Da Brave New Europe una recensione dell'ultimo libro di Ashoka Mody sull'eurozona. La forzatura rappresentata dall’imposizione di una moneta unica a paesi tanto diversi (con tassi di inflazione diversi, puntualizziamo) ha sperperato il capitale politico che nel dopoguerra si era costruito attorno all'idea di pace in Europa, anziché esserne il compimento. Ora l'unico scenario in cui l'euro può sopravvivere è raccontato con toni romantici, che suonano ridicoli. Ma questa non è una commedia: è una tragedia, e se un economista del calibro di Mody usa certi termini, anche il più pervicace degli europeisti dovrebbe capire che il tempo dei sogni è finito.
(Recentemente, a una presentazione del proprio libro, lo stesso Ashoka Mody ha rincarato la dose dicendo che "l'idea che l'euro diventi uno strumento di pace è stravagante [...] è diventato, semmai, una fonte di divisione e conflitto".)
di David Shirreff, 10 luglio 2018
Un vecchio proverbio dice che “la strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni”.
Ashoka Mody, già economista del Fondo Monetario Internazionale e visiting professor a Princeton, racconta la storia tragica di come tutti gli intenti politici nati dopo la Seconda Guerra Mondiale siano stati sprecati, alla fine, per inseguire un progetto che esige “troppa Europa”.
Il bersaglio delle sue ire è la moneta unica, l’euro, senza la quale, sostiene, la Comunità Europea avrebbe funzionato molto meglio. Secondo Mody i più grandi successi del progetto europeo sono stati il trattato per la Comunità Europea di Difesa, del 1952, e il Trattato di Roma, siglato nel 1957. Questi vennero firmati prima che una manciata di leader europei portasse avanti l’idea di una moneta unica, senza comprenderne davvero tutte le implicazioni.
Questi leader europei avevano ignorato gli avvertimenti degli esperti che loro stessi avevano consultato, come la Commissione Werner, che in un report del 1970 aveva messo in guardia sul fatto che, per consentire il funzionamento di un’unione monetaria, sarebbero stati necessari un ampio bilancio centrale e una forte mobilità trans-frontaliera dei lavoratori. Nel 1989 la Federazione delle Industrie Tedesche (BDI) avvertì che una moneta unica avrebbe tolto alle regioni più deboli la possibilità di operare aggiustamenti sul tasso di cambio. I cancellieri tedeschi Willi Brandt e perfino Helmut Kohl – per un certo periodo – erano diffidenti riguardo le implicazioni della moneta unica. Ma il lavoro congiunto dei leader francesi e tedeschi, Valery Giscard d’Estaing e Helmut Schmidt, Francois Mitterrand e Helmut Kohl (a seguito dell’unificazione tedesca), alla fine spazzò via le ragionevoli obiezioni economiche e portò avanti forzatamente la creazione di una moneta unica per undici o più stati sovrani molto diversi tra loro.
Ogni volta che venivano sollevate obiezioni, si offrivano delle correzioni, come i parametri di Maastricht, che stabilivano i limiti del debito e del deficit pubblico, o il Patto di Stabilità e Crescita, che fu astutamente progettato dagli eurocrati affinché significasse cose diverse per i francesi e i tedeschi.
Perfino il voto “no” del popolo francese nel 1992 non servì a fermare questo treno in corsa.
Il lancio dell’euro il 4 gennaio 1999 fu un successo, già solo per il fatto che il valore della moneta non precipitasse. Nonostante abbia avuto un percorso piuttosto accidentato, tre anni dopo manteneva il suo valore rispetto al dollaro, a dispetto di un mondo turbolento e degli eventi sui mercati.
Ma l’apparente stabilità serviva solo a coprire una molteplicità di difetti. La Banca Centrale Europea (BCE), teoricamente indipendente, era stata fatta più o meno sul modello della Bundesbank, la banca centrale tedesca, e tarata su politiche monetarie restrittive che si adattavano solo alle maggiori economie all’interno dell’eurozona. Sotto i suoi primi due presidenti, Wim Duisenberg e Jean-Claude Trichet, la BCE mantenne questa politica a dispetto della recessione dell’economia tedesca nei primi anni 2000 e poi della crisi finanziaria del 2007-2010. Fu solo quando salì in carica il più pragmatico Mario Draghi, nel 2011, che la politica monetaria iniziò finalmente ad allentarsi per poter affrontare le criticità dell’eurozona. La famosa promessa fatta da Draghi nel luglio 2012 di fare “whatever it takes” [“qualunque cosa sia necessaria”, NdT] per salvare l’euro – incluso il “bazooka” delle Outright Monetary Transactions (OMT) – mise fine, almeno temporaneamente, ad anni di speculazioni sul dubbio che non ci fosse una sufficiente volontà politica per salvare l’euro nel bene e nel male, ad ogni costo. Fino ad oggi questa volontà c’è stata.
Ma siamo ormai ben lontani dai giorni in cui l’euro veniva visto come una storia di successo. Ashoka Mody vede la crisi dell’euro come una scusa per imporre l’egemonia tedesca in Europa:
“La crisi dell’euro è entrata nella sua fase più oscura nella prima metà del 2011, quando l’intera eurozona aderì alle regole dell’austerità fiscale e della stabilità dei prezzi. Queste regole tedesche divennero, per così dire, le caratteristiche fondanti dell’identità europea. Al posto di una Germania europea… ci si trovò con un’Europa tedesca”.
L’astuto gioco di Draghi alla BCE alleviò in parte l’effetto “germanico”, ma la tensione continuò a ripresentarsi ad ogni riunione del consiglio della BCE, con Draghi da una parte e il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, dall’altra. Il prossimo anno Draghi potrebbe essere sostituito da qualcuno meno accomodante e meno pragmatico, forse lo stesso Weidmann.
Ashoka Mody prevede un futuro fosco per l’eurozona e l’euro così come lo conosciamo oggi. Dipinge due possibili scenari. Il primo è definito “Più o meno lo stesso” e culminerebbe nella necessità di un salvataggio finanziario dell’Italia, che sta sprofondando in una montagna di debito e nell’incapacità di aumentare la produttività. Perfino le Outright Monetary Transactions di Draghi, nel tentativo di acquistare all’infinito i titoli di debito pubblico italiano, in questo caso non funzionerebbero più. Per l’Italia uscire dall’euro dopo essere arrivata a quel punto sarebbe disastroso, perché dovrebbe ripagare debiti in euro con una lira svalutata. Ma paradossalmente, suggerisce Mody, il risultato sarebbe diverso se fosse la Germania ad uscire. Il nuovo marco tedesco probabilmente si rivaluterebbe rispetto all’euro, limitando la sua prestazione nelle esportazioni, cosa che però la Germania è abituata a gestire. Altri paesi del Nord dell’euro-zona potrebbero unirsi alla Germania, mentre le esportazioni dei paesi ora più deboli dell’eurozona beneficerebbero di un euro più debole.
Questa sarebbe una bella idea, ma temo che sarebbe irta di sfide legali che limiterebbero qualsiasi miglioramento nelle prestazioni economiche.
Il secondo scenario viene chiamato da Mody “La repubblica delle lettere per l’Europa: una moderna Agorà”. A innescarlo, immagina Mody fantasticando, sarebbe un discorso della cancelliera tedesca Angela Merkel – “Il monologo di uscita della Merkel”, nel quale definisce come e perché l’eurozona deve cambiare. Per prima cosa, il debito greco dovrà essere condonato. Seconda cosa, le regole fiscali che frenano la capacità di reflazione dei paesi membri dovranno essere allentate. Dopo cinque anni da quel momento, ogni ulteriore titolo di debito emesso da paesi dell’eurozona non avrà più la garanzia sovrana – in altre parole, il capitale e gli interessi degli investitori saranno a rischio in modo visibile. Questo allentamento della camicia di forza attorno all’euro sarà accompagnato da una nuova aspirazione – quella di fare dell’Europa un centro di istruzione e di invenzioni senza più barriere interne – un moderno mercato delle idee.
Nonostante questa ultima idea giunga alla fine del libro come una fioritura romantica, non toglie nulla alla durezza dell’analisi dei capitoli precedenti. Mody ha seguito la tragedia dell’euro dal suo iniziale sogno romantico al suo quotidiano stravolgimento. Bisogna concedergli di offrire un po’ di luce in fondo al tunnel, come scrisse l’autore di questo musical, sei anni fa, sullo stesso tema:
“Tra altri 50 anni
Avremo dimenticato le nostre lacrime
E ricorderemo tutte queste buffonate
Come un’invenzione dei romantici.
È stata una degna causa
Con dei fondamentali difetti
Uno sforzo comune
Che non poteva durare per sempre.”
[Eurocrash, il musical, 2012]
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