27/02/19

L'articolo farlocco che ha distrutto i diritti dei lavoratori


  1. In questo articolo l'economista Servaas Storm, dell'Università di Delft, in Olanda, passa al vaglio e fa a pezzi uno dei molti studi scientifici - ritenuti di alto livello - che sostengono che le leggi che proteggono i lavoratori regolamentando il mercato del lavoro in realtà danneggerebbero l'economia e i lavoratori stessi. Studi come questo, pieni di falle eppure alacremente "macinati nel mulino neoliberale", portano poi a raccomandazioni al sistema politico sulla massima deregolamentazione del mercato del lavoro, naturalmente per il bene dei poveri. Non sorprenderà che l'autore riveli un mondo di pubblicazioni economiche basate su pregiudizi ideologici scarsamente o per nulla suffragati dai dati. Ma pomposamente lodati, pubblicati e utilizzati per indirizzare strategie politiche disastrose per i lavoratori, nel mondo in via di sviluppo e non solo.    


 

 

 

di Servaas Storm, 6 febbraio 2019

Traduzione di Andrea Wollisch

 

Per anni, i governi in India e in buona parte del mondo in via di sviluppo hanno seguito i consigli di un articolo nel quale si sostiene che le regolamentazioni del mercato del lavoro in realtà danneggino i lavoratori stessi. Il problema? La ricerca era piena di falle.

 

“Le leggi create per aiutare i lavoratori spesso li danneggiano”.



Si sostiene spesso che forti protezioni del lavoro per i lavoratori non qualificati rappresenterebbero “lussi che i paesi in via di sviluppo non possono permettersi”. L’idea è che le leggi che regolano i salari e le condizioni di lavoro o che facilitano la contrattazione collettiva debbano far aumentare il costo del lavoro e i prezzi, e quindi portare danno ai profitti delle imprese e agli investimenti; facendo questo, si distruggono gli stessi posti di lavoro che si intendeva proteggere.

 

“…le leggi create per aiutare i lavoratori spesso li danneggiano” sono le parole con cui la Banca Mondiale (2008, p.8) riassume il concetto.

 

Questo particolare effetto perverso è stato invocato numerose volte nel dibattito indiano sull’impatto della regolamentazione del mercato del lavoro sulla performance registrata dall’industria che ha imperversato per decenni (Bhattacharjea 2006; Srivastava 2016; Storm and Capaldo 2018; Karak and Basu 2019). Per giustificare le politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro, i governi indiani che si sono succeduti, di vari colori politici, hanno sostenuto che l’arcaica e restrittiva regolamentazione del lavoro in India nell’industria ufficiale danneggia la performance industriale – le recenti riforme contro i lavoratori intraprese dal governo di Narendra Mody guidato dal Bharatiya Janata Party (BJP) sono solo le ultime manifestazioni di quello che è stata la politica standard da almeno la metà degli anni ’80.

 

Presumibilmente, nessuno studio è stato più utile nel propagare in India il concetto che una legislazione del lavoro a favore dei lavoratori finisca per colpire i lavoratori stessi dell’articolo pubblicato nel 2004 sul Quarterly Journal of Economics da Timothy Besley e Robin Burgess; gli autori, basandosi su risultati econometrici, concludono che “una regolamentazione del lavoro a favore dei lavoratori si è tradotta in minor produzione, minor occupazione, meno investimenti, e in un abbassamento della produttività nel settore dell’industria registrata. È cresciuta la produzione nel settore sommerso.” (Besley and Burgess 2004, p. 92-93). Il loro articolo è stato quindi macinato nel mulino neoliberale ed è stato usato dal governo indiano nel suo Economic Survey 2006 per giustificare la deregolamentazione del mercato del lavoro. Lo studio è stato citato con favore nel World Development Report 2005, e la misurazione de jure della regolamentazione del mercato del lavoro sviluppata da Besley e Burgess è stata ampiamente utilizzata nelle ricerche successive.

 

Che cosa hanno trovato Besley e Burgess?


 

L'articolo di Besley e Burgess (2004) si basa sulle relazioni tra le performance dell’industria ufficiale indiana e la regolamentazione del mercato del lavoro nei diversi stati, per valutare gli impatti di quest’ultima su produzione, occupazione, investimenti e produttività. Per misurare il grado di regolamentazione del mercato del lavoro, gli autori hanno creato un nuovo indicatore di regolamentazione (che io chiamo BB-index) basato su variazioni a livello statale nella direzione degli emendamenti che i diversi stati indiani hanno portato all'Industries Disputes Act (IDA) del 1947.

 

I due autori hanno classificato le modifiche alla legge come “pro-lavoratori”, “neutre”, o “pro-imprenditori,” assegnando un punteggio relativo rispettivamente di +1, 0 e -1. I punteggi relativi a ogni stato sono sommati nel tempo per ottenere una “misurazione normativa” per ogni stato in ciascun anno. Usando due differenti set di dati - uno basato sui dati della produzione industriale aggregata per 16 stati (1958-1992) e uno che usa dati a tre cifre sul livello delle industrie per gli stessi stati (1980-1997). Così Besley e Burgess stimano l’impatto della regolamentazione del lavoro sulla performance dell’industria: quello che trovano è che la regolamentazione pro-lavoratore è sistematicamente associata a minore produzione, minore occupazione, minore produttività e minori investimenti nel settore dell’industria formale; mentre le leggi sul lavoro vantaggiose del lavoratore non avrebbero modificato significativamente i guadagni per il dipendente.

 

Besley e Burgess sostengono che le loro scoperte sono molto significative dal punto di vista economico. Per esempio affermano che la produzione industriale in Andhra Pradesh sarebbe stata solo il 72% del suo vero livello nel 1990, generando 199.000 posti di lavoro in meno, senza le riforme pro-imprenditori sottoscritte da questo stato. Il loro secondo controfattuale riguarda il Bengala occidentale, dove le loro stime indicano che, senza le riforme pro-lavoratori, la produzione industriale sarebbe stata del 24% superiore rispetto al suo livello nel 1990 e che l’occupazione sarebbe stata più alta di 180.000 posti di lavoro.

 

Persuasi dai loro risultati, Besley e Burgess (2004, p.124) concludono che è “evidente che molto del ragionamento alla base della regolamentazione del lavoro era sbagliato e ha condotto a risultati che sono stati opposti rispetto ai loro obiettivi originari” e che “i tentativi di porre rimedio al bilanciamento di potere tra capitale e lavoro possono finire per danneggiare i poveri”. I due economisti dell’LSE concludono scrivendo che il “grido di battaglia a favore di una regolamentazione del mercato del lavoro è spesso che le politiche del mercato del lavoro pro-lavoratore pongono rimedio allo sfavorevole bilanciamento di potere tra capitale e lavoro, conducendo a un progressivo effetto di distribuzione del reddito. Noi non abbiamo trovato nessuna evidenza di questo - anzi gli effetti redistributivi sembra abbiano lavorato a svantaggio dei poveri.” Insomma, la retorica della reazione in pieno svolgimento.

 

Problemi concettuali non banali 


 

L'articolo di Besley e Burgess (2004) ha ricevuto critiche sostanziali (Bhattacharya 2006; D’Souza 2010; Roychoudhury 2014; Karak and Basu 2019). Un primo problema riguarda il BB-index. Besley e Burgess (2004, p.98) ammettono che la costruzione dell’indice richiede un certo numero di decisioni discrezionali, ma riportano con sicurezza di avere “trovato sorprendentemente pochi casi di incertezza”. Altri esperti non sono d’accordo, comunque, ed evidenziano diversi problemi, inclusa una classificazione palesemente inappropriata dei singoli emendamenti alla legge (basata su interpretazioni errate dei cambiamenti normativi e sbagliando la datazione degli stessi) e la codifica come +1 o -1 di cambiamenti non misurabili (Bhattacharjea 2006). Ma c’è di più, il BB-index si concentra esclusivamente sugli IDA ed ignora le altre leggi sul lavoro esistenti, l’impatto delle quali spesso supera quello degli IDA stessi.

 

Una seconda perplessità è che la maggior parte degli emendamenti pro-lavoratori sono stati realizzati durante gli anni ’80 - questo è riflesso dal fatto che 30 cambiamenti su 43 nel BB-index sono avvenuti in quel decennio. Ma, paradossalmente, gli anni ’80 sono stati un periodo di grande indebolimento del potere dei lavoratori e di un aumento dell’inosservanza delle leggi sul lavoro. Il potere in calo dei lavoratori sindacalizzati è reso evidente dal costante declino post-1980 della quota salari. Nel 1980, la quota salari sul valore aggiunto nel settore manifatturiero ufficiale dell’India era del 44%; successivamente nel 1992-93 la quota salari scese al 32%, per arrivare al 26% nel 1998-99 – uno sconcertante declino di 18 punti percentuali in meno di 20 anni (Jayadev and Narayan 2018). I salari sono aumentati molto più lentamente della produttività del lavoro, mentre il tasso di sindacalizzazione è sceso, la sicurezza sociale per i lavoratori protetti è stata ridimensionata e la disuguaglianza dei redditi è aumentata bruscamente (Srivastava 2016). Paradossalmente, la quota salari sul prodotto aggiunto dell’industria è diminuita maggiormente negli stati classificati come pro-lavoratori - del 19% durante il periodo 1980-81/1998-99. Parlare di un aumentato potere di contrattazione dei lavoratori sindacalizzati di fronte ad un declino senza precedenti della quota salari nell’industria ufficiale appare forzato.

 

Tutto questo suggerisce un altro limite del de jure BB-index: l’inosservanza delle regole sul lavoro è pervasiva e de facto il rispetto delle stesse è debole o assente (Chatterjee and Kanbur 2015; Srivastava 2016). Inoltre, i datori di lavoro nell’industria ufficiale in India hanno aggirato massicciamente le (vecchie e nuove) leggi sul lavoro, assumendo sempre più lavoratori a contratto (temporanei), i quali non sono inclusi in queste leggi (D’Souza 2010; Jayadev and Narayan 2018). La quota di lavoratori a contratto temporaneo sul totale degli occupati nell’industria ufficiale è aumentata da un livello trascurabile all’inizio degli anni ’70 a circa il 12% nella metà degli anni ’80 fino a quasi il 20% nel 1998-99 (Srivastava 2016). Tutto questo suggerisce un indebolimento secolare del potere di contrattazione dei lavoratori – che è avvenuto nonostante gli emendamenti agli IDA.

 

Serie perplessità econometriche


 

Le regressioni di Besley e Burgess sono state giustamente criticate per la distorsione dovuta a variabili omesse – e per il fatto che le loro variabili  “di controllo” non sono statisticamente significative e non controllano per niente. Besley e Burgess riportano che l’inclusione di trend di periodo specifici nei singoli  stati spazza via l’impatto negativo della regolamentazione del lavoro: il coefficiente del loro indice diventa statisticamente non significativo. Ma loro interpretano questo fatto come una prova che la loro misurazione della regolamentazione del mercato del lavoro è un fattore chiave di questi trend di periodo specifici negli stati. Questo ragionamento però puzza di bias di conferma; una conclusione più appropriata è che qualunque impatto delle leggi sul lavoro sulla manifattura è più che compensato da altri fattori.

 

Ho provato a replicare i risultati di Besley e Burgess sulla produzione del settore industriale ufficiale riportati nella loro tabella 3, usando i dati resi disponibili online da Economic Organisation and the Public Policy Programme (EOPP) dell’LSE (Besley and Burgess 2019). Curiosamente, il dataset online non permetteva di replicare i risultati, prima di tutto perché il numero di osservazioni era ben minore di quello riportato da Besley e Burgess. Quindi, ho creato un panel dataset alternativo usando i dati (per il periodo 1960-1992) da Besley e Burgess (2019) combinati con i dati di Karak e Basu (2019).

 

Con il mio dataset ho scoperto che l’impatto della regolamentazione del lavoro sulla produzione industriale è negativo nella regressione base, diventa positivo quando includo trend temporali specifici per ogni stato (in contrasto con quello che hanno trovato Besley e Burgess), ed è insignificante quando si escludono le osservazioni relative al Bengala Ovest o quando si restringe il periodo temporale al 1981-1992. Appare insomma che solo particolari specificazioni del modello possono portare a risultati simili a quelli ottenuti da Besley e Burgess.

 

Andare oltre le critiche esistenti: i risultati empirici contraddicono la teoria


 

In una sezione non sufficientemente sviluppata intitolata “considerazioni teoriche”, Besley e Burgess menzionano i meccanismi attraverso i quali la regolamentazione pro-lavoratori finirebbe per colpire la performance industriale. Primo, la regolamentazione pro-lavoratori si dice che aumenti il costo del lavoro per le imprese, che quindi sostituiranno lavoro con capitale. Secondo, si sostiene che un costo per unità di lavoro più alto renda i beni industriali più costosi e questo riduce la domanda e la produzione. E terzo, c’è il buon vecchio “effetto espropriazione”: una regolamentazione del lavoro pro-lavoratori permette agli stessi di appropriarsi di un quota maggiore del rendimento degli investimenti esistenti (già effettuati), scoraggiando così gli investimenti futuri. Gli investimenti saranno più bassi e quindi il capitale sociale sarà inferiore – riducendo la crescita della produzione e dell’occupazione. Besley e Burgess non mostrano alcuna consapevolezza del fatto che le tre “spiegazioni” siano vicendevolmente incoerenti: la sostituzione del lavoro con il capitale significherebbe un aumento dell’intensità di capitale, mentre secondo il terzo argomento la stessa dovrebbe diminuire. Non puoi farti una nuotata e contemporaneamente restare asciutto.

 

Usando i risultati stimati da Besley e Burgess, si può dimostrare che nessuna di queste tre spiegazioni regge. Secondo gli impatti stimati della regolamentazione pro-lavoratori, le imprese indiane hanno fatto l’esatto opposto di quello che sostengono Besley e Burgess: le imprese hanno ridotto l’intensità di capitale della produzione e aumentato l’intensità di lavoro! Le imprese hanno sostituito capitale con lavoro, piuttosto che il contrario. Riguardo la seconda spiegazione: mentre è vero che si è trovato che la regolamentazione pro-lavoratori ha aumentato il costo per unità di lavoro, l’impatto di questo sui prezzi dei prodotti industriali (e quindi sulla domanda e sulla produzione) è stato quasi trascurabile, perché il costo del lavoro rappresenta uno scarso 10% dei costi totali di produzione. Questo implica che un aumento del 10% dei costi del lavoro per unità di lavoro aumenta i prezzi dei manufatti solo dell’1%. Ed è fin troppo chiaro che la “storia dell’esproprio” è un mito, perché non si è trovato che la regolamentazione pro-lavoratori aumenti i salari e i supposti lavoratori “protetti” sono stati completamente inermi di fronte al forte incremento della quota profitti delle imprese. Come possono i lavoratori ottenere una quota maggiore dei profitti quando de facto l’applicazione delle leggi sul lavoro è debole o anche nulla – o dove le imprese aggirano la legge assumendo lavoratori temporanei? E perché mai le imprese, che si suppone siano spaventate dal potere espropriativo dei lavoratori protetti dalla legge, aumentano l’intensità di lavoro della produzione?

 

Infine, io dimostro che i risultati di Besley e Burgess (2004) non sono economicamente significativi, ma completamente irrealistici e mettono a dura prova la possibilità di crederci. Per capirci, usando le stime e la media del BB-index cumulato di Besley e Burgess, ne segue che se il Bengala occidentale non avesse adottato nessuna riforma pro-lavoratori, la sua produzione industriale ufficiale sarebbe stata superiore del 1.000% al suo livello reale nel 1990! In altre parole, il Bengala sarebbe potuto diventare la prossima tigre asiatica se non fosse stato per quegli emendamenti dell’IDA pro-lavoratori, i quali non solo hanno limitato gli investimenti, ma in realtà hanno asfissiato l’industria. Non ha veramente senso.

 

Un caso di "utile economista"


 

Quindi questo articolo di Besley e Burgess (2004) è compromesso da errori fatali di omissione e ossequio agli ordini. La ricerca, realizzata da due utili economisti, mostra un ingiustificato empirismo nel quale i pregiudizi calpestano le prove. La ricerca non riesce a essere utile da nessun punto di vista riguardo a suggerimenti di politiche pubbliche “basate sulle prove”. Ma quello che voglio sottolineare in particolare è che questa ricerca di alto profilo non è certo l’unica che fallisce la prova della ripetizione dei risultati e/o che si disintegra a un più attento esame. Il problema in economia è endemico, benché così spesso si proclami di fare ricerca sociale “libera da pregiudizi ideologici” e di provvedere a consigli di politiche pubbliche “basati sulle prove”.

 

Permettetemi di fare qualche esempio. L'articolo del QJE di Botero et al. (2004) che mostra impatti negativi delle leggi sul lavoro sulla performance economica, sono stati sbugiardati da Kanbur e Ronconi (2016) che dimostrano che l’impatto diventa statisticamente non significativo dopo avere controllato con l'aiuto del buon senso il punto “applicazione delle leggi”. Similmente, attente repliche delle analisi da parte di Howell, Baker, Glyn e Schmitt (2007), Baccaro e Rei (2007), e Vergeer e Kleinknecht (2012) congiuntamente sbugiardano una dozzina di studi econometrici di alto profilo, pubblicati su riviste soggette alla peer-review (rilettura da parte di altri accademici e ricercatori prima della pubblicazione, ndt), i quali riportavano tutti impatti negativi della regolamentazione pro-lavoratori sulla disoccupazione nelle economie appartenenti all'OECD, incluse ricerche pubblicate su The Economic Journal. I risultati pubblicati sono stati trovati essere robustamente non robusti, con i segni (+/-) dell'impatto capovolti e la loro significatività statistica invalidata in seguito a piccole modifiche nelle procedure di stima.

 

La sostanziale inconsistenza dell’approccio e dei risultati di questo filone di ricerca è in netto contrasto con le sue più che ampie, e socialmente costose, raccomandazioni verso politiche pubbliche volte ad abolire la regolamentazione del mercato del lavoro con norme a vantaggio dei lavoratori. Il fatto che tutte queste ricerche siano passate attraverso il processo di peer review suggerisce che questo processo soffra di una distorsione che spinge alla conferma, ovvero definire “eccellenza scientifica” qualsiasi cosa che sia il più vicina possibile alle loro convinzioni e ai loro metodi accademici (D’Ippoliti 2018). Ma quello che è peggio, allontanandosi dalle pratiche scientifiche corrette, le riviste più importanti generalmente non ritengono necessario pubblicare gli studi che dimostrano il fallimento dei tentativi di replicare i risultati come correttivo alle ricerche pubblicate. I pregiudizi continuano a dominare rispetto ai risultati e alle solide pratiche di ricerca. Dobbiamo chiederci, come scrivono Thomas Ferguson e Robert Johnson (2018), “se non ci sia qualcosa di radicalmente sbagliato nella struttura della disciplina stessa, che ha condotto al mantenimento di un sistema di convinzioni ristretto attraverso l’imposizione di regole di ortodossia e l’erezione di barriere contro argomenti migliori e prove contrarie.”

 

Permettetemi di concludere ribadendo quello che vorrei che il lettore portasse a casa da questo articolo: che l’economia deve esercitare la massima cautela e umiltà nel costruire e interpretare evidenze empiriche e nell’usarle per sostenere suggerimenti di politiche pubbliche. Come l’esempio di Besley e Burgess (2004) chiarisce, il danno economico e sociale causato da suggerimenti di politica del tutto sbagliati per milioni di lavoratori dell’industria può essere sostanziale. Non sono a conoscenza di nessuna prova credibile che suggerisca che la regolamentazione del lavoro con norme che proteggono i lavoratori sistematicamente finisca per colpire gli stessi e che potrebbe giustificare le ondate di deregolamentazione del mercato del lavoro che si abbattono ovunque per il mondo (Storm and Capaldo 2018). Questo mi porta a chiudere il cerchio con Beatrice e Sidney Webb, i fondatori della London School of Economics and Political Science, dove Besley e Burgess lavorano, i quali hanno sostenuto esattamente la visione opposta, dicendo che “ciò che è più urgentemente necessario… è un’estensione del forte braccio della legge a protezione dei lavoratori oppressi nelle difficili trattative” (Webb and Webb 1902, p. xvii). I Webb hanno sostenuto i salari minimi, il determinare un limite massimo delle ore lavorative, e un consistente aumento del potere dei lavoratori di contrapporsi per metter fine al parassitismo dei datori di lavoro, e spingendo per portare la “democrazia” nell’industria attraverso i sindacati e la contrattazione collettiva.  E questo è tutto, sul progresso dell' economia.

 

Bibliografia


 

Baccaro, L. and D. Rei. 2007. ‘Institutional determinants of unemployment in OECD countries: does the deregulatory view hold water?’ International Organization 61 (3): 527-569.

 

Besley, T. and R. Burgess. 2004. ‘Can labor regulation hinder economic performance? Evidence from India.’ Quarterly Journal of Economics 119 (1): 91-134.

 

Besley, T. and R. Burgess. 2019. Economic Organisation and Public Policy Programme (EOPP) Indian States Datahttp://www.lse.ac.uk/economics/people/personal/eopp-indian-states-data

 

Bhattacharjea, A. 2006. ‘Labor market regulation and industrial performance in India. A critical review of the empirical evidence.’ The Indian Journal of Labor Economics 49 (2): 211-232.

 

Botero, J., S. Djankov, R. La Porta, F. Lopez-de-Silanes and A. Shleifer. 2004. ‘The regulation of labor.’ Quarterly Journal of Economics 119: 1339-1382.

 

Chatterjee, U. and R. Kanbur. 2015. ‘Non‐compliance with India’s Factories Act: Magnitude and

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D’Ippoliti, C. 2018. ‘‘Many-citedness’: citations measure more than just scientific impact.’ INET Working Paper No. 57. New York: Institute for New Economic Thinking. https://www.ineteconomics.org/uploads/papers/WP_57-DIppoliti-revised.pdf

 

D’Souza, E. 2010. ‘The employment effects of labor legislation in India: a critical essay.’ Industrial Relations Journal 41 (2): 122–35.

 

Ferguson, T. and R. Johnson. 2018. Research Evaluation in Economic Theory and Policy: Identifying and Overcoming Institutional Dysfunctions. Policy Brief to the G20 Argentina. Discutibile su: https://www.g20-insights.org/policy_briefs/research-evaluation-in-economic-theory-and-policy-identifying-and-overcoming-institutional-dysfunctions/

 

Howell, D., D. Baker, A. Glyn and J. Schmitt. 2007. ‘Are protective labor market Institutions at the root of unemployment? A critical review of the evidence.’ Capitalism and Society 2 (1): 1-73.

 

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Jayadev, A. and A. Narayan. 2018. ‘The evolution of India’s industrial labor share and its correlates.’ CSE Working Paper 2018-4. Azim Premji University: Centre for Sustainable Employment.

 

Kanbur, R. and L. Ronconi. 2016. ‘Enforcement matters: the effective regulation of labor.’ CEPR Discussion Paper No. 11098. Disponibile su: https://cepr.org/active/publications/ discussion_papers/dp.php?dpno=11098

 

Karak, A. and D. Basu. 2019. ‘Profitability or industrial relations: what explains manufacturing performance across Indian states?’ Development and Change, forthcoming.

 

Roychowdhury. 2014. ‘The labor market flexibility debate in India: Re‐examining the case for signing voluntary contracts.’ International Labor Review 153 (3): 473-487.

 

Storm, S. and J. Capaldo. 2018. ‘Labor institutions and development under globalization.’ INET Working Paper No. 76. New York: Institute for New Economic Thinking. https://www.ineteconomics.org/uploads/papers/WP_76-Storm-and-Capaldo-Final.pdf

 

Vergeer, R. and A. Kleinknecht. 2012. ‘Do flexible labor markets indeed reduce unemployment? A robustness check. Review of Social Economy 70 (4): 1-17.

 

Webb, S. and B. Webb. 1902. Problems of Modern Industry. New York, NY: New World

 

World Bank. 2005. World Development Report 2005: A Better Investment Climate for Everyone. Washington, DC: World Bank.

 

World Bank. 2008. Doing Business: An Independent Evaluation Report. Washington, DC: World Bank.

 

 

Servaas Storm è un economista e saggista olandese (Università di Delft); lavora nel campo della macroeconomia, del progresso tecnologico, della distribuzione del reddito & crescita economica, finanza, sviluppo e riforme strutturali e cambiamento climatico.

Orbán costruisce una stalla per il cavallo di Troia di Putin

Da Eurointelligence, una notizia che non ha avuto molta eco, ma che potrebbe essere vista come il cavallo di Troia di Putin nell'Unione europea. Una banca di investimenti con la sua sede principale a Budapest, di cui la Russia è il maggiore azionista, che per il suo status giuridico di banca sorta da un trattato internazionale sfugge a sanzioni e vincoli, e che potrebbe finanziare i progetti di investimento che non trovano spazio nella UE.


 

 

Eurointelligence, 25 febbraio 2019

 

La settimana scorsa il Parlamento ungherese ha discusso un accordo internazionale per spostare a Budapest la International Investment Bank con sede in Russia. Il report giornalistico si è concentrato sui particolari privilegi e immunità di cui la banca beneficerà in quanto banca di sviluppo internazionale basata su un trattato. L'IIB era una volta il ramo bancario del Comecon, l'organizzazione per la cooperazione economica guidata dai sovietici. Questi benefici includono un'immunità diplomatica per tutti i dipendenti oltre all'esenzione da ogni supervisione finanziaria, da obblighi di comunicazioni o autorizzazioni. Questa mossa è considerata come l'introduzione di un cavallo di Troia di Putin nell'Unione Europea. Mentre la Russia è il maggiore azionista, altri stati membri dell'UE detengono la maggioranza del capitale della banca.

 

Indipendentemente da qualsiasi intento nefasto, è vero che in quanto banca basata su un trattato multilaterale la IIB è già esente dalle sanzioni USA che colpiscono gli interessi finanziari della Russia. L'IIB è vista come il tentativo di Putin di costruire un sistema finanziario internazionale indipendente da quello occidentale dominato dagli Stati Uniti. La sua presenza nell'Europa centro-orientale aiuterà la Russia a rafforzare la sua influenza sugli ex stati satelliti sovietici. Dal punto di vista ungherese, l'attrattiva dell'IIB consiste nella sua possibilità di aiutare a finanziare progetti che non sarebbero qualificati per i finanziamenti UE. Direkt36 (Centro di giornalismo investigativo ungherese, ndt) ha citato un ex funzionario del governo di Orbán secondo il quale la banca potrebbe essere utilizzata per rafforzare le alleanze politiche del governo ungherese. Il ministero delle Finanze ungherese pone la manovra della IIB nel contesto di un più ampio sviluppo di Budapest come hub finanziario.

 

Dopo la caduta del blocco sovietico la banca si è indebolita e gradualmente ha perso la partecipazione della Germania dell'Est, della Polonia e dell'Ungheria. Poi è stata rivitalizzata da Vladimir Putin nel 2012 e si è quindi reinventata con un focus sullo sviluppo sostenibile. Il suo status di banca per lo sviluppo costituita sulla base di un trattato internazionale le ha assicurato alcuni vantaggi operativi, e ha mantenuto la partecipazione di Bulgaria, Repubblica Ceca, Romania e Slovacchia, oltre a un paio di stati asiatici vicini alla Russia. L'Ungheria è rientrata nel 2015 - ironicamente, con lo stesso Viktor Orbán che ha annullato la sua precedente decisione, presa nel 2000 durante il suo primo mandato, di abbandonare l'adesione alla banca - e la banca ha aperto una sua filiale regionale europea a Bratislava nel 2016. Poi l'anno scorso ha raggiunto un accordo con l'Ungheria per stabilire un'altra filiale regionale a Budapest, ma nel giro di pochi mesi questo accordo si è allargato sino a prevedere il trasferimento del suo quartier generale. La nuova sede centrale della IIB a Budapest aprirà quest'anno, ma ci vorranno 2-3 anni per completare il trasferimento.

 

Mentre può essere stato impossibile per l'UE impedire questa mossa, dato lo status giuridico dell'IIB, d'altra parte il trasferimento della banca in Ungheria potrebbe evidenziare la necessità per l'UE di pensare a se stessa più in termini geopolitici che semplicemente come mercato unico in cui i paesi membri competono. La Russia e la Cina stanno traendo vantaggio dal mancato intervento dell'UE nello sviluppo regionale nell'Europa orientale.

24/02/19

BBC - L'occupazione britannica tocca un altro record

Un articolo della BBC riporta - con una certa qual cautela - i nuovi, ottimi dati sul record di occupati nel Regno Unito, che hanno toccato il livello più alto dal 1971, con un effetto particolarmente favorevole sulla disoccupazione femminile. Naturalmente, i commenti - in casi come questo - sottolineano che gli effetti della Brexit non si fanno ancora sentire (fossero dati negativi, però, sarebbero stati attribuiti alla Brexit senza fallo) e non demordono dal lanciare fosche previsioni per i prossimi mesi. Ma continuare a discutere di ipotesi è ormai diventato perfino noioso: limitiamoci ai fatti, che oggi dicono che la disoccupazione nel Regno Unito è calata e - soprattutto - che i salari di conseguenza crescono al di sopra del livello dell'inflazione, più di quanto è avvenuto negli anni scorsi. Il potere d'acquisto dei lavoratori quindi aumenta, i salari reali hanno raggiunto il livello più alto da marzo 2011: non è interessante? 

 

 

 

19 febbraio 2019 

 

Il numero di persone che lavorano nel Regno Unito ha continuato a salire, con un record di 32,6 milioni di occupati tra ottobre e dicembre, come mostrano le ultime cifre dell'Ufficio per le statistiche nazionali.

 

La disoccupazione è variata di poco nel trimestre, attestandosi a 1,36 milioni.

 

Il tasso di disoccupazione, fermo al 4%, è al livello minimo dall'inizio del 1975.

 

I salari medi settimanali sono aumentati del 3,4% toccando le 494,50 sterline, calcolando fino a dicembre, - tenuto conto dell'aggiustamento per l'inflazione, è il livello più alto dal mese di marzo 2011.

 


[caption id="attachment_17175" align="alignnone" width="610"] I salari reali più alti da marzo 2011. Salario medio settimanale, aggiustato per l'inflazione. Fonte: Office for National Statistics, UK.[/caption]

 

Il numero delle persone occupate tra ottobre e dicembre è aumentato di 167.000 unità rispetto al trimestre precedente, e di 444.000 unità rispetto allo stesso periodo del 2017.

 

Il tasso di occupazione - definito come la percentuale di persone di età compresa tra 16 e 64 anni che hanno un lavoro - è stato stimato pari al 75,8%, superiore al tasso del 75,2% registrato l'anno precedente e a pari livello con il tasso più alto mai toccato da quando si è iniziato a confrontare i livelli di occupazione in modo comparabile, nel 1971.

 

Il ministro per l'Occupazione Alok Sharma ha dichiarato: "Mentre l'economia globale sta affrontando diverse sfide, in particolare nei settori come il manifatturiero, queste cifre mostrano la resilienza di fondo del nostro mercato del lavoro - che ancora una volta offre livelli record di occupazione".

 

Matt Hughes, vice capo del settore che si occupa del mercato del lavoro dell'ONS (Office for National Statistics, l'istituto nazionale di statistica britannico, ndt) ha dichiarato: "Il mercato del lavoro rimane solido, con il tasso di occupazione rimasto ai massimi livelli e le posizioni vacanti che raggiungono un nuovo livello record. Anche il tasso di disoccupazione è diminuito, e per le donne è sceso sotto il 4% per la prima volta in assoluto."

 


[caption id="attachment_17176" align="alignnone" width="610"] Tasso di occupazione massimo dal 1971. Percentuale della popolazione UK tra 16-64 anni con un lavoro. Fonte: Office for National Statistics, UK. Margine di errore: +/- 0.4%[/caption]

 

Tuttavia, Andrew Wishart, economista britannico di Capital Economics, ha avvertito che i dati del mese prossimo potrebbero non essere così vivaci

 

"I dati sul mercato del lavoro, con l'occupazione in aumento, non rispecchiano lo scivolone registrato nelle inchieste sulle assunzioni a dicembre ", ha affermato.

 

"Tuttavia, i risultati delle indagini sono peggiorati in modo più marcato a gennaio, quindi un effetto Brexit potrebbe iniziare a indebolire la crescita dell'occupazione nella prossima serie di dati ufficiali".

 

Analisi


 

di Dharshini David, giornalista economico della BBC

 

Il mercato del lavoro rimane in forma robusta nonostante la perdita di slancio dell'economia verso la fine dello scorso anno - tuttavia l'"effetto nebbia" della Brexit potrebbe non essere ancora stato registrato.

 

Proseguendo le recenti tendenze, la maggior parte di coloro che sono entrati nel mercato del lavoro erano precedentemente inattivi (studenti, persone a casa per accudire familiari, malati a lungo termine ecc.).

 

La domanda di lavoro continua a sostenere la crescita dei salari. I salari reali sono aumentati di oltre l'1% all'anno, complessivamente meglio rispetto agli ultimi anni, sebbene ancora circa la metà rispetto all'era pre-crisi.

 

Finora quindi non ci sono grandi tracce del fatto che l'incertezza sulla Brexit ostacoli le assunzioni - ma va detto anche che la domanda nel mercato del lavoro ha una marcata tendenza a non tenere il passo con le variazioni della produzione.

 

Indagini più recenti sull'occupazione mostrano un deciso deterioramento a gennaio, quindi l'effetto Brexit potrebbe iniziare a indebolire la crescita dell'occupazione nella prossima serie di dati ufficiali.

 

E la produttività - produzione oraria - è diminuita dello 0,2% nel quarto trimestre del 2018 rispetto a un anno prima, poiché la produzione è aumentata più lentamente dell'occupazione. La mancanza di progressi in questo settore potrebbe pesare sulla crescita dei salari nel lungo periodo.

 

Carenza di specializzazione


 

Guardando le cifre medie dei guadagni, Samuel Tombs, capo economista britannico di Pantheon Macroeconomics, ha dichiarato: "Con un surplus di lavoro estremamente scarso e le offerte di lavoro che toccano un nuovo massimo storico, i lavoratori hanno più successo nell'ottenere aumenti salariali al di sopra dell'inflazione. Guardando al futuro, dubitiamo che la crescita dei salari scivolerà al di sotto del 3% quest'anno".

 

Nonostante gli aumenti salariali e il basso tasso di disoccupazione, Suren Thiru, capo del settore economico delle Camere di commercio britanniche, non ritiene che una High Streets in difficoltà ne trarrà benefici.

 

Ha affermato: "L'aumento della spesa dei consumatori derivante dal recente miglioramento della crescita dei salari reali sarà probabilmente limitato dalla scarsa fiducia dei consumatori e dagli elevati livelli di debito delle famiglie. L'aumento del numero di posti vacanti a un nuovo massimo storico conferma che la carenza di manodopera e di competenze specializzate è destinata a rimanere un significativo ostacolo per le attività economiche per un certo tempo a venire, impedendo la crescita e la produttività del Regno Unito".

 

22/02/19

Bolton lo ammette: fuori Maduro dal Venezuela per far entrare le compagnie petrolifere Usa

La diplomazia Usa è sempre più spudorata nel perseguire con ogni mezzo gli interessi esclusivi delle multinazionali americane. Mentre - riguardo al Venezuela – si dibatte per stabilire se Maduro sia un eroe socialista rivoluzionario da preservare o un dittatore incompetente da abbattere, la Sicurezza Nazionale Usa ammette candidamente che il Presidente va rimosso per consentire alle compagnie petrolifere Usa di mettere la mani sulle vaste riserve venezuelane di petrolio. Un film già visto altre volte, per esempio in Iraq e in Libia, che in genere ha un finale tragico.

 

 

 

Da Zero Hedge, 28 gennaio 2019

 

Possiamo perdonare l’inguaiato presidente del Venezuela, Nicolas Maduro, di essere convinto dell’esistenza di una cospirazione esterna contro di lui e di avere ripetutamente accusato gli Usa di orchestrare un “colpo di stato” e una “guerra economica” contro il suo governo, specialmente considerando che i consulenti Usa ammettono ormai apertamente che è esattamente quello che sta succedendo. Infatti subito dopo la  contestata rielezione di Maduro e il suo giuramento per un secondo mandato di sei anni, il suo ministro degli esteri Jorge Arreaza ha dichiarato a Democracy Now che “l’opposizione non fa niente senza il permesso o l’autorizzazione del Dipartimento di Stato Usa… dicono: “dobbiamo consultarci con l’ambasciata. Dobbiamo consultarci con il Dipartimento di Stato ”.

 

Anche se quest’ultima affermazione potrebbe essere semplicistica, i funzionari della Casa Bianca non rendono certo la vita facile all'opposizione, nel suo essere dipinta da Maduro come burattini in mano straniera. Come esempio palese, il consulente di Trump per la sicurezza nazionale John Bolton ha recentemente ammesso a Fox Business che gli USA  hanno “molto in gioco” nell’attuale crisi del Venezuela, dato che il paese possiede le più grandi riserve di petrolio note al mondo. Bolton ha dichiarato a Trish Regan:

 

"Economicamente, farebbe una grande differenza per gli Stati Uniti se potessimo avere le compagnie petrolifere americane che investono e sfruttano le capacità petrolifere del Venezuela."

 

Quindi sembra che mentre il governo Usa prevede di aumentare le pressioni economiche e politiche per favorire il leader dell’opposizione nell’Assemblea Nazionale, Juan Guaidó, e mentre “tutte le opzioni sono contemplate” come hanno detto alti funzionari la scorsa settimana, Bolton ci ha fatto dare un'occhiata – in un momento di sincerità largamente ignorato dai media mainstream – alle motivazioni non esattamente innocenti del governo riguardo al Venezuela.

 

“Il Venezuela è uno dei tre paesi che chiamo 'la troika della tirannia' ha continuato Bolton (in precedenza aveva identificato le altre due in Cuba e Nicaragua). Dopo avere sostanzialmente ammesso che la politica degli Usa in Venezuela si concentra sulla conquista da parte delle compagnie petrolifere americane delle vaste riserve petrolifere inutilizzate del paese socialista, ha concluso esprimendo la speranza che possiamo farlo avvenire nel modo giusto”.

 

Nel frattempo, in un’altra apparizione su Fox della scorsa settimana, Bolton ha toccato un argomento simile, benché meno esplicito, dicendo che un cambiamento di regime è l’obiettivo finale degli Usa in Venezuela, come “potenziale passo fondamentale” per l’avanzamento degli “affari” Usa nella regione.

 

Queste ammissioni sono avvenute mentre i funzionari USA stanno cercando di dirottare le ricchezze del Venezuela che sono fuori dal paese verso Guaidó, per contribuire a sostenere le sue possibilità di prendere effettivamente il controllo del governo.

 

Nel fine settimana è stato svelato che il governo in crisi di Maduro, nello sforzo disperato di tenere le mani sul mucchio di contanti che ha all’estero, è stato ostacolato nel suo tentativo di rimpatriare gli 1,2 miliardi di dollari in oro depositati presso la Banca d’Inghilterra. Si tratta di una grossa tranche degli 8 miliardi di dollari di riserve estere detenute dalla banca centrale Venezuelana; tuttavia, il luogo in cui gran parte di esse sono conservate è sconosciuto.

 



Statistiche OPEC a fine 2017: l'81,89% delle riserve di petrolio mondiali sono in mano all'OPEC. Di queste, la quota maggiore (circa un quarto, spicchio arancione) è del Venezuela (NdVdE).

 

La decisione della Banca d’Inghilterra di respingere la richiesta di ritiro dell’oro fatta dai funzionari di Maduro è avvenuta dopo che alte personalità Usa, incluso il segretario di Stato Michael Pompeo e il consigliere per la Sicurezza Nazionale John Bolton, hanno spinto le loro controparti del Regno Unito ad aiutarli a tagliare fuori il governo di Maduro dai suoi beni oltremare, secondo fonti che lo hanno riferito a Bloomberg.

 

Tenendo conto di tutto questo, sembra sempre più chiaro che le crescenti pressioni diplomatiche ed economiche potrebbero presto mettere Washington sulla rotta di un qualche livello di intervento militare a Caracas. Rispetto a questa evoluzione, un rapporto Axios predice che “ci aspettiamo che il governo Trump metterà nel mirino il petrolio e i beni offshore di Nicolas Maduro nelle prossime settimane, e cercherà di indirizzare questa ricchezza verso il leader dell’opposizione, Juan Guaidó…” . Sembra che questo processo sia già iniziato sul serio.

 

21/02/19

Wikileaks: FMI e Banca Mondiale sono usate dagli USA come armi "non convenzionali" (e Guaidò batte cassa)

Uno dei recenti "leaks" di Wikileaks getta luce su come istituzioni finanziarie internazionali teoricamente "indipendenti" come il FMI e la Banca Mondiale vengano utilizzate come armi di guerra non convenzionale, al servizio degli interessi imperiali americani. Sebbene a prima vista si tratti di fatti ben noti a tutti da decenni, il fatto di leggerli candidamente descritti in documenti ufficiali delle forze armate americane sortisce comunque un effetto notevole. Queste rivelazioni dovrebbero, se i media mainstream avessero ancora una qualsiasi credibilità, dissolvere una volta per tutte l'illusione che il complesso di istituzioni nate dagli accordi di Bretton Woods abbiano come missione il benessere e la stabilità economica dei paesi membri, come invariabilmente recitano i loro trattati istitutivi.

 

 

 

di Whitney Webb, 7 febbraio 2019

 

 

In un manuale militare sulla "guerra non convenzionale" recentemente svelato da WikiLeaks si legge che, secondo l'esercito americano, le principali istituzioni finanziarie globali - come la Banca Mondiale, il Fondo monetario internazionale (FMI) e l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) - sono considerate come "armi finanziarie non convenzionali da usare in conflitti che possono includere guerre generali su larga scala", e per fare leva sulle "strategie e relazioni tra stati".

 

 

Il documento, il cui titolo letteralmente recita "Field Manual (FM) 3-05.130, Army Special Operations Forces Unconventional Warfare", originariamente redatto nel settembre 2008, è stato recentemente portato sotto i riflettori da WikiLeaks su Twitter in relazione ai recenti eventi in Venezuela e all'annoso assedio economico del paese guidato dagli Stati Uniti tramite sanzioni e altre modalità di guerra economica. Sebbene il documento abbia suscitato un rinnovato interesse solo negli ultimi giorni, originariamente era stato pubblicato da WikiLeaks nel dicembre 2008, ed è stato descritto come un "manuale militare sui cambi di regime".
I recenti tweet di WikiLeaks in proposito hanno attirato l'attenzione su un particolare capitolo del documento di 248 pagine, intitolato "Financial Instrument of US National Power and Unconventional Warfare". Questo particolare capitolo evidenzia come il governo USA applichi “un potere finanziario unilaterale e indiretto che esercita un'influenza persuasiva su istituzioni finanziarie internazionali e nazionali circa la disponibilità e i termini di prestiti, sovvenzioni o di altra assistenza finanziaria a entità statali e non statali”, e specifica che la Banca Mondiale, il Fondo monetario internazionale e l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE), nonché la Banca dei regolamenti internazionali (BRI), sono le “sedi diplomatico-finanziarie dalle quali gli USA realizzano” tali obiettivi.

 

 

Il manuale elogia anche la "manipolazione governativa dei tassi di interesse e fiscali" insieme ad altre "misure legali e burocratiche" atte a "favorire, modificare o bloccare i flussi finanziari", e afferma inoltre che l'Office of Foreign Assets Control del Tesoro americano [Ufficio del controllo dei beni esteri] (OFAC) - che supervisiona le sanzioni statunitensi sugli altri paesi, come il Venezuela - "ha una lunga esperienza nel condurre guerre economiche strumentali a qualsiasi campagna di guerra non convenzionale da parte di ARSOF [i reparti operativi speciali dell'esercito]".

 

 

Questa sezione del manuale nota poi che tali armi finanziarie possono essere utilizzate dall'esercito statunitense per creare "incentivi finanziari o disincentivi atti a persuadere avversari, alleati e governi fantoccio a modificare il proprio comportamento a livello strategico, operativo e tattico" e che le campagne di guerra non convenzionale sono strettamente coordinate con il Dipartimento di Stato e i servizi segreti per determinare "quali elementi del terreno umano [sic] nella UWOA [Area delle operazioni di guerra non-convenzionale] sono più vulnerabili da un attacco finanziario".

 

 

Il ruolo di queste istituzioni finanziarie internazionali "indipendenti" come estensioni del potere imperiale degli Stati Uniti è elaborato altrove nel manuale, e molte di queste istituzioni sono descritte in dettaglio in un'appendice del manuale intitolata "Lo strumento finanziario del potere nazionale". In particolare, la Banca Mondiale e il Fondo monetario internazionale sono elencati sia come strumenti finanziari e diplomatici del potere nazionale degli Stati Uniti, sia come parti integranti di ciò che il manuale definisce "l'attuale sistema di governance globale".

 

 

Inoltre, il manuale afferma che le forze armate americane "considerano che una manipolazione del potere economico correttamente integrata può e dovrebbe essere una componente della guerra non convenzionale", ossia che queste armi sono una caratteristica regolare consueta nelle campagne di guerra non convenzionale intraprese dagli Stati Uniti.

 

 

Un altro punto di interesse è che queste armi finanziarie sono in gran parte gestite dal Consiglio per la sicurezza nazionale (NSC), attualmente guidato da John Bolton. Il documento rileva che l'NSC "è primariamente responsabile per l'integrazione degli strumenti economici e militari del potere nazionale all'estero".

 

 

"Indipendenti" ma controllati

 

 

E proprio come questo manuale di guerra non convenzionale afferma apertamente che istituzioni finanziarie "indipendenti" come la Banca Mondiale e il FMI sono essenzialmente estensioni del potere del governo degli Stati Uniti,  anche gli analisti ormai da decenni avvertono che queste istituzioni promuovono costantemente gli obiettivi geopolitici degli Stati Uniti all'estero.

 

 

In effetti, il mito dell’"indipendenza" della Banca Mondiale e del FMI si vanifica semplicemente osservando la struttura e il finanziamento di ciascuna istituzione. Nel caso della Banca Mondiale, l'istituzione si trova a Washington e il presidente dell'organizzazione è sempre stato un cittadino statunitense scelto direttamente dal Presidente degli Stati Uniti. Nell'intera storia della Banca Mondiale, il Board of Governors dell'istituzione non ha mai respinto la scelta di Washington.

 

 

Lo scorso lunedì [4 febbraio 2019, N.dT.] è stato reso noto che il presidente Donald Trump ha nominato alla guida della Banca Mondiale l'ex economista della Bear Stearns, David Malpass. Il punto forte nel CV di Malpass è il fatto di non aver saputo prevedere il fallimento del suo ex datore di lavoro durante la crisi finanziaria del 2008, ed è probabile che decida di limitare i prestiti della Banca mondiale alla Cina e ai paesi alleati o in procinto di allearsi con la Cina, vista la sua reputazione ben consolidata di falco nei confronti della Cina.

 

 

Oltre a scegliere il suo presidente, gli Stati Uniti sono anche il maggiore azionista della banca, il che ne fa l'unico paese membro a disporre del diritto di veto. In effetti, come si legge nel manuale, "Poiché le decisioni importanti richiedono una maggioranza dell'85%, gli Stati Uniti possono bloccare qualsiasi modifica sostanziale" alle regole della Banca Mondiale o ai servizi che offre. Inoltre, il segretario al Tesoro degli Stati Uniti, ex banchiere di Goldman Sachs e "re dei pignoramenti", Steve Mnuchin, ha anche le funzioni di governatore della Banca Mondiale.

 

 

Sebbene il Fondo monetario internazionale sia diverso dalla Banca Mondiale sotto diversi aspetti, come la sua missione e il suo obiettivo, anch'essa è largamente dominata dall'influenza e dai finanziamenti del governo degli Stati Uniti. Ad esempio, anche il FMI ha sede a Washington e gli Stati Uniti ne sono il maggiore azionista - detengono il 17,46% delle azioni, di gran lunga la quota più consistente - e versano anche la quota maggiore per il mantenimento dell'istituzione, contribuendo ogni anno con 164 miliardi di dollari agli impegni finanziari del FMI. Sebbene gli Stati Uniti non scelgano l’alto dirigente del FMI, grazie alla posizione privilegiata come principale finanziatore dell'istituzione possono controllare le regole del FMI minacciando di trattenere i fondi se l'istituzione non si attiene alle richieste di Washington.

 

 

Come conseguenza della sproporzionata influenza degli Stati Uniti sul comportamento di queste istituzioni, queste hanno usato i loro prestiti e sovvenzioni per "sequestrare" le nazioni indebitate e imporre programmi di "aggiustamento strutturale" a questi governi oberati dal debito, che si traducono in privatizzazioni di massa di beni statali, deregolamentazione e austerità, tutte misure che generalmente avvantaggiano le multinazionali straniere rispetto alle economie locali. Spesso queste stesse istituzioni - facendo pressione sui paesi per deregolamentare il settore finanziario e attraverso rapporti di corruzione con gli attori statali - provocano gli stessi problemi economici che poi esse stesse sono chiamate a "riparare".

 

 

Guaidó batte cassa al FMI

 

Considerata la stretta relazione tra il governo degli Stati Uniti e queste istituzioni finanziarie internazionali, non dovrebbe sorprendere che - in Venezuela - il "presidente ad interim" sostenuto dagli Stati Uniti Juan Guaidó - abbia già fatto richiesta di fondi dal FMI, e quindi contratto un debito controllato dal FMI per finanziare il suo governo parallelo.

 

 

Ciò è molto significativo perché mostra che tra le priorità di Guaidó, oltre a privatizzare le enormi riserve petrolifere del Venezuela, c’è quella di incatenare nuovamente il paese alla macchina del debito controllata dagli Stati Uniti.

 

 

Come recentemente spiegato da Grayzone Project:

 

"Il precedente Presidente socialista venezuelano Hugo Chávez aveva rotto i legami con il Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale, che a suo parere erano "dominati dall'imperialismo USA". Come contrappeso all'FMI e alla Banca Mondiale, il Venezuela e altri governi di sinistra in America Latina stavano invece collaborando per istituire la Banca del Sud."

 

 

Tuttavia, il Venezuela non è affatto l'unico paese dell'America Latina a essere bersaglio di queste armi finanziarie mascherate da istituzioni finanziarie "indipendenti". Ad esempio, l'Ecuador - il cui attuale presidente sta cercando di riportare il paese nelle grazie di Washington - è arrivato al punto di condurre una "revisione" della sua decisione di offrire asilo al giornalista ed editore di WikiLeaks Julian Assange allo scopo di ottenere un salvataggio da $10 miliardi dal FMI. L'Ecuador ha concesso asilo ad Assange nel 2012, e da allora gli Stati Uniti continuano affannosamente a chiedere la sua estradizione per accuse ancora imprecisate.

 

 

Inoltre, lo scorso luglio gli Stati Uniti hanno minacciato di colpire l'Ecuador con "misure commerciali punitive" se avesse proposto un provvedimento alle Nazioni Unite per sostenere l'allattamento al seno rispetto a quello con latte artificiale, una mossa che ha stupito la comunità internazionale ma ha anche messo a nudo la volontà del governo USA di usare "armi economiche" contro le nazioni latinoamericane.

 

 

Oltre all'Ecuador, altri recenti obiettivi della massiccia "guerra" del FMI e della Banca Mondiale comprendono l'Argentina, che proprio l'anno scorso ha ottenuto il più ingente prestito di salvataggio del FMI della storia. Questo pacchetto di prestiti era, come prevedibile, pesantemente sostenuto dagli Stati Uniti, come risulta da una dichiarazione del segretario al Tesoro Mnuchin, rilasciata lo scorso anno. In particolare, il FMI è stato determinante nel causare il completo collasso dell'economia argentina nel 2001,  un cattivo auspicio rispetto alla recente approvazione del nuovo pacchetto record di prestiti.

 

 

Sebbene sia stato pubblicato oltre un decennio fa, questo "Manuale dei colpi di stato” di recente divulgato da WikiLeaks è una conferma di come la cosiddetta "indipendenza” di queste istituzioni finanziarie sia un'illusione, e che in realtà esse non siano altro che “armi finanziarie”, abitualmente utilizzate dal governo degli Stati Uniti per piegare i paesi alla sua volontà e persino rovesciare i governi invisi a Washington.

20/02/19

Andiamo al punto: quale lezione si dovrebbe trarre dal caso della BBC sulla Siria?

Il giornalista della BBC Riam Dalati ha ritrattato - in un tweet - il contenuto del suo servizio sui danni conseguenti al presunto attacco chimico a Duma, in Siria, nell'aprile scorso. L'episodio dei bambini curati in ospedale per le conseguenze degli attacchi con i gas riportati dai media era stato orchestrato. I nostri lettori non ne saranno certo stupiti: abbiamo più volte segnalato le evidenti forzature, per usare un eufemismo, dell'informazione occidentale sulla guerra in Siria (per esempio qui, qui e qui). Di fronte a questa nuova conferma di quanto l'informazione si sia trasformata in propaganda, nel silenzio pressoché totale dei media mainstream (nonché delle celebrità radical-chic che si erano affrettate a sostenere la fake news divulgando loro foto con la mano premuta sulla bocca), è una giornalista cinese che ha buon gioco a smascherare la inattendibilità dei media occidentali e ad invitarli a cambiare strada. 

 

 

di Liu Xin, 15 febbraio 2019

 

 

Mercoledì (13 febbraio, ndr), un giornalista della BBC ha annunciato al mondo che la scena ambientata in un ospedale, contenuta in un servizio della BBC sul presunto attacco chimico avvenuto in Siria lo scorso aprile, era "orchestrata".

 

Riam Dalati si riferiva al presunto attacco con gas chimici contro la città di Duma, a circa 20 km a nord est di Damasco, che secondo la BBC aveva provocato danni. Nel servizio, i bambini sembravano ricevere cure legate alle conseguenze dell'attacco. Una carenza di medici sembrava sommarsi alla loro sofferenza e all'emergenza del momento.

 

Dopo mesi di indagini, Dalati ha preso una posizione pubblica che capovolge il suo stesso lavoro. Ha twittato che può provare senza più dubbi che la scena dell'ospedale di Duma era stata orchestrata. Nessun incidente mortale si era verificato nell'ospedale, ha dichiarato. Tutti gli attivisti e le persone con cui aveva parlato erano in altre zone. Una delle persone che aveva filmato la scena era un medico affiliato a Jaysh Al-Islam, un gruppo terroristico riconosciuto a livello internazionale.

 

Dalla sua descrizione, sembra che all'epoca dei fatti sia stato convinto a credere a quello che aveva visto all'ospedale, anche se non si può esserne assolutamente sicuri. Come giornalista esperto, era un suo dovere fondamentale verificare l'autenticità delle sue informazioni e la provenienza delle sue fonti prima di pubblicare il servizio, specialmente su un tema così importante.

 

Questa storia ha contribuito a fuorviare l'opinione pubblica, creando l'impressione che siano state effettivamente utilizzate armi chimiche contro donne e bambini innocenti. Sette giorni dopo, gli Stati Uniti, insieme ai loro alleati, la Francia e il Regno Unito, hanno bombardato ciò che ritenevano fossero installazioni di armi chimiche in Siria, qualche ora prima che gli ispettori dell'ONU arrivassero per un'indagine ufficiale.

 

L'annuncio di Dalati non è una sorpresa per i molti che mantengono una capacità di giudizio indipendente. Poco dopo l'incidente di Duma, i giornalisti di Russia e Cina sono andati sul luogo per cercare di scoprire la verità.

 

Secondo Russia 24, il ragazzo che si vede nel servizio della BBC era andato all'ospedale perché degli estranei gli avevano chiesto di farlo. Il padre del ragazzo aveva affermato che in quel momento non c'erano stati attacchi anomali. Un giornalista cinese ha indagato sull'ospedale e ha scoperto che molte domande non ricevevano risposta. Secondo il personale ospedaliero, il giorno del presunto attacco nessun caso di soffocamento causato da avvelenamenti era stato curato in ospedale.

 

Queste domande fondamentali sono state poste molto raramente dai media occidentali. Anche l'annuncio di Dalati di mercoledì non susciterà molta attenzione (possiamo confermare, ndr). La BBC ha reagito dichiarando che il tweet del giornalista rispecchia una sua opinione personale e che l'attacco è effettivamente avvenuto. Ma se l'episodio dell'ospedale è stato una messa in scena, quali prove supportano questa affermazione?

 

La BBC dovrebbe chiedere ai civili che sono stati feriti nei conseguenti attacchi aerei se accettano che questo sia stato il motivo per cui hanno subito lesioni. Per non parlare della sovranità della Siria, che è stata calpestata, e dei danni materiali causati.

 

Questa non è la prima volta e non sarà l'ultima che informazioni non confermate o persino menzogne sono state pubblicate da giornalisti o organizzazioni mediatiche occidentali, utilizzate per supportare la versione dei fatti occidentale.

 

Il caso della donna Uigura di nome Mirgrul Tursun che ha mentito sulla sua vita nella regione autonoma cinese dello Xinjiang è solo un altro esempio.

 

Nonostante sia stato dimostrato che è un falso, la storia della CNN basata sul suo resoconto è ancora lì, continuamente citata per servire come base di altre storie che criticano la Cina. Le sue menzogne ​​sono state persino usate per giustificare la legislazione in merito del Congresso degli Stati Uniti.

 

In passato ho detto che i media occidentali normalmente non mentono, si limitano a dare verità parziali. Ma in questo caso, mi correggo. Se una storia inventata viene riportata come storia vera, questo può essere dannoso quanto mentire.

 

Errare è umano, ma continuare e continuare a sbagliare è una tragedia umana. Ammettere di avere commesso errori e correggere il comportamento sbagliato è l'unico modo per iniziare a ricostruire la credibilità dei media occidentali.

18/02/19

La testimonianza di Yanis Varoufakis che lo condanna - I negoziati segreti e le speranze deluse

 

Eric Toussaint, dottore in scienze politiche dell’università di Liegi e di Paris VIII e coordinatore dei lavori della "Commissione per la verità sul debito pubblico greco" creata il 4 aprile 2015 su iniziativa del Presidente del Parlamento greco e poi ben presto disciolta, ha ricostruito in una serie di articoli le vicende dei febbrili negoziati tra Bruxelles e il governo greco durante i giorni più caldi della crisi, basandosi sul libro pubblicato dall'ex ministro Varoufakis e sui suoi stessi ricordi. Qui si ricostruiscono gli accordi sulle privatizzazioni con i Cinesi e le interferenze della Germania, le speranze disilluse sull'aiuto dei russi e degli americani, e la fugace esaltazione per la coraggiosa decisione, presto rientrata, di non pagare il debito al Fmi. In particolare Toussaint sottolinea la rinuncia del governo greco a comunicare col popolo degli elettori per cercar di spiegare la situazione e ottenere il sostegno ad azioni coraggiose. 


 

 

 

di Eric Toussaint, 8 febbraio 2019


Traduzione di Rododak



Attracco d'una nave porta container Cosco al porto del Pireo di Atene

 

Nell'undicesimo capitolo del suo libro, Yanis Varoufakis spiega di essere intervenuto per portare a termine la vendita del terzo terminal del Porto del Pireo alla compagnia cinese Cosco, che già gestiva dal 2008 i terminal 1 e 2. Come Varoufakis stesso riconosce, Syriza prima delle elezioni aveva promesso che non avrebbe consentito la privatizzazione della parte restante del porto del Pireo. Varofakis continua: "Syriza durante la campagna dal 2008 prometteva non soltanto che avrebbe impedito il nuovo accordo, ma che avrebbe totalmente estromesso Cosco". E aggiunge: "Avevo due colleghi ministri che dovevano la loro elezione a questa promessa". Tuttavia Varoufakis si affretta a cercar di concludere l'accordo di  vendita a Cosco. Se ne occupa con l'assistenza di uno dei consulenti senior di Alexis Tsipras, Spyros Sagias, che fino all'anno precedente era stato consulente legale della Cosco. Nella scelta di Sagias c'era quindi un chiaro conflitto di interessi, cosa che Varoufakis riconosce (pag. 313). Era stato lo stesso Sagias, peraltro, a redigere il primo accordo con Cosco nel 2008. Sagias negli anni '90 era stato consigliere anche del primo ministro del PASOK Konstantinos Simitis, che aveva organizzato la prima grande ondata di privatizzazioni. Nel 2016, dopo avere lasciato il suo ruolo di segretario del governo Tsipras, Sagias riprende ancora più attivamente la sua attività professionale, in particolare come consulente di Cosco [1]. Varoufakis non prova imbarazzo nel dichiarare di avere rivisto i termini della gara d'appalto all'inizio di marzo 2015 per adeguarla alle richieste di Cosco: "Sagias ed io abbiamo informato Alexis (Tsipras), prima di passare ai preparativi (della finalizzazione dell'accordo con Cosco sul Pireo). L'obiettivo era riformulare la gara d'appalto per il Pireo in base alle condizioni accettate dai cinesi " (pag. 316).

Varoufakis riassume così la sua proposta a Pechino attraverso l'ambasciatore cinese di stanza ad Atene: "La Grecia ha una forza lavoro altamente qualificata, i cui stipendi sono diminuiti del 40%. Perché non chiedere ad aziende come Foxconn di costruire o riunire le loro strutture in un polo tecnologico, beneficiando di un regime fiscale specifico, non lontano dal Pireo?" (pag. 312). In questa proposta troviamo tutto il piccolo armamentario di argomenti dei governi neoliberisti che vogliono attirare gli investitori: una forza lavoro qualificata i cui salari sono diminuiti e sgravi fiscali per i datori di lavoro.


 

Varoufakis spiega anche che aveva proposto alle autorità cinesi di acquistare le ferrovie greche, in modo che la Cina avesse un accesso più facile al resto del mercato europeo su binario e ne facesse un ulteriore segmento della "New Silk Road". Questo ultimo progetto non è stato realizzato. [2]


 

Varoufakis nel marzo 2015 sperò invano che Pechino avrebbe acquistato buoni del tesoro greci per diversi miliardi di euro (contava su un totale di 10 miliardi, pag. 315), che il governo avrebbe usato per ripagare il suo debito con il Fmi. Con grande disperazione di Varoufakis, i leader cinesi non mantennero la loro promessa e si accontentarono di due acquisti da 100 milioni di euro.


 

Le proposte di Varoufakis alle autorità cinesi sono inaccettabili: prendere prestiti dalla Cina per rimborsare il Fondo monetario internazionale; abbandonare il controllo della Grecia sulle sue ferrovie; procedere ad altre privatizzazioni!


 

Il suo progetto è fallito perché le autorità cinesi e tedesche hanno concordato che la Cina non avrebbe offerto una bombola di ossigeno al governo di Tsipras. Scrive Varoufakis: "Berlino aveva chiamato Pechino, con un messaggio chiaro: evitate di trattare con i greci prima che noi abbiamo concluso con loro" (pag. 317).


 

Aziende cinesi, tedesche, italiane o francesi effettuano acquisizioni a prezzo stracciato.


 

Alla fine, la realizzazione dell'accordo con Cosco non ebbe luogo quando Varoufakis era ministro. Fu concluso all'inizio del 2016 e a condizioni che, a suo parere, erano più favorevoli per l'azienda cinese rispetto all'accordo preliminare che lui aveva cercato di ottenere (capitolo 11, nota 8, pag. 516). Questo dimostra che le autorità cinesi si sono messe d'accordo con le autorità di Berlino: hanno lasciato asfissiare lentamente la Grecia e poi ne hanno aprofittato, condividendo la torta con gli altri predatori dei beni pubblici greci. Aziende cinesi, tedesche, italiane o francesi hanno effettuato acquisizioni a prezzo di svendita. Ma anche se nel 2015 le autorità cinesi avessero concretizzato le speranze di Varoufakis, questo non sarebbe comunque andato a beneficio della Grecia e del suo popolo.


 

Nel frattempo, anche le autorità russe, che erano state contattate da Tsipras e Panagiotis Lafazanis poco dopo i contatti di Varoufakis con Pechino, rifiutarono di aiutare il governo greco [3]. Putin invece trattò con la Merkel per ottenere un ammorbidimento delle sanzioni dell'Ue contro la Russia in seguito al conflitto con l'Ucraina, in cambio del rifiuto di Mosca di andare in aiuto del governo di Syriza.


 

Per quanto riguarda le speranze di Varoufakis e Tsipras di ottenere aiuto da Barack Obama, anche questa è stata una delusione. Secondo Varoufakis, l'amministrazione di Barack Obama affermò che la Grecia faceva parte della sfera di influenza di Berlino e lo stesso Obama raccomandò a Varoufakis di fare delle concessioni alla Troika. [4]


 

 

 


"Lasciate respirare la Grecia": manifestazione di solidarietà a Londra nel febbraio 2015


 

Diplomazia segreta e false comunicazioni di cui Tsipras e Varoufakis sono stati complici


 

Varoufakis dà conto della riunione dell'Eurogruppo che seguì la resa del 20 febbraio, falsamente presentata all'opinione pubblica greca come un successo: fine della Troika e della prigione del debito per la Grecia. All'Eurogruppo del 9 marzo a Bruxelles Varoufakis non riuscì a ottenere alcun gesto o concessione da parte dei leader europei, della Bce o del Fmi. Nonostante ciò, Varoufakis e Tsipras continuarono ad affermare che l'incontro era stato un successo. Varoufakis riporta che Tsipras gli avrebbe detto: "Lo presenteremo come un successo: secondo l'accordo del 20 febbraio inizieranno presto dei negoziati per sbloccare la situazione " (pag. 330).


 

Ciò che colpisce è il tempo speso da Varoufakis e Tsipras in interminabili riunioni all'estero, in colloqui nei quali loro fanno concessioni, mentre la Troika persegue metodicamente la sua opera di demolizione delle speranze del popolo greco. A Tsipras e Varoufakis non viene mai in mente di chiedere del tempo per incontrare il popolo greco, per organizzare incontri pubblici a cui la popolazione greca potesse partecipare. Non si muovono per il Paese a incontrare gli elettori, ad ascoltarli e spiegare loro quello che stava accadendo nei negoziati, per spiegare le misure che il governo avrebbe preso per combattere la crisi umanitaria e rilanciare l'economia del Paese.


 

Varoufakis e Tsipras non hanno cercato modi di comunicare con l'opinione pubblica internazionale né di mobilitare la solidarietà internazionale a sostegno del popolo greco. Non hanno mai approfittato delle loro visite a Bruxelles o in altre capitali per parlare direttamente con i molti attivisti che volevano capire che cosa stava realmente accadendo ed esprimere la loro solidarietà con il popolo greco.


 

Varoufakis e Tsipras hanno una pesante responsabilità nel mancato sviluppo di una solidarietà attiva e massiccia nei confronti della Grecia. Perché molti cittadini si mobilitassero sarebbe stato necessario rivolgersi a loro, informarli, per contrastare la massiccia campagna di denigrazione e stigmatizzazione di cui non solo il governo, ma l'intera popolazione greca era fatta oggetto.

 

Varoufakis e il Fmi


 

Si sarebbe dovuto annunciare la sospensione del pagamento del debito


 

Il 12 febbraio 2015 la Grecia ha rimborsato 747,7 milioni di euro per uno dei crediti concessi dal Fondo monetario internazionale nel quadro del primo memorandum. È stato un grave errore, si sarebbe dovuto annunciare la sospensione del pagamento di questo debito, con due argomenti: 1. lo stato di necessità [5] in cui si trovava il governo greco, nell'urgenza di dare precedenza alla lotta contro la crisi umanitaria; 2. l'avvio di un processo di revisione del debito pubblico greco, con la partecipazione dei cittadini, durante il quale il pagamento doveva essere sospeso [6]. Si sarebbe potuta giustificare questa revisione con l'applicazione del regolamento 472 dell'Unione europea. Questo articolo afferma: "Uno Stato membro soggetto a un programma di aggiustamento macroeconomico effettua un audit completo delle sue finanze pubbliche al fine, tra l'altro, di valutare i motivi che hanno portato all'accumulo di livelli eccessivi di debito e di individuare eventuali irregolarità" [7]. Né Varoufakis né Tsipras presero seriamente in considerazione la sospensione del pagamento combinata con un'inchiesta per determinare se il debito da pagare fosse legittimo o no, odioso o no.


 

Sarebbe stato possibile avviare una campagna di informazione da parte del governo, per mettere in discussione la legittimità dei crediti del Fmi elargiti alla Grecia dal 2010. Tsipras e Varoufakis avevano a disposizione i documenti segreti del Fmi, attestanti il carattere profondamente illegittimo e odioso della pretesa. Il problema è che Varoufakis era convinto che non avesse alcun senso parlare dell'illegittimità e dell'odiosità dei debiti addossati alla Grecia.


 

Il Wall Street Journal aveva reso pubblici i documenti segreti del Fmi fin da ottobre 2012, come già menzionato in un articolo. Alcuni giorni dopo la loro pubblicazione, incontrai Tsipras per parlare di una possibile collaborazione con il CADTM per condurre la procedura di revisione del debito. Dissi a Tsipras e al suo consigliere economico dell'epoca, John Milios: "Ora avete un argomento concreto contro il Fmi, perché se avete le prove che il Fmi sapeva che il suo programma non poteva funzionare e sapeva che il debito era insostenibile, abbiamo il materiale per affondare il colpo sull'illegittimità e illegalità del debito." [8] Tsipras rispose: "Ascolta... il Fmi sta prendendo le distanze dalla Commissione europea." Capii che aveva in mente che il Fmi avrebbe potuto essere un alleato di Syriza nel caso in cui Syriza fosse salito al governo. Un'idea del tutto priva di fondamenti ragionevoli.


 

A febbraio 2015 Tsipras e Varoufakis erano ancora fermi su quella posizione. Erano convinti che sarebbero stati in grado di ammorbidire il Fmi grazie al sostegno di Barack Obama e all'influenza dei consiglieri statunitensi scelti da Varoufakis, Jeffrey Sachs e Larry Summers. Erano totalmente sulla falsa strada. Varoufakis lo capì di persona una prima volta per ovvi motivi il 20 febbraio, e nei giorni seguenti, quando Christine Lagarde, direttrice del Fondo monetario internazionale, dichiarò all'Eurogruppo che non era assolutamente il caso di derogare dal memorandum stabilito.


 

Nonostante questa dimostrazione dell'atteggiamento ostile del Fmi, Varoufakis e Tsipras continuarono a rimborsare il Fondo monetario internazionale per tutto il mese di marzo 2015. Varoufakis ha dichiarato che il suo ministero ha pagato al Fmi 301,8 milioni di euro il 6 marzo, 339,6 milioni il 13 marzo, 565,9 milioni il 16 marzo e 339,6 milioni il 20 marzo. Complessivamente, nel mese di marzo 2015 sono stati pagati oltre 1.500 milioni di euro, utilizzando tutta la liquidità disponibile, benché le speranze di Varoufakis di ricevere denaro dalla Cina fossero svanite, e la Bce avesse confermato che non avrebbe pagato gli interessi dovuti alla Grecia sui buoni acquistati tra il 2010 e il 2012 e che non avrebbe ripristinato l'accesso alla liquidità ordinaria delle banche greche. Eppure il governo greco aveva sicuramente bisogno, per combattere la crisi umanitaria e promuovere l'occupazione, del denaro che finiva nelle casse del Fmi. Secondo Varoufakis, "che il mio ministero sia riuscito a trovare 1,5 miliardi di dollari per pagare l'Fmi ha del miracoloso, soprattutto tenendo conto del fatto che dovevamo continuare a pagare pensioni e dipendenti pubblici " (Capitolo 13, pag. 348).


 

La decisione di sospendere il pagamento del debito al FMI


 

Varoufakis riferisce di un incontro surreale tra Tsipras e i suoi ministri più importanti, tenutosi venerdì 3 aprile 2015. Spiega che prima della riunione aveva cercato di convincere Tsipras a non effettuare il pagamento successivo al Fondo monetario internazionale, previsto per il 9 aprile 2015 per un importo di 462,5 milioni di euro. La sua tesi: bisognava fare pressione sui leader europei e la Bce per ottenere qualcosa (ad esempio, un passo indietro sulla restituzione alla Grecia di due miliardi di euro incassati dalla Bce sui titoli greci 2010-2012), perché durante il mese di marzo non avevano ottenuto nulla. Varoufakis dice che sentiva di non essere riuscito a convincere Tsipras. Racconta in questo modo le intenzioni e il comportamento di Tsipras durante il "Consiglio dei ministri informale" (sic! pag. 348), che seguì:


 

"Eravamo su una strada che non portava da nessuna parte, disse, ma più parlava, più l'atmosfera diventava lugubre. Quando finì, sulla stanza pesava una cappa di rassegnazione. Diversi ministri parlarono, ma tradirono un profondo abbattimento. Alexis riprese la parola per concludere. Finì come aveva iniziato - lento, abbattuto, quasi depresso - ricordando che la situazione era critica e potenzialmente pericolosa, ma a poco a poco riprese il ritmo e riguadagnò energia.


 

"Prima che arrivaste, stavo parlando con Varoufakis. Stava cercando di convincermi che è il momento di fare default sul Fmi. I nostri interlocutori non mostrano alcun desiderio di raggiungere un accordo onesto, economicamente fattibile e politicamente sostenibile, mi ha detto. Ho risposto che non è il momento. (...) Ma sapete una cosa, compagni? Penso che abbia ragione. Quel che è troppo è troppo. Abbiamo scrupolosamente rispettato le loro regole. Abbiamo seguito le loro procedure. Abbiamo fatto marcia indietro per mostrare loro che siamo pronti a scendere a compromessi. E che cosa stanno facendo? Ritardano, per poi accusarci di ritardare. La Grecia è un paese sovrano, e oggi tocca a noi, al Consiglio dei ministri, di dire basta. Si alzò dalla sedia e con una voce sempre più forte mi puntò il dito contro, urlando: Non soltanto faremo default sul debito verso il Fmi, ma tu ora prendi un aereo, vai di corsa a Washington e lo comunichi di persona alla gran dama del Fmi!


 

La stanza fu attraversata da grida di gioia. Alcuni si scambiavano sguardi stupiti, consapevoli di vivere un momento storico. La tristezza e l'oscurità erano scomparse, qualcuno aveva strappato la tenda per far entrare la luce. Come tutti, forse anche di più, mi lasciai andare all'eccitazione. La si sarebbe detta una rivelazione, un'Eucarestia, per quanto strano possa sembrare in una banda di atei dichiarati." (Cap. 13, pp. 349-350).


 

Totale silenzio di Varoufakis sulla Commissione per la verità sul debito


 

Varoufakis ignora totalmente l'esistenza della commissione a cui aveva promesso la sua assistenza


 

Il resto di questa storia è allo stesso tempo scandalo e farsa. Varoufakis parte il giorno successivo per Washington via Monaco per incontrare con urgenza Christine Lagarde, direttore esecutivo del Fondo monetario internazionale. Mentre racconta nei dettagli la riunione del 3 aprile e l'incontro con il direttore del Fmi a Washington il 5 aprile, ignora totalmente un incontro a cui ha partecipato il 4 aprile. Un'omissione non banale, perché proprio quel giorno si è tenuto presso il Parlmento greco l'incontro pubblico di apertura dei lavori della Commissione per la verità sul debito pubblico, in presenza di Alexis Tsipras, del Presidente del Parlamento Zoe Konstantopoulou, del Presidente della Repubblica Prokopis Pavlopoulos e di dieci ministri, tra cui Yanis Varoufakis, che è intervenuto. Sono stato il coordinatore scientifico di questo comitato, quindi ho preso la parola subito dopo gli interventi del Presidente della Repubblica e della Presidente del Parlamento greco e prima degli interventi di tre miei colleghi della Commissione e di Varoufakis.


 

In realtà nel suo voluminoso libro Varoufakis ignora totalmente l'esistenza della commissione a cui aveva promesso il suo aiuto. Ha un bel sostenere sul suo blog e nelle interviste successive alla pubblicazione del suo libro di avere sostenuto la Commissione: questo è del tutto falso.


 

A mio parere è significativo anche che il 3 aprile, mentre si teneva l'importante incontro in cui venne deciso di sospendere il pagamento del debito al Fmi, George Katrougalos, che era un membro del governo, non ne era nemmeno al corrente. Ero con lui al suo ministero durante questo incontro. Allo stesso modo, la sera del 3 aprile ho incontrato anche la Presidente del Parlamento, a lungo, per preparare i dettagli della prima riunione della Commissione e nemmeno lei era a conoscenza né di questo incontro né della decisione di bloccare la restituzione del debito. Nemmeno Panagiotis Lafazanis, uno dei sei "super" ministri (questa è l'espressione usata da Tsipras), era stato invitato all'incontro. Questo testimonia il modo di muoversi di Tsipras e della sua cerchia: decisioni cruciali prese da un gruppo ristrettissimo, in segreto, senza consultare una grande parte dei membri del governo, né la Presidente del Parlamento né la direzione di Syriza.


 

Va anche sottolineato che il lavoro della Commissione per la verità sul debito ha avuto un enorme impatto sulla popolazione greca, e ne sono stato testimone personalmente. Molto spesso la gente mi ha manifestato simpatia o rivolto ringraziamenti per strada, sui mezzi pubblici o ancora al mercato settimanale del quartiere popolare di Atene dove ho vissuto tra aprile e luglio 2015. Questo significa che molte persone hanno seguito il lavoro della Commissione e ne conoscevano i membri principali, che tra l'altro sono stati oggetto di una sistematica campagna diffamatoria da parte dei media di destra.


 

Dalla tragedia alla farsa:  non è che un volo aereo


 

Non avevo mai sentito niente di così assurdo.


 

Ma riprendiamo il racconto di Varoufakis. Al suo arrivo a Washington, domenica 5 aprile, Tsipras gli trasmette un contrordine.


 

Ecco il dialogo tra Tsipras e Varoufakis, così come è riportato nel libro di quest'ultimo:


 

"Ascolta, Yanis, è stato deciso di non andare al default adesso, è troppo presto."


 

- "Come sarebbe 'è stato deciso' "? - Ho risposto, stordito. - "Chi è che ha deciso che non faremo default?"


 

- "Io, Sagias, Dragasakis... ci siamo detti che sarebbe stata una decisione prematura, appena prima di Pasqua".


"Grazie di avermi avvertito" gli ho risposto, fuori di me. Poi, prendendo il tono più neutro e distaccato possibile, gli ho chiesto: e adesso che cosa faccio? Prendo l'aereo e torno? Non vedo qual è il punto a incontrare la Lagarde.


 

- "Assolutamente no, non annullare l'appuntamento. Tu vai avanti come concordato. Tu incontri la signora e le dici che facciamo default."


 

Non avevo mai sentito niente di più assurdo.


 

- "Che cosa intendi, esattamente? Le dico che faremo default dicendole allo stesso tempo che abbiamo deciso il contrario"?


 

- "Esatto. Tu la minacci, in modo che in preda all'ansia chiami Draghi e gli chieda di porre fine alla restrizione della liquidità. A quel punto la ringraziamo e annunciamo che paghiamo il Fmi. "


 

Così Varoufakis accetta di andare a recitare una commedia grottesca alle sede del Fmi e dichiara a Christine Lagarde: "Sono autorizzato a informarvi che tra quattro giorni faremo default in relazione al nostro programma di rimborso al Fondo monetario internazionale, e questo finché i nostri creditori continueranno a trascinare i negoziati e la Bce limiterà la nostra liquidità."


 

Ora, la partenza di Varoufakis per Washington era stata resa pubblica. Ciò che Varoufakis non dice nel suo libro è che Dimitris Mardas, vice ministro delle Finanze scelto da Varoufakis [9], aveva dichiarato alla stampa internazionale che la Grecia il 9 aprile 2015 avrebbe pagato quanto dovuto al Fmi. L'agenzia di stampa ufficiale tedesca, Deutsche Welle, scriveva: "Il vice ministro delle Finanze Dimitris Mardas ha dichiarato sabato che la Grecia ha denaro a sufficienza. 'Il pagamento dovuto all'Fmi sarà effettuato il 9 aprile. C'è il denaro sufficiente per pagare gli stipendi, le pensioni e tutte le altre spese che dovranno essere erogate la prossima settimana', ha affermato Mardas"


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note

[1] Sagias è tornato a essere il consigliere designato dei grandi interessi stranieri per promuovere nuove privatizzazioni. Nel 2016 ha servito gli interessi dell'emiro del Qatar, che voleva acquistare un'isola greca, l'isola di Oxyas a Zacinto, appartenente a un parco naturale. Sagias è stato anche consulente di Cosco nel 2016-2017 in una controversia con i lavoratori del porto del Pireo, quando si è trattato di trovare una formula di pensionamento anticipato (o licenziamento dissimulato) per oltre un centinaio di lavoratori vicini all'età della pensione. Fonte: http://www.cadtm.org/Varoufakis-s-is-holding-of-the-dominant-order-as-advisers


 

[2] La società privata italiana Ferovialia ha acquistato le ferrovie pubbliche greche OSE per 45 milioni di euro nel giugno 2016 sotto la conduzione del ministro Stathakis, amico intimo di Tsipras ( https://tvxs.gr/news/ ellada / giati-i-trainose-polithike-monon-enanti-45-ekatommyrion-eyro ), con la prospettiva di un sussidio operativo di 250 milioni di euro da parte dello stato greco per i prossimi 5 anni (50 milioni all'anno). Vedi anche: http://net.xekinima.org/trainose-to-xroniko-mias-idiotikopoi/


 

[3] Vedi p. 342 e nota 5, cap. 12, p. 518.


 

[4] Vedi la dichiarazione di Obama secondo Varoufakis, cap. 14, pp. 368-369.


 

[5] Lo stato di necessità è riconosciuto dal diritto internazionale come una situazione che permette di sospendere il pagamento del debito.


 

[6] Ricordiamo che nel programma di Syriza per le elezioni del giugno 2012, tra le cinque priorità si poteva leggere: "Istituzione di una commissione internazionale di revisione del debito, insieme alla sospensione del pagamento del debito fino alla fine dei lavori di questa commissione".


 

[7] "Regolamento (UE) n. 472/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21 maggio 2013", art. 7 https://eur-lex.europa.eu/legal-content/EN/TXT/PDF/?uri=CELEX:32013R0472&from=IT


 

[8] Nel 2017, il CADTM ha pubblicato e commentato questi documenti segreti, conosciuti grazie alle rivelazioni del Wall Street Journal nel 2012: http://www.cadtm.org/Documents-secrets-du-FMI-sur-la


 

[9] Per quanto riguarda D. Mardas, bisogna sapere che il 17 gennaio 2015, otto giorni prima della vittoria di Syriza, Mardas ha pubblicato un articolo particolarmente aggressivo contro la deputata di Syriza Rachel Makri, intitolato "Rachel Makri vs Kim Jong Un e Amin Dada ". L'articolo si conclude con la domanda molto eloquente (sottolineata da lui stesso) "Sono questi quelli che ci governeranno?". Dieci giorni dopo, grazie a Varoufakis, lo stesso Mardas è diventato viceministro delle Finanze. Varoufakis spiega nel suo libro che dopo un mese dalla nomina a ministro si è reso conto di avere fatto una scelta sbagliata. Va notato che Mardas, che ha sostenuto la capitolazione nel luglio 2015, è stato eletto deputato di Syriza nelle elezioni di settembre 2015.


 

Fonte: CADTM, Eric Toussaint , 08-02-2019


 

13/02/19

L’Italia salva la dignità dell’Europa sulla prepotenza Usa in Venezuela

Mentre in Italia qualche politico autolesionista non perde occasione di schierarsi contro il proprio popolo, il quale ricambia generosamente nelle urne, nel dibattito internazionale il comportamento coraggioso dell’attuale governo in politica estera viene apertamente elogiato. Chi ne esce con le ossa rotte è l’ipocrita Macron, che non tollera l’appoggio di Di Maio al popolo francese in rivolta contro lui stesso, ma riconosce un presidente del Venezuela non eletto da nessuno in aperto spregio alle leggi internazionali.

 

 

 

Editoriale di Strategic Culture, 8 febbraio 2018

 

È comicamente ironico. La Francia ha richiamato l’ambasciatore di Roma a causa delle crescenti tensioni sulla presunta “interferenza” italiana negli affari politici interni francesi. Questo avviene proprio mentre la Francia e altri Stati europei si uniscono a una spudorata campagna degli Stati Uniti per rovesciare il presidente eletto del Venezuela, Nicolas Maduro. Non è facile pensare a qualcosa di più ironico.

 

Il dissidio tra Francia e Italia non è che l’ultimo capitolo di una lunga polemica tra il presidente francese Emmanuel Macron e il neoeletto governo di coalizione a Roma. Il governo italiano è formato da un’improbabile coalizione tra il sinistrorso Movimento 5 Stelle e un partito di destra, la Lega.

 

Entrambi i partiti sono molto critici verso l’establishment Ue e le politiche neoliberali capitalistiche che sono impersonificate dall’ex banchiere di Rothschild – diventato presidente francese – Macron.

 

Roma ha anche criticato la Francia per la sua responsabilità nel fomentare i problemi europei e italiani legati all' immigrazione di massa, in particolare attraverso i criminali interventi militari di Parigi, al fianco degli Usa e di altre potenze Nato, nel Medio Oriente e in Nord Africa.

 

La situazione è arrivata allo scontro aperto questa settimana, quando si è saputo che il vice primo ministro italiano Luigi Di Maio (leader del M5S) ha incontrato alcuni membri del movimento di protesta dei Gilet Gialli in Francia. Il movimento dei Gilet Gialli ha tenuto dimostrazioni in tutta la nazione nelle ultime dodici settimane, protestando contro le politiche economiche di Macron e contro quello che definiscono il suo stile elitista di governo. Di Maio e l’altro vice premier Matteo Salvini (leader della Lega) hanno apertamente appoggiato i contestatori francesi, con cui si identificano, in quanto espressione di una rivolta popolare contro l’austerità neoliberale in tutta Europa.

 

Reagendo a notizie di contatti tra il governo italiano e i contestatori francesi, il ministro francese degli Esteri – Jean-Yves Le Drian – li ha definiti una “oltraggiosa interferenza” negli affari interni del suo Paese. La polemica è aumentata ulteriormente dopo che la Francia ha richiamato il suo ambasciatore a Roma. L’ultima volta che ciò avvenne era stato nel 1940, durante la Seconda Guerra Mondiale. Si tratta di un deterioramento importante nelle relazioni tra due membri fondatori dell’Ue.

 

Questo è il punto in cui l’ironia sconfina nella farsa. La Francia tuona con rabbia contro la presunta interferenza italiana nei suoi affari interni, mentre nello stesso preciso momento il governo francese prende parte a un tentativo internazionale guidato dagli Usa di mettere in atto un cambiamento di governo in Venezuela. L’arroganza ipocrita non ha prezzo.

 

Questa settimana la Francia e diversi altri membri dell'Unione europea, incluse la Germania, l’Inghilterra, la Spagna e l’Olanda, hanno annunciato che “riconoscevano” l’auto-proclamatosi presidente del Venezuela.

 

Juan Guaido – una marginale figura dell’opposizione – si è autodichiarato “presidente a interim” del Paese sudamericano il 23 gennaio. Esistono legami ben documentati tra Guaido, il suo partito di opposizione di estrema destra e la CIA americana. La mossa di delegittimare il presidente eletto, Nicolas Maduro, è stata orchestrata dall’amministrazione Trump. Si tratta di una manovra palesemente illegale di cambio di regime, che viola la Carta delle Nazioni Unite e il diritto internazionale. Il governo socialista di Maduro e la ricchezza petrolifera naturale della nazione – parliamo delle più grandi riserve conosciute sul pianeta – sono l'ovvio obiettivo di Washington e delle capitali europee.

 

La Russia, la Cina, l’Iran e la Turchia, così come alcuni paesi dell’America Latina, compresi il Messico, il Nicaragua, la Bolivia e Cuba, hanno giustamente denunciato l’interferenza negli affari sovrani del Venezuela. La richiesta di Washington che Maduro si dimetta sotto la minaccia di un’invasione militare Usa è un preoccupante sfoggio di aggressione imperialista. Ma questo comportamento da gangster internazionali viene sostenuto da alcuni paesi europei, in primis la Francia, che concedono una parvenza di legittimità a questo vergognoso affare.

 

L’Italia è uno dei pochi paesi Ue che si sono rifiutati di seguire la criminale campagna guidata dagli Usa per un cambiamento di regime in Venezuela. Il governo italiano ha impedito alla Ue di emettere un comunicato politico congiunto di riconoscimento di Guaido come “presidente” al posto di Maduro. Le potenze europee che si stanno associando alle violazioni di Washington nei confronti del Venezuela lo stanno facendo di loro iniziativa, non nel nome della Ue.

 

La presa di posizione dell’Italia, insieme alla Russia e alla Cina, in difesa della sovranità del Venezuela è una meritoria adesione al diritto internazionale. Non consentendo alla Ue di associarsi alla prepotenza Usa, ha inferto un colpo vitale alle macchinazioni di Washington.

 

Pertanto, il governo italiano ha evitato che la Ue si screditasse completamente. Già è abbastanza grave che alcuni membri, come la Francia, si stiano associando alle operazioni gangsteristiche degli Usa contro il Venezuela, ma l’azione frenante dell’Italia ha quantomeno impedito all’Ue in blocco di farsi complice.

 

Se il fondamentale principio di non-interferenza negli affari sovrani degli stati-nazione non viene rispettato, l’intero sistema del diritto internazionale collassa. Il principio è stato violato molte volte negli anni più recenti, in particolare con le guerre illegali condotte dagli Usa e dai loro partner della Nato nel Medio Oriente e nel Nord Africa. Ma quest’ultimo episodio di cambio di regime in Venezuela è forse il più audace mai visto. Washington e i suoi lacchè europei  sono impegnati ad abolire il mandato democratico del presidente Maduro e la sentenza della Suprema Corte Venezuelana.

 

Washington e i suoi patetici complici europei stanno aprendo il Vaso di Pandora dell'anarchia globale se riescono a farla franca con il loro bullismo criminale contro il Venezuela.

 

La Russia, la Cina, l’Italia e altre nazioni stanno essenzialmente mantenendo la linea tra un’apparenza di ordine e un caos incontrollato.

 

Potremmo considerare il contatto tra il vice premier italiano e i contestatori francesi come una politica scarsamente accorta. Ma qualsiasi errore possa aver fatto l’Italia a riguardo, è trascurabile se paragonato all’incredibile arroganza e criminalità della Francia e degli altri Stati europei nella loro violazione della sovranità del Venezuela. L’arroganza della reazione francese alla presunta interferenza dell’Italia di questa settimana è uno spettacolo imperdibile.

 

Se proprio dobbiamo dire qualcosa, l’Italia merita applausi e rispetto per avere smascherato l’ipocrisia della Francia e degli altri aspiranti neo-colonialisti europei.

 

Il lato amaro dell’ironia è questo: il presidente francese e gli altri disprezzano la democrazia e il diritto internazionale - non solo in Venezuela - ma nei confronti dei loro stessi popoli.