28/08/20

I rischi derivanti dal non andare a scuola sono peggiori di quelli da Virus





Come riporta The Epoch Times, il Regno Unito (ormai sganciato dalla UE) prende una posizione decisa sulla riapertura delle scuole: è molto più rischioso per i bambini tenerle chiuse che riaprirle, pertanto a settembre i bambini britannici torneranno in classe, e in caso di future azioni di contenimento l’intenzione del governo è di chiudere le scuole per ultime e riaprirle per prime.


Di Alexander Zhang, 25 agosto 2020


I direttori sanitari del Regno Unito, in una dichiarazione congiunta a sostegno della decisione del governo di riaprire le scuole dopo le vacanze estive, hanno affermato che perdere l'opportunità di ricevere un'istruzione pone rischi molto più grandi per i bambini del contrarre il virus CCP

Con una mossa inusuale, i direttori e vicedirettori sanitari di Inghilterra, Scozia, Irlanda del Nord e Galles, sabato hanno emesso una “dichiarazione congiunta” sui rischi e i benefici della riapertura delle scuole a seguito delle misure di lockdown imposte a marzo per contenere la diffusione del Virus CCP (ossia del Partito Comunista Cinese), noto anche come il nuovo Coronavirus.

“Concordiamo che, in confronto agli adulti, i bambini possono avere un rischio inferiore di contrarre il COVID-19 (il più basso nei bambini piccoli), un tasso di ricoveri  e di infezione grave molto inferiori, e un rischio eccezionalmente basso di morire per il COVID-19”, hanno detto i direttori sanitari nella dichiarazione congiunta.

“Questo va confrontato con la certezza di un danno di lungo termine per molti bambini e giovani derivante dal non frequentare la scuola” hanno detto, aggiungendo che “la mancanza di scolarizzazione aumenta le disuguaglianze, riduce le opportunità di vita dei bambini e può aggravare patologie fisiche e mentali”.

I dati del mondo reale su scala internazionale suggeriscono che la riapertura delle scuole di solito non è stata seguita dall'aumento del COVID-19 su una scala temporale che implichi che le scuole siano la ragione principale dell’aumento”, hanno sottolineato i direttori sanitari.

Domenica, in un’intervista rilasciata alla BBC, il professore Chris Whitty, principale consulente sanitario del Regno Unito e direttore sanitario dell’Inghilterra, ha detto che le probabilità per i bambini di morire di COVID-19 sono “incredibilmente piccole”, ma che non frequentare le lezioni “danneggia i bambini nel lungo termine”.

“Molti di più verrebbero probabilmente danneggiati dal non frequentare [le scuole] piuttosto che dal non frequentarle” ha dichiarato. 

Un nuovo studio pubblicato domenica dalla Sanità pubblica inglese mostra che focolai e infezioni del virus CCP sono rari nelle scuole.

Da quando i bambini di 1,2 e 6 anni sono ritornati a scuola a giugno in corrispondenza del primo allentamento delle misure di lockdown, solo lo 0,01% degli asili e delle scuole elementari hanno registrato un focolaio, e tutti sono stati contenuti con successo con solo 70 bambini e 128 operatori contagiati.

I bambini in età scolare presentano un rischio maggiore di contrarre l’influenza o di essere coinvolti in un incidente stradale rispetto al contrarre il virus CCP, secondo quanto dichiarato lunedì dal vice direttore sanitario inglese Jenny Harries  a Sky News.

Lunedì il Primo Ministro Boris Johnson ha fatto un appello diretto ai genitori di rimandare i loro figli nelle classi quando le scuole riapriranno la prossima settimana.

E’ di importanza vitale riportare i nostri bambini nelle classi per imparare e per stare con i loro amici” ha detto in una dichiarazione, perché “niente avrà un effetto maggiore sulle loro opportunità di vita del ritornare a scuola”.

All'inizio del mese, Johnson aveva dichiarato che la riapertura delle scuole a settembre era un “dovere morale” e una “priorità nazionale”.

Tenere chiuse le nostre scuole un attimo in più di quanto sia assolutamente necessario è socialmente intollerabile, economicamente insostenibile e moralmente indifendibile”, ha scritto domenica sul The Mail.

Inoltre il commissario inglese per l’infanzia ha detto che le scuole dovrebbero essere “le prime ad aprire e le ultime a chiudere in caso di futuri lockdown, anche alle spese di di altri settori".


23/08/20

Haaretz - Contrastare la seconda ondata con i fatti, non con le idee sbagliate



La scelta politica di molti governi di imporre un lockdown indiscriminato a fronte dell’epidemia da COVID-19 è stata oggetto di un limitato dibattito pubblico e, come osservato anche in ambito accademico, “molte voci critiche sono state soppresse, ignorate, bullizzate o accantonate come teorie cospirazioniste” (Georges e Romme, 2020). Eppure la discussione sui pro e contro di un lockdown dovrebbe essere intrinseca al dibattito scientifico, essenziale per la trasparenza delle decisioni politiche e andrebbe incoraggiata al fine di migliorare la nostra capacità di risposta a eventuali nuove ondate di virus patogeni.

Il giornale israeliano Haaretz ha dato voce a un gruppo di eminenti studiosi, tra i quali il premio Nobel Micheal Levitt, che esprimono una visione critica della strategia di contenimento del COVID-19 basata sul lockdown e invocano piuttosto un approccio differenziato in base alla vulnerabilità dei diversi segmenti della popolazione.

L’articolo originale è stato pubblicato in ebraico su Ha’aretz il 20 luglio 2020.  Riportiamo di seguito la traduzione della sua versione inglese.


di Udi Qimron*, Uri Gavish*, Eyal Shahar*, Michael Levitt* 

(Traduzione di Rosa Anselmi)

Nel marzo di quest’anno il governo del Regno Unito ha preso seriamente in considerazione di evitare un lockdown, ma ha cambiato repentinamente idea dopo che i modelli matematici presentati dal prof. Neil Ferguson avevano predetto, senza fondamento, degli scenari apocalittici. Lo stesso tipo di modelli avevano predetto che se il governo svedese avesse continuato a rifiutare di imporre il lockdown, entro giugno i morti da COVID-19 in Svezia avrebbero raggiunto il numero di circa 100.000. La Svezia ha rifiutato questi modelli e ha coraggiosamente adottato, seppur con alcuni fallimenti iniziali, una politica democratica che ha ampiamente consentito alla vita normale di andare avanti.

Nonostante le grandi residenze protette presenti in Svezia, e le insufficienti misure protettive iniziali,  in netto contrasto con le previsioni apocalittiche il numero di morti è risultato essere pari al 6% di quanto previsto, circa 6.000 persone con un’età media di 81 anni. Metà delle vittime erano residenti delle case protette che, in Svezia, hanno un’aspettativa mediana di vita di 9 mesi dopo l’ammissione. Se in Israele fosse stata adottata una politica simile, ad esempio, questa cifra di 6.000 corrisponderebbe a un massimo di 3.000 morti, dato che la popolazione anziana in Svezia è più del doppio di quella di Israele. Per raffronto, in Israele muoiono ogni anno oltre 4.000 persone che contraggono la polmonite – cioè una media di più di 10 persone al giorno.

La diffusione dell'epidemia di COVID-19 in Svezia ha raggiunto il suo punto di saturazione senza essere soddisfatta la ben nota, ma errata, soglia di infezione del 60% della popolazione totale - il presunto livello richiesto per l'immunità di gregge. Come è successo?

Contrariamente a quanto generalmente si crede, la politica svedese non aveva l'obiettivo di far infettare quante più persone possibili. Il suo obiettivo era, ed è tuttora, quello di rendere possibile un livello di vita normale, raccomandando alle persone vulnerabili di adottare particolari precauzioni e nel contempo consentendo agli altri di essere esposti al virus e sviluppare l'immunità. Questi ultimi, che costituivano meno del 20% della popolazione, hanno completato l'immunità naturale al virus già esistente nella popolazione, arrestando così la sua diffusione.

Israele e altri Paesi che fronteggiano una seconda ondata possono adottare una politica simile a quella della Svezia o persino migliore. Una siffatta politica può fornire una rapida uscita dalla crisi e ridurre il numero delle vittime. Elenchiamo per primi i contro-argomenti.

Tre argomenti contrari all’esposizione al virus della popolazione a basso rischio

1. L’immunità acquisita dopo l’infezione è di breve durata e pertanto non ci si può fare affidamento.

2. Per raggiungere il punto di saturazione della diffusione dell’infezione, deve essere infettato il 60% della popolazione – una percentuale intollerabile.

3. Il bilancio delle vittime di una tale politica sarà superiore al bilancio delle vittime dell'alternativa – ossia, il ciclico alternarsi di imposizione e di alleggerimento delle restrizioni, in accordo con i tassi osservati di infezione.

Respingiamo inequivocabilmente questi argomenti perché le evidenze scientifiche indicano che è vero l'esatto contrario. Tutti e tre si basano su idee sbagliate e coloro che hanno concepito questi errori continuano ad aggrapparvisi, portando molti paesi a catastrofi provocate dall'uomo. Confutiamo di seguito questi argomenti uno ad uno.

L’infezione da COVID-19 determina immunità a lungo termine

Il primo argomento – l’infezione non determina immunità duratura – origina da segnalazioni errate riguardanti la reinfezione in persone guarite dalla prima infezione.  Dozzine di casi di reinfezione sono stati scoperti in Corea del Sud diversi mesi fa e hanno causato molto panico. Tutti queste infezioni ricorrenti sono poi risultate essere errori del test (falsi positivi) dovuti all’incapacità del test PCR standard di distinguere tra un virus vivente e il suo residuo materiale genetico. Di oltre 20 milioni di persone infette, sono stati riportati solo pochi casi di reinfezione e la possibilità di un errore nel test non è mai stata correttamente esclusa. Che quasi nessuna reinfezione sia stata ancora accertata dopo milioni di infezioni indica in modo schiacciante che l'immunità è efficace per almeno 8 mesi dopo l’infezione (il tempo intercorso dall’emergenza virale). Non vediamo alcuna ragione per supporre che l’immunità al COVID-19 svanirà rapidamente, dato che tipicamente l’immunità dura per anni. Non c’è nulla che suggerisca che in questo particolare caso vi sarà qualche differenza.

Non è necessaria un'infezione diffusa per fermare l'epidemia

La tesi per cui il 60% della popolazione deve infettarsi e divenire immune prima che la diffusione dell’infezione si arresti è basata su un errato calcolo matematico. Il calcolo si fonda su due assunti principali:

1.      In una popolazione il tasso di contatto tra persone è lo stesso per ciascun individuo.

2.       Il COVID-19 è un virus completamente nuovo e pertanto non c’è immunità precedente. Qualunque esposizione al virus condurrà ad una infezione.

Di recente Science, uno dei più importanti giornali scientifici, ha pubblicato un articolo che sottolinea l’assurdità sottesa al calcolo della soglia del 60%. Gli Autori affermano un fatto ovvio: per quanto riguarda i tassi di contatto, le persone non interagiscono con gli altri in modo identico; alcune hanno più contatti di altre. Ad esempio, il cassiere di un supermercato e un guidatore di taxi incontrano molte più persone del pensionato medio. Dato che le persone con molti contatti sociali sono fattori chiave nella trasmissione virale, la loro immunità contribuirà a fermare la diffusione del virus più di quella delle persone con poche interazioni sociali. I primi si infettano più presto e diventano immuni più rapidamente delle persone con scarsi contatti sociali, cosicché la diffusione del virus raggiunge la saturazione a un livello che è significativamente più basso del 60%. Ribadendo il concetto, quest’ultimo è basato sull’assunto errato di contatti sociali uniformi per tutti i membri di una popolazione.

L’evidenza più significativa, che smentisce decisamente la necessità di un tasso di infezione del 60%, è quella della pre-immunità. Ad esempio, il COVID-19 ha diversi parenti (altri coronavirus) ai quali la popolazione è stata esposta e tale precedente esposizione può fornire l’immunità a un segmento significativo della popolazione. Nell’aprile scorso due di noi scrissero un articolo sulla presunta natura di questa immunità e sull’evidenza statistica che ne indicava l’esistenza. Notammo che in diverse comunità chiuse sottoposte a test il tasso di infezione si limitava sempre al 20%, che statisticamente si allinea con il tasso massimo di infezione in queste comunità piuttosto che con coincidenze ricorrenti. Circa un mese dopo un gruppo di ricercatori ha pubblicato evidenti conferme su Cell, uno dei giornali più prestigiosi nel campo delle scienze della vita. Circa il 60% della popolazione californiana che non era mai stata esposta al COVID-19 ha cellule della memoria immunitaria che riconoscono il virus ed è quindi probabile che conferiscano immunità. Inoltre, uno studio condotto in Germania ha mostrato che tale immunità potrebbe raggiungere un livello così alto fino all’81% della popolazione. Noi riteniamo che in Israele la situazione sia persino migliore – ad esempio, per la distribuzione delle classi di età (più giovane) e il numero di bambini per famiglia (più alto). La figura precedente implica che meno del 20% della popolazione israeliana è suscettibile a un’infezione del virus, mentre l’ampia maggioranza è immune. E’ necessaria urgentemente un'indagine sull'immunità cellulare per stimare il livello di questo tipo di immunità in Israele e in altri Paesi.

Questo tasso di pre-immunità al COVID-19 risulta evidente anche dai tassi globali di infezione. Il virus ha iniziato a infettare gli esseri umani da più di otto mesi fa e l’epidemia si è già diffusa nella maggior parte del mondo. Eppure in tutti i Paesi il tasso di infezione permane sotto il 20% della popolazione generale. Questo limitato tasso d’infezione è rimasto immodificato indipendentemente dalle misure di distanziamento sociale (se adottate) come la quarantena, il lockdown locale o esteso all’intero Paese, le mascherine e così via. In Svezia, ad esempio, il tasso d’infezione non ha superato il 20% e la percentuale di persone che sono sopravvissute all’epidemia supera il 99,9% (!) della popolazione. E’ analogo il caso del Belgio, il paese con il tasso di mortalità della popolazione più alto, dove meno del 20% delle persone è stato infettato e più del 99,9% della popolazione è sopravvissuta all’epidemia.

Presupponendo che circa l’80% della popolazione israeliana abbia qualche sorta di immunità cellulare – sia dovuta a una precedente esposizione ai coronavirus sia per ragioni genetiche o per altre cause – stimiamo che l’epidemia sparirà naturalmente quando dal 5 al 15% della popolazione si sarà infettata. Le implicazioni di questi risultati sono della massima importanza. Essi richiedono l’immediata rimozione della maggior parte delle restrizioni all’economia, l’immediato ritorno alla vita normale della popolazione a basso rischio, nel contempo aiutando i gruppi ad alto rischio a ridurre il tasso dei contatti sociali (ad es. controllando in modo continuo le residenze protette e consentendo agli insegnanti diabetici di lavorare da casa).

Il tentativo di “mitigare” la pandemia comporterà un pesante tributo in termini di vite umane

Il terzo argomento – la rimozione delle restrizioni comporterà una maggior mortalità rispetto a una politica di lockdown e di restrizioni – è parimenti sbagliato. Un virus si diffonde nella popolazione fino a quando un numero sufficiente di persone non è infettato e immune, o fintanto che non si trova un vaccino. I lockdown e le restrizioni possono solo rallentare la sua diffusione (“appiattire la curva”) ma non riducono il numero totale di infezioni né la mortalità complessiva. Se c’è un rischio di sovraccaricare gli ospedali, potrebbe essere necessario rallentare la diffusione dell’infezione. Altrimenti appiattire la curva può essere solo dannoso poiché l’infezione ritorna, una volta rimosse le restrizioni. Inoltre, la protezione efficiente dei gruppi ad alto rischio è possibile solo per un periodo limitato di tempo: più lungo è il tempo, più è difficile prevenire la loro esposizione al virus. Nel lungo periodo tale politica può portare a una eccessiva mortalità. Un’altra ragione per un urgente cambiamento di politica è che sembra che in Israele il tasso di mortalità della malattia in estate sia di molte volte inferiore di quello in inverno, persino dopo aver applicato le correzioni per fattori statistici come l’aumento del numero dei test.

L’evidenza più forte del fatto che un lockdown sospende soltanto l’infezione, più che abolirla, è che l’infezione riprende dopo la rimozione, come sta ora accadendo in Israele e altrove. In Svezia, d’altro canto, non c’è una seconda ondata perché non c’è stato il lockdown. Così, la politica di imporre e alleggerire le restrizioni prolunga solamente la crisi, distrugge l’economia ed eventualmente porta a un maggior numero di vittime. Può persino continuare per anni fintanto che non è disponibile un vaccino.

Deve essere presa seriamente in considerazione l’alternativa ai lockdown e alle restrizioni

Si può presumere che la gestione della crisi da COVID-19 sarà attentamente sviscerata – sia sotto il profilo degli aspetti sanitari, sia anche alla luce dell'indignazione pubblica sullo stato dell'economia. Così tante persone in tutto il mondo hanno perso le loro fonti di reddito, di sostentamento, di dignità e di futuro. La povertà è un fattore di rischio per la mortalità molto più severo del COVID-19 e colpisce i bambini tanto quanto gli adulti. Una domanda chiave che sarà sicuramente posta è se la leadership di ciascun paese abbia mai preso seriamente in considerazione per risolvere la crisi una degna alternativa che non costerà così tante vite umane o distruggerà l’economia. Paesi come la Norvegia, l’Irlanda e il Belgio hanno già dichiarato che non imporranno ulteriori lockdown dato che l’ovvio danno sopravanza ampiamente il dubbio beneficio. Per dissipare l'incertezza economica la stessa cosa deve essere dichiarata immediatamente in Israele e negli altri Paesi.

Israele ha condizioni ottimali per far fronte alla pandemia, ora

Vi è ora l’ultima possibilità per la leadership di Israele e degli altri Paesi di dichiarare che non sarà imposto un ulteriore lockdown, né completo né parziale. Nel contesto della pandemia Israele ha enormi vantaggi rispetto alla Svezia e ad altri Paesi. La popolazione è in media molto più giovane (solo circa l’11% della popolazione ha più di 65 anni). Israele ha eccellenti servizi medici e capacità logistiche per gestire pazienti ospedalizzati in condizioni severe. L’estate, che probabilmente ha anche un effetto positivo sulla diffusione del virus e sul suo tasso di mortalità, è particolarmente lunga. In aggiunta, nel Medio Oriente appare esservi un’alta immunità naturale, forse come risultato di un’alta esposizione ai comuni virus del raffreddore (mentre i Paesi dell’Europa occidentale potrebbero aver avuto punti privi di immunità a causa di una esposizione deficitaria a questi virus). Alla luce delle sue ottime condizioni di apertura, Israele può ora perseguire una politica che protegge le popolazioni vulnerabili, al contempo sforzandosi di completare il livello immunitario necessario ad arrestare la diffusione del virus, ben prima della soglia del 60%.  Così, Israele potrà arrivare alla fine della crisi nei prossimi mesi, prima dell’arrivo dell’inverno, dando così un esempio al resto del mondo.

 

Udi Qimron è il Direttore (eletto) del Dipartimento di Microbiologia clinica e Immunologia, Facoltà di Medicina, Università di Tel-Aviv

Uri Gavish è un Fisico, esperto di analisi algoritmica e consulente biomedico

 Eyal Shahar è professore emerito di epidemiologia, Università dell’Arizona

 Michael Levitt è vincitore del Premio Nobel (per la Chimica, 2013) e professore di Biologia Strutturale, Università di Stanford

 

18/08/20

Lo status della UE: un impero frustrato costruito su presupposti sbagliati



Sul prestigioso sito della Hoover Institution della Stanford University una lettura breve ma densa di significato evidenzia chiaramente la fallacia della visione "progressista" di una sempre maggiore integrazione politica dei paesi europei e mostra come il pacchetto di aiuti relativamente modesto messo in campo per far fronte alla crisi economica provocata dalla pandemia abbia in realtà un prevalente scopo politico: utilizzare la crisi per portare ulteriormente avanti l'accentramento sovranazionale delle politiche fiscali dei paesi membri. 


di Jakub Grygiel

12 agosto 2020


Come affermava il Preambolo del Trattato di Roma del 1957, lo scopo dell'allora Comunità economica europea era di "gettare le basi di un'unione sempre più stretta" tra gli europei. Questa frase è stata interpretata come un appello per una fusione politica progressivamente sempre più stretta degli Stati membri, con l'Unione europea come ultima incarnazione di questo scopo. Il problema di questa visione progressista, tuttavia, è duplice: in primo luogo, non è mai pienamente raggiunta, poiché l'obiettivo finale rimane sempre all'orizzonte e, in secondo luogo, è fondata sulla convinzione che un mercato comune possa creare una politica unificata. Di conseguenza, l'UE è sempre nei guai perché è un prodotto perennemente incompiuto, costruito su basi deboli. È un impero frustrato.

 

Le varie crisi degli ultimi mesi - la Brexit, la continua predazione economica cinese e l'inaspettata pandemia - hanno solo esacerbato questi problemi fondamentali dell'UE. La Brexit, spinta in parte dalla riluttanza britannica a proseguire verso una nebulosa “unione sempre più stretta”, ha scosso la fede delle élite europee nell'inevitabilità storica di questo progetto europeo. Inoltre, ha alterato gli equilibri di potere all'interno dell'UE, rimuovendo un fondamentale contrappeso nelle delicate dinamiche della politica europea: la Germania è molto più difficile da controllare ora. Allo stesso tempo, molti paesi europei, vincolati fiscalmente dalle regole della zona euro, sono diventati più dipendenti dagli investimenti cinesi, e in tutto il continente la Cina è diventata uno dei principali partner economici (per la Germania è il partner commerciale numero uno). Infine, la pandemia ha devastato la maggior parte delle economie, con un effetto particolarmente drammatico in quegli Stati, come l'Italia, che non si erano mai ripresi dalla crisi economica del 2008 e rischiano di dover ristrutturare il proprio debito. Il crollo dell'economia italiana, che è dieci volte più grande di quella della Grecia, molto probabilmente si tradurrebbe in un “Italexit” e nella fine dell'Unione europea.

 

Queste sfide sono aggravate dalla continua presenza di minacce esterne (la Russia ad est e a sud, la crisi migratoria dal Nord Africa) e tensioni interne (alta disoccupazione nei paesi del Mediterraneo, tensioni sociali con gli immigrati). Non esistono soluzioni facili a questi problemi, ovviamente. Ma le élite politiche europee adottano per tutti la stessa strategia: più unione e più centralizzazione economica. Cioè, usano ogni crisi per fare un altro passo avanti verso quella “unione sempre più stretta” costruita sull'unione monetaria e, in misura crescente, anche fiscale.

 

La mossa più audace è stata la risposta al caos economico causato dalla pandemia. I leader dell'UE hanno concordato un pacchetto di aiuti relativamente modesto, sostenuto da obbligazioni garantite, per la prima volta, dall'Unione nel suo insieme piuttosto che dai singoli paesi. Ciò consente a paesi come l'Italia di ottenere fondi a un tasso inferiore e riduce il rischio di insolvenza. Il pacchetto di aiuti è più significativo, tuttavia, per come viene finanziato che per le sue dimensioni: un altro segno che i leader dell'UE utilizzano strumenti economici per il loro obiettivo politico di creare un'UE sovranazionale. Si tratta di politica, non di economia: il pacchetto farà ben poco per aiutare la tormentata economia italiana, ma promuoverà surrettiziamente l'istituzione di un'autorità centrale dell'UE che controlli non solo le politiche monetarie, ma anche le politiche fiscali degli Stati.

 

L'appartenenza alla zona euro già comporta che gli stati, come l'Italia, non abbiano alcun controllo sulle politiche monetarie (ad esempio, non possono stampare moneta e svalutare le loro valute in tempi di grave recessione economica) e siano vincolati nelle loro manovre di bilancio (ad esempio, non dovrebbero superare determinati rapporti deficit / PIL). Ma l'obiettivo è sempre stato quello di sottrarre completamente ai governi nazionali il potere di prendere decisioni in materia fiscale e attribuirlo a un organo centrale dell'UE. Le obbligazioni garantite dall'UE nel suo insieme porteranno naturalmente al passo successivo: una tassa a livello europeo di qualche tipo e un crescente potere fiscale di Bruxelles a scapito delle singole capitali. Non si può fare affidamento sui parlamenti e sui leader nazionali, così si crede, ed è più sicuro lasciare che siano degli esperti a livello dell'UE a prendere le decisioni di politica fiscale per i singoli paesi, per il bene dell'Unione nel suo insieme. Questo per quanto riguarda le democrazie nazionali.

 

Al di là del disprezzo per la legittimità democratica, una tale visione è fondata su un insieme errato di presupposti che suggeriscono che l'unità economica creerà un unico popolo. Ma allo stesso modo in cui un conto corrente cointestato non crea un matrimonio, un apparato fiscale e monetario centralizzato non stabilirà nessuna nazione e politica europea. La catena di causalità che sta dietro il progetto dell'UE è semplicemente sbagliata. La coesione politica nasce dalla solidarietà nazionale e da un intento comune, non dalla condivisione della stessa moneta o dall'avere un'autorità fiscale centralizzata.

 

Nessuna delle recenti crisi, tuttavia, ha alterato la visione progressista delle élite politiche dell'UE o la loro fede nel potere di trasformazione di un'autorità monetaria e fiscale a livello europeo. La soluzione alle sfide attuali crea condizioni che garantiscono crisi interne su tutta la linea. L'UE è quindi un impero frustrato: sotto pressione dall'interno e dall'esterno, governata da leader politici indifferenti all'illegittimità democratica delle loro decisioni, incapaci di proteggere i propri confini e stabilizzare le zone limitrofe, e alla costante ricerca di un maggiore controllo sui loro stati membri. Il risultato è che ci saranno crescenti tensioni tra l'apparato dell'UE e i suoi Stati membri (o almeno con alcuni leader nazionali determinati a preservare la legittimità politica e la libertà nazionale). L'euro non crollerà presto e l'UE continuerà a tirare avanti, ma i suoi problemi di fondo rimarranno irrisolti. Le frustrazioni dell'UE sono strutturali, derivano dalla natura stessa di questa entità politica, e non sono solo tribolazioni passeggere legate agli alti e bassi della geopolitica eurasiatica.