22/12/19
Sorpresa! La BioPic di Greta Thunberg rivela che le telecamere l’hanno ripresa fin dal primo giorno della sua ascesa “virale”
Di Helen Buyniski, 17 dicembre 2019
L’adolescente attivista ambientalista Greta Thunberg sarà oggetto di un prossimo documentario – realizzato da una troupe che l’ha seguita fin dai primi giorni del suo sciopero scolastico. Credete ancora che la sua ascesa alla fama sia stata un caso?
La Thunberg, eletta di recente "Personaggio dell'anno" dalla rivista Time, può aggiungere al suo florido curriculum il fatto di essere stata oggetto di un documentario. Il film, provvisoriamente intitolato “Greta”, è stato annunciato da “Deadline” lunedì, per una prima uscita nel 2020. Il direttore Nathan Grossman ha seguito la giovane climatica prodigio ai confini della terra, dal suo sciopero scolastico sul marciapiede di fronte al parlamento svedese, fino all’alto mare a bordo di un yacht da 4 milioni di dollari, il Malizia II. Sulla piattaforma IMDB, l’unico altro lavoro di Grossman ad oggi è un film svedese intitolato “Köttets lustar” (o “La concupiscenza della carne”) che, anche se sembra il titolo di un film porno, è la storia di un uomo che “guarda indietro alla sua vita di carnivoro”.
Ci si potrebbe chiedere perché, se l’irresistibile ascesa della Thunberg - dalla protesta solitaria su un marciapiede fino a strapazzare i potenti della terra per averle rubato il futuro - era spontanea come viene presentata, una troupe per il documentario fosse presente per filmarla mentre sedeva da sola sul marciapiede. Non è che i suoi genitori abbiano cercato di renderla una celebrità fin da quando aveva 12 anni, salvo vedere la loro proposta di spettacolo televisivo strumentale respinta dall’emittente svedese SVT? Oh, scusate, in effetti tutto questo è successo davvero.
I genitori della Thunberg, la cantante d’opera Malena Ernman e l’attore Svante Thunberg, sono anche loro entrambi famosi, e non si fa fatica a capire come le loro conoscenze abbiano facilitato il processo attraverso il quale la Thunberg è diventata il simbolo ubiquo del cambiamento climatico. La sua ascesa è stata meticolosamente programmata, i suoi scioperi scolastici sono stati resi famosi fin dal primo giorno da Ingmar Rentzhog, del social network sul cambiamento climatico “Non abbiamo tempo”. Rentzhog, già amico dei genitori della Thunberg, è già stato ccusato di usare l’immagine della ragazza per raccogliere milioni di dollari a vantaggio della sua attività – rendendola nel frattempo un nome noto a tutti.
Un anno dopo, la sua gigantesca immagine abbellisce un enorme muro di San Francisco, le caffetterie di Tel Aviv (dove il suo sguardo inquisitore dovrebbe far vergognare i clienti di utilizzare posate di plastica) e la piazza di Trafalgar Square a Londra, dove una scultura di ghiaccio con le sue sembianze è stata eretta in ottobre come anteprima di quella che un trio di “creativi” spera possa diventare una statua permanente dell'eroina della crociata climatica.
Preparazione del gigantesco murales di Greta a San Francisco
Una sua statua colossale a cavallo della Manica non si farà attendere.
Tuttavia, ci sono già segnali che nel mondo della Thunberg non va tutto bene. Benché centinaia di migliaia di persone abbiano preso parte allo sciopero scolastico a Madrid per segnalare la sua apparizione a una conferenza sul clima, e l’UE abbia dichiarato il mese scorso lo stato di emergenza climatica, le soluzioni al problema sono molto indietro rispetto alla sua portata.
La stessa Thunberg si è lamentata che un anno di scioperi scolastici non ha essenzialmente ottenuto nulla, dal punto di vista delle emissioni – il pianeta non è più lontano dalla catastrofe certa di quanto lo fosse prima che lei iniziasse la sua campagna incredibilmente efficace per mettere in imbarazzo i leader del mondo in modo che si occupassero del problema. In realtà, mentre sempre più paesi vengono spinti a dichiarare l’”emergenza climatica” e la volontà di “fare qualcosa (non si sa bene cosa)” per ridurre a zero le emissioni già da ieri, senza soluzioni concrete presentate, è molto improbabile che saranno capaci di produrre i tagli desiderati.
Si rifugiano invece nel pensiero magico – compensazioni di carbonio, limiti al carbonio, scambi di carbonio, tasse sul carbonio, e altri schemi e truffe che equivalgono essenzialmente a corrompere il clima in modo che questo non combini disastri – o più precisamente, corrompere le autorità climatiche perché si girino dall’altra parte mentre l’inquinamento continua. Farsi prendere dal panico non porta mai a decisioni sagge (non Urge! - NdVdE), ma le autorità globali stanno prendendosi a cuore i suggerimenti di Greta Thunberg al punto da agire come se fossero in una casa in fiamme. Se non stanno attenti, saranno loro a darle fuoco.
20/12/19
Assad - L'Europa è stata protagonista principale nel creare il caos in Siria
Assad risponde in modo convincente, introducendo il punto di vista siriano sulla questione: le ingerenze esterne (europee e americane), le accuse all’esercito siriano mai provate, l’importanza di tornare alla normalità, ossia ad una Siria liberata, riunita e sovrana.
9 dicembre 2019
Traduzione di Carmen The Sister e Malachia Paperoga
Damasco. Il presidente Bashar al-Assad ha detto che la Siria uscirà più forte dalla guerra e che il futuro della Siria è promettente e la situazione sta molto migliorando, sottolineando le conquiste dell'esercito arabo siriano nella guerra contro il terrorismo.
Il Presidente ha concesso un'intervista alla TV Rai News 24 il 26 novembre 2019; l’intervista doveva essere trasmessa il 2 dicembre, ma la televisione italiana non ha mandato in onda la trasmissione per motivi incomprensibili. Assad ha aggiunto che l'Europa è il responsabile principale della creazione del caos in Siria e che il problema dei rifugiati è il risultato del sostegno diretto al terrorismo da parte dell’Europa insieme agli Stati Uniti, alla Turchia e a molti altri paesi. Il presidente Assad ha sottolineato che, fin dall’inizio della storiella riguardante le armi chimiche, la Siria ha sempre affermato di non averle usate.
Il Presidente ha affermato che l’organizzazione OPCW ha falsificato e inventato il rapporto riguardante le armi chimiche, solo perché gli Americani volevano che lo facesse. Quindi, fortunatamente, questo rapporto ha provato che tutto quello che diciamo da qualche anno, fin dal 2013, era corretto.
Nel seguito il testo completo dell’intervista:
Prima domanda: Signor Presidente, grazie per averci fatto venire. Iniziamo parlando della situazione attuale in Siria, qual è la situazione sul terreno, che cosa succede nel paese?
Presidente Assad: Se parliamo di Siria a livello sociale, la situazione è molto, molto migliorata, da questa guerra abbiamo imparato molte lezioni e penso che il futuro della Siria sia promettente; verremo fuori più forti da questa guerra. Se parliamo della situazione sul terreno: l’esercito Siriano è avanzato negli ultimi tre anni e ha liberato molte aree dai terroristi; rimane ancora Idlib, dove c'è al-Nusra che ha l’appoggio dei Turchi, e abbiamo la parte nord della Siria dove i Turchi hanno invaso il nostro territorio il mese scorso. Riguardo alla situazione politica, possiamo dire che sta diventando molto più complicata, perché abbiamo molti attori coinvolti nel conflitto siriano per a prolungarlo e trasformarlo in una guerra di logoramento.
Seconda domanda: Quando lei parla di liberare, sappiamo che lo fa in ottica militare, ma la questione è: qual è la situazione ora per le persone che hanno deciso di rientrare nella società? Il processo di riconciliazione, a che punto è? Sta funzionando?
Presidente Assad: In realtà, abbiamo chiamato "riconciliazione" il metodo che abbiamo adottato quando volevamo creare, diciamo, una buona atmosfera: permettere alle persone di vivere insieme, e che le persone che hanno vissuto fuori dalle aree sotto il controllo del governo possano tornare all’ordine della legge e delle istituzioni. Abbiamo concesso l’amnistia a tutti coloro che hanno deposto le armi e obbedito alla legge. Su questo punto la situazione non è complicata, se avrete la possibilità di visitare il paese vedrete che la vita sta tornando alla normalità. Il problema non era quello di persone che lottavano tra loro, la situazione non somigliava a quello che la narrativa occidentale cercava di rappresentare – Siriani che si combattevano tra loro. Il termine “guerra civile” è fuorviante. La situazione era che i terroristi avevano preso il controllo di alcune aree, e avevano imposto le loro regole. Quando i terroristi non ci sono più, la gente torna alla loro vita normale e vivono tutti insieme. Non è stata una guerra di religione, né una guerra etnica, né una guerra politica; sono stati terroristi sostenuti da poteri esterni, che grazie al denaro e alle armi hanno occupato queste aree.
Terza domanda: Non è preoccupato che il tipo di ideologia estremista che ha preso piede ed è stata il riferimento nella vita di tutti i giorni della gente per tanti anni possa in qualche modo radicarsi nella società e ripresentarsi, presto o tardi?
Presidente Assad: Questa è una delle più grandi sfide che stiamo affrontando. Quello che lei chiede è molto corretto. Abbiamo due problemi. Le aree che erano fuori dal controllo del governo sono state governate da due cose: caos, perché non c’era legge, per cui la gente – specialmente le generazioni più giovani – non sanno nulla di Stato, leggi e istituzioni. La seconda cosa, che è profondamente radicata nelle menti, è l’ideologia, l’ideologia oscura, l’ideologia wahabita – dell’ISIS, di al-Nusra o Ahrar al-Cham, o di altre ideologie di terroristi estremisti islamici. Ora abbiamo iniziato con questa realtà, perché quando si libera un territorio bisogna risolvere i problemi, se no a che scopo liberarlo? La prima parte della soluzione è religiosa, perché l’ideologia è un’ideologia religiosa, e il clero siriano, o diciamo le istituzioni religiose in Siria, stanno facendo un grande sforzo a riguardo, e stanno avendo successo; riescono ad aiutare queste persone a capire la vera religione, non la religione che gli è stata insegnata da al-Nusra o dall’ISIS o da altre fazioni.
Quarta domanda: Quindi essenzialmente il clero e le moschee sono parte del processo di riconciliazione?
Presidente Assad: Si tratta proprio della parte più importante. La seconda parte sono le scuole. Nelle scuole, hai gli insegnanti, hai l’istruzione, e hai i curriculum nazionali, e questo è molto importante per cambiare la mente di queste giovani generazioni. Terzo, abbiamo la cultura, il ruolo dell’arte, degli intellettuali, e così via. In alcune aree, è molto difficile giocare queste carte, quindi è stato molto più facile partire con la religione, e poi con le scuole.
Quinta domanda: Signor Presidente, torniamo per un istante alla politica. Lei ha menzionato la Turchia, giusto? La Russia è stato il vostro miglior alleato in questi anni, non è un segreto, ma ora la Russia sta scendendo a patti con la Turchia su alcune aree che sono parte del territorio siriano, come affronta la questione?
Presidente Assad: Per capire il ruolo della Russia, occorre capire i principi russi. La Russia crede nella legge internazionale – e nell’ordine internazionale basato su questa legge – sia nell’interesse della Russia e nell’interesse di tutti al mondo. Quindi, per loro, supportare la Siria significa sostenere la legge internazionale; questo è il primo punto. In secondo luogo, essere contro i terroristi è nell’interesse del popolo russo e del resto del mondo. Quindi, essere con la Turchia e cercare compromessi non significa sostenere l’invasione turca; piuttosto hanno voluto giocare un ruolo per convincere i turchi che devono lasciare la Siria. Non sostengono i turchi, non dicono “questa cosa è buona, accettiamola e la Siria deve accettarla”. Non è così. Ma a causa del ruolo negativo degli americani e del mondo occidentale riguardo alla Turchia e ai Curdi, i russi hanno preso posizione, per bilanciare il loro ruolo, per rendere la situazione… non direi migliore, ma meno peggiore se vogliamo essere precisi. Perciò, nel frattempo, questo è il loro ruolo. In futuro, la loro posizione è molto chiara: l’integrità della Siria e la sovranità della Siria. L’integrità e la sovranità della Siria sono in contraddizione con l’invasione turca, questo è molto ovvio e chiaro.
Sesta domanda: Quindi, mi sta dicendo che i russi potrebbero trovare un compromesso, ma la Siria non scenderà a compromessi con la Turchia. Voglio dire, le relazioni sono ancora parecchio tese.
Presidente Assad: No, nemmeno i russi sono scesi a compromessi riguardo alla sovranità. No, affrontano la realtà. Ora, la realtà è negativa, devi farti coinvolgere per fare qualcosa… Non userei la parola compromesso perché questa non è la soluzione definitiva. Potrebbe essere un compromesso riguardo alla situazione a breve termine, ma a lungo e medio termine, la Turchia dovrebbe andarsene. Non c’è dubbio a riguardo.
Settima Domanda: E a lungo termine, sono in programma discussioni tra lei e il signor Erdogan?
Presidente Assad: Non mi sentirei orgoglioso se un giorno dovessi farlo. Mi sentirei disgustato ad affrontare questo tipo di islamisti opportunisti, non musulmani, islamisti – è un altro termine, è un termine politico. Ma ancora una volta, dico sempre: il mio lavoro non è quello di essere contento di quello che sto facendo o infelice o altro. Non si tratta dei miei sentimenti, ma degli interessi della Siria, quindi ovunque vadano i nostri interessi, lì andrò io.
Ottava Domanda: In questo momento, quando l’Europa guarda la Siria, a parte le considerazioni sul paese, vede due questioni principali: una sono i rifugiati, e l’altra sono i jihadisti o i “foreign fighters” che ritornano in Europa. Come vede queste preoccupazioni europee?
Presidente Assad: Dobbiamo partire da una domanda semplice: chi ha creato questi problemi? Come mai ci sono rifugiati in Europa? È una domanda semplice: la causa è il terrorismo che viene sostenuto dall’Europa – e naturalmente dagli Stati Uniti e dalla Turchia e da altri – ma l’Europa è stato l’attore principale nel creare caos in Siria. Quindi, chi semina vento raccoglie tempesta.
Nona Domanda: Perché dice che l’Europa è stato l’attore principale?
Presidente Assad: Perché hanno pubblicamente sostenuto, l’UE ha sostenuto i terroristi in Siria fin dal primo giorno, dalla prima settimana, proprio dall’inizio. Hanno dato la colpa al governo siriano, e alcuni regimi come quello francese hanno mandato armi in Siria, l’hanno detto – uno dei loro funzionari – mi pare il loro ministro degli Affari Esteri, forse Fabius, ha detto “mandiamole”. Hanno mandato armi; hanno creato questo caos. Ecco perché molte persone hanno trovato difficile rimanere in Siria; milioni di persone non potevano vivere qui quindi hanno dovuto uscire dalla Siria.
Decima Domanda: In questo momento, nella regione, ci sono disordini, e c’è un certo caos. Un altro degli alleati della Siria è l’Iran, e qui la situazione si fa complicata. La cosa ha un qualche effetto sulla situazione in Siria?
Presidente Assad: Certamente, ogni volta che si crea caos, la situazione diventa brutta per tutti, ci saranno effetti collaterali e ripercussioni, specialmente quando ci sono interferenze esterne. Se è qualcosa di spontaneo, se parliamo di dimostrazioni e di persone che chiedono riforme o un miglioramento della situazione economica o di qualche altro diritto, si tratta di una cosa positiva. Ma se si tratta di vandalismo e di distruggere e uccidere e di interferire da parte di poteri esterni, allora no, - è senz’altro una cosa negativa, brutta, e un pericolo per tutti gli abitanti della regione.
Undicesima Domanda: È preoccupato di quello che succede in Libano, che è proprio alle vostre porte?
Presidente Assad: Sì, nella stessa maniera. Naturalmente, il Libano potrebbe influire sulla Siria più che su qualsiasi altro paese, perché è un paese confinante. Ma ancora una volta: se si tratta di una cosa spontanea e riguarda riforme e liberarsi di un sistema politico settario, sarebbe una buona cosa per il Libano. Ancora una volta, dipende dalla consapevolezza del popolo libanese nel non lasciare che qualcuno dall’esterno tenti di manipolare il movimento spontaneo o le dimostrazioni in Libano.
Dodicesima Domanda: Torniamo a quello che sta succedendo in Siria. In giugno, Papa Francesco le ha scritto una lettera chiedendole di dare attenzione e rispettare la popolazione, specialmente a Idlib, dove la situazione è ancora molto tesa, perché ci sono scontri là, e anche per come i prigionieri vengono trattati in prigione. Lei gli ha risposto, e che cosa gli ha risposto?
Presidente Assad: La lettera del Papa riguardava le sue preoccupazioni per i civili in Siria e ho avuto l’impressione che forse in Vaticano non conoscono l’intera situazione. Tutto questo è normale, dal momento che la narrazione mainstream in occidente è tutta incentrata sul “governo cattivo” che uccide la “brava gente”; a leggere e ad ascoltare gli stessi media ogni pallottola dell’esercito siriano e ogni bomba uccide solo civili e solo ospedali! Non uccidono terroristi, perché prendono di mira i civili! Il che non è vero. Quindi, ho risposto con una lettera che spiegava al Papa la realtà della Siria – perché noi siamo i più preoccupati, o quelli che si preoccupano prima, delle vite dei civili, perché non si può liberare un’area in cui le persone si rivoltano contro di te. Non puoi parlare di liberazione mentre i civili sono contro di te o contro la società. La parte più cruciale della liberazione militare di ogni area è di avere il sostegno della gente in quell’area o in generale nella regione. Questo è stato chiaro fin dall’inizio di questi nove anni e il contrario sarebbe contro i nostri interessi.
Tredicesima Domanda: Ma questo tipo di appello, in qualche modo, vi ha fatto ripensare anche all’importanza di proteggere i civili e la gente del suo paese?
Presidente Assad: No, queste cose le facciamo tutti i giorni, non solo per valori morali, principi ed etica, ma perché è nel nostro interesse. Come appena detto, se non avessimo questo sostegno – senza il sostegno della gente, non si può ottenere nulla… non puoi avanzare politicamente, militarmente, economicamente in ogni aspetto. Non avremmo potuto sopportare questa guerra per nove anni senza il sostegno della gente e non avremmo avuto il sostegno della gente se ci fossimo messi ad uccidere i civili. Questa è una semplice equazione, auto-evidente, nessuno può contraddirla. Ecco perché dico che, a prescindere dalla lettera, questa è la nostra preoccupazione. Ma comunque, il Vaticano è uno stato, e noi pensiamo che il ruolo di ogni stato – se si preoccupa di questi civili, è di occuparsi della ragione principale del conflitto. La ragione principale è il ruolo occidentale nel sostenere i terroristi, e sono le sanzioni imposte alla popolazione siriana che hanno reso la situazione molto peggiore – e questa è un’altra causa dei rifugiati che vi ritrovate ora in Europa. Voi non volete i rifugiati, ma allo stesso tempo create la situazione o il clima che suggerirà loro "vai via dalla Siria, da qualsiasi altra parte”, e naturalmente andranno in Europa. Quindi questo paese, ogni paese, dovrebbe affrontare le vere ragioni e noi speriamo che il Vaticano possa interpretare questo ruolo all’interno dell’Europa e nel mondo; convincere molti stati che dovreste smetterla di immischiarvi nelle questioni siriane, smetterla di violare le leggi internazionali. Sarebbe sufficiente questo: abbiamo solo bisogno che la gente rispetti le leggi internazionali. I civili sarebbero al sicuro, si ripristinerebbe l’ordine e tutto andrebbe bene. Non serve nient’altro.
Quattordicesima Domanda: Signor Presidente, lei è stato accusato più volte di aver usato armi chimiche, e questo è stato il motivo di molte decisioni e un punto chiave, una linea rossa, per molte decisioni. Un anno fa, più di un anno fa, ci sono stati i fatti di Douma che sono stati considerati un’altra linea rossa. Dopo, ci sono stati bombardamenti, e sarebbe potuta andare peggio, ma qualcosa si è fermato. In questi giorni, attraverso WikiLeaks, sta venendo fuori che potrebbe esserci stato qualcosa di sbagliato nel rapporto. Quindi, nessuno è ancora in grado di dire cosa è successo, ma potrebbe esserci stato qualcosa di sbagliato nel rapporto.
Presidente Assad: Abbiamo sempre – fin dall’inizio di questa narrazione riguardo alle armi chimiche – detto che non le abbiamo usate; non possiamo usarle, è impossibile usarle nella nostra situazione per molte ragioni, diciamo ragioni logistiche.
Intervistatore: Me ne dia una.
Presidente Assad: Una ragione, una molto semplice: quando avanzi, perché mai dovresti usare armi chimiche?! Se stiamo avanzando, perché dovremmo averne bisogno?! Siamo in una situazione molto buona, quindi, perché usarle, specie nel 2018? Ecco la prima ragione. La seconda, molto concreta prova che respinge questa narrazione: quando usi armi chimiche – sono armi di distruzione di massa - parli di migliaia di morti, o almeno centinaia. Questa cosa non è mai accaduta, mai – tutto quello che abbiamo erano quei video di attacchi chimici simulati. Nell’ultimo rapporto che lei ha menzionato, c’è un’incongruenza tra quello che abbiamo visto nel video e quello che hanno visto come tecnici o come esperti. La quantità di cloro di cui hanno parlato: prima di tutto, questo cloro non è un prodotto per la distruzione di massa; in secondo luogo, la quantità che hanno trovato è la stessa quantità che potresti avere in casa, esiste in molte famiglie ed è usata magari per pulire o altro. La stessa identica quantità. Ecco quello che ha fatto l’organizzazione OPCW – hanno prodotto e falsificato il rapporto, solo perché gli americani lo volevano. Quindi, fortunatamente, questo rapporto dimostra che tutto quello che abbiamo detto durante i primi anni, sin dal 2013, era corretto. Noi abbiamo ragione, e loro torto. Questa è la prova, è l’evidenza concreta riguardo a questa questione, Quindi, ancora una volta, l’OPCW è condizionata, è stata politicizzata ed è immorale, e queste organizzazioni che dovrebbero lavorare in parallelo con le Nazioni Unite per creare un mondo più stabile – vengono usate come braccia americane e occidentali per creare più caos.
Quindicesima Domanda: Signor Presidente, dopo nove anni di guerra, lei parla degli errori degli altri. Vorrei che ci parlasse dei suoi errori, se ne ha fatti. C’è qualcosa che avrebbe fatto diversamente, e qual è la lezione che ha imparato e che può aiutare il suo paese?
Presidente Assad: Sicuramente, perché quando si parla di aver fatto qualcosa, si trovano sempre degli errori, fa parte della natura umana. Ma quando si parla di pratica politica, si hanno due cose: si hanno strategie o grandi decisioni; e si parla di tattiche – o in questo contesto, di implementazioni. In questo senso, le nostre decisioni strategiche o principali erano di opporsi al terrorismo, di iniziare la riconciliazione e di opporsi alle influenze esterne nei nostri affari. Oggi, dopo nove anni, adottiamo le stesse politiche; siamo ancora più aderenti a queste politiche. Se pensassimo che erano sbagliate, le avremmo cambiate; ma in realtà no, pensiamo che non ci fosse niente di sbagliato in queste politiche. Abbiamo intrapreso la nostra missione, abbiamo implementato la costituzione proteggendo il popolo. Ora, se dobbiamo parlare di errori di implementazione, naturalmente si trovano molti errori. Penso che se vogliamo parlare di errori riguardo alla guerra, non dovremmo parlare delle decisioni prese durante la guerra causate dalla guerra – o parte di essa, è un risultato di qualcosa avvenuto prima. Abbiamo dovuto affrontare due cose durante questa guerra: la prima era l’estremismo. L’estremismo è iniziato in questa regione alla fine degli anni ’60 e ha accelerato negli anni ’80, specialmente l’ideologia Wahabita. Se vogliamo parlare di errori nell’affrontare questa questione, allora sì, dirò che siamo stati molto tolleranti con qualcosa che era molto pericoloso. Questo è un grosso errore che abbiamo condotto in quei decenni; parlo di diversi governi, incluso il mio prima di questa guerra. Il secondo: quando hai persone che sono pronte a rivoltarsi contro l’ordine costituito, distruggere proprietà pubbliche, commettere atti vandalici e così via, sono persone che lavorano contro il tuo paese, sono pronte a lavorare con potenze straniere – intelligence straniere, chiedono interferenze militari esterne contro i loro paese. Quindi, qui si pone la questione: come abbiamo fatto ad averli? Se lo chiede a me, le dirò che prima della guerra avevamo più di 50.000 fuorilegge che non vennero catturati dalla polizia, per esempio; per questi fuorilegge, il nemico naturale è il governo, perché non vogliono andare in prigione.
Sedicesima Domanda: E cosa mi dice della situazione economica? Perché parte di essa – non so se una piccola o grande parte – ma una parte è stato anche il malcontento e i problemi della popolazione in certe aree in cui l’economia non funzionava. C’è qualche lezione da imparare?
Presidente Assad: Potrebbe essere un fattore, ma sicuramente non un fattore principale. Alcune persone parlano dei quattro anni di siccità che hanno spinto la gente a lasciare la propria terra nelle aree rurali per recarsi in città... potrebbe essere un problema, ma questo non è il problema principale. Hanno parlato della politica liberale... non avevamo una politica liberale, siamo ancora socialisti, abbiamo ancora un settore pubblico - un settore pubblico molto grande nel governo. Non puoi parlare di politica liberale mentre hai un grande settore pubblico. Abbiamo avuto crescita, buona crescita.
Ovviamente, nell'attuazione della nostra politica, di nuovo ci sono stati degli errori. Come si possono creare pari opportunità tra le persone? Tra zone rurali e tra le città? Quando l'economia cresce, le città ne trarranno maggiori benefici, ciò creerà più immigrazione dalle aree rurali alle città... questi sono fattori che potrebbero avere un ruolo, ma non è questo il problema. Nelle zone rurali in cui si ha più povertà, il denaro del Qatar ha svolto un ruolo più efficace che nelle città, è naturale. Lì paghi per mezz'ora quello che ottengono in una settimana; va molto bene per loro.
Diciassettesima Domanda: Siamo quasi arrivati alla fine, ma ci sono altre due domande che voglio farle. Una riguarda la ricostruzione, e la ricostruzione sarà molto costosa. Come può immaginare di potersi permettere questa ricostruzione, chi potrebbe essere il vostro alleato nella ricostruzione?
Presidente Assad: Non abbiamo grossi problemi. Dicono che la Siria non ha soldi... no, in realtà i siriani hanno molti soldi; il popolo siriano nel mondo ha molti soldi e vuole venire a costruire il suo paese. Perché quando si parla di costruire il paese, non si tratta di dare soldi alle persone, si tratta di ricavarne benefici - è un business. Quindi, molte persone, non solo siriane, vogliono fare affari in Siria. Quindi, parlando di dove trovare i fondi per questa ricostruzione, ci sono già, ma il problema è che queste sanzioni impediscono a quegli uomini d'affari o a quelle aziende di venire e lavorare in Siria. Nonostante ciò, abbiamo iniziato e, nonostante ciò, alcune società straniere hanno iniziato a trovare dei modi per eludere queste sanzioni e abbiamo iniziato a pianificare. Ci vorrà tempo, senza le sanzioni non avremmo problemi con i finanziamenti.
Diciottesima Domanda: Conclusione su una nota molto personale, signor Presidente; si sente un sopravvissuto?
Presidente Assad - Se parliamo di una guerra nazionale come questa, in cui quasi tutte le città sono state danneggiate dal terrorismo o dai bombardamenti esterni e quant’altro, allora possiamo dire che tutti i siriani sono dei sopravvissuti. Penso che questa sia la natura umana: essere un sopravvissuto.
Giornalista – Ma lei?
Presidente Assad - Io sono parte di quei siriani. Non posso essere separato da loro; ho gli stessi sentimenti. Ancora una volta, non si tratta di essere una persona forte che è riuscita a sopravvivere. Senza questa atmosfera, questa società o questo contesto in cui sopravvivere, non si potrebbe sopravvivere. È un fatto collettivo; non è una sola persona, non è una performance individuale.
Giornalista - Grazie mille, signor Presidente.
Presidente Assad - Grazie.
17/12/19
Chi ha paura della grande vittoria-Brexit di Johnson?
Di Tom Luongo, 14 dicembre 2019
Boris Johnson ha finalmente tagliato il nodo gordiano della politica britannica. Con una vittoria schiacciante nelle elezioni di giovedì, Johnson si è assicurato che il suo Trattato per il Ritiro (dalla UE, NdvdE) passerà indenne dalla Camera dei Comuni e produrrà una qualche versione della Brexit in futuro.
La vittoria è stata così larga da risultare imbarazzante per coloro che hanno ostacolato la Brexit negli ultimi tre anni. È stato particolarmente soddisfacente vedere Jo Swinson, leader dei Liberali Democratici, perdere il proprio seggio dopo avere scommesso il futuro del proprio partito sulla revoca dell’articolo 50.
Questo singolo fatto è più emblematico di qualsiasi altro della bolla intorno a Westminster in cui vivono i politici del Regno Unito. La Swinson ha sottostimato due cose.
Prima di tutto, c’è stata la determinazione del popolo britannico di far sentire la propria voce attraverso le urne.
In secondo luogo, l’acume politico di Nigel Farage, leader del partito Brexit. Farage ha ritirato i suoi candidati nei seggi conquistati dai Conservatori (il partito di Johnson, NdvdE) nel 2017, per assicurarsi che la Swinson e il suo manifesto traditore finissero in ginocchio.
La Swinson è passata dal cercare di diventare Primo Ministro alle notizie di ieri nel giro di sei settimane. Davvero un bel risultato.
Questo risultato ha anche messo in guardia l’intero establishment politico britannico sul fatto che le bugie che hanno raccontato su quanto sarebbe stata terribile la Brexit erano irrilevanti.
I Laburisti si sono messi da soli all’angolo, spingendo il loro leader Jeremy Corbyn a una svolta marxista nel suo manifesto. Penso che l’ala Blairiana dei laburisti sapesse che quest’elezione era persa, e ha permesso a Corbyn di impiccarsi da solo con le sue sciocchezze riguardo il sistema sanitario, il pollo al cloro e Donald Trump, in modo da liberarsi di lui una volta per tutte.
È stato un colpo da maestro di strangolamento politico, sferrato sia dai Conservatori sia dai globalisti Laburisti, che volevano neutralizzare tutte le minacce al loro potere reale, mentre Johnson si assicurava la maggioranza che proteggerà il nucleo del loro potere per i prossimi cinque anni.
Ma per il popolo queste elezioni riguardavano la loro dignità e quella di coloro che sono stati lasciati indietro da due generazioni di politici che li hanno venduti a Bruxelles. Il popolo non si fida di Johnson più di quanto faccia io.
Ma sapevano che ci doveva essere un chiaro segnale, anche se il beneficiario del segnale non era perfetto. Quindi, mentre Nigel Farage potrà non aver vinto alcun seggio in queste elezioni, continua a vincere spiritualmente la competizione.
Perché “leave” significa “leave”.
La Brexit potrebbe causare tempi duri. Potrà essere difficile. E con questo? La campagna paternalistica e condiscendente tenuta dalla folla del Remain è stata così disgustosa da indurre coloro che votarono nel referendum del 2016 a sfidarli di nuovo.
Chiunque abbia mezzo cervello poteva accorgersi della doppiezza e viltà di persone come Chukka Amuna e Anna Soubry (e il resto della folla ChangeUK), che cambiavano partito come noi ci cambiamo la biancheria intima, ma si rifiutavano di presentarsi a elezioni anticipate per confermare i loro seggi. E hanno anche perso tutti i loro seggi.
Anche i Conservatori che hanno negoziato apertamente con le potenze straniere per tradire la volontà del popolo se ne sono andati. Un’intera generazione di politici inetti e riprovevoli sono stati messi alla porta, per non aver sostenuto nuove elezioni perché sapevano quale fosse il reale sentimento della nazione, mentre loro lavoravano alacremente per sovvertirlo.
Che piaccia o no, i politici non possono governare senza il consenso del popolo. E il popolo ha appena detto loro: se ci deve essere qualche inconveniente, che così sia. Non illudiamoci, la battaglia non è ancora finita, ma questa è la prima vittoria definitiva della saga-Brexit.
Il progetto Europeo ha subito un duro colpo da questi risultati. Anche se io non mi fido di Boris Johnson e delle intenzioni dei conservatori. Le elezioni non riguardavano quello che Johnson farà col suo mandato.
Il loro obiettivo era sbarazzarsi del cancro che c’è nel cuore del sistema politico britannico.
Quindi, prima le cose importanti, sbarazzarsi di tutti gli azzeccagarbugli i politici in carriera e mettere la Brexit sul cammino della sua attuazione.
Riformare la Camera dei Lord, la Corte Suprema e tutte le altre cose, può aspettare. Penso che questi risultati abbiano chiarito anche questo punto.
Johnson lo ha menzionato nel suo discorso introduttivo, sapendo che molte persone gli hanno prestato il volto. Sa che questa vittoria può essere fugace.
Johnson deve procedere non solo con l’attuare la Brexit. Deve realizzare un cambiamento reale e sostanziale delle politiche della UE che hanno spinto nel fango l’economia del Regno Unito.
Deve separare realmente il Regno Unito dalla crisi che ribolle nel continente, perché se lui tradisce su questo stabilendo come Theresa May una “relazione prossima e speciale” con la UE finirà molto rapidamente nel caos.
Ciò detto, sento anche che…
Il fatto che Johnson abbia un mandato elettorale così forte per “compiere la Brexit” gli darà anche una posizione negoziale di forza con l’Unione Europea quando i negoziati ricominceranno a gennaio. Si è liberato con successo del peggio degli elementi “Remain” del partito conservatore e questo mette in guardia Bruxelles, che non potrà più mettere una fazione di Westminster contro l’altra.
Per più di tre anni l’establishment politico del Regno Unito e dell’Europa hanno attaccato il voto originale sulla Brexit. Questa opposizione ha fatto emergere e aggravato le divisioni all’interno della società britannica, schierando le sottoculture del Regno Unito l’una contro l’altra.
Il grande dubbio è se lui negozierà con Barnier da vincitore o, come Theresa May, da uno che chiede la pace dopo essere stato raso al suolo dai bombardamenti.
Si tratta forse della questione più importante che pende ancora sul Regno Unito e sulla Brexit.
Barnier e i suoi amici pensano ancora di avere le migliori carte in mano. Giocheranno ancora il loro gioco duro di non negoziare fino all’ultimo momento, cercando di imporre una soluzione ai britannici ribelli che sia umiliante e punitiva.
Penso che anche solo per questa ragione, i britannici hanno votato come hanno fatto, giovedì. Era chiaro che il loro parlamento non solo non faceva i loro interessi e li trattava come bambini arroganti, ma anche la UE li guardava con sdegno e ostilità appena nascosta.
O, nel caso di Donald Tusk e Guy Verhofstadt, ostilità palese.
L’arroganza del pensiero coloniale europeo è stata in bella vista negli ultimi tre anni. Non finirà con questo voto, né arretrerà anche solo di poco.
I leader UE stabiliranno nuovi termini di negoziazione per un accordo di libero scambio con il Regno Unito per sterilizzare ogni “vittoria” che Johnson ha ottenuto nel suo nuovo e luminoso Trattato per il Ritiro.
Charles Michel, il nuovo Presidente del Consiglio Europeo, sta già parlando in questi termini. Lo stesso vale per il Presidente francese Emmanuel Macron. Il nuovo slogan dell’UE sarà “campo da gioco livellato”.
Questo prende il posto dell’”allineamento normativo”. E se vedete Johnson usare quella frase, Farage scatterà come una molla, e giustamente.
Per il momento, Johnson ha il vento in poppa. Ha rafforzato i Conservatori, ha neutralizzato l’ERG, sconfitto Corbyn e rimesso Farage nella sua lampada. La Brexit ci sarà.
Questa vittoria attirerà una folla di investitori nel Regno Unito e li farà riflettere severamente su quanto sta succedendo nella UE. Anche se penso che l’obiettivo di Johnson sia di ottenere alla fine una BRINO – Brexit solo di facciata – un collasso del sistema bancario europeo potrebbe forzarlo politicamente a tenere le distanze mentre si verifica il disastro.
Perché questo fa parte di quanto la gente ha rifiutato col voto di giovedì. Dopo la Brexit, i debiti europei non sono un problema del Regno Unito, nella loro testa.
Questo è ciò di cui dovrebbero aver paura i leader UE. E, dal modo in cui stanno giocando le loro carte con il Regno Unito, è chiaro che ne hanno paura.
Se volete dare un’occhiata seria alla storia su come l’Unione Europea sia diventata la mostruosità che è oggi, procuratevi una copia del libro di Bernard Connolly Il Cuore Malato dell’Europa.
12/12/19
Grecia: privatizzazioni e scontri
di Keep Talking Greece, 11 novembre 2019
La polizia antisommossa spara gas lacrimogeni contro i medici ospedalieri che protestano contro la privatizzazione della sanità
Mercoledì la polizia antisommossa greca ha sparato gas lacrimogeni contro i medici ospedalieri nel centro di Atene. Durante gli scontri tra manifestanti e polizia, una persona anziana ha avuto un malore.
Gli scontri sono iniziati quando i membri del sindacato Associazione ellenica dei medici ospedalieri (OENGE) hanno tentato di entrare nella sala di Aigli Zappeion dove la Panhellenic Medical Association (PIS) ospitava un evento sulla pianificazione delle collaborazioni tra il settore privato e quello della sanità pubblica.
Alla fine, i manifestanti sono riusciti a entrare nella sala e interrompere l'incontro, portando così alla sua sospensione.
L'OENGE aveva in precedenza lanciato un'interruzione del lavoro dalle 9:00 alle 15:00.
Il sindacato dei medici degli ospedali pubblici accusa la leadership dell'Associazione medica di essere “in prima linea nella promozione dei piani del governo per la piena sottomissione della sanità pubblica” alle partnership tra i settori della sanità pubblica e privata e “della consegna della sanità pubblica ai grandi interessi privati."
Il sindacato ha citato come "casus belli" la possibilità che "i medici privati lavorino negli ospedali pubblici, che la gestione delle attrezzature tecnico-mediche sia affidata a società private e che lo status degli ospedali pubblici sia trasformato in quello di aziende private.”
Come precedente, hanno citato le trasformazioni del servizio sanitario nazionale britannico degli ultimi anni.
Il ministro dello Sviluppo e degli investimenti greco Adonis Georgiadis
Il ministro degli Investimenti: "Privatizziamo tutto" e la Grecia diventa una "zona calda" per gli investitori
Il ministro dello Sviluppo e degli Investimenti, Adonis Georgiadis, ha ammesso pubblicamente che il governo di "Nuova Democrazia" in Grecia intende privatizzare tutto. Parlando al 21° Forum annuale di Capital Link sugli Investimenti in Grecia, il Ministro non ha lasciato spazio a interpretazioni errate. Ha assicurato al pubblico, gli investitori statunitensi, che l'unico obiettivo del governo è quello di privatizzare tutto.
"L'unica domanda che ci giunge dai nostri elettori è perché non lo facciamo più velocemente, perché siamo così in ritardo, perché non stiamo vendendo di più, perché non stiamo privatizzando tutto...", ha detto.
"E devo rassicurarvi che il nostro appetito è così grande, che ogni mese che passa aumenta", ha aggiunto.
Georgiadis, che è stato uno dei relatori principali del Forum "Invest in Greece" di New York, ha spiegato la sua visione e la politica del governo sul concetto di massimo sviluppo liberale.
"Noi privatizziamo, voi investite", ha detto e ha parlato "dell'inizio di una nuova era per la Grecia". Ha sottolineato che ora è il momento giusto per investire in Grecia e ha invitato gli investitori statunitensi a sbrigarsi a recuperare il ritardo, approfittando dell'impulso alla crescita e delle opportunità derivanti dalla nuova politica di investimento del Paese.
“Quindi il mio messaggio per gli investitori americani è questo: ora è il momento di investire in Grecia. Per chi non ha smesso di investire nel nostro Paese, anche nel mezzo della nostra peggiore crisi economica, ora è tempo di raccogliere i frutti. E per quelli che non hanno investito, ora è il momento di approfittare delle opportunità uniche che si presentano nel nostro Paese", ha dichiarato.
Come ha sostenuto il Ministro dello Sviluppo, "l'ex pecora nera dell'area dell'euro, il paese più colpito dalla crisi, che ha perso il 25% della sua produttività nell'ultimo decennio, si sta ora trasformando in un nuovo punto caldo per gli investitori e in una delle economie più favorevoli all'imprenditorialità in tutto il mondo."
P.S.: Una volta venditore televisivo, sempre venditore televisivo... Speriamo che il ministro Georgiadis non intenda esattamente quello che ha detto, nonostante la sua solita retorica da venditore. E che non creda sinceramente che le "zone calde" siano qualcosa a cui desiderare ardentemente di appartenere.
10/12/19
Michéa: "È giunto il momento di chiudere la triste parentesi politica della sinistra liberale"
Intervista a Jean Claude Michéa, 20 giugno 2019
Dopo un articolo scritto da Michael C. Behrent sul suo pensiero, la rivista americana Dissent pubblica una lunga intervista al filosofo Jean-Claude Michéa. Questa è stata rilasciata a gennaio 2019, quando i gilet gialli celebravano i loro primi due mesi. Il governo ha iniziato a screditare il movimento e scollegarlo dalle sue basi popolari, puntando l'indice in particolare sulla presenza di "Black block" e gruppi di estrema destra ai raduni di Parigi. Mentre Michael Behrent ha deciso, con l'accordo di Michéa, di tagliare alcuni passaggi che potrebbero essere incomprensibili per i lettori americani, il nostro sito offre la traduzione completa dell'intervista. Nella prima parte, il filosofo è tornato alle sue critiche al liberalismo e alla sua difesa dei gilet gialli. In questa seconda parte, sviluppa le sue critiche alla sinistra liberale.
Dissent - La xenofobia e l'intolleranza sono in aumento. Combattere il razzismo in questo contesto sembra più necessario che mai. Penso, ad esempio, alla critica al "privilegio bianco" molto diffusa tra i progressisti americani. Per lei, al contrario, l'antirazzismo e le lotte sociali simboleggiano tutto ciò che c'è di falso nel liberalismo culturale. Questa visione non rischia di delegittimare queste lotte in un momento in cui sembrano particolarmente necessarie?
Jean-Claude Michéa - È proprio sulla questione del razzismo e della difesa delle "minoranze" (sessuali o meno) che la nuvola di inchiostro diffusa per decenni dall'intellighenzia di sinistra è diventata oggi la più difficile da dissipare. Ovviamente non si tratta di "delegittimare" minimamente queste cosiddette battaglie "civili" (se non altro per essere fedeli a Marx, che nel Capitale ha già ricordato che "il lavoro di chi ha la pelle bianca non può essere emancipato là dove il lavoro con la pelle nera resta marchiato a fuoco"). Il problema, tuttavia, è il modo in cui la nuova intellighenzia di sinistra - sullo sfondo, nel corso degli anni '80, del neoliberalismo trionfante, delle "guerre stellari" e del declino irreversibile dell'impero sovietico - si è affrettata a strumentalizzare queste battaglie (ricordo ad esempio il ruolo decisivo in questo senso di Bernard-Henri Levy, Michel Foucault e dei "nuovi filosofi") allo scopo allora chiaramente esposto di rendere definitivamente impossibile il ritorno di una critica socialista al nuovo ordine liberale, critica ora assimilata ai "gulag" e al "totalitarismo" (e il fatto che l'odierna generazione di intellettuali rimasta sia stata allevata nell'idea che Marx sia un autore " superato "- quanti hanno davvero letto il Capitale? - certamente non ha migliorato le cose!). Il caso della Francia mi sembra qui, ancora una volta, emblematico.
Una manifestazione di SOS-Racisme
Nessuno ignora più, infatti, che è stato proprio lo stesso François Mitterrand (con la complicità, tra l'altro, dell'economista liberale Jacques Attali e del suo braccio destro dell'epoca Jean-Louis Bianco) che, nel 1984, organizzò deliberatamente dall'Eliseo (e quindi solo pochi mesi dopo la famosa "svolta liberale" del 1983) il lancio e il finanziamento di SOS-Racisme, un movimento "della società civile", ufficialmente "spontaneo" (e infatti subito presentato e lodato come tale nel mondo dello spettacolo e dei grandi media), ma la cui missione principale era in realtà deviare le frazioni di giovani e studenti delle scuole superiori, che l'abbraccio al capitalismo avrebbe potuto destabilizzare, verso una battaglia sostitutiva sufficientemente plausibile e onorevole ai loro occhi. Una battaglia sostitutiva "anti-razzista", "antifascista" e (l'aggettivo si diffuse all'epoca) "civile", che ebbe anche il vantaggio significativo, per Mitterrand e il suo entourage, di acclimatare progressivamente questa gioventù al nuovo immaginario No Border e No Limit del capitalismo neoliberale (ed è, ovviamente, in riferimento a questo tipo di movimento "civile" che Guy Debord ha ironizzato, in una delle sue ultime lettere, su queste "attuali pecore dell'intellighenzia, che conosce solo tre reati non ammissibili, con esclusione di tutto il resto: razzismo, antimodernismo, omofobia").
Ma questa cinica strumentalizzazione delle varie cosiddette battaglie "sociali" si è rivelata doppiamente catastrofica per la sinistra.
A livello intellettuale, innanzitutto, perché è ovvio che una battaglia per "la parità dei diritti e la fine di ogni discriminazione" finirà sempre per essere in tempi rapidi espropriata e dirottata dal suo significato dalla classe dominante, visto che si fa di tutto, in parallelo (e come nel caso della maggior parte delle associazioni "della società civile"), per dissociarla radicalmente da qualsiasi forma di analisi critica delle dinamiche del capitale moderno (e in particolare dall'analisi di Marx - oggi più illuminante che mai - sugli effetti psicologici, politici e culturali del dominio della merce, questa "grande, cinica livellatrice"). Un po', in breve, come chiamare a combattere l'attuale disastro ecologico - come questa giovane Greta Thunberg diventata, in pochi mesi, il nuovo idolo dei media liberali - pur guardandosi bene dal pronunciare anche una sola parola sulla dinamica senza limiti che definisce strutturalmente il sistema di produzione capitalistico!
E poi a livello pratico, perché le classi popolari ovviamente non ci hanno messo molto a capire - nella misura in cui hanno visto perfettamente che è, essenzialmente, la borghesia di sinistra (e in particolare i suoi accademici, i suoi giornalisti e i suoi artisti) ad aver preso il controllo sin dall'inizio della maggior parte di queste nuove battaglie "sociali" - che i progressi reali che questi ultimi avrebbero infine reso possibili (con la riserva, ancora una volta, di non confondere la vera emancipazione di una "minoranza" con la semplice integrazione dei suoi membri più ambiziosi nella classe dominante!), sarebbero avvenuti quasi sempre a loro danno e a loro spese.
A questo proposito, nulla illustra meglio questa dialettica di emancipazione regressiva delle elezioni della nuova Assemblea Nazionale francese del giugno 2017. All'epoca, l'insieme dei media aveva salutato con entusiasmo il fatto che mai, nella storia della Repubblica francese, un parlamento eletto aveva contato tante donne (quasi il 40%) o tanti deputati provenienti dalle "minoranze visibili". Che si tratti di un progresso considerevole a livello umano, ovviamente, non penso neanche per un attimo di negarlo. Il problema è che dobbiamo risalire all'anno 1871 (in altre parole all'Assemblea di Versailles che ordinò il massacro della Comune di Parigi - la "San Bartolomeo dei proletari" come disse Paul Lafargue - sotto la guida illuminata di Adolphe Thiers e Jules Favre, allora i due leader indiscussi della sinistra liberale) per trovare un'assemblea legislativa con un tale livello di consanguineità sociale (le classi lavoratrici, benché largamente maggioritarie nel Paese, non sono "rappresentate" che da meno del 3% dei rappresentanti eletti, e per la prima volta dal 1848 non c'è nemmeno un singolo vero operaio!).
Non è tanto perché siano "per natura" sessisti, razzisti e omofobi che "i ceti bassi" generalmente accettano con riluttanza le cosiddette lotte "sociali" (un recente studio sociologico sulle classi sociali in Europa, pubblicato nel 2017 da Agone, ha persino mostrato che "a differenza delle classi superiori, pur sempre pronte a promuovere la mobilità transnazionale e la tolleranza, le classi popolari sono in effetti molto più miste e mescolate rispetto a tutti gli altri gruppi sociali"). È piuttosto perché fanno ogni giorno la triste esperienza concreta di questa "unità dialettica" del liberalismo culturale e del liberalismo economico, su cui la sinistra accademica è ancora impegnata a fare dotte discussioni. È, del resto, uno dei motivi per cui nei miei ultimi libri ho sottolineato l'importante azione educativa del film Pride, piccolo capolavoro del cinema politico britannico realizzato nel 2014 da Matthew Warchus (da cui è tratta l'immagine di apertura, ndt).
Pride mostra in modo esemplare che se il sostegno fornito ai minatori gallesi nel piccolo villaggio di Onllwyn nell'estate del 1984 da giovani attivisti socialisti del gruppo londinese Lesbians and Gays Support the Miners è stato alla fine in grado di modificare in modo così efficace l'atteggiamento di questi minatori sull'omosessualità, è prima di tutto perché - a differenza degli attivisti LGBT tradizionali (che escono quasi sempre, d'altronde, dalla nuova borghesia di sinistra delle grandi città) - i giovani attivisti non si erano mai sognati di considerare i sindacalisti gallesi delle persone dalla "mentalità arretrata" da convertire sul posto a colpi di sermoni moraleggianti. Al contrario, li avevano considerati in primo luogo come veri compagni di lotta, impegnati in prima linea contro il sinistro governo di "Maggie la strega" (un atteggiamento simile a quello che guidò Orwell nel 1936 di fronte alla minaccia franchista - a prendere con la massima naturalezza il suo posto accanto ai repubblicani spagnoli).
Da questo punto di vista, la lezione politica di Pride va oltre la semplice lotta all'omofobia. E potremmo riassumerne il principio come segue. Vuoi davvero far indietreggiare il razzismo, l'omofobia, il sessismo e l'intolleranza? Prima rimetti in questione tutti i pregiudizi della tua classe nei confronti degli ambienti popolari - a partire da quelli che ti portano spontaneamente a vederci solo un "mucchio di gente deplorevole" ("basket of deplorables", frase usata da Hillary Clinton durante la campagna elettorale del 2016 riferendosi agli elettori di Trump, ndt) o "ragazzi che fumano sigarette e guidano diesel", se preferiamo la versione più morbida di Benjamin Griveaux - portavoce del governo di Emmanuel Macron ed ex braccio destro del "socialista" Dominique Strauss-Kahn). Allora potrai scoprire da solo come "i ceti bassi" - indipendentemente dal loro orientamento sessuale o dal colore della loro pelle - possono rapidamente rivelarsi capaci di essere umani e tolleranti e dotati di intelligenza critica - purché alla fine accettiamo di trattarli come uguali e non più come bambini irrequieti a cui dobbiamo costantemente impartire lezioni - almeno quanto quelli che si considerano costantemente "the best and the brightest". Resta ovviamente da capire se la borghesia di sinistra abbia ancora, nel 2019, i mezzi morali e intellettuali per un simile ripensamento. Niente, purtroppo, è meno certo.
Dissent - Lei critica, o almeno fa notare, i limiti dell'idea di "neutralità assiologica" e del suo posto nel pensiero politico contemporaneo. Ma una qualche variante di questa idea non è necessaria per una buona società - e specialmente per una società tollerante e aperta alle differenze?
Jean-Claude Michéa - Il problema è che mi sembra molto difficile mobilitare questo concetto di "neutralità assiologica" senza dover reintrodurre immediatamente tutti i presupposti del liberalismo politico, economico e culturale! Dietro tutte le costruzioni della filosofia liberale, in effetti, si trova sempre l'idea (nata dall'esperienza traumatica delle terribili guerre civili di religione del XVI° secolo) che, essendo gli uomini per natura incapaci di accordarsi su una qualsiasi definizione comune di "vita buona" o "salvezza dell'anima" (il relativismo morale e culturale è logicamente inerente a tutto il liberalismo), solo una completa privatizzazione di tutti questi valori morali, filosofici e religiosi che sono considerati destinati a dividerci irrimediabilmente - il che implica, tra l'altro, la costruzione parallela di un nuovo tipo di Stato, minimo e "assiologicamente neutro" - possa davvero garantire a tutti il diritto di scegliere il modo di vivere più adatto a sé, in un contesto politicamente pacificato. Sulla carta, un simile programma è senza dubbio attraente (specialmente se si ammette, con Marx, che "il libero sviluppo di ciascuno è la condizione del libero sviluppo di tutti"). Il problema è che è proprio questo imperativo della "neutralità assiologica" (o, se si preferisce, questa ideologia della "fine delle ideologie"), che costringe costantemente il liberalismo politico e culturale (i due sono legati, perché, se ognuno ha il diritto di vivere come desidera, ne consegue che nessun modo di vivere può essere considerato superiore a un altro) a doversi appoggiare, prima o poi, alla "mano invisibile del mercato", per garantire quel minimo di linguaggio comune e "legame sociale" senza il quale nessuna società sarebbe praticabile né potrebbe riprodursi durevolmente.
Questo è ciò che Voltaire stesso capì perfettamente quando nel 1760 scrisse - da buon liberale, contrario sia ai principi inegualitari dell'Antico Regime che al populismo repubblicano di Rousseau - che "quando si tratta di soldi, tutti sono della stessa religione". E in effetti, se l'unico modo per neutralizzare le dinamiche delle guerre di religione e pacificare la vita comune è di rigettare definitivamente al di fuori della sfera pubblica e della vita comune tutti i valori che possono dividerci a livello religioso, morale o filosofico, allora non si vede come una società del genere possa trovare il suo punto ultimo di equilibrio altrimenti che in questa "religione dell'economia" e in questa mistica dell "interesse bene inteso" che definiscono, fin dall'inizio, l'immaginario del modo di produzione capitalistico.
Comprendiamo molto meglio perché i primi socialisti - è sufficiente rileggere Pierre Leroux, Proudhon, Marx o Bakunin - hanno dato un posto così importante alla critica di questa "ideologia della pura libertà che eguaglia tutto" (Guy Debord), a proposito della quale avevano capito molto rapidamente - e Dio sa se i fatti successivi hanno dimostrato che avevano ragione! - che inevitabilmente avrebbe portato la società liberale ad annegare tutti i valori umani nelle "acque gelide del calcolo egoistico" e "disintegrare l'umanità in monadi, ognuna delle quali ha un'essenza a sé stante e uno scopo a sé stante" (Engels). Questo del resto è il motivo per cui, secondo me, non ha alcun senso rivendicare ancora il "socialismo" (o "comunismo") là dove i concetti fondamentali di "vita comune", "comunità" e "comune" non conservano un minimo di significato e legittimità filosofica. L'unica questione politica importante, quindi, è concordare democraticamente su ciò che in una società socialista decente debba necessariamente fare parte della vita comune (fondando così il diritto della comunità di intervenire in quanto tale su una serie di questioni specifiche) e su ciò che, al contrario, può riguardare solo la vita privata degli individui, salvo cadere in un regime totalitario. È d'altra parte su questa questione cruciale (ma che ha senso solo se si respingono immediatamente il postulato nominalista e "Thatcheriano" secondo cui "esistono solo gli individui" e che di conseguenza "la società non esiste" ) che hanno continuato a confrontarsi, a partire dal XIX ° secolo, le due principali correnti del socialismo moderno.
Da un lato, un socialismo autoritario e puritano (a immagine, ad esempio, di Lenin, quando afferma in "Stato e Rivoluzione" che, una volta realizzato il socialismo, "l'intera società non sarà altro che un solo ufficio e un solo laboratorio, con uguaglianza di lavoro e retribuzione") e, dall'altro, un socialismo democratico e libertario (quello difeso, ad esempio, da Pierre Leroux quando avvertì, già nel 1834 , Il proletariato francese contro la tendenza di una parte del nascente movimento socialista a "favorire, consapevolmente o no, l'avvento di un nuovo papato" in cui l'individuo "diventato un funzionario, e solo un funzionario, verrebbe irreggimentato, avrebbe una dottrina ufficiale in cui credere e l'Inquisizione alla sua porta"). Da parte mia, avendo infinitamente più simpatia per il socialismo anarchico di Proudhon, Kropotkin o Murray Bookchin, rispetto a quello di Cabet, Stalin o Mao, è ovvio che condivido pienamente la vostra preoccupazione per una società "tollerante" e il più aperta possibile a tutte le "differenze "(non è del resto Rosa Luxemburg che ricordava in "La rivoluzione russa" - contro Lenin e Trotsky - che "la libertà è sempre la libertà di chi la pensa diversamente"?).
Ma finora non vedo che cosa si potrebbe guadagnare sul piano filosofico - se non qualche ulteriore confusione politica - a riportare nuovamente dentro le vecchie categorie dell'ideologia liberale tutto quello che, fin dall'inizio del XIX ° secolo, ha fatto la meravigliosa originalità del socialismo populista, democratico e libertario. Perché se è indiscutibile - come ricordava una volta l'attivista rivoluzionario Charles Rappoport - che "il socialismo senza libertà non è socialismo", è altrettanto innegabile - ha aggiunto immediatamente - che "la libertà senza socialismo non è libertà" . Immagino che Orwell avrebbe applaudito!
Dissent - Ho la sensazione che in molti a sinistra (e penso in particolare, ancora una volta, agli Stati Uniti) nutrano una sfiducia spontanea verso idee come la "decenza comune" di George Orwell - che per lei gioca un ruolo importante - perché le vedono come un modo mascherato di difendere il pregiudizio e l'intolleranza. Come reagisce a simili preoccupazioni?
Jean-Claude Michéa - Sfortunatamente, lo vedo come un segno della crescente influenza delle "idee" (se così si possono chiamare) di Bernard Henri Levy sulla nuova intellighenzia "progressista"! Proprio lui che, ancora di recente, non ha esitato neppure a definire le classi popolari per il loro "disprezzo dell'intelligenza e della cultura" e le loro "esplosioni di xenofobia e antisemitismo" (va detto che la rivolta del "basso ceto" e dei suoi gilet gialli l'aveva immediatamente immerso nello stesso stato di odioso panico dei ricchi borghesi parigini nel 1871 contro gli insorti della Comune!). Ma la maggior parte delle indagini empiriche che abbiamo su questo argomento confermano, al contrario, in modo massiccio che è davvero negli strati popolari che il senso del limite e la pratica concreta e quotidiana dell'assistenza reciproca e della solidarietà rimangono, ancora oggi, più diffusi e vitali. E questo si spiega, dopo tutto, molto facilmente.
Bernard Henri-Lévy
Quando il tuo reddito è troppo basso - come è il caso, per definizione, della maggior parte delle classi popolari - non puoi avere in effetti la minima possibilità di superare i molti ostacoli della vita quotidiana se non puoi contare sull'aiuto della famiglia e sulla solidarietà del paese o del quartiere. Avendo io stesso scelto di vivere - in parte, per motivi di coerenza morale e filosofica - nel cuore di questa Francia abbandonata, rurale e "periferica" (dove la maggior parte dei servizi pubblici sono scomparsi - è il neoliberalismo - e dove spesso è necessario percorrere chilometri - dieci, nel mio caso personale! - per trovare il primo caffè, il primo negozio o il primo medico), posso assicurarvi che il modo in cui si comportano la maggior parte delle persone che mi circondano (che sono essenzialmente piccoli contadini, viticoltori e piccoli allevatori) corrisponde molto di più, ancora oggi, alle descrizioni di George Orwell in "La strada di Wigan Pier" o in "Omaggio alla Catalogna" rispetto a quelle di Hobbes, Mandeville o Gary Becker (ovviamente non direi la stessa cosa, d'altra parte, delle grandi città - come Parigi o Montpellier - dove ho vissuto a lungo!).
Questo non sorprenderà i lettori di Marcel Mauss (come sapete, mi sono ispirato al suo "Saggio sul dono" per spiegare le basi antropologiche del concetto di decenza comune ), EP Thompson (penso, tra l'altro, alle sue analisi decisive sull' "economia morale" delle classi popolari e sui loro "costumi in comune" ), di Karl Polanyi, di Marshall Sahlins o di James C. Scott. E ancor meno sorprenderà i lettori di David Graeber che - in "Debito: i primi 5000 anni" - non ha esitato a forgiare i concetti di comunismo di base o comunismo quotidiano (una versione particolarmente radicale, come vediamo, della comune decenza di George Orwell!) per descrivere questo "fondamento di tutta la sociabilità umana (...) che rende possibile la società").
Quindi non è tanto l'ipotesi di una decenza comune o ordinaria - qualsiasi ne siano gli sviluppi filosofici e antropologici indispensabili che richiama per definizione - che dovrebbe essere un problema oggi! Piuttosto, è il ritorno in forze nella moderna intellighenzia di sinistra della vecchia arroganza di classe e dei vecchi pregiudizi elitari - incluso, ahimè, tra alcuni sostenitori della decrescita - secondo i quali "postulare una decenza ordinaria rappresenta una visione paternalistica e fantasiosa di un popolo che, in realtà, non è mai esistito" (Prendo in prestito questa formula sbalorditiva - ma che dice molto sulla relazione con le classi popolari di gran parte della nuova fauna universitaria - dall'onesto "repubblicano critico", ecco come si presenta Pierre-Louis Poyau). A tal punto che tendo persino a vedere in questo strano risveglio delle tesi più stantie di un Gustave Le Bon, un Taine o un H.L. Mencken (ad esempio, è stupefacente notare in quale misura il termine, precedentemente glorioso, di "populismo" sia diventato oggi, per la maggior parte dei giornalisti e intellettuali di sinistra, un quasi sinonimo di "fascismo"; o i deliri demofobi e "transumanisti" dell'ideologo macronista Laurent Alexandre) uno dei segni più irrefutabili, e probabilmente più disperanti, del naufragio morale e intellettuale assoluto della sinistra "moderna" e "progressista".
In un momento in cui il sistema capitalista mondiale sta per sperimentare il decennio più critico e turbolento della sua storia - in un contesto di disastro ecologico crescente e disuguaglianze sociali sempre più esplosive e indecenti - mi sembra che sia abbondantemente arrivato il tempo di chiudere, una volta per tutte, la triste parentesi politica della sinistra liberale (come prima è stata chiusa quella dello stalinismo) e di riscoprire il più rapidamente possibile, prima che sia troppo tardi, la critica socialista della società dello Spettacolo e del mondo della Merce, che è chiaramente tornata oggi più attuale che mai.
06/12/19
La Germania è il cuore marcio dell’Europa
Di Tom Luongo, 3 dicembre 2019
In Europa la crisi arriverà dalla Germania. La Germania è entrata in un periodo di crisi politica che, al momento, non è ancora esplosa.
Ma la pira è stata costruita, le torce sono accese e tutto ciò che rimane da fare è trascinare la cancelliera Angela Merkel sul rogo e dare fuoco.
Per coloro che vogliono capire gli impulsi fondamentali che hanno portato l’Unione Europea dove si trova oggi e il ruolo centrale della Germania, è veramente necessario leggere “Il cuore marcio d’Europa” di Bernard Connolly.
Si tratta di un libro che condanna praticamente tutti coloro che hanno mono-maniacalmente spinto per il progetto europeo ma, a mio parere, quella che ne esce peggio è in particolare la Germania.
Infatti il progetto dell’euro, come moneta, venne guidato dagli industriali tedeschi che puntavano ai vantaggi che avrebbe portato loro una moneta unica.
Questo è un concetto che ho sottolineato molte volte: la moneta unica rende più economici i prodotti industriali del Nord Europa, mentre sovrapprezza la capacità produttiva del Sud.
Inoltre, aumenta l’effettiva qualità del debito di questi ultimi paesi, portandola a un livello molto più alto del suo valore di mercato. Ciò ha consentito loro di prendere in prestito denaro a tassi molto più bassi di quanto avrebbero mai potuto fare in altre condizioni.
Questo ci ha portato esattamente dove siamo oggi: con gli enormi squilibri interni che hanno destabilizzato queste economie ed eroso ulteriormente la loro capacità produttiva e competitività, lasciandoli con una montagna di debito, impossibile da ripagare, che viene utilizzato come ulteriore strumento per estrarre gli ultimi asset realmente di valore dai paesi stessi, quando l’inevitabile crisi colpisce e il debito deve essere ristrutturato.
Pensare che questo meccanismo non fosse noto a chi ha progettato l’euro è totalmente da ingenui. Questo ragionamento non viene fatto solo da Connolly, ma anche da Gyorgy Matolcsy, Presidente della Banca Centrale di Ungheria.
Grazie a un lettore fisso molto generoso, sto leggendo ora questo libro: “L’impero americano contro il Sogno Europeo”. Matolcsy in apertura sferra un caustico attacco all’euro, sostenendo che non avrebbe mai dovuto essere introdotto, fin dall’inizio.
Il fatto è che gli effetti della moneta unica erano perfettamente prevedibili. Ma l'autore tocca un argomento ancora più importante rispetto a quanto fa Connolly nel suo libro. La Germania estrae ricchezza e accumula rendite grazie all'arbitraggio sul tasso di cambio.
Sentirlo potrà irritare i miei lettori tedeschi ma, ancora una volta, se pensate che questo non fosse il piano fin dall’inizio, ossia colonizzare paesi come la Grecia, che non si riuscì a conquistare militarmente durante la Seconda Guerra Mondiale, allora non riuscite a capire perché il resto d’Europa si sta arrabbiando.
Maltocsy si spinge ancora più in là nella sua critica alla Germania, affermando che se questa estrazione di ricchezza fosse stata distribuita a tutta la UE durante i venti e più anni di euro, sotto forma di investimenti, le cose sarebbero andate molto meglio.
Ma la Germania non ha mai abbandonato la sua mentalità mercantilista, preferendo vendere BMW e Porsche agli spagnoli e ai greci, mentre prestava loro i soldi necessari a tassi di interesse calmierati.
Poi, quando è arrivato il conto, la Germania ha chiesto loro l’austerità per ripagarlo e nel frattempo ha dato loro dei fannulloni.
Ecco perché oggi la Germania è il centro marcio di un presunto impero europeo che cade a pezzi. Ed ecco perché tutti, inclusi i tedeschi, verranno ora impoveriti mentre la montagna di debito impossibile da ripagare collassa.
Gli imperi crollano sempre dall’interno.
L’impero americano sta affrontando lo stesso identico problema, ma siccome il dollaro è la valuta di riserva mondiale, verrà semplicemente colpito più tardi.
Ecco perché il Dow Jones Industriale e lo S&P500 sono ai massimi storici nonostante le ultime bordate del presidente Trump nell’ambito della guerra commerciale con la Cina, mentre il tedesco DAX fa fatica a rimanere sui livelli massimi del 2018.
Il Dow Jones risente delle differenze nelle incertezze economiche e politiche tra gli USA e la Germania. Perché…
La notizia importante è che i partner di coalizione di Angela Merkel, i Social Democratici (SPD), hanno appena eletto un nuovo leader che è ostile al governo di coalizione, in quanto attribuisce alla Merkel la colpa del collasso elettorale del suo partito a livello nazionale. Questo mette il futuro politico della Merkel in pericolo o, come minimo, assicura che lei avrà meno controllo su un governo tedesco largamente paralizzato.
Negli ultimi mesi abbiamo visto in generale i mercati tirare un sospiro di sollievo dopo che la FED e la BCE si sono attivate per immettere liquidità. Ma questo intervento non risolve i problemi sottostanti, li rimanda soltanto, gonfiando per qualche altro mese la curva dei rendimenti, in questo caso degli Stati Uniti e della Germania.
Ma l’impulso reflattivo è ora dominante o è una semplice pausa tra crisi, come suggerisce Jeff Snider di Alhambra Partners?
Io propendo per la seconda ipotesi, dato che la FED continua ad accumulare Repo (pronti contro termine, NdVdE) sul suo bilancio, ormai più di 208 miliardi di dollari da settembre, e un’altra operazione Repo di 42 giorni ieri è stato sottoscritta per una quantità doppia dell’offerta.
Certo, potrebbe trattarsi di semplici trucchetti da fine trimestre, ma perché? E ci chiederemo le stesse cose quando questi Repo da 42 giorni scadranno a fine gennaio?
La vera domanda è che cosa sta spingendo le banche USA ad aver bisogno di così tanti dollari per mantenere liquidi i mercati. E perché tutti si sentono agitati dalla mancanza di dollari.
La risposta è che tutti si aspettano la stessa cosa, che qualcosa cambierà in maniera decisa, e quando lo farà tutti vorranno dollari, non euro, non sterline, yen o yuan.
L’economia tedesca sta rallentando, lo fa da più di un anno.
E quando l’impulso reflattivo finirà, i mercati che non hanno toccato i massimi storici saranno molto più vulnerabili a un collasso. L’impero mercantilista multigenerazionale tedesco ha raggiunto il suo zenith. Non può più spingersi oltre senza cedere terreno politico al resto d’Europa o abbandonare proprio quella cosa che ha creato l’impero fin dall’inizio: l’euro.
Ecco il problema principale che sta al cuore del progetto europeo. E non può essere nascosto ancora a lungo.
03/12/19
La fine del neoliberismo e la rinascita della Storia
Di Joseph Stiglitz, 4 novembre 2019
Per 40 anni, le élite dei paesi sia ricchi sia poveri hanno promesso che le politiche neoliberali avrebbero portato a una crescita economica più rapida e che i benefici sarebbero ricaduti dall'alto in basso, in modo tale che tutti, compresi i più poveri, sarebbero stati meglio. Ora, di fronte all'evidenza, c'è da meravigliarsi che la fiducia nelle élite e nella stessa democrazia siano crollate?
NEW YORK - Alla fine della Guerra Fredda, il politologo Francis Fukuyama scrisse un celebre saggio intitolato "The End of History?“ ("La fine della Storia?"). Il crollo del comunismo, vi si sosteneva, aveva eliminato l'ultimo ostacolo che separava il mondo intero dal suo destino di democrazia liberale ed economia di mercato. Furono in molti a concordare.
Oggi, di fronte alla ritirata dell'ordine mondiale liberale basato sul rispetto delle regole, con sovrani dispotici e demagoghi alla guida di Paesi che contengono oltre la metà della popolazione mondiale, l'idea di Fukuyama sembra stravagante e ingenua. Ma è servita a sostenere la dottrina economica neoliberale che negli ultimi 40 anni ha avuto la meglio.
La credibilità della fede neoliberale nel libero mercato come via più sicura per una prosperità condivisa è oggi agli sgoccioli. E non c'è da stupirsene. Ma il declino simultaneo della fiducia nel neoliberalismo e nella democrazia non è una coincidenza né una semplice correlazione: il neoliberalismo ha minato la democrazia per 40 anni.
La forma di globalizzazione prescritta dal neoliberalismo ha reso gli individui e le intere società incapaci di controllare una parte importante del proprio destino, come ha spiegato Dani Rodrik dell'Università di Harvard in modo chiarissimo, e come sostengo nei miei libri recenti Globalization and its discontent revisited ("La globalizzazione e i suoi oppositori rivisto" ) e People, power and profits ("Persone, potere e profitti").
Gli effetti della liberalizzazione del mercato dei capitali sono stati particolarmente nefasti: se un candidato alla presidenza in un mercato emergente perde il favore di Wall Street, le banche portano via i loro soldi da quel paese. Gli elettori devono quindi affrontare una scelta netta: arrendersi a Wall Street o affrontare una grave crisi finanziaria. Come se Wall Street avesse più potere politico dei cittadini del Paese.
Anche nei paesi ricchi, ai comuni cittadini è stato detto: "Non puoi seguire le politiche che ritieni giuste" - che si tratti di una protezione sociale adeguata, di salari dignitosi, della tassazione progressiva o di un sistema finanziario ben regolamentato - "perché il paese perderà competitività, i posti di lavoro scompariranno e ci rimetterai”.
Sia nei paesi ricchi sia in quelli poveri, le élite hanno promesso che le politiche neoliberali avrebbero portato a una crescita economica più rapida e che i benefici sarebbero ricaduti verso il basso in modo tale che tutti, compresi i più poveri, sarebbero stati meglio. Per arrivarci, tuttavia, i lavoratori avrebbero dovuto accettare salari più bassi e tutti i cittadini avrebbero dovuto rassegnarsi a tagli in importanti interventi pubblici.
Le élite hanno affermato che le loro promesse erano basate su modelli economici scientifici e "ricerche basate sulle prove". Bene, dopo 40 anni, i numeri sono sotto i nostri occhi: la crescita si è appiattita e i suoi frutti sono andati in misura travolgente ai pochissimi posti ai vertici. Mentre i salari ristagnavano e il mercato azionario volava alle stelle, il reddito e la ricchezza sono saliti verso l'alto invece di ricadere verso il basso.
In che modo del resto è possibile che schiacciare i salari - per raggiungere o mantenere la competitività - e ridurre gli interventi pubblici porti a un livello di vita migliore? I comuni cittadini si sono sentiti presi in giro. E avevano ragione a ritenere di essere stati truffati.
Ora stiamo vivendo le conseguenze politiche di questo grande inganno: sfiducia nei confronti delle élite, della "scienza" economica su cui si è basato il neoliberalismo e del sistema politico corrotto dal denaro che ha reso tutto ciò possibile.
La realtà è che, nonostante il suo nome, l'era del neoliberalismo è stata tutt'altro che liberale. Imponeva un'ortodossia intellettuale i cui guardiani erano assolutamente intolleranti al dissenso. Gli economisti con visioni eterodosse sono stati trattati come eretici da evitare o, al massimo, dirottati verso alcune istituzioni isolate. Il neoliberalismo somigliava poco alla "società aperta" che Karl Popper aveva teorizzato. Come ha sottolineato George Soros, Popper ha riconosciuto che la nostra società è un sistema complesso e in continua evoluzione in cui più impariamo, più la nostra conoscenza cambia il comportamento del sistema.
In nessun ambito questa intolleranza è stata maggiore che nella macroeconomia, dove i modelli prevalenti avevano escluso la possibilità di una crisi come quella che abbiamo vissuto nel 2008. Quando l'impossibile è accaduto, è stato trattato come se fosse un'alluvione di quelle che capitano ogni 500 anni - un evento singolarissimo, che nessun modello avrebbe mai potuto prevedere. Ancora oggi, i sostenitori di queste teorie rifiutano di accettare che la loro fiducia nella capacità dei mercati di autoregolamentarsi e il loro negare le esternalità in quanto inesistenti o irrilevanti hanno portato alla deregolamentazione che ha avuto un ruolo cruciale nell'alimentare la crisi. Eppure la teoria continua a sopravvivere, con tentativi tolemaici di adattarla ai fatti, il che testimonia il fatto che le cattive idee, una volta stabilite, spesso hanno una morte lenta.
Se la crisi finanziaria del 2008 non è riuscita a farci capire che i mercati senza restrizioni non funzionano, la crisi climatica dovrebbe certamente farlo: il neoliberalismo metterà letteralmente fine alla nostra civiltà. Ma è anche chiaro che i demagoghi che vogliono voltare le spalle alla scienza e alla tolleranza non faranno che peggiorare le cose.
L'unica strada da percorrere, l'unica via per salvare il nostro pianeta e la nostra civiltà, è una rinascita della Storia. Dobbiamo rivitalizzare l'Illuminismo e invitare tutti a onorare i suoi valori di libertà, rispetto per la conoscenza e democrazia.
28/11/19
Ue: Draghi ha salvato i banchieri, non i lavoratori
Di Thomas Fazi, 17 novembre 2019
Quando il presidente della Banca centrale europea Mario Draghi ha lasciato l'incarico, il mese scorso, è stato ampiamente elogiato per "avere salvato l'euro". Ma lo ha fatto a spese dei lavoratori, sfruttando la crisi per imporre un regime di austerità sempre più ineluttabile.
Quando il mandato di otto anni di Mario Draghi si è concluso, il mese scorso, i governanti europei hanno fatto a gara nel riversare sul presidente uscente della Banca centrale europea (BCE) un tributo di lodi ai confini del culto. Questa auto-adulazione d'élite ha sfiorato il ridicolo. Il presidente francese Emmanuel Macron ha elogiato Draghi per "averci passato il testimone dell'umanesimo europeo". Il presidente italiano Sergio Mattarella lo ha ringraziato per avere reso "il sistema economico europeo più efficace". L'ex amministratore delegato del Fondo monetario internazionale (FMI) Christine Lagarde - che ha preso il posto di Draghi come capo della BCE - ha esaltato il suo successo nel "garantire il futuro dell'eurozona e il benessere delle sue popolazioni". Ma, soprattutto, Draghi è stato celebrato per "avere salvato l'euro".
In quest'ultima affermazione c'è della verità. Ma è un risultato assai discutibile. Proprio perché Draghi ha “salvato” l'euro, è anche l'uomo che ha ricattato i governi, obbligandoli ad attuare misure di austerità paralizzanti e “riforme strutturali” neoliberali - e che ha schiacciato chiunque osasse resistere. È il principale responsabile della trasformazione dell'Eurozona da un'unione monetaria disfunzionale, ma formalmente democratica, in una struttura di controllo senza precedenti, in cui i governi sono disciplinati e puniti.
Attraverso i meccanismi introdotti da Draghi e il suo approccio "attivista" nei confronti delle banche centrali, i processi democratici formali sono stati sistematicamente sovvertiti attraverso il ricatto finanziario e monetario, prima di tutto da parte della BCE. Sotto una simile struttura di governance, ci si potrebbe ragionevolmente domandare se gli Stati membri dell'Eurozona possano ancora essere considerati democrazie, anche in base alla stretta accezione "borghese" del concetto. In definitiva, Draghi simboleggia la pericolosa ascesa al potere dei tecnocrati non eletti - "esperti" che affermano di non essere contaminati dalla politica, ma che in realtà incarnano la volontà di dominio senza limiti del capitale.
La nascita di un drago
Draghi non è spuntato dal nulla. Ha assunto la carica di nuovo presidente della BCE alla fine del 2011, dopo una brillante carriera come amministratore delegato di Goldman Sachs (2002-2005) e governatore della Banca d'Italia (2005–2011). Già a questa data la Banca centrale europea si era attirata molte critiche, anche da parte degli ambienti allineati, per la sua gestione della crisi finanziaria e poi della recessione seguente. Nel 2010 e nel 2011, la BCE si era opposta a qualsiasi proposta di ristrutturazione del debito della Grecia, assoggettando invece il suo governo a un uleriore debito che è andato a ripagare i suoi creditori bancari francesi e tedeschi.
Nel 2011, quando tutte le altre banche centrali stavano abbassando i tassi di interesse, la BCE li ha invece alzati due volte, aggravando ulteriormente la recessione. Ancora più preoccupante, nei primi anni della crisi il predecessore di Draghi Jean-Claude Trichet ha rifiutato nettamente di intervenire per sostenere sui mercati i titoli di Stato dell'area dell'euro, lasciando gli Stati membri in balia della speculazione finanziaria e costringendoli a perseguire drastiche misure di austerità per far fronte all'aumento del pagamento degli interessi. In alcuni casi questo ha costretto gli Stati, per ottenere assistenza finanziaria, a rivolgersi a una stretta collaborazione con la cosiddetta troika - un comitato tripartito formato da rappresentanti della Commissione europea, della BCE e del Fondo monetario internazionale (FMI). Questa era essa stessa uno strumento politico, con i suoi "aiuti" accordati solo in cambio di misure di austerità ancora più severe.
Come in seguito avrebbe ammesso Trichet , il rifiuto della banca centrale di sostenere sui mercati i titoli pubblici nella prima fase della crisi finanziaria aveva lo scopo di spingere i governi della zona euro a consolidare i loro bilanci e attuare (neoliberali) "riforme strutturali".
Con l'arrivo di Draghi, molti speravano che le cose potessero cambiare. La speranza era che la BCE avrebbe finalmente adottato un approccio più interventista ed energico alla cosiddetta crisi del debito sovrano europeo, che era ormai in pieno svolgimento. E l'intervento è esattamente quello che hanno ottenuto, sebbene non del tipo che la maggior parte di loro aveva in mente. È stato un classico caso di "attento a quello che desideri". Draghi ha radicalizzato il tipo di interferenza negli affari degli Stati membri che era già emerso sotto Trichet.
In effetti, questo è stato visibile già nell'agosto del 2011, pochi mesi prima che Draghi entrasse ufficialmente in carica nel suo ruolo alla BCE. Mentre i tassi di interesse sui titoli italiani si alzavano, Draghi e Trichet inviarono al governo italiano una lettera straordinaria, che avrebbe dovuto rimanere segreta. Ma la missiva successivamente trapelò - e mostrò esattamente come la BCE intendesse sfruttare la crisi per ricattare l'Italia obbligandola a mettere in atto le "riforme strutturali".
La lettera affermava che il piano di riduzione del deficit post-crisi in Italia non era "sufficiente" e chiedeva "una profonda revisione della pubblica amministrazione", compresa "la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali", “privatizzazioni su larga scala”, “riduzione del costo dei dipendenti pubblici... se necessario, riducendo i salari ”, "riforma [del] sistema di contrattazione salariale collettivo", “più rigorosi... criteri per le pensioni di anzianità” e persino "riforme costituzionali che inaspriscano le regole fiscali". Tutto ciò, si sosteneva, era necessario per "ripristinare la fiducia degli investitori".
Simili richieste rappresentavano un enorme superamento dei limiti delle competenze monetarie della BCE. Giulio Tremonti, allora ministro dell'Economia e delle Finanze italiano, dichiarò in seguito che il suo governo quell'estate aveva ricevuto due lettere minatorie: una da un gruppo terroristico, l'altra dalla BCE. "E quella della BCE era peggio", scherzò. Il governo italiano rispose impegnandosi in riforme di vasta portata e tagli di bilancio più profondi, in seguito ai quali la BCE accettò di intervenire con l'acquisto di obbligazioni italiane per mantenere bassi i costi di finanziamento.
A settembre, tuttavia, i tassi dei titoli decennali italiani avevano ripreso a salire, e a novembre avevano raggiunto la soglia critica del 7%, costringendo il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi a dimettersi in seguito alla perdita della sua maggioranza parlamentare. A quel punto il presidente italiano Giorgio Napolitano nominò Mario Monti, ex commissario europeo e consigliere internazionale di Goldman Sachs, dandogli l'incarico di formare un cosiddetto governo tecnico - presumibilmente al di sopra delle divisioni politiche.
La maggior parte dei resoconti descrivono questa crisi politica come la risposta "naturale" dei mercati finanziari alla cattiva gestione della crisi economica da parte di Berlusconi, in linea con la narrativa dominante della "crisi del debito" europea. La realtà, tuttavia, è molto più preoccupante. Come anche il Financial Times ha recentemente riconosciuto, è ormai sempre più chiaro che la BCE sotto Draghi "ha costretto Silvio Berlusconi a lasciare l'incarico a favore di Mario Monti, non eletto" interrompendo i suoi acquisti di obbligazioni italiane - e così facendo deliberatamente aumentare i tassi di interesse al di sopra del livello di sicurezza - e rendendo l'espulsione di Berlusconi la condizione necessaria per ottenere un ulteriore sostegno da parte della BCE alle obbligazioni e alle banche italiane. Ciò è stato tardivamente ammesso anche dallo stesso Mario Monti, che ha affermato in un'intervista del 2017 che alla fine del 2011 Draghi "decise anche di cessare gli acquisti di titoli di Stato italiani da parte della Bce, che avevano dato ossigeno al governo Berlusconi nell’estate e autunno 2011".
È difficile immaginare uno scenario più inquietante di quello di una banca centrale apparentemente "indipendente" e "apolitica" che ricorre al ricatto monetario per estromettere dalla carica un governo eletto e imporre la propria agenda politica. Tuttavia, questo è quanto è accaduto in Italia nel 2011. Come Jacob Kirkegaard del Peterson Institute for International Economics ha notato lo stesso anno, sotto la guida di Draghi la BCE si stava rapidamente evolvendo in un "attore politico a tutto tondo impegnato in una strategia volta a costringere i leader politici dell'UE ad abbracciare la rettitudine fiscale".
Questo divenne ancora più evidente quando, appena un mese dopo il suo silenzioso colpo di stato in Italia, Draghi lanciò l'idea di un "patto fiscale", quello che egli definì "una riaffermazione fondamentale delle regole a cui le politiche di bilancio nazionali dovrebbero essere soggette in modo da ottenere credibilità oltre ogni dubbio”. Ciò comportò, nel marzo del 2012, la firma da parte di tutti gli Stati membri dell'UE (con le notevoli eccezioni del Regno Unito e della Repubblica Ceca) di una versione ancora più rigorosa del Patto di stabilità e crescita (SPG) istituito dal trattato di Maastricht: il cosiddetto Trattato di stabilità, coordinamento e governance nell'Unione economica e monetaria, comunemente noto come Fiscal Compact.
Il nuovo trattato aveva effetti politici diretti, e progettati per durare. In particolare, richiedeva agli Stati membri di trasporre una "norma sul pareggio di bilancio" nei sistemi giuridici nazionali "attraverso disposizioni vincolanti e permanenti, [e] preferibilmente [costituzionali]". Questo equivaleva a niente di meno che un tentativo di istituzionalizzare e cristallizzare su scala europea i presunti programmi di austerità di "emergenza" perseguiti dall'élite dell'UE e imposti agli Stati membri dall'inizio della crisi dell'euro. Una dichiarazione congiunta rilasciata all'epoca dal Corporate Europe Observatory e dal Transnational Institute rilevava che il Fiscal Compact avrebbe istituito "un regime permanente di austerità, che avrebbe inevitabilmente portato a tagli così profondi da relegare ai libri di storia il welfare state europeo".
Confermando indirettamente questi timori, in un'intervista rilasciata poco dopo al Wall Street Journal, Draghi chiarì che non vi era stato alcun dibattito: "Non c'è alternativa al consolidamento fiscale", disse. "Il modello sociale europeo appartiene già al passato". Il trattato ha inoltre introdotto, per la prima volta, "meccanismi di correzione automatica" e sanzioni quasi automatiche in caso di inosservanza delle regole, per rimuovere qualsiasi elemento di discussione e decisione democratica, e quindi realizzare un sogno neoliberista permanente: la completa separazione tra processo democratico e politiche economiche e la morte della gestione macroeconomica attiva.
In poche parole, il Fiscal Compact mirava a impostare l'economia sul pilota automatico, isolandola efficacemente dalla volontà popolare. Il concetto è stato ulteriormente chiarito da Draghi nel 2013. Dopo incerte elezioni italiane in cui il movimento Cinque stelle "populista" emerse come il partito numero uno del Paese, Draghi attenuò i timori che ciò potesse indurre l'Italia a deviare dal percorso dell'austerità e quindi a riaccendere la crisi del debito in Europa. E insistette sul fatto che “gran parte dell'adeguamento fiscale che l'Italia ha intrapreso continuerà con il pilota automatico". Il messaggio era chiaro: grazie al nuovo regime di governance post-crisi che aveva aperto la strada, i risultati delle elezioni non avrebbero più avuto importanza. La reingegnerizzazione delle società e delle economie europee, soggette a un quadro neoliberale ancora più radicale, sarebbe andata avanti a prescindere dalla volontà democratica dei popoli europei. Come il ministro delle Finanze tedesco mise in chiaro ancora più esplicitamente: “Le elezioni non cambiano nulla. Ci sono delle regole."
Salvare l'euro
Ma questa depoliticizzazione e de-democratizzazione della politica economica è stata anche ciò che ha permesso a Draghi il suo più grande trionfo - il famoso discorso che ha "salvato l'euro" nell'estate del 2012. Qui, Draghi ha annunciato il programma OMT (Outright Monetary Transactions) della BCE, con il quale si è impegnato, se necessario, ad effettuare acquisti illimitati di titoli di Stato sui mercati obbligazionari secondari al fine di preservare "un'adeguata trasmissione della politica monetaria e la sua unicità" - o più semplicemente, come si espresse Draghi, "fare qualsiasi cosa fosse necessaria per preservare l'euro."
L'implicazione era che se i mercati avessero richiesto tassi di interesse eccessivamente alti, la BCE sarebbe entrata nel gioco, acquistando le obbligazioni stesse, ponendo così teoricamente fine al gioco degli speculatori. L'annuncio di Draghi bastò a ridurre immediatamente i tassi di rendimento nei paesi interessati (senza nemmeno che dovesse effettivamente attivare un singolo programma OMT), con conferma indiretta che i rendimenti obbligazionari sono in definitiva determinati dalla politica monetaria della banca centrale, non dalla "fiducia dei mercati" nelle politiche di un paese né dai livelli di deficit e debito rispetto al PIL, contrariamente a quanto Draghi aveva ripetutamente affermato fino a quel momento (e avrebbe continuato a ripetere negli anni successivi).
Tuttavia, mentre questo ha aiutato i Paesi a evitare l'insolvenza, ha fatto ben poco per sostenerli in termini di rilancio delle loro economie: questo avrebbe richiesto politiche fiscali di stimolo (cioè deficit più elevati) - esattamente ciò che il nuovo quadro fiscale sostenuto da Draghi ha proibito. In questo senso, l'OMT non è riuscita a trasformare la BCE in una "normale" banca centrale: infatti, l'accesso al sostegno dell'OMT comporta "una condizionalità rigorosa ed efficace", ovvero austerità e "riforme strutturali" neoliberali da parte dello Stato che lo richiede. Non c'è da stupirsi quindi se nessun paese abbia ancora presentato domanda di essere incluso in un programma OMT.
In altre parole, mentre le altre banche centrali (come la Federal Reserve negli Stati Uniti) si sono impegnate in politiche monetarie espansive (di acquisto di obbligazioni) proprio per sostenere i governi nell'effettuare politiche di espansione fiscale, la BCE ha fatto esattamente il contrario: ha accettato di intervenire sui mercati obbligazionari solo a condizione che i governi non aumentino i loro deficit e si impegnino invece ad applicare misure di austerità. Come osserva Marshall Auerback , "in effetti, con una mano si è dato e con l'altra si è tolto, poiché le misure di austerità hanno semplicemente esacerbato il problema della bassa domanda dei consumatori e delle imprese e costretto i governi interessati a emettere ancora più debito". Questo è anche il motivo per cui il programma di allentamento quantitativo (QE) della BCE, tardivamente avviato nel 2015, ha clamorosamente fallito nell'aumentare l'inflazione nell'area dell'euro, lasciando così molte economie intrappolate nella "spirale della bassa inflazione", che causa la stagnazione della produzione, dell'occupazione e dei salari.
Schiacciare la Grecia
In breve, le varie innovazioni istituzionali introdotte da Mario Draghi nel corso degli anni, quelle che gli sono valse molti elogi, non hanno trasformato la BCE in un prestatore di ultima istanza, su cui i governi nazionali possano fare affidamento, ma l'hanno resa invece uno "spacciatore di ultima istanza", con il potere di sfruttare le difficoltà economiche dei paesi per ricattarli, costringendoli ad attuare riforme neoliberali basate sull'austerità.
Ciò è diventato chiaro nell'estate del 2015, quando Draghi ha dimostrato fino a che punto era disposto ad arrivare per sostenere lo status quo fiscale -economico della zona euro, anche se questo significava mettere in ginocchio un intero paese. Dopo che il partito di sinistra Syriza, guidato da Alexis Tsipras, che aveva fatto la campagna elettorale su una piattaforma radicale anti-austerità, andò al potere in Grecia nel gennaio 2015, ne seguì un drammatico scontro politico tra il governo greco e le autorità dell'UE. Tsipras tentò di rinegoziare il debito pubblico del paese, la politica fiscale e il programma di riforme e di invertire le politiche di austerità che avevano tanto danneggiato il paese. Ma il periodo di stallo era già finito entro l'estate, quando il governo greco capitolò e accettò i termini onerosi di un altro accordo di prestito subordinato a ulteriori misure di austerità e di deregolamentazione, ponendo così fine alla "ribellione" greca.
La responsabilità della capitolazione di Syriza è generalmente attribuita ai principali stati europei (prima fra tutti la Germania). Tuttavia, il ruolo più pernicioso è stato svolto dalla stessa BCE. In effetti, nella guerra europea contro il nuovo governo greco, i primi colpi furono sparati dalla banca centrale. Il 4 febbraio, appena nove giorni dopo la prima vittoria elettorale di Syriza, la BCE tolse al governo greco una delle sue principali linee di credito, dichiarando che non avrebbe più consentito alle banche greche di accedere alla "normale" liquidità della BCE offrendo come garanzia collaterale obbligazioni nazionali greche ufficialmente classificate come "spazzatura" - un'eccezione concessa ai paesi sottoposti a un programma di aiuti finanziari della troika. Da quel momento in poi, le banche avrebbero dovuto fare affidamento sul più costoso Emergency Liquidity Assistance (ELA). La BCE addusse la scusa che "al momento non è possibile ipotizzare una conclusione positiva della revisione del programma [di aiuti finanziari]".
Questa fu una decisione straordinaria, per una serie di motivi: il nuovo governo greco aveva solo una settimana di vita e aveva tre settimane per estendere l'accordo di prestito con i creditori e con la troika. Peggio ancora, la mossa della BCE diede il via a una corsa agli sportelli, che accelerò la fuga di capitali che era già iniziata. Seguirono mesi di negoziati molto tesi, durante i quali le proposte del governo greco furono tutte respinte dalla troika, il che esacerbò ulteriormente il deflusso di capitali e fece precipitare il valore patrimoniale e la capitalizzazione di mercato delle banche greche. La vertenza si chiuse nel giugno 2015. Il 25 giugno il governo di Tsipras respinse l'"offerta finale" presentata dalla troika di un nuovo prestito per consentire al governo di rinnovare un pagamento di 1,55 miliardi di euro dovuto al FMI e due giorni dopo, in una mossa strategica per rafforzare la propria mano nei negoziati futuri, annunciò che avrebbe lanciato un referendum sulle condizioni dell'offerta, che si sarebbe tenuto il 5 luglio. Il giorno seguente, il 28 giugno, la BCE rifiutò alla banca centrale greca il diritto di aumentare la propria disponibilità nel contesto dell'ELA, non lasciando al governo greco altra scelta che chiudere le banche, imporre un controllo sui capitali e limitare i prelievi individuali a 60 euro al giorno, a un costo enorme per le imprese e i cittadini greci.
Il resto della storia è noto: sebbene il popolo greco avesse respinto in massa il pacchetto di austerità richiesto dalla troika, il governo greco fece un voltafaccia e accettò la condizioni dell'Unione europea, che erano persino più punitive di quelle che aveva in precedenza respinto. Non c'è dubbio che la BCE abbia svolto un ruolo cruciale nel portare alla fine il governo greco alla resa, in quella che chiaramente equivaleva a una mossa strettamente politica, senza giustificazioni solo tecniche. Come scrive l' economista Mario Seccareccia, la BCE ha tagliato la liquidità alle banche greche “anche se sapeva perfettamente che il problema non era la liquidità delle banche, ma che c'era soprattutto un problema di liquidità sistemica, derivante dalla crescente incertezza e paura da parte della popolazione, riflessa nel crescente accumulo di liquidità"- paura che è stata "indubbiamente aggravata dalle azioni della stessa BCE ":
"Quindi, invece di cercare di sostenere e promuovere il regolare funzionamento del sistema dei pagamenti di uno dei suoi stati membri, che in nessun momento, aveva proposto ufficialmente l'uscita dall'Eurozona (in effetti, erano i leader tedeschi ad avere proposto di mettere in atto una "temporanea" Grexit), la BCE ha effettivamente interrotto deliberatamente la propria assistenza in materia di liquidità, al fine di destabilizzare ulteriormente il sistema di pagamenti greco e costringere il governo di Syriza ad accettare le dure misure di austerità proposte."
Questo episodio dimostra che nell'eurozona i presunti benefici dell'indipendenza della banca centrale sono stati invece sostituiti dalla dipendenza dei governi dalla banca centrale, non più soggetta ad alcun tipo di controllo democratico.
È difficile trovare un altro esempio nella storia in cui una banca centrale ha deliberatamente fatto crollare il sistema bancario del proprio paese, al fine di forzare la sua agenda politica imponendola al governo eletto. Eppure questo è esattamente quello che è successo sotto Draghi.
Questa esperienza mostra anche che i problemi dell'area dell'euro si estendono ben oltre le differenze tra i Paesi o il fatto che manchino meccanismi di stabilizzazione a livello federale e istituzioni veramente rappresentative (sebbene tutte queste cose siano vere). La realtà è molto più inquietante: nel corso dell'ultimo decennio, l'eurozona si è evoluta dal managerialismo post-democratico a una gabbia di ferro autoritaria. E, in larga misura, di questo dobbiamo ringraziare Mario Draghi.
Thomas Fazi è scrittore, giornalista, traduttore e ricercatore. È coautore di "Reclaiming the State: A Progressive Vision of Sovereignty for a Post-Neoliberal World" (Pluto Press; 2017).