30/01/19

La delegittimazione dell’uomo bianco

Aggiorniamo, grazie a P.C. Roberts, a che punto è la notte in USA: se criticare un nero o una donna è considerato una gravissima offesa punibile con l’esclusione sociale, caldeggiare la morte di un uomo bianco – in quanto uomo bianco - è considerato un nobile gesto di coraggio (?), ovviamente con la certezza di non dover subire alcuna conseguenza.

 

 

Di Paul Craig Roberts, 28 gennaio 2019

 

 

Sappiamo che l’uomo bianco è stato delegittimato. Studi sulle donne, studi sui neri, studi sui sudamericani e politiche identitarie hanno demonizzato e insegnato a odiare gli uomini bianchi fin dagli anni ’80. Ma da dove hanno preso il loro potere, questi gruppi con interessi particolari e pieni di odio? La risposta è che glielo hanno consegnato gli uomini bianchi deboli.

Sono stati uomini bianchi gestori di università che hanno creato diplomi universitari propagandistici anti-maschi bianchi chiamati “studi sulle donne e sui neri”. Sono stati gli uomini bianchi del Partito Democratico a sostenere la Politica Identitaria, un’ideologia che pone le responsabilità del male nel mondo sulle spalle degli uomini bianchi.

L’ultima catastrofe degli uomini bianchi è quella del presidente dell’Università di Notre Dame. I cattolici, in passato loro stessi un popolo marginalizzato negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, sono colpevoli, secondo il reverendo John Jenkins, presidente di Notre Dame, di mostrare nell’edificio principale di Notre Dame un dipinto murale disegnato da Luis Gregori nel 1880. All’interno della Politica Identitaria che ora regna perfino nelle università cattoliche, il dipinto del 1880 viene visto nel ventunesimo secolo come la rappresentazione di nativi americani in una posa sottomessa stereotipata di fronte agli esploratori Europei.

 https://apnews.com/b94ea91f11e649579326812f3b7c2980

Scommetto che molti americani non interpreterebbero il dipinto in questo modo. Ma in America, tutto viene deciso da pochi.

Il presidente di Notre Dame ha deciso che il rimedio per questa “offesa” è che l’università copra il dipinto.

Apparentemente, l’unica persona intelligente all’università di Notre Dame è uno studente in legge, Grant Strobl, che ha detto “se adottiamo lo standard di giudicare le generazioni precedenti con i criteri attuali, potremmo raggiungere il punto dove non è più possibile ammirare nulla”.

Si tratta di un buon argomento, ma mi spingerei oltre. Il dipinto di Luis Gregori non aveva lo scopo di rappresentare la sottomissione dei nativi americani agli uomini bianchi. Abbiamo qui un nuovo caso di storia vera rimpiazzata dalla falsa storia con la connivenza del presidente dell’università di Notre Dame.

Pensateci un momento. Quello di Luis Gregori è l’unico dipinto, l’unico pezzo d’arte, che può essere interpretato, o mal interpretato, come offensivo?

Che dire allora, per esempio, della fotografia iconica dell’alzabandiera su Iwo Jima? Non si tratta forse della celebrazione del trionfo americano sui giapponesi, insensibile e offensivo per i giapponesi? Quanti memoriali militari ci sono che non possono essere interpretati come offensivi nei confronti di qualcuno? Quanti dipinti di eventi bellici o religiosi ci sono che la Politica Identitaria o che qualche gruppo protetto non può trovare offensivi? Cosa succede alla storia o alla letteratura quando dobbiamo far finta che le cose non siano successe perché offendono qualcuno? Tutti i film sui cowboy e gli indiani sono allora destinati all’oblio? Quante canzoni possono sopravvivere allo scrutinio a cui è stata sottoposta “Baby Its Cold Outside” (“bimba, fa freddo lì fuori” NdVdE)? Che dire della canzone dei Rolling Stones “Let’s Spend the Night Together” (“Passiamo la notte insieme” NdVdE) o di quella dei Beatles “Why Don’t We Do It In the Road?” (“perché non lo facciamo per strada?” NdVdE)? Cosa facciamo con le canzoni rap?

Dal momento che i neri sono più in alto come “minoranza preferita” rispetto alle donne bianche, perché non è razzista per una donna bianca resistere alle avances sessuali di un uomo nero? Vi siete fatti un’idea. Non c’è un limite. Molti di coloro che spingono per la politica identitaria rimarranno sorpresi quando si rivolterà contro di loro.

La civiltà occidentale è sotto attacco con l’accusa di essere offensiva. Il collasso è visibile ovunque. Nemmeno la più prestigiosa università cattolica dell’America riesce a difendere un dipinto murale storico. Gesù sarà il prossimo? Gesù scacciò i cambiamonete giudei dal tempio. Questo non lo rende forse un anti-semita o un giudeo che odia se stesso?

Le categorie che oggi vengono usate con così grande autorità non hanno alcun senso. Non esiste la razza nera e bianca. Ci sono molte differenti nazionalità ed etnie bianche. CI sono tedeschi, italiani, francesi, scandinavi, slavi, olandesi, greci, inglesi, scozzesi, e così via. Lo stesso vale per i neri. UN Masai non è uno Zulu. Un Tutsi non è un Hutu.

Non c’è alcun dubbio che le nazionalità europee abbiano commesso molte atrocità, per lo più una contro l’altra, così come hanno fatto le tribù nere. Giusto nel 1994 gli Hutu hanno ucciso un milione di Tutsi – il 70% della popolazione Tutsi – nel genocidio del Ruanda.

Così come non è anti-americano criticare gli Stati Uniti, non è anti-semita criticare Israele o sessista criticare una donna o razzista criticare un nero.

La schiavitù non è una questione di neri contro bianchi. Nel corso della storia sono stati messi in schiavitù più bianchi che neri. Come ha documentato Karl Polanyi nel suo libro, Dahomey and the Slave Trade, la schiavitù dei neri ha avuto origine nelle guerre schiaviste dei re neri di Dahomey. Gli europei hanno comprato schiavi dal regno nero di Dahomey.

La Politica Identitaria ha messo la civiltà occidentale contro se stessa. Coloro che fanno le vittime hanno acquisito molti privilegi che violano l’uguaglianza imposta dalla legge. Vengono loro garantite quote nelle ammissioni e nelle cattedre universitarie e nelle assunzioni e promozioni all’interno delle aziende. Possono intentare causa nei confronti di cittadini di origine europea per insensibilità e razzismo semplicemente mal interpretando il linguaggio, le espressioni, il linguaggio corporale, le espressioni facciali, i prodotti artistici e le teorie scientifiche come razzisti. Le donne hanno acquisito poteri simili nei confronti degli uomini. Gli studi dei neri e delle donne riscrivono la storia per presentare i maschi bianchi come i personaggi più odiosi.

Le femministe e le minoranze razziali possono fare dichiarazioni provocatorie invocando la morte di uomini bianchi senza soffrire alcuna conseguenza. Dichiarazioni come quella dello studente della Texas State University Rudy Martinez – “bianco vuol dire abominio”, “ti odio perché non dovresti esistere”, “la morte dei bianchi significherebbe liberazione per tutti”- o di Lisa Anderson-Levy, un decano del Beloit College – “essere bianchi pone una minaccia alla vita sociale, politica ed economica degli USA” – e della professoressa universitaria di Georgetown Christine Fair, che quasi sicuramente intendeva offendere la commissione giudiziaria del senato e Kavanaugh – “guardate questo coro di uomini bianchi titolati che giustificano il diritto arrogato di uno stupratore seriale. Tutti loro si meritano morti miserabili mentre le femministe ridono a vederli emettere gli ultimi respiri. Bonus: castriamo i loro corpi e li diamo da mangiare ai maiali? Sì” – non aiutano l’instaurarsi di relazioni amichevoli di razza e sesso. Inoltre, queste dichiarazioni dimostrano la posizione privilegiata che hanno raggiunto le donne e le “minoranze preferite” rispetto ai maschi bianchi. Qualsiasi studente maschio bianco, decano o professore che avesse fatto dichiarazioni simili riguardo ai neri o alle donne sarebbe stato licenziato ed espulso dal mercato del lavoro. Ricordate l’esperto ingegnere di Google che venne licenziato per aver detto che uomini e donne hanno caratteristiche differenti e sono bravi a fare cose diverse. Dire semplicemente una verità ovvia è diventata un’offesa intollerabile.

Gli Stati Uniti erano un paese unico, nel quale europei tradizionalmente nemici si sono assimilati come Americani. Ma l’assimilazione non viene più elogiata o anche solo permessa. La celebrazione della diversità e del multiculturalismo ha diviso la popolazione in gruppi di vittime e di colpevoli, e viene insegnato ai primi a odiare i secondi. Al posto dell’unità, è stata creata divisione. Il futuro dell’America non promette niente di buono.

 

 

29/01/19

La campagna presidenziale di Macron è stata finanziata per metà da un gruppo di neanche mille persone

Una recente indagine sulle fonti dei finanziamenti della campagna presidenziale di Emmanuel Macron getta luce sull'evidente distanza tra il presidente francese ed il popolo. L'ascesa meteorica e difficilmente giustificabile dell'ex ispettore delle finanze all'Eliseo si spiega con finanziamenti faraonici provenienti in massima parte da circoli ristretti dell'alta finanza. L'enorme quantità di denaro ha avuto gioco facile nello sbilanciare il processo democratico, e non è difficile immaginare che, una volta eletto, Macron si sia visto recapitare il conto, da saldare attraverso misure politiche a vantaggio dei più ricchi. Se oggi siamo davanti ad una probabile "presa della Bastiglia", forse sappiamo anche il perché.

 

 

Di Étienne Girard, 2 dicembre 2018

 

Secondo le rivelazioni del Journal du dimanche del 2 dicembre, tra marzo 2016 e maggio 2017 la metà dei finanziamenti di En Marche è arrivata da appena 913 donazioni. Il contributo del Regno Unito alla campagna presidenziale di Emmanuel Macron sarebbe superiore a quello delle dieci maggiori città francesi della provincia.

 

Si tratta di un gruppo di sostenitori che,  quando si tratta di aiutarsi tra amici, non fa economie. Il Journal du dimanche, che ha indagato sui conti de La République en Marche (LREM), il 2 dicembre ha rivelato  che l'epopea presidenziale di Emmanuel Macron è stata finanziata per metà da... al massimo 913 persone. Questo "club dei mille" ha donato non meno di 6,3 milioni di euro a En Marche nel periodo tra la sua formazione nel marzo 2016 e maggio 2017, il che rappresenta il 48% delle donazioni totali. Questa cifra impressionante è ad esempio superiore alla somma di tutte le donazioni fatte a candidati "minori”, come Nicolas Dupont-Aignan, Jean Lassalle, Philippe Poutou, François Asselineau, Nathalie Arthaud, Jacques Cheminade. Una cifra in grado di pilotare apertamente una candidatura per le elezioni presidenziali.

 

In un sondaggio pubblicato lo scorso aprile, Marianne ha mostrato come, per lanciare la nomina dell'enarca, i collaboratori di Emmanuel Macron si siano finanziati principalmente tramite delle cene di raccolta fondi organizzate con esponenti dell’alta finanza. Alla fine del 2016, il 69% delle donazioni risultavano pervenute con questa modalità. En Marche poteva persino contare su un prezioso club di "400 contributori di oltre 5.000 €". L’inchiesta del JdD conferma che questo circolo si è leggermente allargato nei primi sei mesi del 2017...ma non troppo. La cifra riportata, 913, corrisponde infatti al numero di donazioni superiori a 5.000 euro, ma non al numero di donatori, dato che il massimo ammontare è di 7.500 euro a persona all'anno. È infatti abbastanza probabile che molti dei ricchi mecenati dell'ex-Ispettore delle Finanze abbiano scelto di fare due donazioni, una nel 2016 e una nel 2017. Il famoso "club dei mille" è più probabilmente una più ristretta cerchia di circa 450 donatori.

 

PIU’ DONAZIONI DAL REGNO UNITO CHE DALLA PROVINCIA

 

La geografia di queste donazioni rivela un altro squilibrio. Ne emerge il ritratto di un candidato ampiamente sostenuto nella regione parigina (il 56% del totale) e...nelle roccaforti della finanza all'estero, molto più che in provincia.

 

Preoccupante, dal momento che in buona parte della "Francia periferica” si sta sollevando la protesta del movimento dei "gilet gialli".

 

Si viene in tal modo a sapere che le donazioni dalla Svizzera (95.000 euro) hanno portato più soldi a En Marche rispetto a quelle provenienti da...Marsiglia (78.364 euro), la seconda città più grande della Francia! Con solo 18 benefattori ma con donazioni per 105.000 euro, i libanesi hanno fortemente contribuito all'emergere del macronismo, più dei 250.000 abitanti di Bordeaux e dei 230.000 abitanti di Lille insieme!

 

Dopo Parigi, la seconda città più "macronizzata" non è altro che...Londra. Con 800.000 euro di donazioni, il Regno Unito ha contribuito più di...tutte le dieci maggiori città francesi della provincia. Questa informazione dà un altro significato alla parziale rimozione della “exit tax” [imposta sugli utili in conto capitale per chi delocalizza, N.d.T.], annunciata in gran pompa da Emmanuel Macron alla rivista americana Forbes lo scorso maggio.

 
Nel tentativo di liberarsi della sua etichetta di "candidato dei ricchi", l'ex banchiere avrebbe peraltro costretto i suoi collaboratori a mentire. Nel maggio 2017, il team di En Marche assicurava a Libération che la proporzione di donazioni di oltre 5.000 euro sulla raccolta totale fosse di "un terzo". In realtà è la metà, come documenta oggi l’inchiesta del JdD. Ciò diviene particolarmente interessante se raffrontato allo studio dell'Istituto delle politiche pubbliche pubblicato lo scorso ottobre, dal quale si evince che i grandi vincitori della politica fiscale di Emmanuel Macron sono...gli ultra-ricchi. L'1% più ricco ha visto i propri redditi aumentare del 6%, laddove le famiglie meno abbienti hanno perso l'1% del loro potere d'acquisto.

28/01/19

La casa di vetro delle banche

La versione online di FAZ pubblica un approfondimento sull’attuale crisi bancaria, concentrandosi principalmente sulla situazione in Italia e Germania. Mentre i media tedeschi continuano a stigmatizzare la condizione di alcuni istituti di credito italiani, diversi importanti gruppi bancari tedeschi si trovano sull’orlo del collasso.

 

 

 

Di Isabel Schnabel, Università di Bonn, 25 gennaio 2019

 

 

Ancora una volta, l'Italia! Nelle scorse settimane molti titoli dei giornali erano dedicati alla pessima salute del sistema bancario italiano. Ancora una volta, si parla di una banca la cui situazione drammatica è nota da tempo. E ancora una volta si parla di salvataggio. Molti tedeschi in questo momento pensano a quanto siano fortunati a non essersi invischiati in un’eccessiva condivisione dei rischi con l'Italia. Il rischio era quello di dover sostenere i costi del salvataggio bancario italiano. Fortunatamente le banche tedesche stanno meglio - giusto?

 

In realtà anche alcune aree del settore bancario tedesco si trovano in una crisi prolungata, ma l'opinione pubblica tedesca non ne è altrettanto scandalizzata. In questo caso la posta in gioco è ben più alta di quella della genovese Banca Carige, che mette sul piatto della bilancia “solo” 24 miliardi di euro. La travagliata Norddeutsche Landesbank è l'ottava banca tedesca, con un bilancio totale di circa 155 miliardi di euro. Nel caso fosse necessaria un'operazione di salvataggio, si tratterebbe del denaro dei contribuenti tedeschi.

 

Inoltre, il governo ora parla apertamente di una fusione tra Deutsche Bank e Commerzbank. Le due sono rispettivamente la più grande e la quarta più grande banca tedesca, con un bilancio totale di quasi duemila miliardi di euro, mentre sullo sfondo si delinea sempre più chiaramente la debolezza delle due banche. Il prezzo delle azioni di Deutsche Bank è vicino al suo minimo storico e si è ridotto di oltre il 90% dal picco del 2007. Per quanto riguarda Commerzbank, della quale lo stato tedesco detiene ancora oltre il 15%, la situazione non sembra migliore. Alla luce della difficile condizione delle due banche, ai più alti livelli si discute di una nuova politica industriale per il settore bancario. Una fusione sostenuta dallo Stato delle due principali banche private sembra essere una parte essenziale di questa strategia.

 

Tutto questo non è che un lontano ricordo delle nobili promesse gridate ai quattro venti da molti politici dopo la grave crisi finanziaria del 2008. Mai più una banca sarebbe stata salvata attraverso le entrate fiscali, si disse all’epoca. E mai più il settore bancario avrebbe potuto prendere in ostaggio lo Stato. A questo scopo è stato istituito il nuovo meccanismo di risoluzione europeo, istituzionalizzato a livello UE attraverso le nuove direttive sulla risoluzione e nell'area dell'euro con l'istituzione del meccanismo di risoluzione unico nell'ambito dell'unione bancaria.

 

E che dire della credibilità dell'impegno a non far pagare più i contribuenti per le colpe del settore bancario? Gli eventi recenti non lasciano ben sperare. Ma sarebbe sbagliato puntare il dito solo contro l'Italia. Il nuovo meccanismo di risoluzione può avere successo solo se tutti gli Stati membri, compresa la Germania, sono pronti a ripulire i rispettivi settori bancari.

 

Ancora un salvataggio in Italia?

Prima di tutto diamo un'occhiata all'Italia. Questa volta è Banca Carige una banca di medie dimensioni, attiva a livello regionale, a trovarsi al centro della scena. I “buchi” nel patrimonio capitale banca erano stati evidenziati da tempo. Già negli stress test del 2014, immediatamente prima dell'entrata in vigore dell'unione bancaria, la Banca Carige si era mostrata come una delle banche in maggiori difficoltà.

 

La crisi è diventata acuta quando Vittorio Malacalza, l’azionista di maggioranza, ha rifiutato di approvare un aumento di capitale, contrariamente agli accordi precedenti, e la maggioranza del consiglio di amministrazione della banca si è dimesso. Ciò ha spinto la vigilanza della BCE a sospendere temporaneamente la banca - un processo unico nella storia dell'unione bancaria. Per stabilizzare la banca, il governo italiano ha approvato un decreto che prevede una garanzia governativa per le obbligazioni emesse dalla banca in difficoltà. Allo stesso tempo, sono state introdotte disposizioni per una ricapitalizzazione preventiva della banca.

 

Già nel novembre 2018, il cosiddetto "schema volontario", sotto l'egida della Cassa Depositi e Prestiti e finanziato attraverso il settore bancario italiano, aveva acquisito obbligazioni subordinate della banca per circa 320 milioni di euro, che ora hanno perso molto valore e probabilmente presto saranno convertite in azioni della banca. Ciò trasferisce le difficoltà della banca direttamente al resto del settore bancario italiano. In precedenza, un simile approccio, che aveva visto giungere aiuti a diverse banche italiane in crisi attraverso il Fondo Atlante, non aveva ottenuto il successo sperato, prolungando i problemi e indebolendo il sistema bancario italiano nel suo insieme.

 

Al momento le opzioni sul tavolo per risolvere i problemi di Banca Carige sono diverse. A questo proposito le banche italiane fungono da modello di riferimento, avendo in definitiva beneficiato del denaro dei contribuenti (non tedesco, ma italiano, intendiamoci) nonostante gli aiuti di stato e le regole di risoluzione. Il caso più clamoroso riguarda la banca del Monte dei Paschi di Siena, che con i suoi 130 miliardi di euro di bilancio è molto più grande di Banca Carige. Nel 2017 è stata ricapitalizzata da parte dello stato italiano con la partecipazione degli azionisti e dei creditori, operazione ritenuta inevitabile per via della sua rilevanza sistemica. Nonostante le enormi iniezioni di capitale, l'istituto ha ancora grandi difficoltà e la crisi sembra lontana dalla fine.

 

Un altro esempio è rappresentato da due banche veneziane più piccole, paragonabili per dimensioni a Banca Carige, liquidate a livello nazionale perché le loro piccole dimensioni non giustificavano una procedura europea. Le parti vitali della banca (good bank) sono state vendute al gruppo italiano Banca Intesa per un prezzo simbolico di un euro. Azionisti e creditori subordinati hanno subito una perdita totale. Tuttavia, come nel caso di Monte dei Paschi, i mutuatari senior e gli investitori al dettaglio sono stati ampiamente risparmiati.

 

Punti deboli delle nuove regole

L’approccio appena descritto non era in aperta contraddizione con le regole europee. Così, nel caso di Monte dei Paschi, fu usata solo una scappatoia, che fu deliberatamente incorporata nelle regole, anche su richiesta del governo tedesco. Per le banche veneziane, la legge europea non si applicava, a parte le norme sugli aiuti di stato. Lo spirito delle nuove regole, tuttavia, non corrispondeva alla procedura. Una più consistente condivisione delle perdite è stata ostacolata anche dal fatto che molte delle obbligazioni bancarie subordinate ad alto rischio erano state vendute agli investitori al dettaglio dopo che gli investitori istituzionali si erano ritirati, il che era apparentemente stato tollerato dalla vigilanza nazionale.

 

Questo rivela le debolezze del nuovo meccanismo di risoluzione. La nuova serie di regole contiene troppe eccezioni e poteri discrezionali per eludere la responsabilità di un creditore. Gli eventi degli ultimi anni mostrano quanto sia difficile, perfino in periodi relativamente tranquilli, prevalere politicamente davanti a un’unione globale di creditori. Se ci troveremo davanti a una vera crisi sistemica, la pressione politica per risparmiare i creditori sarà ancora più forte. Certo, in questa eventualità alcune eccezioni potrebbero essere funzionali alla risoluzione del problema. Tuttavia, gli strumenti per prevenire una situazione così eccezionale dovrebbero essere notevolmente rafforzati, definendo criteri rigorosi per affrontare un’eventuale crisi sistemica. Inoltre, andrebbe ricercata una maggiore armonizzazione dei regolamenti bancari a livello nazionale.

 

Una delle rivendicazioni più comuni in Italia, è che gli oneri ereditati dal sistema bancario dalla crisi precedente non siano stati rimossi in modo efficace prima del lancio dell'unione bancaria. La riduzione delle sofferenze negli ultimi anni era stata favorita dalla situazione economica eccezionalmente buona. Un nuovo rallentamento economico potrebbe aumentare rapidamente i prestiti in sofferenza e complicare ulteriormente il rapporto con le banche in difficoltà.

 

Si arriva ad oggi, con il sistema bancario europeo di nuovo instabile, dieci anni dopo la crisi della Lehman. L'aumento del patrimonio netto potrebbe rapidamente svanire, in particolare i coefficienti patrimoniali basati sul rischio potrebbero deteriorarsi rapidamente nel caso sopraggiungesse una nuova crisi. Un peggioramento della recessione diventerebbe probabile per via di prestiti bancari deboli. Ancora una volta ci si ritrova sprovvisti di un mercato europeo dei capitali integrato e funzionante che possa attenuare le debolezze del sistema bancario.

 

Per un sistema bancario stabile sarebbe necessaria un patrimonio netto molto più elevato, soprattutto nel caso delle banche più importanti e di rilevanza sistemica. Le perdite potrebbero essere assorbite in modo più sicuro, riducendo la pressione politica sul nuovo meccanismo di risoluzione. Ma non ci sarà un ulteriore inasprimento dei requisiti patrimoniali per il prossimo futuro, in quanto le associazioni bancarie sono riuscite a convincere la politica che un patrimonio netto più elevato restringerebbe eccessivamente la propensione al credito. Prove convincenti a sostegno di questa tesi al momento non sono pervenute.

 

Difficoltà delle banche tedesche

Finora, la Germania non ha dovuto fare i conti con le nuove regole di risoluzione perché, a differenza dell'Italia, ha usato il tempo a disposizione prima che le nuove norme entrassero in vigore per sostenere il settore bancario con fondi statali. Casi problematici come HSH Nordbank non sono quindi ancora caduti nella rete delle norme europee più severe. A detta del governo federale, i costi diretti del salvataggio delle banche durante la crisi finanziaria ammontano ad almeno 68 miliardi di euro - una somma che non include ancora gli ulteriori costi economici della crisi bancaria. Ciò pone la Germania tra i paesi europei che hanno investito più denaro nei salvataggi bancari.

 

Tuttavia, ampie parti del settore bancario tedesco non versano in buone condizioni. Ciò vale in particolare per le istituzioni che sono state maggiormente colpite dalla crisi delle spedizioni navali. E vale anche per Deutsche Bank, la cui redditività già bassa è stata ulteriormente gravata da notevoli rischi legali. Le difficoltà nel settore bancario tedesco sono per la maggior parte di natura strutturale e sono solo parzialmente dovute alla politica dei tassi di interesse bassi della Banca centrale europea. Tuttavia, la politica al ribasso dei tassi d'interesse le sta esacerbando, poiché la pressione sui margini di interesse aumenta l'incentivo ad agire in modo più spregiudicato, non spesso nella forma di maggiori rischi. In ogni caso, visti i problemi del settore bancario tedesco, non ci sono molti motivi per guardare dall’alto in basso all'Italia.

 

Particolare preoccupazione è destata al momento dalla Norddeutsche Landesbank. In caso di crisi questa banca ricadrebbe sotto le nuove regole di risoluzione. Nel recente stress test si è rivelata una delle banche peggiori, mentre non c’era stato nulla da segnalare nei test precedenti. La debolezza della banca è spiegata dalla combinazione di una capitalizzazione relativamente debole e un'alta concentrazione di finanziamenti verso il settore navale, molti dei quali considerati in sofferenza. L'acquisizione completa della disastrata Bremer Landesbank ha peggiorato ulteriormente le difficoltà.

 

La fusione con Hessische Landesbank, che inizialmente era stata notevolmente spinta, non si è poi conclusa positivamente. Un aumento di capitale da parte del principale azionista, lo stato della Bassa Sassonia, presuppone la partecipazione di investitori privati, nell’eventualità non sia prevista l'attivazione di una procedura di aiuto di stato. Similmente alla situazione in cui si trova Banca Carige, tuttavia, la ricerca di un investitore è estremamente complessa. Uno dei motivi potrebbe essere dato dall’incentivo degli investitori ad aspettare fino all’imminente transazione per comprare le banche claudicanti a condizioni più favorevoli. Allo stesso tempo, la BCE sta aumentando la pressione sulla Norddeutsche Landesbank perché presenti un piano per migliorare la sua capitalizzazione.

 

Esiste un forte rischio che notevoli oneri finanziari posssano essere sostenuti non solo dalla proprietà ma anche dal gruppo di responsabilità pubblica. Gran parte dei costi causati dai problemi della Nord LB cadranno quindi direttamente o indirettamente sulle spalle del contribuente.  Sebbene il governo tedesco non si stanchi di denunciare la stretta condivisione del rischio tra banche e stati di altri paesi, non sembra essere altrettanto infastidito da un’attività statale a sostegno del settore bancario nazionale che non è paragonabile a quella di nessun altro paese nell’Eurozona.

 

Nuove politiche industriali discutibili

Ora il governo federale chiede una nuova politica industriale per il settore bancario. Le aziende tedesche globali avevano bisogno di un istituto che potesse accompagnarle all'estero. Per quale motivo ciò vada fatto da una banca tedesca, resta un segreto ben custodito. In ogni caso, l'affermazione non è nuova. Già nel 2004, Gerhard Schröder aveva richiesto un "campione nazionale" nel settore bancario e quindi, tra le altre cose, aizzato la commissione di monopolio contro sé stesso.

 

Quest’ultima sosteneva a quel tempo che il governo federale avrebbe probabilmente dimenticato la lezione della grande crisi bancaria del 1931, in cui anche le principali banche tedesche avevano svolto un ruolo centrale. Nella situazione attuale è tutto ancora più sorprendente. Dopotutto, l'ultima grande crisi finanziaria è avvenuta solo dieci anni fa. Ci si è già dimenticati quali enormi costi sono stati associati a questa crisi - proprio perché non è stata possibile la risoluzione delle banche in crisi - e che Commerzbank si è trovata in tali difficoltà principalmente a causa della fusione con Dresdner Bank, dovendo ricorrere ad aiuti di stato?

 

Fa riflettere, inoltre, che si pensi che le difficoltà delle più grandi banche tedesche dovrebbero essere eliminate creando un'istituzione ancora più grande. I reali vantaggi economici di una fusione tra Deutscher Bank e Commerzbank, a dire il vero, non sono così immediatamente riconoscibili. Invece di preoccuparsi dei salvataggi bancari italiani a spese dei contribuenti italiani, i media tedeschi, l'opinione pubblica e, soprattutto, i politici dovrebbero volgere lo sguardo ai loro problemi. È difficile capire come mai i giochi politici del governo federale trovino obiezioni esclusivamente negli ambienti specializzati.

 

Finché i responsabili politici non sono disposti, anche in periodi relativamente tranquilli, a chiudere le banche in difficoltà, a coinvolgere pienamente i creditori nelle perdite, mentre promuovono invece “campioni nazionali”, di risoluzione ancora più difficile in caso di crisi, è improbabile che in futuro si riuscirà ad evitare ulteriori salvataggi. Siamo molto lontani da una vera disciplina di mercato nel settore bancario.

 

Progressi attraverso l'Unione bancaria

Ciononostante, la creazione di una vigilanza bancaria europea comune e le nuove norme sulla risoluzione sono stati un passo significativo nella giusta direzione. Sebbene nel nuovo meccanismo non sia stata raggiunta la piena condivisione delle perdite con i creditori, alcune delle autorità di vigilanza della BCE non hanno reagito abbastanza rapidamente alle difficoltà nel settore bancario. Senza l'unione bancaria, tuttavia, i casi problematici più recenti avrebbero probabilmente comportato una minore partecipazione dei creditori. Almeno gli azionisti e i creditori subordinati non sono stati risparmiati questa volta. Inoltre, le sole autorità di vigilanza bancarie nazionali avrebbero probabilmente agito in maniera tardiva, il che avrebbe ritardato ancora di più le misure necessarie. Dopotutto, gli stress test dei supervisori europei hanno contribuito a identificare tempestivamente molte delle banche più problematiche.

 

Il governo federale ha intrapreso ulteriori iniziative per approfondire l'unione bancaria mettendo in primo piano il settore bancario. Questo è fondamentalmente corretto. È ipocrita, tuttavia, riferirsi sempre agli altri paesi. Invece, si dovrebbe iniziare da casa propria. C'è molto da fare.

 

27/01/19

La tesi di sinistra contro i confini aperti - I Parte

Com'è stato possibile che in questi ultimi anni la sinistra sia diventata propugnatrice delle tesi open border, nate all'interno dei circoli anarco-capitalisti e da sempre sostenute dai think tank della destra economica radicale? Come può non rendersi conto che la libertà di migrare, lungi dall'essere un diritto inviolabile dell'uomo, non è altro che una delle quattro libertà fondamentali di circolazione alla base della dottrina economica neoclassica - nello specifico quella della forza lavoro - e che come tale viene fortemente sostenuta proprio dal grande business? Questo lungo articolo tratto da American Affairs, che presentiamo in due puntate, cerca di spiegare i sommovimenti storici e culturali - che gettano come sempre le radici nella svolta reazionaria neoliberale degli anni '80, innescata dalle politiche di Reagan e della Tatcher - che hanno prodotto questa mutazione antropologica della sinistra, passata dalle tradizionali posizione anti-immigrazioniste legate al movimento operaio e sindacale all'accettazione dogmaticamente moralistica dei confini aperti.

 

Qua la Parte II

 

 

di Angela Nagel

 

 

Prima del "Costruite il muro!", c'era il "Butti giù questo muro!". Nel suo famoso discorso del 1987, Ronald Regan chiese che la "cicatrice" del Muro di Berlino fosse cancellata e ribadì che l'oltraggiosa restrizione alla circolazione che esso rappresentava equivaleva niente di meno che a una "questione di libertà per tutto il genere umano". Continuò dicendo che quelli che "rifiutavano di unirsi alla comunità della libertà" sarebbero "stati superati" come risultato dell'irresistibile forza del mercato globale. E così fu. Per celebrare, Leonard Bernstein ha diretto una rappresentazione dell'"Inno alla gioia" e Roger Waters si è esibito in "The Wall". Le barriere alla mobilità del lavoro e dei capitali crollarono in tutto il mondo; fu dichiarata la fine della storia; e seguirono decenni di globalizzazione dominata dagli Stati Uniti.

 

Nei suoi 29 anni di esistenza, circa 140 persone sono morte cercando di superare il Muro di Berlino. Nel mondo promesso della libertà e della prosperità economiche globali, sono morte 412 persone soltanto l'anno scorso nel tentativo di attraversare il confine tra Messico e Stati Uniti, e più di tremila sono morte l'anno prima nel Mediterraneo. Delle canzoni pop e dei film di Hollywood sulla libertà non c'è traccia. Cosa è andato storto?

 

Naturalmente, il progetto reaganiano non si concluse col crollo dell'Unione Sovietica. Reagan - e i suoi successori di entrambi i partiti - ha usato la stessa retorica trionfalistica per vendere lo svuotamento dei sindacati, la liberalizzazione delle banche, l'espansione delle esternalizzazioni, e la globalizzazione dei mercati lontano dal peso morto degli interessi economici nazionali.

 

Per questo progetto è stato centrale l'attacco neoliberale alle barriere nazionali alla circolazione della forza lavoro e dei capitali. In casa, Reagan sovrintese a una delle più significative riforme a favore dell'immigrazione nella storia americana, il "Reagan Amnesty" del 1986, che ampliò il mercato del lavoro permettendo a milioni di migranti illegali di ottenere uno status legale.

 

Inizialmente, i movimenti popolari che lottavano contro differenti elementi di questa visione post-Guerra Fredda insorsero da sinistra, nella forma di movimenti anti-globalizzazione e successivamente di Occupy Wall Street. Ma, mancando del potere negoziale per sfidare il capitale internazionale, questi movimenti di protesta non si risolsero in nulla. Il sistema economico globalizzato e finanziarizzato ha tenuto nonostante tutte le devastazioni che ha provocato, anche durante la crisi finanziaria del 2008.

 

Oggi, il movimento anti-globalizzazione di gran lunga più visibile ha preso la forma di una forte reazione contro i migranti, guidata da Donald Trump e altri "populisti". La sinistra, nel frattempo, non sembra avere altre opzioni che ritrarsi inorridita dal "Muslim ban" di Trump e dalle nuove storie sull'ICE che bracca le famiglie di migranti; può soltanto reagire contro qualsiasi cosa Trump stia facendo. Se Trump è a favore dei controlli sull'immigrazione, la sinistra chiederà l'opposto. E così oggi i discorsi sui "confini aperti" sono entrati nel dibattito liberale mainstream, quando una volta erano confinati ai think tank radicali del libero mercato e ai circoli anarco-libertari.

 

Anche se nessun importante partito politico di sinistra sta offrendo proposte concrete per una società realmente senza confini, accogliendo gli argomenti morali della sinistra open-border e gli argomenti economici dei think tank del libero mercato, la sinistra si è messa all'angolo. Se "nessun essere umano è illegale!", come affermano i canti di protesta, la sinistra sta implicitamente accettando la tesi morale a favore di nessuna frontiera o sovranità nazionale. Ma quali implicazioni avrà l'immigrazione illimitata su progetti come la sanità e l'educazione pubbliche universali, o la garanzia dei lavori federali? E come potranno i progressisti spiegare questi obiettivi in modo convincente all'opinione pubblica?

 

Durante la campagna delle primarie democratiche del 2016, quando il redattore di Vox Ezra Klein suggerì le politiche open border a Bernie Sanders, il senatore com'è noto dimostrò la sua età rispondendo: "Confini aperti? No. Quella è una proposta dei fratelli Koch" [1]. Questo per un attimo portò confusione nella narrazione ufficiale, e Sanders fu velocemente accusato di "parlare come Donald Trump". Sotto le differenze generazionali rivelate da questo scambio, in ogni caso, c'è un tema più grande. La distruzione e l'abbandono delle politiche del lavoro implicano che, al momento, i temi dell'immigrazione possano essere messi in scena soltanto all'interno della cornice di una cultura di guerra, combattuta interamente sul terreno morale. Nelle intense emozioni del dibattito pubblico americano sulla migrazione, prevale una semplice dicotomia morale e politica. È "di destra" essere "contro l'immigrazione" e "di sinistra" essere "a favore dell'immigrazione". Ma l'economia della migrazione racconta una storia diversa.

 

GLI UTILI IDIOTI

 

La trasformazione della posizione open border in una posizione di "sinistra" è un fenomeno del tutto nuovo ed è in contrasto con la storia della sinistra organizzata in diversi modi fondamentali. I confini aperti sono da lungo tempo un grido di battaglia per la destra degli affari e del libero mercato. Attingendo da economisti neoclassici, questi gruppi hanno sostenuto la liberalizzazione della migrazione sulla base della razionalità del mercato e della libertà economica. Si oppongono ai limiti alla migrazione per le stesse ragioni per cui si oppongono alle restrizioni sui movimenti di capitali. Il Cato Institute, finanziato dai Koch, che promuove anche l'abolizione delle restrizioni legali sul lavoro minorile, ha prodotto una difesa radicale delle frontiere aperte per decenni, sostenendo che il sostegno alle frontiere aperte è un principio fondamentale del libertarismo e "Dimenticate il muro, è già tempo che gli Stati Uniti abbiano confini aperti" [2]. L'Adam Smith Institute ha fatto lo stesso, sostenendo che "le restrizioni all'immigrazione ci rendono più poveri" [3].

 

Seguendo Reagan e figure come Milton Friedman, George W. Bush ha sostenuto la liberalizzazione della migrazione prima, durante e dopo la sua presidenza. Grover Norquist, zelante difensore dei tagli fiscali di Trump (e di Bush e di Reagan), per anni si è scagliato contro l'intolleranza dei sindacati, ricordandoci che "l'ostilità verso l'immigrazione è stata tradizionalmente una causa sindacale" [4].

 

Non ha torto. Dalla prima legge che limitava l'immigrazione nel 1882 a Cesar Chavez e ai famosi lavoratori multietnici della United Farm che protestavano contro l'uso e l'incoraggiamento, da parte dei datori di lavoro, dell'emigrazione illegale nel 1969, i sindacati si sono spesso opposti alla migrazione di massa. Videro l'importazione deliberata di lavoratori illegali a basso salario come un indebolimento del potere contrattuale della forza lavoro e come forma di sfruttamento. Non c'è modo di aggirare il fatto che il potere dei sindacati dipende per definizione dalla loro capacità di limitare e ritirare l'offerta di lavoro, cosa che diventa impossibile se un'intera forza lavoro può essere sostituita facilmente ed economicamente. Le frontiere aperte e l'immigrazione di massa sono una vittoria per i padroni.

 

E i padroni la supportano quasi universalmente. Il think tank e organizzazione di lobbying di Mark Zuckerberg, Forward, che promuove la liberalizzazione delle politiche migratorie, elenca tra i suoi "fondatori e finanziatori" Eric Schmidt e Bill Gates, nonché amministratori delegati e dirigenti di YouTube, Dropbox, Airbnb, Netflix, Groupon, Walmart , Yahoo, Lyft, Instagram e molti altri. La ricchezza personale cumulata rappresentata da questa lista è sufficiente a influenzare pesantemente la maggior parte delle istituzioni di governo e dei parlamenti, se non a comprarli del tutto. Sebbene spesso celebrati dai progressisti, le motivazioni di questi miliardari "liberali" sono chiare. Non dovrebbe sorprendere la loro generosità verso i repubblicani dogmaticamente schierati contro il lavoro, come Jeff Flake della famosa "Gang of Eight".

 

Certo, l'opposizione sindacale alla migrazione di massa nelle epoche precedenti è stata a volte mescolata con il razzismo (che era presente in tutta la società americana). Ciò che viene omesso nei tentativi dei libertari di diffamare i sindacati come "i veri razzisti", tuttavia, è che ai tempi dei sindacati forti, questi erano in grado di usare il loro potere anche per organizzare campagne di solidarietà internazionale con i movimenti dei lavoratori in tutto il mondo. I sindacati hanno aumentato i salari di milioni di membri non bianchi, mentre oggi si stima che la de-sindacalizzazione costi ai maschi neri americani 50 dollari a settimana [5].

 

Durante la rivoluzione neoliberale di Reagan, il potere sindacale subì un duro colpo dal quale non si è mai più ripreso e i salari sono rimasti fermi per decenni. Sotto questa pressione, la sinistra stessa ha subito una trasformazione. In assenza di un potente movimento operaio, è rimasta radicale nella sfera della cultura e della libertà individuale, ma può offrire poco più di proteste inoffensive e appelli al noblesse oblige nella sfera dell'economia.

 

Con le immagini oscene di migranti a basso reddito che vengono braccati come criminali dall'ICE, di altri che affogano nel Mediterraneo, e la preoccupante crescita del sentimento anti-immigrazione in tutto il mondo, è facile capire perché la sinistra vuole impedire che i migranti illegali diventino bersagli e vittime. E con ragione. Ma agendo sulla base del giusto impulso morale a difendere la dignità umana dei migranti, la sinistra ha finito per trascinare la linea del fronte troppo indietro, difendendo efficacemente lo stesso sistema di sfruttamento della migrazione.

 

I benintenzionati attivisti di oggi sono diventati gli utili idioti del grande business. Adottando la difesa dei "confini aperti" - e un feroce assolutismo morale che considera ogni limite alla migrazione come un male indicibile - qualsiasi critica al sistema di sfruttamento delle migrazioni di massa viene effettivamente respinta come bestemmia. Persino politici saldamente di sinistra, come Bernie Sanders negli Stati Uniti e Jeremy Corbyn nel Regno Unito, sono accusati di "nativismo" dai critici se riconoscono a un certo punto la legittimità delle frontiere o delle restrizioni sulla migrazione. Questa radicalismo delle frontiere aperte in definitiva giova alle élite dei paesi più potenti del mondo, indebolisce ulteriormente il lavoro organizzato, deruba il mondo in via di sviluppo di professionisti di cui ha disperato bisogno e mette i lavoratori contro i lavoratori.

 

Ma la sinistra non ha bisogno di credermi sulla parola. Basta chiedere a Karl Marx, la cui posizione sull'immigrazione lo farebbe bandire dalla sinistra moderna. Anche se la velocità e le dimensioni attuali dei fenomeni di migrazione sarebbero stati impensabili ai tempi di Marx, egli espresse una visione estremamente critica degli effetti della migrazione che si verificò nel diciannovesimo secolo. In una lettera a due dei suoi compagni di viaggio americani, Marx sosteneva che l'importazione di immigrati irlandesi poco pagati in Inghilterra li costringeva a una concorrenza ostile con i lavoratori inglesi. Lo vedeva come parte di un sistema di sfruttamento, che divideva la classe operaia e che rappresentava un'estensione del sistema coloniale. Scrisse:

 

A causa della concentrazione sempre crescente delle locazioni, l'Irlanda invia costantemente il proprio surplus umano al mercato del lavoro inglese, e quindi fa scendere i salari e riduce la posizione materiale e morale della classe operaia inglese.


 

E la cosa più importante di tutte! Ogni centro industriale e commerciale in Inghilterra ora possiede una classe operaia divisa in due campi ostili, proletari inglesi e proletari irlandesi. Il comune lavoratore inglese odia il lavoratore irlandese come un concorrente che abbassa il suo tenore di vita. Rispetto all'operaio irlandese, si considera membro della nazione dominante e conseguentemente diventa uno strumento dell'aristocrazia e dei capitalisti inglesi contro l'Irlanda, rafforzando così il loro dominio su se stesso. Ama i pregiudizi religiosi, sociali e nazionali contro il lavoratore irlandese. Il suo atteggiamento nei suoi confronti è molto simile a quello dei "bianchi poveri" verso i negri negli ex stati schiavisti degli Stati Uniti. L'irlandese lo ripaga con gli interessi nella propria moneta. Vede nell'operaio inglese sia il complice che lo stupido strumento dei governanti inglesi in Irlanda.


 

Questo antagonismo è artificialmente tenuto in vita e intensificato dalla stampa, dal pulpito, dai fumetti, in breve, da tutti i mezzi a disposizione delle classi dominanti. Questo antagonismo è il segreto dell'impotenza della classe operaia inglese, nonostante la sua organizzazione. È il segreto con cui la classe capitalista mantiene il suo potere. E quest'ultima è abbastanza consapevole di questo [6].


 

Marx continuava dicendo che la priorità per l'organizzazione dei lavoratori in Inghilterra era "far capire agli inglesi che per loro l'emancipazione nazionale dell'Irlanda non è una questione di giustizia astratta o di sentimento umanitario, ma la prima condizione della loro emancipazione sociale". Qui Marx ha indicato la strada per un approccio che oggi difficilmente si trova. L'importazione di manodopera sottopagata è uno strumento di oppressione che divide i lavoratori e beneficia chi ha il potere. La risposta adeguata, quindi, non è un moralismo astratto sull'accoglienza di tutti i migranti come un atto immaginario di carità, ma piuttosto affrontare le cause profonde della migrazione nel rapporto tra le economie grandi e potenti e le economie più piccole o in via di sviluppo da cui le persone migrano.

 

IL COSTO UMANO DELLA GLOBALIZZAZIONE

 

I sostenitori delle frontiere aperte spesso trascurano i costi della migrazione di massa per i paesi in via di sviluppo. In effetti, la globalizzazione crea spesso un circolo vizioso: le politiche commerciali liberalizzate distruggono l'economia di una regione, che a sua volta porta all'emigrazione di massa da quella zona, erodendo ulteriormente il potenziale del paese di origine e deprimendo i salari per i lavoratori meno pagati nel paese di destinazione. Una delle principali cause della migrazione di manodopera dal Messico agli Stati Uniti è stata la devastazione economica e sociale causata dall'Accordo Nord Americano di Libero Scambio (NAFTA). Il Nafta costrinse gli agricoltori messicani a competere con l'agricoltura americana, con conseguenze disastrose per il Messico. Le importazioni messicane sono raddoppiate e il Messico ha perso migliaia di allevamenti di suini e coltivatori di mais a favore della concorrenza statunitense. Quando i prezzi del caffè sono scesi al di sotto del costo di produzione, il Nafta ha proibito l'intervento statale per mantenere a galla i coltivatori. Inoltre, alle società statunitensi è stato permesso di acquistare infrastrutture in Messico, tra cui, ad esempio, la principale linea ferroviaria nord-sud del paese. La ferrovia quindi interruppe il servizio passeggeri, determinando la decimazione della forza lavoro ferroviaria dopo aver schiacciato uno sciopero selvaggio. Nel 2002, i salari messicani erano diminuiti del 22%, anche se la produttività degli operai aumentava del 45% [7]. In regioni come Oaxaca, l'emigrazione devastò le economie e le comunità locali, mentre gli uomini emigrarono per lavorare nelle fattorie e nei macelli dell'America, lasciandosi alle spalle donne, bambini e anziani.

 

E che dire della consistente forza lavoro qualificata e dei colletti bianchi emigrati? Nonostante la retorica sui "paesi cesso" o sulle nazioni "che non mandano i migliori", il prezzo della fuga di cervelli per le economie in via di sviluppo è stato enorme. Secondo le cifre del Census Bureau per il 2017, circa il 45% dei migranti che sono arrivati ​​negli Stati Uniti dal 2010 ha un'istruzione superiore [8]. I paesi in via di sviluppo stanno lottando per far restare i propri cittadini qualificati e i professionisti, spesso istruiti con un costo elevato per le finanze pubbliche, perché economie più ricche e più grandi che dominano il mercato globale hanno la ricchezza per prenderli. Oggi il Messico è anche uno dei maggiori esportatori al mondo di professionisti istruiti, e la sua economia soffre di un persistente "deficit di occupazione qualificata". Questa ingiustizia nello sviluppo non è certamente limitata al Messico. Secondo la rivista Foreign Policy, "ci sono più medici etiopi che praticano a Chicago oggi che in tutta l'Etiopia, un paese di 80 milioni di persone" [9]. Non è difficile capire perché le élite politiche ed economiche dei paesi più ricchi del mondo vorrebbero che il mondo "mandasse il suo meglio", indipendentemente dalle conseguenze per il resto del mondo. Ma perché la sinistra moralista a favore dei confini aperti fornisce un volto umanitario a questo puro e semplice egoismo?

 

Secondo le migliori analisi dei flussi di capitali e della ricchezza globale di oggi, la globalizzazione sta arricchendo le persone più ricche dei paesi più ricchi a spese dei più poveri, e non viceversa. Alcuni lo hanno chiamato "aiuti al rovescio". Miliardi di pagamenti di interessi sul debito passano dall'Africa alle grandi banche di Londra e New York. La grande ricchezza privata viene generata ogni anno in industrie estrattive di materie prime e attraverso l'arbitraggio del lavoro, e rimpatriata verso le nazioni ricche in cui sono basate le multinazionali. Fughe di capitali di trilioni di dollari si verificano perché le multinazionali approfittano dei paradisi fiscali e delle giurisdizioni segrete, rese possibili dalla liberalizzazione per mano dell'Organizzazione Mondiale del Commercio dei regolamenti sulla fatturazione "inefficienti per il commercio" e di altra politiche [10].

 

La disuguaglianza della ricchezza globale è il principale fattore di spinta che guida la migrazione di massa e la globalizzazione del capitale non può essere separata da questa materia. C'è anche l'effetto di richiamo dei datori di lavoro sfruttatori negli Stati Uniti, che cercano di trarre profitto da lavoratori non sindacalizzati e con salari bassi in settori come l'agricoltura, nonché attraverso l'importazione di una grande forza lavoro impiegatizia già addestrata in altri paesi. Il risultato netto è una popolazione stimata di undici milioni di persone che vivono illegalmente negli Stati Uniti.

 

NOTE

[1] Ezra Klein, “Bernie Sanders: The Vox Conversation,” Vox, July 28, 2015.

[2] Jeffrey Miron, “Forget the Wall Already, It’s Time for the U.S. to Have Open Borders,” USA Today, July 31, 2018.

[3] Sam Bowman, “Immigration Restrictions Make Us Poorer,” Adam Smith Institute, April 13, 2011.

[4] Grover G. Norquist, “Samuel Gompers versus Reagan,” American Spectator, Sept. 25, 2013.

[5] Bhaskar Sunkara, “What’s Your Solution to Fighting Sexism and Racism? Mine Is: Unions,” Guardian, Sept. 1, 2018.

[6] David L. Wilson, “Marx on Immigration,” Monthly Review, Feb. 1, 2017.

[7] David Bacon, “Globalization and nafta Caused Migration from Mexico,” People’s World, Oct. 15, 2014.

[8] Gustavo López, Kristen Bialik, and Jynnah Radford, “Key Findings about U.S. Immigrants,” Pew Research Center, Sept. 14, 2018.

[9] Kate Tulenko, “Countries without Doctors?,” Foreign Policy, June 11, 2010.

[10]Jason Hickel, “Aid in Reverse: How Poor Countries Develop Rich Countries,” Guardian, Jan. 14, 2017.

26/01/19

NYT – La grande emorragia della Grecia

I dati snocciolati da questo articolo di Nikos Konstandaras, giornalista greco, pubblicato sul New York Times, mostrano un Paese di fatto colonizzato, ridotto a eterno debitore sotto tutela, come un tempo avveniva solo ad alcuni stati africani post-coloniali. La Grecia resterà sotto “stretta supervisione” dei creditori fino al 2060, finché non avrà pagato tutti i debiti, mentre i suoi cittadini vengono vessati, espropriati per pagare gli arretrati a un sistema fiscale diventato predatorio. Intere generazioni vivranno nella servitù del debito. I crediti inesigibili sono esplosi in mano al sistema bancario, che non riesce più a finanziare investimenti. Chi può emigra, ma a differenza del passato oggi non si tratta di lavoratori poco qualificati, bensì di professionisti a cui lo stato greco ha pagato la formazione universitaria e post-universitaria a caro prezzo.

 

 

 

di Nikos Konstandaras, 10 gennaio 2019

 

Il governo greco, formato dalla coalizione tra un movimento di sinistra radicale e un partito nazionalista di destra, al potere dal 2015, lo scorso agosto ha festeggiato la fine del terzo accordo di salvataggio per il Paese come un “ritorno alla normalità”. I nostri partner dell’Unione Europea e i creditori, che hanno sborsato 288,7 miliardi di euro di prestiti durante gli scorsi anni, si sono affrettati a cantare vittoria rispetto alla crisi iniziata nel 2010.

 

Tutti vogliono vedere la fine della crisi greca, non ultimo il popolo greco, esausto dalla lunga e grave depressione, dalla continua austerità e da riforme di cui non hanno visto i benefici.

 

Ma la Grecia è ben lontana dalla “normalità”. Molto è stato fatto per rendere l’economia sostenibile, ma il Paese ha bisogno di un nuovo boom di fiducia e di attività imprenditoriale. La ripresa ha bisogno di importanti investimenti, di stabilità politica e di ulteriori riforme della pubblica amministrazione. Nel frattempo però non solo il debito pubblico è aumentato rispetto al 2009, ma anche i redditi dei cittadini sono crollati, i loro beni si sono svalutati, le proprietà sono andate perdute e i debiti moltiplicati.

 

Le elezioni nazionali si dovranno tenere entro l’autunno. I sondaggi mostrano che il partito di opposizione Nuova Democrazia, di centro-destra, è in vantaggio su Syriza, il principale partito della coalizione di governo, in una contesa che sta già facendo peggiorare la polarizzazione della nostra politica [ovvero della politica greca, ndT]. Il governo, che si è sempre trovato in una posizione di disagio a causa dell’austerità e delle riforme, ha promesso di elargire aiuti. L’opposizione promette invece di rovesciare le politiche e le decisioni sulle quali non è d’accordo.

 

In una drammatica manifestazione di sfiducia, più di 700.000 persone hanno lasciato la Grecia dal 2010 a oggi, in cerca di opportunità all’estero. Il numero delle morti supera il numero delle nascite, dato che le persone hanno meno figli o non hanno più il coraggio di averne del tutto. Recenti ricerche suggeriscono che se i tassi attuali rimanessero costanti, la popolazione greca, che contava 10,9 milioni di persone nel 2015, diminuirebbe di un numero tra 800.000 e 2,5 milioni di unità entro il 2050. La forza lavoro è attualmente di 4,7 milioni di persone. Una minore popolazione in età lavorativa dovrà sostenere un numero crescente di pensionati, e con la minore crescita e il minore gettito fiscale si dovrebbero coprire i costi crescenti della previdenza sociale.

 

La crisi ha colpito le imprese. Una diminuzione della domanda interna, condizioni di credito più restrittive, controlli sui capitali, incertezza politica e delocalizzazione all’estero hanno portato le piccole e medie imprese a dimezzare la propria produzione. Queste aziende sono la linfa vitale dell’economia, generano un quarto del PIL e rappresentano il 76 percento dell’occupazione nel paese.

 

Con un timido ritorno alla crescita nel 2017 le aziende hanno cominciato a recuperare. Nei primi sei mesi del 2018 le 153 aziende quotate in borsa all’Athens Stock Exchange riportavano profitti (al lordo delle tasse) per 957 milioni di euro, secondo quanto riportato dall’ICAP. Se messe a confronto con il debito pubblico, però, questo dato indica solo la grandezza della sfida che i greci dovranno affrontare nei prossimi anni.

 

Nel 2009 il debito pubblico raggiungeva i 299,7 miliardi di euro, ovvero il 130 percento del PIL. Da allora la Grecia ha preso in prestito 288,7 miliardi di euro dagli stati membri e dalle istituzioni dell’Unione Europea, nonché dal Fondo Monetario Internazionale. Poi nel 2012 c’è stata una ristrutturazione del debito di 107 miliardi di euro. Nonostante ciò, nel 2018 il debito pubblico era a 357,25 miliardi di euro, cioè un valore più elevato di quello che già la Grecia era incapace di sostenere prima della crisi.

 

Alcuni indicatori suggeriscono che la Grecia sia sulla giusta strada. La disoccupazione è scesa al 18,3 percento rispetto al picco massimo del 27,9 percento del 2013. Nel 2018 si è stimato che il surplus primario abbia superato gli obiettivi imposti dai creditori per il terzo anno di fila. Ma questo si è potuto ottenere a un costo elevato: il ritardo dei pagamenti dello Stato verso privati e aziende, nonché ulteriori tagli alla spesa sociale, agli ospedali e ad altri servizi.

 

La stretta proseguirà ancora per decenni, con la Grecia impegnata a raggiungere un surplus annuale del 3,5 per cento fino al 2022, e ad essere ancora sotto stretta supervisione finché non avrà ripagato tutti i prestiti nel 2060, secondo gli impegni presi. Il problema è complicato dall’enorme aumento del debito privato. Quasi metà dei prestiti totali che devono essere restituiti alle quattro maggiori banche del Paese, per un totale di circa 86 miliardi di euro, sono inesigibili o quasi. Questo impedisce alle banche stesse di iniettare liquidità nell’economia. Le aziende che tentano di prendere a prestito capitale dall’estero si trovano ad affrontare elevati tassi di interesse.

 

Circa 4,2 milioni di persone hanno debiti in arretrato da restituire allo Stato, con debiti fiscali di circa 103 miliardi di euro. Le autorità hanno già confiscato salari, pensioni e beni privati a oltre un milione di persone. I debiti scaduti verso i fondi di sicurezza sociale ammontano attualmente a 34,4 miliardi di euro.

 

Con tasse più che mai elevate e quasi metà dei nuovi posti di lavoro che consistono in part-time sottopagati o lavoro a turni, questi debiti non potranno che aumentare. Sempre più persone vengono classificate come a rischio di povertà o esclusione sociale (nel 2017 era il 34,8 percento della popolazione) rispetto a prima della crisi (27,7 percento).

 

I poveri sono diventati più poveri e la classe media è in grave difficoltà, schiacciata da un fardello crescente. Le tasse sulle proprietà sono aumentate, arrivando a 3,7 miliardi di euro nel 2017 rispetto ai circa 600 milioni di prima della crisi. Il 19 per cento dei contribuenti apporta circa il 90 per cento del gettito fiscale, secondo quanto ammesso dal primo ministro Alexis Tsipras. Il diminuito valore delle proprietà riflette l’aumento delle tasse e la diminuzione delle rendite. Gli appartamenti hanno perso in media il 41 per cento del loro valore tra il 2007 e il 2017, secondo la Banca Centrale Greca.

 

La necessità di pagare le tasse e di adempiere ad altri obblighi finanziari ha portato a un crollo dei depositi privati presso le banche greche: sono arrivati a 131,4 miliardi di euro lo scorso novembre, rispetto ai 237,8 miliardi del 2009. Molte persone sono state costrette a vendere i gioielli di famiglia e altri valori per sopravvivere. Le agenzie di pegni e i “compro oro” hanno aumentato enormemente il loro giro di affari nel Paese, fondendo gioielleria e altri oggetti in lingotti d’oro.

 

La polizia ha recentemente arrestato parecchie persone sospettate di trafficare oro verso la Turchia. Il giro d’affari giornaliero valeva una media di 400.000 euro al giorno, ovvero l’equivalente di circa 11 chili di oro al giorno. Si è poi scoperto che i trafficanti non avevano i permessi di esportazione verso la Turchia. L’indagine, però, ha gettato luce anche su aspetti più personali e meno visibili della crisi.

 

Ma l’ambito nel quale si vede più nettamente la gravità dell’emorragia della Grecia è l’abbandono del Paese da parte dei giovani. La Grecia in passato ha già visto emigrazioni di massa, quando la povertà, la guerra, la dittatura e la mancanza di prospettive hanno spinto le persone, soprattutto quelle meno qualificate, a cercare fortuna in America, Australia, Africa, o altrove in Europa. Questa volta, però, la maggior parte di quelli che partono privano il Paese delle proprie elevate competenze e, con esse, degli stessi investimenti nazionali. Il 92 per cento di coloro che emigrano sono laureati presso università o alte scuole tecniche, e il 64 per cento del totale ha titoli di studio post-laurea, come il dottorato, secondo un sondaggio della ICAP su 1.068 greci emigrati in 61 paesi. Circa 18.000 medici hanno lasciato il Paese nel corso della crisi: ciascuno di loro è costato alla Grecia, in termini di formazione, 85.000 euro, secondo l’Associazione Medica di Atene.

 

Il paradosso è che la Grecia forma professionisti a costi molto elevati, ma poi non può offrire loro alcuna stabilità o opportunità, di cui hanno bisogno per trovare occupazione. Questo porta beneficio solo ai paesi che accolgono gli emigranti greci, e danneggia la crescita della Grecia stessa, dove le aziende non riescono a trovare impiegati con le competenze necessarie. Inoltre, quando i giovani si trovano a lungo fuori dalla forza lavoro non acquisiscono nessuna esperienza dai più anziani, e questo porta a un’ulteriore distruzione di competenze e a una minore produttività.

 

In maggio le elezioni nell’Unione Europea non determineranno solo l’appartenenza al Parlamento Europea, ma anche chi dovrà guidare il suo corpo esecutivo, la Commissione Europea. Inoltre, verrà scelto un nuovo presidente della Banca Centrale Europea.

 

In un mondo sempre più instabile, nessuno vuole che la crisi greca sia ancora al centro dei programmi politici. Ma la crisi del Paese è lungi dall’essere finita. La ripresa dipenderà dagli sforzi degli stessi greci e dal sostegno di un’Unione Europea determinata a funzionare anziché a cedere alle divisioni. Quest’anno si vedrà verso quale direzione la Grecia e l’Unione Europea nel suo insieme vorranno andare.

24/01/19

Il Trattato di Aix-la-Chapelle sancisce la frattura tra i leader e i loro popoli


  1. Lo storico francese Edouard Husson, direttore della prestigiosa École supérieure de commerce de Paris, fondata a Parigi nel 1809 da Jean Baptiste Say, manifesta sul sito Atlantico le sue fondamentali perplessità sul nuovo Trattato franco-tedesco. Lo storico francese pone importanti domande che dovrebbero essere oggetto di aperto dibattito anche qui in Italia, da quella sull'opportunità di un trattato a due paesi all'interno di una Unione a 27, alle questioni geopolitiche derivanti dall'accesso della Germania alla forza nucleare francese, per finire con l'incredibile paradosso di due leader politicamente finiti all'interno dei loro paesi che con un balzo del gatto morto tentano di imporre una svolta di portata epocale. Il referendum in Francia è d'obbligo, e non crediamo proprio che i francesi su questo possano soprassedere


 




























  1. di Edouard Husson, 20 gennaio 2019


 

 

 

 

 

 

 

 

Alla chetichella, il 22 gennaio 2019 il presidente francese Emmanuel Macron si reca ad Aquisgrana, in Germania, per firmare un trattato con la cancelliera tedesca Angela Merkel allo scopo di rilanciare l'integrazione tra Francia e Germania.

 

La portata di questo trattato non può essere sottovalutata.

 

Gli utenti della rete che hanno richiesto la pubblicazione del testo avevano ragione. Il testo firmato dal capo di stato francese e dal capo del governo tedesco tocca questioni esistenziali per entrambi i paesi. Parla, infatti, dall'inizio alla fine, della sovranità. E fa una scelta, quella della sovranità franco-tedesca.


Il lettore potrà consultare il testo e studiare i vari dettagli:

 

- Si parla di una politica di difesa e di una politica estera franco-tedesca. Ciò include l'impegno di entrambi i paesi a sostenersi a vicenda in caso di un attacco. E un impegno dalla Francia a sostenere la pretesa tedesca di avere un seggio permanente al Consiglio di sicurezza.

 

- Il testo parla della creazione di euro-distretti frontalieri tra i due paesi (da qui la voce che circolava sull'abbandono dell'Alsazia un secolo dopo la fine della prima guerra mondiale).

 

- Leggiamo l'annuncio di un consiglio economico di esperti, indipendente da entrambi i governi. In linea generale, con la firma di questo trattato, Francia e Germania si impegnano a rafforzare le attuali dinamiche dell'integrazione economica europea. All'inizio e alla fine, gli autori del testo fanno anche degli strappi alla abituale sobrietà dei testi internazionali, parlando di una "convergenza economica e sociale dal basso verso l'alto all'interno dell'Unione europea". Ancora più sorprendente, nel mezzo della crisi dei Gilet Gialli, il presidente francese ha insistito per riaffermare, in un testo firmato solennemente con la Germania, l'impegno francese conseguente al Cop21 (Conferenza di Rio sui cambiamenti climatici).


 

Le questioni che portano inevitabilmente a un referendum

 

I francesi sono stati chiamati a votare sul Trattato di Maastricht e sul Trattato Costituzionale europeo. Visto che la portata di questo trattato franco-tedesco non è inferiore a quella dei due trattati sui quali la Francia è stata chiamata a decidere, è indispensabile che ci sia un referendum. In questo caso, non sarebbe un referendum "su iniziativa dei cittadini", ma rientrerebbe nel normale funzionamento della Repubblica stabilito dal generale de Gaulle: il popolo francese dovrà essere consultato su un testo che, per come è formulato, lascia aperte questioni di grande importanza. Mi limiterò qui a formularne alcune:

 

1. È opportuno nei confronti degli altri paesi membri dell'Unione europea firmare un trattato specifico franco-tedesco? Nel 1963, il Trattato dell'Eliseo fu un ripiego dopo il fallimento del piano Fouchet. Nel 2019, c'è ancora spazio per giocare una carta "franco-tedesca"? Francia e Germania possono avere una politica specifica nella zona euro? Ha ancora senso parlare di "motore franco-tedesco"? È interesse della Francia inviare all'Europa mediterranea o all'Europa centrale e orientale il segnale di voler dare priorità, qualunque cosa accada, alla relazione franco-tedesca?

 

1. Quando si dice che i due Stati possono fare ricorso alla "forza armata" per aiutarsi a vicenda, questo include, nel caso francese, la forza nucleare? Sappiamo che negli ultimi mesi sono state condotte intense riflessioni su questo argomento ad alto livello tra Parigi e Berlino. Alcuni esperti hanno persino spinto per la messa a disposizione della forza d'attacco francese alla Germania. Questa non è una domanda banale. Può portare rapidamente al deterioramento delle relazioni della Francia con gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e la Russia, dal momento che sarebbe una messa in discussione dei trattati internazionali con cui la Germania si è impegnata a non possedere l'arma nucleare.

 

1. Che cosa ottiene la Francia in cambio del suo sostegno alla candidatura tedesca a un seggio permanente nel Consiglio di sicurezza? Non vediamo nulla di equivalente nel testo, da parte tedesca. Una regola fondamentale della diplomazia è l'equilibrio delle concessioni o dei benefici concessi. La rappresentanza nazionale e, a maggior ragione, il popolo francese, dovranno chiedersi se il trattato mantenga un equilibrio di contributi tra i due paesi.

 

1. Le formule piuttosto vaghe sul rafforzamento dell'Unione economica e monetaria fanno sì che il signor Macron abbia finalmente ottenuto dalla Germania questo governo economico della zona euro cui il nostro paese aveva rinunciato durante la negoziazione del trattato di Maastricht? Stiamo andando verso quello che è l'unico modo per perpetuare l'euro, vale a dire la messa in comune dei debiti a livello dell'eurozona? E, ancora, questo argomento è stato discusso tra Francia, Germania e i loro partner della zona euro?

 

1. La creazione degli euro-distretti lascia aperta la possibilità alla Francia di chiudere i suoi confini, in caso di una grave crisi? Questo è un esempio puramente teorico, ma immaginiamo che la Germania abbia lasciato entrare nel suo territorio dei terroristi e non si prenda cura di seguirli. La Francia sarà libera di mettere la sua sicurezza prima degli impegni derivanti dal trattato franco-tedesco?

 

1. I parlamenti dei due paesi avranno il diritto di decidere e controllare l'uso dei fondi destinati ai distretti dell'euro? Più fondamentalmente, l'idea di rendere autonomi dei livelli di governo regionali è compatibile con l'integrità del territorio repubblicano definito dalla Costituzione?

 

1. La consultazione permanente tra i due paesi significa che il signor Macron o i suoi successori, quando dovranno annunciare misure finanziarie di emergenza, come è avvenuto il 10 dicembre, dovranno chiedere il parere del Governo tedesco? E in direzione opposta, i successori della signora Merkel saranno pronti a conformarsi se un governo francese non è d'accordo, per esempio su una misura della portata di un'uscita dall'industria nucleare, come deciso dalla Merkel nel 2011?

 

1. Dato che la crisi dei Gilet Gialli è stata direttamente innescata da misure fiscali giustificate dalla "transizione energetica", cosa significa per il nostro paese riaffermare l'impegno dei due paesi nei confronti dell'ambiente?

 

1. I due governi possono pubblicare integralmente tutti i verbali delle discussioni che hanno preceduto il trattato di Aix-La-Chapelle?

 

Un Trattato che rischia di suggellare la frattura tra i governi e i loro popoli

 

È quanto meno paradossale che un trattato di questa portata sia firmato dal presidente francese e dal cancelliere tedesco in un momento così speciale per i due paesi. La cancelliera è profondamente indebolita politicamente e sappiamo che i suoi giorni a capo del governo tedesco sono contati. Ed è significativo il fatto che la signora Kramp-Karrenbauer, nuovo presidente della CDU e probabile successore della Merkel, intervistata da Le Monde sul progetto di trattato, non dica "Sono stata consultata", ma "Trovo questo o quel passaggio di buon auspicio". Allo stesso modo, in Francia, Emmanuel Macron non si assume un rischio enorme a impegnare la parola della Francia mentre il paese sta vivendo uno sconvolgimento economico e sociale che non ha eguali da molto tempo? Possiamo dire, come fa il testo, che le dinamiche dell'integrazione europea - in particolare di Francia e Germania - devono essere spinte in avanti a tutto regime, senza prima chiedersi quali saranno le implicazioni del necessario riorientamento economico e sociale che deriverà dalla rivolta dei Gilet Gialli sui nostri impegni franco-tedeschi ed europei?

 

Non vogliamo essere uccelli del malaugurio. Il presidente francese ha appena annunciato l'inizio del secondo atto del suo mandato quinquennale. Il suo impegno nei dibattiti con i sindaci suggerisce che voglia prendere sul serio la necessità di uscire da una "repubblica a democrazia limitata". È dunque inevitabile, data la portata degli impegni che è in procinto di assumersi ad Aix-la-Chapelle martedì 22 gennaio 2019, che il presidente francese sottoponga il testo, non solo alla valutazione della rappresentanza nazionale, ma al verdetto del popolo francese.

 

 

22/01/19

Il colonialismo francese non è finito – Il Franco CFA nell’Unione Africana

Pubblichiamo un nuovo intervento sul franco CFA, diventato improvvisamente argomento di attualità perché criticato dall’attuale governo, e per riflesso pavloviano difeso dall’opposizione. Non c’è alcun dubbio che le restrizioni imposte ai governi africani da questo accordo siano a favore della ex potenza coloniale che li ha imposti – la Francia – e che contribuiscano a rendere difficoltoso il processo di sviluppo di queste nazioni, così bisognose di migliorare le condizioni di vita dei propri abitanti.

 

 

Di Nelly Rita Makena, 8 gennaio 2019

 

 

Usando le parole del Presidente francese Jacques Chirac, “senza l’Africa, la Francia scivolerà al rango di potenza del terzo mondo”. Il comitato San Francisco Abidjan Sister City potrebbe darci un’occhiata… e offrire soluzioni mutualmente benefiche.

 

Esiste un significativo gap di sviluppo tra le ex colonie britanniche ed ex colonie francesi in Africa. Queste ultime vengono chiamate collettivamente Francia-Africa. Una zona che comprende dodici ex colonie che all’inizio dell’ondata di decolonizzazione degli anni ‘50 e ’60 diventarono indipendenti. Tuttavia, com’è evidente dall’influenza paternalistica che la Francia ha ancora su questi paesi, quest’indipendenza era solo nelle parole, non nei fatti.

 

La Francia rinunciò ai suoi poteri nella maggior parte delle colonie africane negli anni ’60. Si potrebbe sostenere che le Nazioni Unite e altre istituzioni multilaterali appena formatesi stavano dietro a questa ritirata. I paesi europei lasciarono l’Africa, non volontariamente ma in maniera estremamente riluttante, perché erano consapevoli della ricchezza in metalli preziosi e altre materie prime che riuscivano a ottenere grazie alla loro presenza sul continente. Anzitutto, la colonizzazione dell’Africa non aveva come obiettivo l’esportazione della civiltà occidentale e della cristianità, come veniva notoriamente mascherata, ma era uno stratagemma per diffondere l’imperialismo europeo, e per acquisire le materie prime per alimentare la rivoluzione industriale che era iniziata in Gran Bretagna alla fine del diciannovesimo secolo. Si può dire che il Re Leopoldo del Belgio abbia ottenuto il bottino più prezioso mettendo le mani sul Congo. La Francia, l’Inghilterra, la Germania e in misura molto minore l’Italia si acontentarono con ciò che restava.

 

Nessuna delle ex potenze imperiali mantiene una presenza in Africa imponente come la Francia. Confrontati con gli altri stati africani, i paesi della Franciafrica come la Costa d’Avorio, il Benin, il Mali e il Niger sono decisamente più poveri. I cittadini di questi paesi languiscono nella miseria. Si può dire che questi paesi, con la loro abbondanza di risorse naturali, dovrebbero rappresentare storie economiche di successo, seguendo l’esempio del Botswana.

 

Gli studiosi del post-colonialismo hanno osservato che una delle origini della miriade di problemi che affligge l’Africa ad oggi è il modo frettoloso in cui le potenze coloniali lasciarono il continente. Nella Repubblica del Congo, per esempio, quando i belgi se ne andarono nel 1960, c’erano meno di 20 laureati in tutto il paese. Le istituzioni e le infrastrutture che le potenze coloniali avevano costruito erano più che altro di natura estrattiva. Il loro interesse era di indirizzare le materie prime fuori dall’Africa, verso l’Europa e l’America. Con la loro dipartita, il continente veniva lasciato con queste strutture che non potevano favorire la crescita economica. Tuttavia, nel caso della Francia, si andò anche oltre, con la formulazione del Patto Coloniale Francese (FCA), uno strumento votato a perpetuare la natura parassitaria dell’era coloniale.

 

Quel che spicca in questo patto è la richiesta a questi paesi di usare una moneta comune (il Franco CFA), controllata direttamente dalla Banca Centrale Francese a Parigi. Questa moneta era agganciata al Franco Francese, e nel 2002 con l’introduzione dell’euro, venne agganciata all’euro stesso. Ciò significa che quattordici paesi africani non hanno un politica monetaria indipendente. Non hanno il diritto di determinare i dettagli di quanta moneta viene distribuita nella loro economia o di rivalutare la loro moneta a piacimento. Tutte le decisioni di politica monetaria vengono controllate da Parigi.

 

Questi paesi sono inoltre obbligati a depositare il 65% delle loro riserve valutarie estere nella Banca Centrale Francese. Inoltre, non possono accedere a questi soldi a loro piacimento. Infatti, se hanno bisogno di più del 20% del 65% depositato, devono chiederlo in prestito alla Francia pagando un interesse di mercato.

 

Un altro dettaglio di questo patto è che le società francesi hanno diritto di prelazione su tutte le commesse pubbliche che questi governi bandiscono. Ciò significa che tutti i progetti pubblici che hanno bisogno di un finanziamento estero devono essere presentati anzitutto ai soggetti francesi rispetto a tutti gli altri. Ci fu tumulto in Costa d’Avorio quando una società francese fece un preventivo per un progetto di costruzione di un ponte triplo rispetto a una società cinese. Il contratto fu assegnato alla società francese in forza del patto coloniale. Questi e molti altri argomenti rappresentano uno schiaffo in faccia a queste economie, che sono obbligate ad adempiere a questi termini esorbitanti a causa del patto sciagurato che fu firmato più di 60 anni fa.

 

L’Africa continua a sostenere l’economia francese mentre la sua gente soffre nella miseria. Questo combacia con la narrazione di uno squilibrio tra il nord e il sud del mondo, tra il colonizzatore e il colonizzato, che è rimasto in vita a grande discapito dell’umanità.

 

La comunità internazionale ha chiuso un occhio su questa atrocità. E’ sconcertante che un paese al timone dell’agenda per la promulgazione della democrazia continui a essere attaccato a questa intricata rete di sfruttamento. Per il momento, la Francia continua ad avere un posto nelle più alte sfere del mondo politico ed economico, con seggi permanenti nel G7 e nel Consiglio di Sicurezza ONU, mentre i paesi sulle cui spalle poggia la sua economia affondano sempre più in basso. Usando le parole del Presidente francese Jaques Chirac “senza l’Africa, la Francia scivolerà al rango di potenza del terzo mondo”.

 

Il San Francisco Bay Area Independent Media Center (Indybay) è un collettivo non commerciale e democratico di produttori e diffusori di media indipendenti della Bay Area, e serve come unità organizzativa della rete globale Indymedia.

 

21/01/19

Sapir - La lettera del Presidente, la questione del potere d'acquisto e l'euro

Nella lettera con cui si è rivolto ai Francesi dopo le imponenti manifestazioni dei "Gilet Gialli" - espressione dell'esasperazione dei cittadini sempre più impoveriti - Emmanuel Macron non fa cenno alla questione cruciale: la perdita del potere d'acquisto da parte dei lavoratori. L'economista Jacques Sapir spiega ancora una volta il perché di questo silenzio: finché la Francia resta intrappolata nel sistema dell'euro, alzare il livello dei salari non è possibile, perché - nell'impossibilità di svalutare la moneta - questo comporterebbe una perdita di competitività dei prodotti sui mercati esteri peggiorando il deficit commerciale del Paese. E Macron vuole restare nell'euro a ogni costo. Sapir dimostra come una svalutazione della moneta avrebbe un importante effetto redistributivo a favore dei salari più bassi. Fino a quando l'Europa - la vera Europa, l'Europa dei cittadini - potrà tollerare le follie dell'Unione europea e la dittatura della moneta unica, un sistema totalmente asservito agli interessi dei più ricchi? 

 

di Jacques Sapir, 15 gennaio 2018 

 

 

Il presidente della Repubblica ha inviato la sua "lettera ai francesi". Un testo assai ampio, che copre molti argomenti. Eppure in questo documento, a volte inutilmente lungo, manca un argomento importante: la questione del potere d'acquisto. Questo problema non è affrontato in nessuno dei  quattro punti, benché sia essenziale. Per essere più precisi, la questione è trattata, in maniera estremamente parziale, solo nell'ottica di una possibile riduzione delle tasse. Si tratta di un punto di vista molto angusto. Tuttavia, nella  "lettera" c'è un'ammissione: "...perché i salari sono troppo bassi perché tutti possano vivere dignitosamente grazie ai frutti del loro lavoro...". Questa, in effetti, è una delle cause della rabbia che è stata espressa per due mesi dal movimento dei Gilet Gialli, accanto a rivendicazioni riguardanti la democrazia. Si noterà, tuttavia, che [il Presidente] non usa mai il termine"potere d'acquisto". È quindi necessario rinfrescare la memoria a Emmanuel Macron e anche capire quali sono le ragioni per cui non è più preciso e più esplicito su quella che è una delle principali rivendicazioni dei Gilet Gialli.

 

L'aumento del salario minimo orario

 

La questione di un aumento del salario minimo orario (Smic) è centrale in tutte le affermazioni dei Gilet Gialli. Il Presidente ritiene, senza dubbio, di aver risposto nel suo discorso del 10 dicembre [1]. Invece non è così, anche se il reddito aggiuntivo (perché di questo si tratta) di circa 90 euro sarà il benvenuto in molte case. Ma c'è un blocco da parte del potere per quanto riguarda la questione dello Smic. Questo blocco del resto non è specifico del potere. Il Rassemblement National, ex FN, rifiuta il salario minimo, preferendo un complesso sistema di esenzioni dagli oneri sociali [2] . Quanto a Nicolas Dupont-Aignan, lega un possibile aumento del salario minimo a una diminuzione dei contributi dovuti da parte dei datori di lavoro (quelli che sono chiamati, in modo non corretto, "carichi")[3] . Jean-Luc Mélenchon, da parte sua, propone un forte aumento del salario minimo, ma sembra poco preoccupato dall'impatto sulla competitività dell'economia francese di questa misura. È quindi necessario fare il punto su questo problema, che Emmanuel Macron ha voluto escludere dal "dibattito nazionale".

 

Dalla "svolta" del 1982-1983, il salario minimo orario, che è uno dei principali strumenti di garanzia per i salari bassi, non è aumentato allo stesso passo della produttività. Vale la pena ricordare un principio: se i salari aumentano allo stesso ritmo della produttività, la spartizione del valore aggiunto tra salari e profitti non cambia. Quando la produttività aumenta più velocemente rispetto ai salari, la quota dei profitti aumenta, a scapito dei salari. Oggi il divario tra l'evoluzione dello Smic e quella degli aumenti di produttività è notevole. Ci vorrebbe un recupero intorno al 20%. Questo significherebbe un aumento di circa 240 euro al mese per lo Smic, ben al di più e oltre il meccanismo messo a punto dal governo per aumentare di 100 euro il reddito di alcuni degli "smicards" [lavoratori con salario orario pari a quello minimo, ndT].

 

 

[caption id="attachment_16935" align="alignnone" width="1024"] Grafico 1 - Confronto tra l'evoluzione generale della produttività e quella del salario minimo orario (Smic) a prezzi costanti. Linea blu: produttività, indice 100=1980 Linea rossa: salario minimo orario reale, indice 100=1980. Fonte: dati INSEE.[/caption]

 

Qualcuno obietterà che un aumento del 20% dello Smic avrebbe gravi conseguenze sulla competitività dell'economia francese. Questo è l'argomento sostenuto dal governo, ma anche da Marine Le Pen e da Nicolas Dupont-Aignan. Non è un'affermazione falsa. Nella misura in cui non siamo più padroni della nostra moneta, a causa dell'euro, qualsiasi aumento dei salari, che verrebbe in parte trasferito sui prezzi, porterebbe ad aggravare il nostro deficit commerciale che è un indicatore molto più importante e molto più reale del deficit e del debito pubblico.

 

Tuttavia, l'impatto dell'aumento dei salari sui prezzi non sarà pari all'entità di questo aumento. Gli stipendi rappresentano in media un terzo del prezzo. Se ipotizziamo un aumento del 20% del salario minimo, necessario per riportare giustizia nel campo del lavoro, allora l'aumento conseguente sui prezzi all'esportazione sarebbe di circa il 6%, che - effettivamente - è tale da poter provocare, su mercati molto competitivi, un calo delle nostre esportazioni E [maiuscolo nel testo] un aumento delle nostre importazioni. Ma bisogna fare il ragionamento opposto:  che cosa accadde quando, nel maggio 1968, il governo aumentò il salario minimo del 35%? La Francia svalutò subito dopo, e negli anni successivi conobbe una forte crescita.

 

Il blocco dovuto all'euro

 

Bisogna dunque capire che, su questo argomento, il blocco principale viene dall'euro. E possiamo dimostrarlo guardando a ciò che accadrebbe se la Francia non fosse nell'euro.

 

Qualsiasi deprezzamento della valuta provoca un aumento del prezzo dei prodotti importati e fa calare il prezzo delle nostre esportazioni. Ma qual è la parte dei nostri consumi che viene importata? In media è circa il 48%, ma può toccare il 60% per le famiglie più ricche, mentre scende al 40% per i più poveri. Comprendiamo quindi l'attaccamento alla stabilità del cambio da parte dei più ricchi (perché hanno il massimo da guadagnare) e la relativa indifferenza dei più poveri. Ma che cosa accadrebbe con un aumento del 20% del salario minimo, accompagnato da una svalutazione del 20%?

 

Una svalutazione del 20% comporterebbe un aumento del 20% sui prezzi dei prodotti importati, con un aumento complessivo dei prezzi in media del 9,6%. Possiamo vedere che il reale aumento del salario sarebbe quindi del 20% -9,6% = 10,4%. L'inflazione indotta dalla svalutazione sarebbe quindi pari a meno della metà dell'aumento dei salari. In effetti, il potere d'acquisto delle famiglie più povere sarebbe meno intaccato, perché consumano meno beni importati rispetto ai ricchi. L'aumento del potere d'acquisto sarebbe del 12% (20% -8%) per i più poveri e dell'8% (20% -12%) per i più ricchi, a condizione che tutti gli stipendi aumentino tanto quanto il salario minimo. Poiché questa ipotesi è irragionevole (per molte ragioni), maggiore è il livello del reddito familiare, minore è il vantaggio. Al limite, per i redditi che non sono per nulla influenzati dall'aumento del salario minimo, vi sarebbe una perdita di potere d'acquisto. La svalutazione della valuta avrebbe quindi un significativo effetto redistributivo sui redditi.

 

Per quanto riguarda i prezzi all'esportazione, subirebbe un aumento che può essere calcolato (con approssimazione) come equivalente all'aumento dei prezzi indotto dall'aumento di salario minimo PIU' l'aumento indotto dall'inflazione sui salari bassi MENO l'ammontare della svalutazione della moneta, ossia:

 

6% + 8% - 20% = -6%

 

Vediamo che, in questo scenario, i prodotti francesi, nonostante l'inflazione e l'aumento dei salari, migliorerebbero la loro competitività sui mercati di esportazione, ma anche sul mercato interno. Aggiungiamo che l'aumento dei prezzi, indotto dall'aumento dei salari e dalla svalutazione della moneta, non è immediato, ma diffuso nell'economia, con un ritardo che può arrivare per alcuni settori ai sei mesi e per altri a 18 mesi. L'aumento delle esportazioni o i guadagni sul mercato interno compenserebbero in parte il calo dei profitti dovuto all'aumento del salario minimo. L'aumento del volume di produzione generato dai proventi delle esportazioni e dai guadagni sul mercato interno porterebbe a maggiori investimenti. Il PIL del Paese vedrebbe aumentare il suo tasso di crescita sia per l'aumento della produzione sia per i maggiori investimenti.

 

È questo il meccanismo che viene respinto da Emmanuel Macron, perché implica, bisogna dirlo, che la Francia esca dall'euro. È per questo motivo, per l'attaccamento fanatico all'euro, che il Presidente evoca così poco, e in maniera solo indiretta, la questione del salario minimo e quella del potere d'acquisto. A contrario, questo significa che la questione del potere d'acquisto per le "classi popolari" può essere seriamente affrontata solo ponendo la questione dell'uscita della Francia dall'euro.

 

L'impatto sui nostri partner

 

Cosa succederebbe dal punto di vista dei nostri partner? È chiaro che se la Francia decidesse di lasciare l'euro, alcuni paesi non avrebbero altra scelta che seguirci. È il caso dell'Italia e della Spagna, ma probabilmente anche del Portogallo e del Belgio. Viceversa, i paesi del "Nord", come la Germania e i Paesi Bassi, resterebbero nell'euro o lo ribattezzerebbero "marco". Ma senza i "paesi del Sud", questo marco (o l'euro residuo) verrebbe improvvisamente rivalutato. Il divario nei tassi di cambio con paesi come la Germania e i Paesi Bassi non sarebbe del 20%, ma del 35%. D'altra parte, il divario con la zona del dollaro sarebbe inferiore.

 

Questo è stato calcolato dal Fondo monetario internazionale [4] .

 

[caption id="attachment_16932" align="alignnone" width="957"] Tabella 1 - Entità delle rivalutazioni /svalutazioni dei tassi di cambio in caso di scioglimento della zona euro. Fonte: Diffusione dei tassi di cambio reali nell'External Sector Report del FMI 2017 e consultazioni di esperti su questioni valutarie effettuate all'inizio di agosto 2017.[/caption]

 

Si noti che, nel caso di un'uscita di tutti i paesi del Sud, i tassi di cambio di Spagna, Francia e Italia sarebbero svalutati allo stesso modo. Ciò implica che la quota delle importazioni il cui prezzo aumenterebbe a causa della svalutazione del franco potrebbe essere più bassa. Per questo, la quota dei consumi interessati dall'inflazione a seguito della svalutazione del tasso di cambio potrebbe essere solo del 36-38% in media, con una distribuzione ancora più favorevole per le famiglie a basso reddito. L'effetto redistributivo della svalutazione potrebbe quindi essere più potente di quanto indicato.

 

In termini generali, un'uscita dall'euro consentirebbe ai paesi dell'Europa meridionale di guadagnare sul surplus commerciale tedesco attuale, che rappresenta circa l'8% del PIL della Germania. La distribuzione di tre quarti di questa eccedenza nei paesi dell'Europa meridionale (ovvero 150 miliardi di euro oggi) potrebbe comportare una crescita del PIL del 2% per la Francia al di sopra dell'attuale crescita (ovvero 1,2% + 2,0% = 3,2%). Con il calo della disoccupazione legato a un aumento dell'1,4% -1,5% del PIL, i guadagni in termini di posti di lavoro sarebbero importanti. I calcoli sono stati effettuati altrove e mostrano su un totale di 4,5 milioni di disoccupati "reali", una diminuzione della disoccupazione da 1,5 milioni a 2,5 milioni in un periodo tra 3 a 5 anni. Va notato che questa forte diminuzione della disoccupazione avvantaggerebbe il sistema dal punto di vista dei sussidi di disoccupazione. Le erogazioni potrebbero essere ridotte. Lo stesso ragionamento vale per i fondi pensione e le casse malattia. Sia i contributi del datore di lavoro che i contributi dei dipendenti sono molto sensibili al fenomeno della disoccupazione. Si potrebbe quindi considerare una riduzione di questi contributi, aumentando così il potere d'acquisto dello stesso importo, oppure, lasciando inalterato il livello dei contributi, potrebbero essere migliorate le condizioni. Se invece questa riduzione fosse applicata nella situazione attuale, porterebbe a un peggioramento del deficit di questi fondi e implicherebbe, quindi, un taglio drastico ai benefici. Tale prospettiva interesserebbe principalmente i più vulnerabili. Inoltre, un calo programmato dei benefici porterebbe coloro che possono aumentare i loro risparmi, causando un ulteriore calo della crescita a causa del calo dei consumi.

 

Riprendiamo quindi i termini del dibattito. Un aumento del salario minimo insieme all'uscita dall'euro e alla svalutazione del tasso di cambio avrebbero un forte effetto redistributivo sui guadagni, restituendo potere d'acquisto ai redditi più modesti. Non era una delle principali richieste dei Gilet Gialli? D'altra parte, è anche chiaro che dovranno essere messe sul tavolo altre questioni, come l'indicizzazione dell'inflazione di TUTTE le pensioni, almeno fino a un importo di 2.000 euro. Ma si capisce perché, non appena si abbandona la prospettiva di lasciare l'euro e di un recupero da parte della Francia della sua sovranità monetaria, diventa impossibile pensare a un salario minimo orario più alto e ai suoi effetti sull'economia. E questo è il motivo per cui Emmanuel Macron, che non vuole toccare l'euro in nessuna circostanza, non parla del salario minimo orario né del potere d'acquisto nella sua lettera.

 

Note

 

[1] https://www.francetvinfo.fr/economie/transports/gilets-jaunes/gilets-jaunes-pourquoi-l-augmentation-du-smic-promise-par-macron-n-en-sera-pas-vraiment -une_3094307.html

 

[2] https://www.rtl.fr/actu/politique/marine-le-pen-is-invitee-de-rtl-from- December 19-7795973392

 

[3] https://www.publicsenat.fr/article/politique/gilets-jaunes-nicolas-dupont-aignan-annonce-qu-il-presentera-une-proposition-de