09/02/11

La deriva del continente europeo


Ottimo articolo di Sergio Cesaratto, da goodwinbox, blog del dipartimento di economia politica dell'Università di Siena, con una succinta ma esauriente analisi sulle origini della crisi, e un'attenta rappresentazione dei possibili scenari...anche se, purtroppo, la soluzione più convincente non appare al momento la più probabile...

Buona lettura: 
Alla irrisolta crisi di solvibilità della Grecia si è aggiunta, nell’autunno appena trascorso, quella dell’Irlanda e a ruota il contagio, che si manifesta con un aumento dei tassi di interesse sui titoli pubblici, è arrivato anche all’Italia via Portogallo e Spagna e ora persino a Francia e – senti, senti – alla Germania. Quali sono le prospettive? Abbiamo di fronte tre scenari: 1) tamponare con un po’ di liquidità la situazione dei paesi periferici chiedendo loro di “aggiustare i propri conti” con “sacrifici” interni;. 2) anticipare la rottura e gestirla evitandone gli aspetti più dolorosi, per quello che si può; 3) affrontare i problemi alla radice nella direzione di costruire una unione politica ed economica funzionante.
La crisi europea assomiglia a molte delle crisi debitorie nei paesi in via di sviluppo, il cui ultimo clamoroso caso è stato il default dell’Argentina nel 2002. In pillole, la costituzione dell’Unione monetaria europea (UME) nel 1999 ha favorito flussi di capitale a buon mercato dai paesi centrali dell’Europa (Germania e Francia in primis) a quelli periferici, i famosi PIGS. La politica monetaria della BCE, ritagliata sull’esigenza della Germania di non aggravare le politiche di moderazione fiscale e salariale che poco sostenevano la domanda, è stata improntata a bassi tassi nominali di interesse. I tassi reali che ne risultavano erano assai bassi nei paesi periferici, caratterizzati da una inflazione strutturalmente sopra la media europea, e comunque alti in Germania, dove l’inflazione è sotto la media. I flussi di capitale a buon mercato hanno così determinato un boom edilizio e l’indebitamento delle famiglie in Spagna e Irlanda, e del settore pubblico in Grecia. L’edilizia è un volano dell’economia e infatti questi paesi sono cresciuti, ma al tempo stesso crescevano anche salari nominali e prezzi. La produttività in alcuni di questi paesi periferici è cresciuta più che in Germania, ma visto che i salari nominali crescevano più della produttività, tali paesi perdevano competitività rispetto alla Germania, dove la crescita dei salari nominali era invece inferiore alla crescita della produttività.[1] La Germania e il suo entourage (Austria, Paesi Bassi ecc) ne hanno guadagnato in termini di esportazioni nette, anche per la crescita della domanda nei paesi periferici. Nei fatti le esportazioni di capitali dai paesi centrali finivano per finanziare l’acquisto di prodotti dai medesimi paesi. Nel corso degli anni, i paesi periferici cumulavano tuttavia un forte debito estero. In Spagna e Irlanda si trattava inizialmente di debito privato, ma ad esso si è aggiunto, una volta scoppiata la crisi, il debito del settore pubblico. Se i paesi creditori a un certo punto ritengono che i debitori non possano restituire il debito, possono smettere di rifinanziarglielo, e i debitori dichiarano la bancarotta (default).

Una soluzione a questa situazione implica: a) nel breve periodo assicurare a questi paesi liquidità sufficiente e a buon mercato per non fallire; e b) nel medio periodo risolvere il loro problema di solvibilità stimolando il loro output ed esportazioni. Esaminiamo dunque i tre scenari di cui si diceva in apertura.
  1. Nel primo scenario, già in opera, gli “aiuti” europei e una timidissima BCE tamponano la crisi di liquidità sostenendo i titoli dei paesi debitori qualora i mercati non vogliano più farlo o siano disposti a farlo solo a tassi esorbitanti. Ciò accade, tuttavia, in misura insufficiente, senza davvero incidere sui tassi usurai che tali paesi si trovano a pagare (i quali aggravano il debito). Al contempo, la deflazione fiscale e salariale loro richiesta determina una caduta del PIL, con conseguente caduta delle entrate fiscali, sicché il riaggiustamento dei conti è una fatica di Sisifo (per non parlare dei sacrifici sociali che ciò comporta). Tradizionalmente aggiustamenti dei conti interni sono stati accompagnati da una svalutazione della moneta, che rilanciando le esportazioni ne compensava i danni sul PIL. Ma ora le monete nazionali non ci sono più! Per giunta la stessa Germania si fa campione della deflazione, e ciò aggrava la crisi della domanda aggregata a livello europeo e globale.[2] I mercati tutto questo lo sanno, e per questo il fallimento dei paesi periferici e della moneta unica è all’ordine del giorno. Se facessero fallimento i paesi debitori, farebbero fallimento anche i paesi creditori, e questa sarebbe la madre di tutte le crisi.
  2. Una rottura ordinata dell’UME, con la fuoriuscita dei paesi periferici, è affare complicatissimo (Blejer and Levy-Yeyati 2010; Eichengreen 2010). Il fatto centrale di cui tener conto è che il debito esterno di tali paesi continuerebbe a esser denominato in Euro. Misurato nelle nuove valute locali, che perderebbero valore rispetto all’Euro, il peso di quel debito aumenterebbe, per cui esso dovrebbe certamente subire una rinegoziazione (una parte non viene restituita, e il resto restituito in tempi più lunghi). Ma se i mercati subodorassero questa eventualità, la speculazione si scatenerebbe determinando un immediato “disordinato” default. La decisione di una rottura dovrebbe dunque essere presa segretamente, prima che i mercati sospettino qualcosa, in un consesso che non può escludere USA, Cina e Giappone, oltre ai principali paesi europei. Nei tempi di Wikileaks tenere il segreto non è facile! Il vantaggio di riacquisire la propria moneta sarebbe nel rilancio delle esportazioni, ma si renderebbero necessarie misure per impedire lo scatenarsi di una forte inflazione interna, assieme a misure drastiche di controllo dei movimenti di capitale. Non sarebbe invece necessario stampare preventivamente nuove banconote, le attuali già sono contraddistinte per paese (una S prima del numero di serie individua per esempio quelle “italiane”). Se fosse invece la Germania (con una recalcitrante Francia) a lasciare, ciò costituirebbe di per sé un taglio ai debiti esteri denominati in una moneta, l’Euro, che svaluterebbe rispetto al nuovo Deutsche Mark. Se poi ciò che rimane dell’UME si sfasciasse, tutti si tornerebbe alle monete nazionali e il debito estero sarebbe denominato in quelle, il che sancirebbe un haircut di fatto.
  3. L’inefficacia del primo scenario, e la drammaticità di un crollo spontaneo ma anche “ordinato” dell’UME, potrebbero col tempo spingere a soluzioni più ragionevoli. Con riguardo ai problemi di sostenibilità a breve, sarebbero indispensabili: una più incisiva azione della BCE nel sostenere i titoli di stato; la europeizzazione di parte dei debiti (come proposto, fra gli altri, da Tremonti), che rassicurerebbe i mercati consentendo un rifinanziamento a costi contenuti; l’eventuale ristrutturazione del debito dei paesi che, nonostante le misure precedenti, dovessero restare insolventi. I problemi strutturali dovrebbero essere poi affrontati abbandonando almeno parzialmente la moderazione fiscale e salariale tedesca, di modo che tale economia perda un po’ di competitività e al contempo rilanci la domanda interna.[3] D’altronde solo operando con misure opposte a quelle che hanno caratterizzato sinora l’UME si potrebbe invertire la tendenza attuale. È vero che ciò appare al momento inaccettabile alla Germania, che fonda il proprio modello di crescita sulla disciplina interna e sulle esportazioni, con l’obiettivo di espandersi nei mercati extra-europei. Le cose potrebbero tuttavia cambiare nel futuro, anche se mai come in questo momento è vero il dictum di Keynes che nel lungo periodo… Auguri!

  1. Illustrando dati recenti sull’andamento del costo del lavoro per unità di prodotto in Europa, un articolo del Wall Street Journal (20/12/2010) è significativamente intitolato “Oh, no! Germany more competitive.” Nonostante lo sforzo deflativo, i guadagni di competitività della periferia sarebbero minimi, e anzi paesi “core” come Olanda e Finlandia avrebbero guadagnato competitività. []
  2. Un recentissimo studio storico del FMI sul successo delle politiche deflazionistiche (svalutazione interna) come surrogato della svalutazione esterna si esprime in termini piuttosto negativi (The Economist 11/12/10). Va riconosciuto come sotto la guida di Strauss-Kahn e Blanchard il FMI ha recentemente preso posizioni meno ortodosse (vedi per esempio la polemica contro l’idea di Alesina che le politiche fiscali restrittive abbiano, da ultimo, effetti espansivi). Peccato che Blanchard non porti l’attacco al cuore teorico della “cittadella” neoclassica, vale a dire alle sue proposizioni riguardanti il lungo periodo. []
  3. Un obiettivo accettabilissimo per i tedeschi sarebbe una crescita dei salari nominali pari al tassi di crescita della produttività più il 2%, che è il tasso di inflazione obiettivo della BCE. []
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    2 commenti:

    1. Quasi interessante, l'unica osservazione da fare è questa: L'europa e l'euro non sono state create per i nobili scopi che la gente crede.
      Bensì per togliere ogni potere alle singole nazioni per creare una mostruosità che si chiama Nuovo ordine Mondiale...
      Dal 1990 con il trattato di Maastricht ci è stata tolta la sovranità monetaria art. 105 ed art. 107 autonomia della B.C.E. - con il beneplacito dei nostri deputati e senatori, ovvero servi dei banchieri.
      Il discorso fatto dall'autore guarda solamente il lato tecnico e mi sembra non tutto.

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    2. Il discorso dell'autore esamina la situazione dei fatti e ipotizza scenari futuri, partendo dallo status quo.
      Ma al fondo della crisi del debito europea, sono d'accordo, c'è la perdita della sovranità monetaria, che in Italia era già cominciata nell'81 col divorzio tra Bankitalia e Tesoro. Ne tratto un po' nella sezione didattica, in alto a destra del blog, a proposito della monetizzazione del deficit. Quello mi pare il punto più importante ma non è all'ordine del giorno del dibattito, purtroppo.

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