- di Stephanie Kirchgaessner e Lorenzo Tondo, 23 giugno 2017
Ogni volta che Youssef Zaghba atterrava a Bologna c’era qualcuno che lo aspettava appena sceso dall’aereo. Non era un segreto, in Italia, che il 22enne italiano nato in Marocco, identificato come uno dei tre terroristi dietro l'attacco al London Bridge, fosse sotto stretta sorveglianza.
“All’aeroporto gli parlavano. Poi, durante la sua permanenza, i funzionari di polizia venivano un paio di volte al giorno a controllarlo”, ha raccontato sua madre, Valeria Collina, in un’intervista al Guardian. “Erano amichevoli con Youssef. Gli dicevano: ‘Ehi figliolo, dimmi cos’hai fatto. Che cosa stai facendo adesso? Come stai?' ”
Nelle settimane dopo l’attacco, il ruolo di Zaghba ha gettato una luce sulle differenze tra come i sospettati di terrorismo sono trattati in Italia e nel Regno Unito. All'arrivo a Londra, ha raccontato la madre di Zaghba, suo figlio non era mai stato fermato all’aeroporto né interrogato, nonostante i funzionari italiani avessero informato le loro controparti britanniche che quell’uomo poteva rappresentare una minaccia.
Franco Gabrielli, capo della polizia italiana, si è espresso così riguardo agli sforzi dell’Italia per avvertire il Regno Unito: “Abbiamo la coscienza pulita”. Scotland Yard, dal canto suo, ha detto che Zaghba “non era un elemento di interesse per la polizia o il MI5”.
L’Italia è stata colpita, nei decenni passati, dalla sua dose di violenza politica, incluso l’omicidio di due importanti giudici anti-mafia negli anni ’90. Ma al contrario di quasi tutti gli altri grandi paesi europei, non è stata il teatro di rilevanti attacchi terroristici [di massa] dopo gli anni ’80.
L’Italia è semplicemente un paese fortunato? Oppure le politiche anti-terrorismo adottate dal paese – nate da anni di investigazioni e intelligence anti-mafia e da un decennio insanguinato di violenza politica negli anni ’70 – hanno dato all’Italia un vantaggio oggi, negli anni dell’ISIS? O ci sono altri fattori in gioco?
"La differenza maggiore è che l’Italia non ha un’ampia popolazione di immigrati di seconda generazione che si sono radicalizzati o che potrebbero potenzialmente farlo”, dice Francesca Galli, professore associato all’Università di Maastricht ed esperta di politiche anti-terrorismo.
Ci vogliono circa 20 persone per sorvegliare a tempo pieno un sospetto terrorista, spiega Francesca Galli. Ovviamente l’abbondanza di risorse necessarie per sorvegliare strettamente qualcuno diventa problematica quando i sospettati sono molti.
Due incidenti recenti – il caso di Zaghba, e un altro, un episodio di terrorismo senza esiti mortali, a Milano, in cui un militare e un funzionario di polizia sono stati accoltellati da un italiano il cui padre era nordafricano – suggeriscono un potenziale cambiamento in corso nel profilo di rischio dell’Italia. Ma la Galli dice che, in generale, la polizia italiana e le forze anti-terrorismo non si sono trovate alle prese con numeri molto ampi di persone che erano potenzialmente a rischio di radicalizzazione, come è invece in Francia, Belgio e Regno Unito.
Questo non significa che in Italia non ci sia stata alcuna attività terroristica. Anis Amri, il tunisino che lo scorso anno aveva attaccato con un camion le bancarelle di Natale a Berlino, e che è stato poi ucciso dalla polizia alla periferia di Milano, si è probabilmente radicalizzato in carcere in Sicilia. Mohamed Lahouiaej-Bouhlel, il tunisino dietro l’attacco mortale a Nizza dello scorso anno, era stato identificato dalla polizia italiana per aver passato del tempo nella città di frontiera di Ventimiglia.
Alcuni esperti dicono che l’Italia è stata in grado di combattere la minaccia dell’ISIS al proprio interno gestendo gli strumenti legali e investigativi sviluppati durante gli anni di esperienza nelle investigazioni anti-mafia, che a loro volta erano stati creati durante i cosiddetti “anni di piombo” – il periodo tra gli anni ’60 e gli anni ’80 segnato da atti di terrorismo politico da parte di militanti sia di destra sia di sinistra.
Secondo i dati divulgati dal ministero dell'Interno italiano le autorità anti-terrorismo hanno fermato e interrogato 160.593 persone tra il marzo 2016 e il marzo 2017. Hanno fermato e interrogato circa 34.000 persone negli aeroporti e arrestato circa 550 sospetti terroristi, di cui 38 sono stati poi condannati. Più di 500 siti internet sono stati chiusi e quasi mezzo milione sono stati monitorati.
Giampiero Massolo, che è stato direttore dell’intelligence italiana dal 2012 al 2016, dice che non esiste un particolare “stile italiano” di combattere il terrorismo.
“Abbiamo imparato una lezione molto dura durante i nostri anni di terrorismo”, spiega. “Da allora abbiamo tratto l’esperienza di quanto sia importante mantenere un dialogo costante a livello operativo tra l’intelligence e le forze giudiziarie. In effetti la prevenzione è cruciale per essere efficaci nell’anti-terrorismo”.
E aggiunge:
“un’altra caratteristica è quella di avere un buon controllo del territorio. Da questo punto di vista l’assenza di ‘banlieues’ [in stile francese] nelle grandi città italiane e …[la prevalenza di] città piccole e medie rende più facile tenere la situazione sotto controllo”.
Ci sono anche pratiche più specifiche. Arturo Varvelli, ricercatore ed esperto di terrorismo all’ISPI, sostiene che l'assenza di italiani [immigrati ndVdE] di seconda e terza generazione, che potrebbero essere suscettibili alla propaganda dell’ISIS, implica che le autorità si possano concentrare sui cittadini non italiani, che eventualmente possono essere espulsi al primo segnale di allarme. Da gennaio a oggi 135 persone sono state espulse, dice. Le autorità italiane possono affidarsi anche alle intercettazioni telefoniche, che, al contrario delle autorità britanniche, possono portare in tribunale come evidenza probatoria e – in casi collegati alla mafia e al terrorismo – possono essere effettuate anche sulla base di semplici sospetti, e non solo di prove forti.
Un po’ come nella lotta contro la criminalità organizzata in Italia – la Camorra attorno a Napoli, Cosa Nostra in Sicilia, la ‘Ndrangheta al Sud – per spezzare le reti del terrorismo è necessario intromettersi e rompere legami sociali e perfino familiari.
Le persone sospettate di essere jihadiste vengono incoraggiate a rompere i ranghi e collaborare con le autorità italiane, che utilizzano permessi di soggiorno e altri incentivi, spiega la professoressa Galli. C’è anche la consapevolezza del pericolo rappresentato dal detenere in carcere i sospetti terroristi, i quali, un po’ come i boss della mafia prima, vedono il carcere come il proprio territorio principale di reclutamento e di costruzione di reti di legami.
“Penso che abbiamo acquisito esperienza nel modo di affrontare la rete criminale. Abbiamo molti agenti sotto copertura che fanno un gran lavoro di intercettazione delle comunicazioni”, dice.
Se può sembrare che le autorità italiane abbiano poteri molti ampi, in realtà la polizia non ha poteri speciali per detenere sospetti terroristi senza che ci sia un’accusa precisa. I sospettati di terrorismo possono essere detenuti per un massimo di quattro giorni senza un’accusa, proprio come qualsiasi altro sospettato. Nonostante ciò, l’Italia è stata accusata dalla Corte Europea per i diritti umani di detenere gli imputati per periodi troppo lunghi dopo che sono stati ufficialmente accusati e sono in attesa di un processo.
Francesca Galli afferma che la preoccupazione che i sistemi adottati in Italia possano rappresentare una violazione delle libertà civili non ha fondamento. L’ampio uso delle tecniche di sorveglianza – tra cui l’intercettazione delle comunicazioni – è considerata sufficientemente mirata sui sospetti terroristi e mafiosi, a differenza dei casi di Regno Unito e Stati Uniti, dove c’è invece una critica diffusa sui metodi di raccolta massiva dei dati.
Nessun commento:
Posta un commento