La FDA ha infine concesso la autorizzazione definitiva al vaccino Pfizer per l'uso dai 16 anni in su, mentre resta l'uso emergenziale per gli adolescenti e la terza dose. La corsa all'approvazione è giunta dunque alla sua meta, nonostante persista la mancanza di studi controllati con follow-up a lungo termine e i dati non siano stati resi pubblicamente disponibili. Peter Doshi, che già aveva previsto questa mossa e lanciato l'allarme, ribadisce sul Britisch Medical Journal il suo appello a rallentare la corsa e seguire la scienza, spiegando come la casa farmaceutica stia nascondendo la perdita di efficacia dei vaccini nel tempo.
Peter Doshi, 23 agosto 2021
Il 28 luglio 2021, Pfizer e BioNTech hanno pubblicato i risultati aggiornati della sperimentazione di fase 3 sul vaccino covid-19 in corso. Il preprint è arrivato quasi un anno dopo l'inizio della sperimentazione e a quasi quattro mesi dalla pubblicazione delle stime di efficacia del vaccino "fino a sei mesi".
Ma non vi si trovano i dati di follow-up a 10 mesi. Sebbene il preprint sia recente, i risultati che contiene non sono particolarmente aggiornati. In effetti, il documento si basa sulla stessa data limite dei dati (13 marzo 2021) del comunicato stampa del 1 aprile e il suo risultato di efficacia principale è identico: efficacia del vaccino contro il covid-19 sintomatico del 91,3% (95% CI da 89,0 a 93,2) "fino a sei mesi di follow-up".
Il preprint di 20 pagine è importante perché rappresenta il resoconto pubblico più dettagliato dei fondamentali dati sperimentalipresentati da Pfizer a corredo della sua richiesta alla Food and Drug Administration della prima "piena approvazione " al mondo per un vaccino contro il coronavirus (per la prima volta nel mondo). Il preprint merita dunque un attento esame.
L'elefante nella
stanza si chiama “immunità calante”
Sin dalla fine dell'anno scorso, abbiamo sentito che i vaccini Pfizer e Moderna sono "efficaci al 95%", con un'efficacia ancora maggiore contro la malattia grave ("efficace al 100%", ha affermato Moderna).
Qualunque cosa si pensi sulla affermazione di "efficacia al 95%" (si veda qui quel che ne penso io), anche i commentatori più entusiasti hanno riconosciuto che misurare l'efficacia del vaccino due mesi dopo la somministrazione dice poco su quanto durerà l'immunità indotta dal vaccino. "Osserveremo molto attentamente la durata della protezione", ha dichiarato lo scorso dicembre al comitato consultivo della FDA il vicepresidente senior di Pfizer William Gruber, autore del recente preprint.
La preoccupazione, ovviamente, riguardava la diminuzione dell'efficacia nel tempo. "L'immunità calante" è un problema noto peri vaccini antinfluenzali, con alcuni studi che mostrano un'efficacia vicina allo zero dopo soli tre mesi, il che significa che un vaccino preso in anticipo potrebbe non fornire alcuna protezione all’arrivo della "stagione influenzale" alcuni mesi dopo. Se l'efficacia del vaccino diminuisce nel tempo, la domanda cruciale diventa: quale livello di efficacia fornirà il vaccino quando una persona sarà effettivamente esposta al virus? A differenza dei vaccini covid, le prestazioni del vaccino antinfluenzale sono sempre state valutate su un'intera stagione, non su un paio di mesi.
E così i recenti rapporti del Ministero della Salute israeliano hanno attirato la mia attenzione. All'inizio di luglio, riferivano che l'efficacia contro l'infezione e la malattia sintomatica "era scesa al 64%". Alla fine di luglio, con la Delta ceppo dominante, era scesa al 39%. Una efficacia molto bassa. Per comprendere il contesto, l'aspettativa della FDA per l’approvazione di un qualsiasi vaccino è di "almeno il 50%" di efficacia.
Ora Israele, che ha utilizzato quasi esclusivamente il vaccino Pfizer, ha iniziato a somministrare una terza dose di "richiamo" a tutti gli adulti sopra i 40 anni. E a partire dal 20 settembre 2021, gli Stati Uniti prevedono di seguire l'esempio per tutti gli adulti "che hanno completato la vaccinazione", otto mesi dopo la seconda dose.
Delta potrebbe non
essere responsabile
Vediamo quindi il preprint di Pfizer. Dato che un RCT (trial clinico randomizzato) riporta "fino a sei mesi di follow-up", è degno di nota il fatto che la prova della diminuzione dell'immunità fosse già visibile nei dati alla data limite del 13 marzo 2021.
"Dal suo picco post-dose 2", scrivono gli autori dello studio, "la VE [efficacia del vaccino] osservata è diminuita". Dal 96% al 90% (da due mesi a <4 mesi), poi all'84% (95% CI da 75 a 90) "da quattro mesi al cut-off dei dati", che, secondo i miei calcoli, è avvenuto circa un mese dopo.
Ma sebbene queste informazioni aggiuntive fossero disponibili per Pfizer già ad aprile, non sono state pubblicate fino alla fine di luglio.
Ed è difficile immaginare come la variante Delta possa svolgere un ruolo reale qui, poiché il 77% dei partecipanti alla sperimentazione proveniva dagli Stati Uniti, dove la Delta non si è affermata se non qualche mese dopo il cut-off (data limite) dei dati.
La diminuzione dell'efficacia ha il potenziale per essere molto più di un piccolo inconveniente; può cambiare drasticamente il calcolo rischi-benefici. E qualsiasi sia la causa - proprietà intrinseche del vaccino, circolazione di nuove varianti, una combinazione delle due cose o qualcos'altro ancora – il punto è che i vaccini devono essere efficaci.
Fino a quando nuovi studi clinici non dimostreranno che i richiami aumentano l'efficacia oltre il 50% senza aumentare gli eventi avversi gravi, non è nemmeno chiaro se la serie a 2 dosi potrebbe soddisfare lo standard di approvazione della FDA a sei o nove mesi.
Il preprint a
"sei mesi" è basato sul 7% dei partecipanti allo studio che sono
rimasti “in cieco” a sei mesi.
L’intervallo temporale di efficacia finale riportato nel preprint di Pfizer è "da quattro mesi al cut-off dei dati". L'intervallo di confidenza qui è più ampio rispetto agli intervalli temporali precedenti perché solo la metà dei partecipanti allo studio (53%) ha raggiunto il traguardo dei quattro mesi e il follow-up medio è di circa 4,4 mesi (vedi nota a piè di pagina).
Tutto questo è successo perché a partire dallo scorso dicembre, Pfizer ha permesso a tutti i partecipanti allo studio di essere formalmente non “in cieco” e ai destinatari del placebo di essere vaccinati. Il 13 marzo 2021 (data cut-off), il 93% dei partecipanti allo studio (41.128 su 44.060) non era più “in cieco”, entrando ufficialmente nel "follow-up in aperto". (Idem per Moderna: a metà aprile, il 98% dei destinatari del placebo era stato vaccinato.)
Nonostante il riferimento a "sei mesi di sicurezza ed efficacia" nel titolo del preprint, il documento riporta solo l'efficacia del vaccino "fino a sei mesi", ma non da sei mesi. Questa non è semantica, poiché risulta che solo il 7% dei partecipanti allo studio ha effettivamente raggiunto sei mesi di follow-up in cieco ("8% dei destinatari di BNT162b2 e il 6% dei destinatari del placebo ha avuto un follow-up ≥6 mesi dopo la dose 2".) Quindi, nonostante questo preprint appaia un anno dopo l'inizio della sperimentazione, esso non fornisce dati sull'efficacia del vaccino negli ultimi sei mesi, che è il periodo in cui Israele afferma che l'efficacia del vaccino è scesa al 39%.
È difficile immaginare che meno del 10% dei partecipanti allo studio che è rimasto in cieco ai sei mesi (che presumibilmente è ulteriormente diminuito dopo il 13 marzo 2021) potrebbe costituire un campione affidabile o valido a produrre risultati. E il preprint non riporta alcun confronto demografico per giustificare analisi future.
Malattia grave
Con gli Stati Uniti sommersi dalle notizie sui casi in aumento della variante Delta anche tra i "completamente vaccinati", il profilo di efficacia del vaccino è in discussione. Ma alcuni commentatori stanno diffondendo un messaggio ottimista. L'ex commissario della FDA Scott Gottlieb, che fa parte del consiglio di amministrazione di Pfizer, ha dichiarato: "Ricordiamo che in origine la premessa alla base di questi vaccini era [sic] che avrebbero sostanzialmente ridotto il rischio di morte, di malattia grave e di ospedalizzazione. E questi erano i dati emersi dai primi studi clinici”.
Tuttavia, gli studi non erano stati progettati per studiare la malattia grave. Nei dati che hanno supportato l'EUA di Pfizer, la società stessa ha caratterizzato i risultati dell’endpoint "covid-19 grave" come "indicazioni preliminari". I numeri dei ricoveri ospedalieri non sono stati riportati e si sono verificati zero decessi per covid-19.
Nel preprint, viene riportata un'elevata efficacia contro "covid-19 grave" in base a tutto il tempo di follow-up (un evento nel gruppo vaccinato vs 30 nel placebo), ma il numero di ricoveri ospedalieri non è riportato, quindi non sappiamo quanti di questi pazienti, nel caso, fossero abbastanza malati da richiedere un trattamento ospedaliero. (Nello studio di Moderna, i dati dello scorso anno hanno mostrato che 21 dei 30 casi di "covid-19 grave" non sono stati ricoverati in ospedale; Tabella S14).
E sulla prevenzione della morte per covid-19, ci sono troppo pochi dati per trarre conclusioni: un totale di tre decessi correlati al covid-19 (uno sul vaccino, due sul placebo). Ci sono stati 29 decessi totali durante il follow-up in cieco (15 nel gruppo del vaccino; 14 nel placebo).
La domanda cruciale, tuttavia, è se l'efficacia calante osservata nei dati sull'endpoint primario si applichi anche all'efficacia del vaccino contro la malattia grave. Sfortunatamente, il nuovo preprint di Pfizer non riporta i risultati in un modo che consenta di rispondere a questa domanda.
Approvazione
imminente senza trasparenza dei dati e senza nemmeno una riunione del comitato
consultivo?
Lo scorso dicembre, con dati limitati, la FDA ha concesso al vaccino di Pfizer un EUA, consentendo l'accesso a questo vaccino a tutti gli americani che lo volevano. Ha inviato un chiaro messaggio, che la FDA avrebbe potuto affrontare l'enorme domanda di vaccini senza compromettere la scienza. E che per una "piena approvazione" avrebbe potuto essere mantenuto uno standard elevato.
Ma ora eccoci qui, con la FDA che secondo quanto riferito è sul punto di concedere una licenza di marketing a 13 mesi dall'inizio dello studio fondamentale di due anni ancora in corso, senza dati segnalati oltre il 13 marzo 2021, con un’efficacia poco chiara dopo sei mesi a causa dell'apertura del cieco, prove di immunità calante indipendentemente dalla variante Delta e segnalazione limitata dei dati di sicurezza. (Il preprint riporta "diminuzione dell'appetito, letargia, astenia, malessere, sudorazione notturna e iperidrosi come nuovi eventi avversi attribuibili a BNT162b2, non già identificati nei rapporti precedenti", ma non fornisce tabelle di dati che mostrino la frequenza di questi o altri eventi avversi.)
E non aiuta il fatto che la FDA ora affermi che non convocherà il suo comitato consultivo per discutere i dati prima di approvare il vaccino Pfizer. (Lo scorso agosto, per affrontare l'esitazione vaccinale, l'agenzia si era "impegnata a sentire un comitato consultivo composto da esperti indipendenti per garantire che le deliberazioni sull'autorizzazione o la concessione di licenze fossero trasparenti al pubblico").
Prima del preprint, la mia opinione, insieme a un gruppo di circa 30 medici, scienziati e sostenitori dei pazienti, era che c'erano semplicemente troppe domande aperte su tutti i vaccini covid-19 per supportare l'approvazione di un qualsiasi vaccino quest'anno. Il preprint, purtroppo, ha affrontato pochissime di queste domande aperte e ne ha invece sollevato di nuove.
Ribadisco il nostro appello: "rallentiamo e seguiamo la scienza: non c'è motivo legittimo per affrettarsi a concedere una licenza a un vaccino contro il coronavirus".
La FDA dovrebbe chiedere alle società di completare i due anni di follow-up, come originariamente previsto (anche senza un gruppo placebo, si può comprendere ancora molto sulla sicurezza). Dovrebbero richiedere studi adeguati e controllati, utilizzando i risultati dei pazienti all’interno della parte ormai consistente di popolazione che è guarita dalla Covid. E le autorità dovrebbero rafforzare la fiducia del pubblico contribuendo a garantire che tutti possano accedere ai dati..
Peter Doshi, senior editor, The BMJ.
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