che scorrono nella direzione opposta.
Se qualcuno ha bisogno di modificare il suo comportamento, questo qualcuno sono le istituzioni che hanno orchestrato una simile rapina. L'epidemia di AIDS è un sintomo della crisi che costoro hanno causato, e continuerà a infuriare finché il saccheggio perdura.
Se si vuole seriamente contrastare l'AIDS, è necessario un nuovo approccio. Dobbiamo liberare i paesi poveri dall'obbligo delle riforme strutturali, in modo che possano ricostruire le loro economie usando dazi, sovvenzioni, spesa pubblica e bassi tassi di interesse, le stesse politiche utilizzate dai paesi ricchi. Dobbiamo cancellare i debiti “odiosi”, in modo che i paesi poveri possano spendere soldi per servizi sanitari e non per pagare interessi. Dobbiamo modificare i TRIPS perché la distribuzione dei farmaci salvavita sfugga alle logiche del lucro. E dobbiamo modificare l'accordo sull'agricoltura dell'OMC, per vietare il dumping di prodotti agricoli sovvenzionati nei paesi poveri. Ciò significa riformare la Banca Mondiale, il FMI e l'OMC, dove il potere di voto è monopolizzato da nazioni ricche e interessi particolari.
La Banca Mondiale e la Fondazione Gates - i maggiori finanziatori delle campagne di prevenzione dell'AIDS - non possono essere incaricati di questi compiti, in quanto hanno interessi chiari nelle stesse politiche (debito, riforme strutturali e leggi sui brevetti) che hanno creato il problema.
Per concludere, combattere l'AIDS significa sfidare il potere delle nazioni ricche sulle risorse del pianeta; significa creare un mondo in cui le politiche economiche vengono decise democraticamente e dove il capitale è al servizio dell'umanità piuttosto che il contrario. La crisi dell'AIDS offre un'opportunità straordinaria per farlo. Con oltre un milione di morti l’anno a causa dell'AIDS nella sola Africa meridionale, non c'è mai stato un mandato più potente per chiamare a rispondere delle loro azioni i princìpi del capitalismo neoliberale.
20/06/18
La replica del Sen. Alberto Bagnai - Relazione sul DEF del 19/06/2018
Con piacere pubblichiamo il video della replica del senatore Alberto Bagnai, relatore incaricato dalla Commissione Speciale del Senato a riferire in Aula sul DEF, ai rilievi sollevati sul Documento di Economia e Finanza. L'intervento del senatore è un'iniezione di ragionevolezza e dati in un Parlamento che da molti anni è succube di slogan consunti e di una subalternità mentale che indeboliscono il Paese, l'interesse nazionale e in ultima analisi quello europeo. È un invito a tutti i partiti politici a smettere di essere acriticamente esterofili, a essere più oggettivi sulle capacità e la forza del Paese e del suo popolo. È un segnale di cambiamento che - ci auguriamo - potrà essere fatto proprio dal nuovo governo.
[embed]https://www.youtube.com/watch?v=a0t2__gTgv4&feature=youtu.be[/embed]
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18/06/18
Il melting pot dell'Unione Europea sta crollando
Sul Times Niall Ferguson sostiene chiaramente che il problema dell’immigrazione si pone oggi in tutta la sua drammaticità a causa delle disastrose politiche passate, promosse dalla Merkel in Germania e dai governi mainstream in Italia, da Monti a Gentiloni, passando per Letta e Renzi. Le conseguenti tensioni politiche dicono che il futuro dell’Europa non sarà di maggiore integrazione, ma di divisione, talmente esplosiva da far sembrare la Brexit solo un piccolo segnale premonitore.
Di Niall Ferguson, 17 giugno 2018
Sull’immigrazione, i populisti italiani sono il futuro. La Merkel rappresenta il passato.
Centodieci anni fa l’autore britannico Israel Zangwill completò la sua opera teatrale “Il melting pot”. Rappresentata per la prima volta a Washington nell’ottobre 1908 – dove fu accolta entusiasticamente dal Presidente Theodore Roosvelt – celebrava gli Stati Uniti come un gigantesco crogiolo, che fondeva insieme “Celti e Latini, Slavi e Teutoni, Greci e Siriani – neri e gialli – Ebrei e Gentili” per formare un unico popolo.
“Sì”, dichiara l’eroe della commedia (un immigrato ebreo dalla Russia, come il padre di Zangwill), “Est e Ovest, Nord e Sud, la palma e il pino, il polo e l’equatore, i musulmani e i cristiani… qui saranno tutti uniti per costruire la Repubblica degli Uomini e il Regno di Dio”.
È piuttosto difficile immaginare di scrivere un’opera simile riguardo all’Unione Europea all’inizio del ventunesimo secolo. O piuttosto, è facile immaginarne una molto diversa. In questa, l’influsso di immigrati da tutto il mondo avrebbe esattamente l’effetto opposto di quello immaginato da Zangwill. Anziché portare alla fusione, la crisi migratoria europea sta portando alla fissione. La commedia potrebbe chiamarsi “Il Meltdown Pot” [quindi non un crogiolo dove si fondono insieme diversi metalli, ma un posto dove una materia solida si liquefa disperdendosi, NdVdE].
Sono sempre più convinto che la crisi migratoria sarà vista dai futuri storici come l’ingrediente fatale che ha sciolto l’UE. Nelle loro ricostruzioni, la Brexit sembrerà a mala pena un sintomo premonitore della crisi. Ci diranno che l’immenso “Völkerwanderung” [movimento di massa di persone, NdVdE] ha sopraffatto il progetto di integrazione europea, esponendo la debolezza dell’UE come istituzione e spingendo gli elettori nelle braccia della politica nazionale per trovare soluzioni.
Cominciamo dalla dimensione dell’afflusso. Nel solo 2016 sono arrivati nei 28 paesi membri UE circa 2,4 milioni di immigrati da paesi non-UE, portando il totale della popolazione nata all’estero a 36,9 milioni, più del 7% del totale.
Questo potrebbe essere solo l’inizio. Secondo gli economisti Gordon Hanson e Craig McIntosh, “il numero di migranti di prima generazione nati in Africa e tra i 15 e i 64 anni, fuori dall’Africa sub-Sahariana aumenterà da 4,6 milioni a 13,4 milioni tra il 2010 e il 2050”. La grande maggioranza di questi si dirigerà sicuramente in Europa.
Il problema è insolubile. La popolazione dell’Europa Continentale sta invecchiando e diminuendo, ma il mercato del lavoro europeo ha pessime esperienze nell’integrazione di immigrati non specializzati. Inoltre, un’ampia proporzione degli immigrati in Europa sono musulmani. A sinistra si insiste nel sostenere che sarebbe possibile per cristiani e musulmani convivere pacificamente in un’Europa secolare post-cristiana. In pratica, la combinazione di sospetti storicamente radicati e di divergenze moderne nelle posizioni – in particolare sullo status e il ruolo delle donne – sta rendendo difficile l’assimilazione (paragonate la situazione dei marocchini in Belgio a quella dei messicani in California, se non mi credete).
Infine, c’è un problema pratico. È quasi impossibile difendere i confini dell’Europa del sud dalle flottiglie degli immigrati, a meno che i leader dell’Europa non siano pronti a lasciar annegare molte persone.
Politicamente, il problema dell’immigrazione sembra poter essere fatale a quelle alleanze allargate tra socialdemocratici moderati e conservatori moderati/cristiani democratici su cui si è basata l’integrazione europea negli ultimi 70 anni.
I centristi europei hanno le idee molto confuse sull’immigrazione. Molti, specialmente nel centro-sinistra, vorrebbero avere sia frontiere aperte sia uno stato sociale. Ma le evidenze dicono che è difficile “fare la Danimarca” in una società multiculturale. La mancanza di solidarietà sociale rende insostenibili alti livelli di tassazione e redistribuzione.
In Italia possiamo vedere un possibile futuro: i populisti di sinistra (il Movimento Cinque Stelle) e i populisti di destra (la Lega) si sono uniti per formare un governo. La loro coalizione si concentrerà su due cose: difendere le vecchie norme dello stato sociale (il governo prevede di revocare una recente riforma delle pensioni) ed escludere gli immigrati. La scorsa settimana, con un ampio consenso popolare, il ministro degli interni Matteo Salvini ha respinto una nave che portava 629 immigrati recuperati dal mare della Libia. La Aquarius ora si dirige in Spagna, il cui nuovo governo di minoranza socialista si è offerto di accettare il carico umano.
In quali altri posti i populisti possono andare al potere? Sono già al governo in qualche modo in sei membri UE: Austria, Repubblica Ceca, Grecia, Ungheria, Italia e Polonia. Ma in tutta l’UE ci sono in totale 11 partiti populisti con un sostegno popolare superiore al 20%, il che implica che il numero di governi populisti potrebbe all’incirca duplicare. Il fatto è che pochi paesi stanno alla pari dell’Italia per flessibilità politica. Immaginate, se ci riuscite, il partito di destra Alternativa per la Germania (AfD) che si siede con i tedeschi di sinistra (Die Linke) a mangiare salsicce e bere birra a Berlino. Impossibile. Di conseguenza, come hanno constatato i tedeschi dopo le scorse elezioni, in effetti non esiste alternativa alla vecchia Grande Coalizione tra centro-destra e centro-sinistra, che procede zoppicando.
E intendo proprio “zoppicare”. La scorsa settimana la cancelliera Angela Merkel si è scontrata con Horst Seehofer, il suo ministro dell’interno, che voleva respingere sui confini tedeschi tutti gli immigrati già registrati in altri paesi UE. Secondo il regolamento di Dublino, il paese dove l’immigrato mette piede per primo in UE è in teoria responsabile per la sua richiesta di asilo. Ma in pratica gli immigrati cercano in giro la destinazione più gradita, grazie al sistema delle frontiere aperte di Schengen, a cui la Germania appartiene.
Secondo la Merkel, la Germania non può uscire da Schengen senza rischiare il collasso dell’intero sistema di libertà di movimento. La sua speranza è quella di mettere insieme una sorta di pacchetto pan-europeo in materia di immigrazione al vertice UE di Bruxelles a fine mese. Ma non è ancora chiaro se il suo alleato della CSU Bavarese (il partito guidato da Seenhofer) possa accettare questa linea. La CSU ha elezioni locali il prossimo ottobre e teme di perdere consensi a favore di AfD proprio sulla questione dell’immigrazione. In ogni caso, la possibilità di una strategia coerente pan-europea sull’immigrazione sembra remota. I confini nazionali sembrano una soluzione più semplice.
Ero scettico riguardo all’opinione che la Brexit significasse semplicemente abbandonare una nave che affonda. Ma adesso devo ricredermi. Anche se l’impossibilità di riconciliare i conservatori nostalgici dell’UE e i sostenitori della Brexit sembra un pericolo esistenziale per Theresa May, gli eventi in Europa si muovono in una direzione che sembrava impensabile pochi anni fa.
Nel suo libro in uscita riguardo all’immigrazione USA, il mio brillante amico Reihan Salam – lui stesso figlio di immigrati dal Bangladesh – sostiene una tesi coraggiosa: o l’America mette restrizioni all’immigrazione o rischia la guerra civile a causa della combinazione tra crescente disuguaglianza e tensione razziale.
Spero che Salam abbia ragione quando sostiene che il melting pot americano può essere in qualche modo salvato. Ma non nutro la stessa speranza per l’Europa. Nessuno che abbia passato un po’ di tempo in Germania dopo la grande scommessa della Merkel nel 2015-2016 può onestamente credere che sia in atto un melting pot anche lì. Chiunque visiti oggi l’Italia può vedere che le politiche dello scorso decennio – austerità e frontiere aperte – hanno prodotto un tracollo politico.
La fusione può ancora essere la soluzione per gli Stati Uniti. Per l’Europa, temo, il futuro è nella divisione – un processo potenzialmente così esplosivo che potrebbe relegare la Brexit a una nota a piè di pagina nella storia futura.
Niall Ferguson è assistente anziano alla Milbank Family presso la Hoover Institution, Stanford
Di Niall Ferguson, 17 giugno 2018
Sull’immigrazione, i populisti italiani sono il futuro. La Merkel rappresenta il passato.
Centodieci anni fa l’autore britannico Israel Zangwill completò la sua opera teatrale “Il melting pot”. Rappresentata per la prima volta a Washington nell’ottobre 1908 – dove fu accolta entusiasticamente dal Presidente Theodore Roosvelt – celebrava gli Stati Uniti come un gigantesco crogiolo, che fondeva insieme “Celti e Latini, Slavi e Teutoni, Greci e Siriani – neri e gialli – Ebrei e Gentili” per formare un unico popolo.
“Sì”, dichiara l’eroe della commedia (un immigrato ebreo dalla Russia, come il padre di Zangwill), “Est e Ovest, Nord e Sud, la palma e il pino, il polo e l’equatore, i musulmani e i cristiani… qui saranno tutti uniti per costruire la Repubblica degli Uomini e il Regno di Dio”.
È piuttosto difficile immaginare di scrivere un’opera simile riguardo all’Unione Europea all’inizio del ventunesimo secolo. O piuttosto, è facile immaginarne una molto diversa. In questa, l’influsso di immigrati da tutto il mondo avrebbe esattamente l’effetto opposto di quello immaginato da Zangwill. Anziché portare alla fusione, la crisi migratoria europea sta portando alla fissione. La commedia potrebbe chiamarsi “Il Meltdown Pot” [quindi non un crogiolo dove si fondono insieme diversi metalli, ma un posto dove una materia solida si liquefa disperdendosi, NdVdE].
Sono sempre più convinto che la crisi migratoria sarà vista dai futuri storici come l’ingrediente fatale che ha sciolto l’UE. Nelle loro ricostruzioni, la Brexit sembrerà a mala pena un sintomo premonitore della crisi. Ci diranno che l’immenso “Völkerwanderung” [movimento di massa di persone, NdVdE] ha sopraffatto il progetto di integrazione europea, esponendo la debolezza dell’UE come istituzione e spingendo gli elettori nelle braccia della politica nazionale per trovare soluzioni.
Cominciamo dalla dimensione dell’afflusso. Nel solo 2016 sono arrivati nei 28 paesi membri UE circa 2,4 milioni di immigrati da paesi non-UE, portando il totale della popolazione nata all’estero a 36,9 milioni, più del 7% del totale.
Questo potrebbe essere solo l’inizio. Secondo gli economisti Gordon Hanson e Craig McIntosh, “il numero di migranti di prima generazione nati in Africa e tra i 15 e i 64 anni, fuori dall’Africa sub-Sahariana aumenterà da 4,6 milioni a 13,4 milioni tra il 2010 e il 2050”. La grande maggioranza di questi si dirigerà sicuramente in Europa.
Il problema è insolubile. La popolazione dell’Europa Continentale sta invecchiando e diminuendo, ma il mercato del lavoro europeo ha pessime esperienze nell’integrazione di immigrati non specializzati. Inoltre, un’ampia proporzione degli immigrati in Europa sono musulmani. A sinistra si insiste nel sostenere che sarebbe possibile per cristiani e musulmani convivere pacificamente in un’Europa secolare post-cristiana. In pratica, la combinazione di sospetti storicamente radicati e di divergenze moderne nelle posizioni – in particolare sullo status e il ruolo delle donne – sta rendendo difficile l’assimilazione (paragonate la situazione dei marocchini in Belgio a quella dei messicani in California, se non mi credete).
Infine, c’è un problema pratico. È quasi impossibile difendere i confini dell’Europa del sud dalle flottiglie degli immigrati, a meno che i leader dell’Europa non siano pronti a lasciar annegare molte persone.
Politicamente, il problema dell’immigrazione sembra poter essere fatale a quelle alleanze allargate tra socialdemocratici moderati e conservatori moderati/cristiani democratici su cui si è basata l’integrazione europea negli ultimi 70 anni.
I centristi europei hanno le idee molto confuse sull’immigrazione. Molti, specialmente nel centro-sinistra, vorrebbero avere sia frontiere aperte sia uno stato sociale. Ma le evidenze dicono che è difficile “fare la Danimarca” in una società multiculturale. La mancanza di solidarietà sociale rende insostenibili alti livelli di tassazione e redistribuzione.
In Italia possiamo vedere un possibile futuro: i populisti di sinistra (il Movimento Cinque Stelle) e i populisti di destra (la Lega) si sono uniti per formare un governo. La loro coalizione si concentrerà su due cose: difendere le vecchie norme dello stato sociale (il governo prevede di revocare una recente riforma delle pensioni) ed escludere gli immigrati. La scorsa settimana, con un ampio consenso popolare, il ministro degli interni Matteo Salvini ha respinto una nave che portava 629 immigrati recuperati dal mare della Libia. La Aquarius ora si dirige in Spagna, il cui nuovo governo di minoranza socialista si è offerto di accettare il carico umano.
In quali altri posti i populisti possono andare al potere? Sono già al governo in qualche modo in sei membri UE: Austria, Repubblica Ceca, Grecia, Ungheria, Italia e Polonia. Ma in tutta l’UE ci sono in totale 11 partiti populisti con un sostegno popolare superiore al 20%, il che implica che il numero di governi populisti potrebbe all’incirca duplicare. Il fatto è che pochi paesi stanno alla pari dell’Italia per flessibilità politica. Immaginate, se ci riuscite, il partito di destra Alternativa per la Germania (AfD) che si siede con i tedeschi di sinistra (Die Linke) a mangiare salsicce e bere birra a Berlino. Impossibile. Di conseguenza, come hanno constatato i tedeschi dopo le scorse elezioni, in effetti non esiste alternativa alla vecchia Grande Coalizione tra centro-destra e centro-sinistra, che procede zoppicando.
E intendo proprio “zoppicare”. La scorsa settimana la cancelliera Angela Merkel si è scontrata con Horst Seehofer, il suo ministro dell’interno, che voleva respingere sui confini tedeschi tutti gli immigrati già registrati in altri paesi UE. Secondo il regolamento di Dublino, il paese dove l’immigrato mette piede per primo in UE è in teoria responsabile per la sua richiesta di asilo. Ma in pratica gli immigrati cercano in giro la destinazione più gradita, grazie al sistema delle frontiere aperte di Schengen, a cui la Germania appartiene.
Secondo la Merkel, la Germania non può uscire da Schengen senza rischiare il collasso dell’intero sistema di libertà di movimento. La sua speranza è quella di mettere insieme una sorta di pacchetto pan-europeo in materia di immigrazione al vertice UE di Bruxelles a fine mese. Ma non è ancora chiaro se il suo alleato della CSU Bavarese (il partito guidato da Seenhofer) possa accettare questa linea. La CSU ha elezioni locali il prossimo ottobre e teme di perdere consensi a favore di AfD proprio sulla questione dell’immigrazione. In ogni caso, la possibilità di una strategia coerente pan-europea sull’immigrazione sembra remota. I confini nazionali sembrano una soluzione più semplice.
Ero scettico riguardo all’opinione che la Brexit significasse semplicemente abbandonare una nave che affonda. Ma adesso devo ricredermi. Anche se l’impossibilità di riconciliare i conservatori nostalgici dell’UE e i sostenitori della Brexit sembra un pericolo esistenziale per Theresa May, gli eventi in Europa si muovono in una direzione che sembrava impensabile pochi anni fa.
Nel suo libro in uscita riguardo all’immigrazione USA, il mio brillante amico Reihan Salam – lui stesso figlio di immigrati dal Bangladesh – sostiene una tesi coraggiosa: o l’America mette restrizioni all’immigrazione o rischia la guerra civile a causa della combinazione tra crescente disuguaglianza e tensione razziale.
Spero che Salam abbia ragione quando sostiene che il melting pot americano può essere in qualche modo salvato. Ma non nutro la stessa speranza per l’Europa. Nessuno che abbia passato un po’ di tempo in Germania dopo la grande scommessa della Merkel nel 2015-2016 può onestamente credere che sia in atto un melting pot anche lì. Chiunque visiti oggi l’Italia può vedere che le politiche dello scorso decennio – austerità e frontiere aperte – hanno prodotto un tracollo politico.
La fusione può ancora essere la soluzione per gli Stati Uniti. Per l’Europa, temo, il futuro è nella divisione – un processo potenzialmente così esplosivo che potrebbe relegare la Brexit a una nota a piè di pagina nella storia futura.
Niall Ferguson è assistente anziano alla Milbank Family presso la Hoover Institution, Stanford
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La Russia, i default del debito sovrano e la moneta a corso forzoso
Dal suo blog Credit Writedowns, Edward Harrison, ex-diplomatico, investment banker e commentatore economico e finanziario, offre una breve e lucida analisi di come un default di debito sovrano sia logicamente impossibile. Quando, anche nel nostro dibattito interno, si citano a sproposito gli esempi più recenti del contrario (Argentina, Russia etc.), i commentatori dimenticano di menzionare che in tutti questi casi il default fu una scelta deliberata, fatta per evitare shock peggiori alla popolazione, e che in ogni caso si è sempre trattato di episodi temporanei, cui ha fatto seguito una marcata ripresa. Concetti abbastanza semplici e avallati dalla letteratura scientifica, troppo spesso scientemente ignorati e distorti da una stampa più avvezza al terrorismo mistificatore del sensazionalismo.
Di Edward Harrison, 4 novembre 2009
Più volte ho ribadito che una nazione sovrana che emetta titoli in valuta nazionale non può fare default involontariamente. Il caso che la maggior parte delle persone presenta come controfattuale è la Russia del 1998. Mi sono occupato della Russia altrove:
Tutti i paesi che hanno fatto default, come la Russia, il Messico e l'Argentina, si erano indebitati in valuta straniera a causa del differenzale dei tassi d'interesse. Nessuna nazione sovrana che stampi e emetta debito nella propria moneta legale può mai essere resa insolvente involontariamente.
Io stesso facevo parte di un’unità di negoziazione che si occupava dei titoli surrogati di debito russi negoziabili a breve termine prima del default della Russia nel 1998, quindi ricordo bene l'incidente. Quello della Russia non è stato il default involontario di un paese che emette titoli nella propria valuta legale. La Russia è stato piuttosto il perfetto esempio di default volontario, dovuto all'enorme debito in valuta estera e al deficit in valuta estera (su Wikipedia è possibile trovare un resoconto abbastanza accurato e completo degli eventi inerenti alla crisi finanziaria russa del 1998).
La Russia non era neanche obbligata a fare default. Da un punto di vista logico, l’idea che la capacità di ripagare un debito sia intrinsecamente vincolata alle entrate non si applica a un'emittente di moneta. Tutti questi vincoli sono necessariamente autoimposti (inclusi i vari obblighi di pareggio di bilancio per il Tesoro nei riguardi della Banca Centrale). Lo Stato emittente può sempre effettuare un pagamento nella sua moneta, accreditando l'account appropriato o emettendo moneta cartacea reale se richiesto dalla controparte.
Quello della Russia nell'agosto 1998 è stato un caso estremo. Il tasso di conversione del rublo in dollari USA presso la Banca Centrale Russa era di 6,45 rubli per dollaro. Il governo russo, volendo mantenere questa politica di cambio fisso, era poco disponibile a pagare con le sue riserve di dollari, poiché anche a tassi molto alti i detentori di rubli preferivano cambiarli in dollari presso la Banca Centrale Russa. Di fronte al calo delle riserve statunitensi, e incapace di ottenere riserve aggiuntive sui mercati internazionali, la convertibilità fu sospesa verso la metà di agosto e la Banca centrale russa non ebbe altra scelta che consentire al rublo di fluttuare.
Durante tutto questo processo, il governo russo non perse mai la sua facoltà di pagare in rubli. Tuttavia, a causa della sua scelta di fissare il tasso di cambio a un livello superiore ai "livelli di mercato", a metà agosto decise di sospendere i pagamenti in rubli. In effetti, anche dopo aver lasciato fluttuare il rublo, quando il pagamento avrebbe potuto essere effettuato senza perdere riserve, il governo russo, che includeva il Tesoro e la Banca centrale, continuò a rifiutare i pagamenti in rubli anche quando dovuti, sia a livello nazionale che internazionale. Il default sui pagamenti in rubli fu una scelta, dato che esisteva sempre la possibilità di pagare semplicemente accreditando i conti appropriati in rubli presso la Banca Centrale.
Perché la Russia abbia fatto questa scelta è stato oggetto di un ampio dibattito. Tuttavia, non vi è alcun dubbio che la Russia avesse la capacità di rispettare i suoi obblighi nominali in rubli, ma semplicemente non era disposta a pagare e ha invece preferito andare in default.
La Russia ha fatto default volontariamente, un evento che gli esperti di Long-Term Capital Management non sono riusciti a comprendere a fondo. Per di più, il problema più urgente della Russia non era il debito denominato in rubli, ma la montagna di obbligazioni in valuta estera causate da un cambio irrealistico che drenava le riserve. Una situazione simile si è verificata in Argentina pochi anni dopo, quando il regime di currency board è crollato e il peso è stato svalutato del 75%.
Anche questa volta, il punto è che un governo può sempre assolvere ai propri obblighi in moneta legale se sceglie di farlo. La vera domanda è il motivo per cui un paese potrebbe dichiararsi volontariamente inadempiente sul proprio debito in valuta propria, o involontariamente sul debito in valuta estera. La risposta di solito è di natura fiscale. In Argentina e in Russia il governo non era in grado di dimostrare che le sue politiche fiscali favorivano i cittadini, il che aveva come conseguenza un'evasione fiscale incontrollabile, specialmente tra le classi più agiate. La fuga di capitali si manifestava sotto forma di evasione fiscale. Una delle conseguenze della fuga di capitali è la repulsione verso la propria valuta, cosa che crea le condizioni preliminari per una recessione, come recentemente sperimentato in Lettonia, Estonia e Lituania.
La relazione che questi esempi dei paesi Baltici, Argentina e Russia hanno con il Giappone e gli Stati Uniti sono le tasse. Quando l’imposizione fiscale appare ingiusta o eccessiva, i cittadini evadono le tasse e alla fine si ribellano; il risultato è una situazione come quella verificatasi in Russia nel 1998, in Argentina nel 2002 o in Zimbabwe nel 2007.
Di Edward Harrison, 4 novembre 2009
Più volte ho ribadito che una nazione sovrana che emetta titoli in valuta nazionale non può fare default involontariamente. Il caso che la maggior parte delle persone presenta come controfattuale è la Russia del 1998. Mi sono occupato della Russia altrove:
Tutti i paesi che hanno fatto default, come la Russia, il Messico e l'Argentina, si erano indebitati in valuta straniera a causa del differenzale dei tassi d'interesse. Nessuna nazione sovrana che stampi e emetta debito nella propria moneta legale può mai essere resa insolvente involontariamente.
Io stesso facevo parte di un’unità di negoziazione che si occupava dei titoli surrogati di debito russi negoziabili a breve termine prima del default della Russia nel 1998, quindi ricordo bene l'incidente. Quello della Russia non è stato il default involontario di un paese che emette titoli nella propria valuta legale. La Russia è stato piuttosto il perfetto esempio di default volontario, dovuto all'enorme debito in valuta estera e al deficit in valuta estera (su Wikipedia è possibile trovare un resoconto abbastanza accurato e completo degli eventi inerenti alla crisi finanziaria russa del 1998).
La Russia non era neanche obbligata a fare default. Da un punto di vista logico, l’idea che la capacità di ripagare un debito sia intrinsecamente vincolata alle entrate non si applica a un'emittente di moneta. Tutti questi vincoli sono necessariamente autoimposti (inclusi i vari obblighi di pareggio di bilancio per il Tesoro nei riguardi della Banca Centrale). Lo Stato emittente può sempre effettuare un pagamento nella sua moneta, accreditando l'account appropriato o emettendo moneta cartacea reale se richiesto dalla controparte.
Quello della Russia nell'agosto 1998 è stato un caso estremo. Il tasso di conversione del rublo in dollari USA presso la Banca Centrale Russa era di 6,45 rubli per dollaro. Il governo russo, volendo mantenere questa politica di cambio fisso, era poco disponibile a pagare con le sue riserve di dollari, poiché anche a tassi molto alti i detentori di rubli preferivano cambiarli in dollari presso la Banca Centrale Russa. Di fronte al calo delle riserve statunitensi, e incapace di ottenere riserve aggiuntive sui mercati internazionali, la convertibilità fu sospesa verso la metà di agosto e la Banca centrale russa non ebbe altra scelta che consentire al rublo di fluttuare.
Durante tutto questo processo, il governo russo non perse mai la sua facoltà di pagare in rubli. Tuttavia, a causa della sua scelta di fissare il tasso di cambio a un livello superiore ai "livelli di mercato", a metà agosto decise di sospendere i pagamenti in rubli. In effetti, anche dopo aver lasciato fluttuare il rublo, quando il pagamento avrebbe potuto essere effettuato senza perdere riserve, il governo russo, che includeva il Tesoro e la Banca centrale, continuò a rifiutare i pagamenti in rubli anche quando dovuti, sia a livello nazionale che internazionale. Il default sui pagamenti in rubli fu una scelta, dato che esisteva sempre la possibilità di pagare semplicemente accreditando i conti appropriati in rubli presso la Banca Centrale.
Perché la Russia abbia fatto questa scelta è stato oggetto di un ampio dibattito. Tuttavia, non vi è alcun dubbio che la Russia avesse la capacità di rispettare i suoi obblighi nominali in rubli, ma semplicemente non era disposta a pagare e ha invece preferito andare in default.
La Russia ha fatto default volontariamente, un evento che gli esperti di Long-Term Capital Management non sono riusciti a comprendere a fondo. Per di più, il problema più urgente della Russia non era il debito denominato in rubli, ma la montagna di obbligazioni in valuta estera causate da un cambio irrealistico che drenava le riserve. Una situazione simile si è verificata in Argentina pochi anni dopo, quando il regime di currency board è crollato e il peso è stato svalutato del 75%.
Anche questa volta, il punto è che un governo può sempre assolvere ai propri obblighi in moneta legale se sceglie di farlo. La vera domanda è il motivo per cui un paese potrebbe dichiararsi volontariamente inadempiente sul proprio debito in valuta propria, o involontariamente sul debito in valuta estera. La risposta di solito è di natura fiscale. In Argentina e in Russia il governo non era in grado di dimostrare che le sue politiche fiscali favorivano i cittadini, il che aveva come conseguenza un'evasione fiscale incontrollabile, specialmente tra le classi più agiate. La fuga di capitali si manifestava sotto forma di evasione fiscale. Una delle conseguenze della fuga di capitali è la repulsione verso la propria valuta, cosa che crea le condizioni preliminari per una recessione, come recentemente sperimentato in Lettonia, Estonia e Lituania.
La relazione che questi esempi dei paesi Baltici, Argentina e Russia hanno con il Giappone e gli Stati Uniti sono le tasse. Quando l’imposizione fiscale appare ingiusta o eccessiva, i cittadini evadono le tasse e alla fine si ribellano; il risultato è una situazione come quella verificatasi in Russia nel 1998, in Argentina nel 2002 o in Zimbabwe nel 2007.
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