01/08/18

Cosa dovrebbero chiedere gli USA all’Europa

Il sito finanziario Barron’s pubblica un articolo sulle trattative commerciali USA-UE. L’autore fa notare che le questioni affrontate nel dibattito pubblico attuale sono quasi irrilevanti: il vero scopo degli USA deve essere la distruzione del surplus commerciale dell’eurozona, imposto dalla Germania attraverso deliranti regole fiscali. Come sappiamo da tempo, e come sostiene l’attuale governo italiano, invertire la rotta risolverebbe il malcontento USA e renderebbe migliore la vita degli europei. Peccato che – questo l’autore non lo dice – l’eurozona a guida tedesca rigetterà questa proposta anti-mercantilista fino alla morte dell’ultimo europeo.

 

 

Di Matthew C. Klein, 27 luglio 2018

 

 

Mercoledì i rappresentanti delle due più importanti aree economiche mondiali – gli Stati Uniti e l’Unione Europea – hanno raggiunto un accordo di principio sul miglioramento delle  loro relazioni commerciali. Ma la questione più importante non è stata affrontata.

 

I dazi americani sui metalli per uso industriale e quelli proposti sui veicoli a motore e ricambi, apparentemente hanno convinto gli europei a impegnarsi a comprare più semi di soia e gas naturale proveniente dagli Stati Uniti. Probabilmente, parte della discussione è stata dedicata agli standard di sicurezza UE e alla sua ossessione campanilistica, entrambi limitanti per le esportazioni agricole americane, così come alla recente abitudine UE di multare e tassare le compagnie tecnologiche americane.

 

Ma tutte queste questioni sono irrilevanti se confrontate col maggiore problema della politica economica europea, che strangola la domanda interna a spese degli esportatori americani.

 

Le scelte compiute a Bruxelles e Francoforte hanno fatto esplodere il surplus commerciale a spese del resto del mondo. La buona notizia è che scelte differenti possono migliorare le condizioni di vita per i comuni cittadini europei e silenziare le legittime lamentele americane.

 

Il problema è l’euro, usato dalla maggior parte dei paesi UE. Che la moneta unica faciliti o no il commercio e turismo interno, di sicuro limita la flessibilità dei governi nazionali nel rispondere alle recessioni. Nei paesi dotati di propria moneta, come la Nuova Zelanda, l’impatto fiscale di una raccolta di tasse in discesa e un aumento delle spese per sussidi di disoccupazione è in parte compensata da una discesa dei tassi di interessi, dato che gli investitori vendono asset meno rischiosi per comprarne di più sicuri come i bond emessi dal proprio governo nazionale.

 

Tuttavia, in Europa il costo di indebitamento dei governi cresce quando le condizioni peggiorano perché i governi nazionali hanno rifiutato una garanzia comune per i debiti sovrani e perché la BCE si è rifiutata di intervenire senza aver prima imposto condizioni punitive. Sotto la spinta tedesca, gli Europei hanno imposto l’erroneo “fiscal compact” per limitare deliberatamente la flessibilità fiscale e punire i paesi che non si allineano.

 

La risposta logica a questi vincoli auto-inflitti, a parte uscire dall’euro, è di aumentare le tasse e tagliare le spese pubbliche il più possibile per evitare il rischio di una crisi in stile greco. L’Imposta sul Valore Aggiunto, per esempio, è aumentata di molti punti percentuali in Europa dal 2008, con aumenti particolarmente grandi nei paesi che si sono rivolti al Fondo Monetario Internazionale per ricevere aiuto.

 

Ancora più eclatanti sono stati i tagli alle spese per infrastrutture. Gli investimenti pubblici sono collassati e sono al momento negativi una volta che si tolgano i costi di manutenzione per tener conto dei deprezzamenti. La posizione fiscale complessiva dell’eurozona si è contratta molto più di quanto potesse giustificare la modesta ripresa ciclica accorsa negli ultimi anni.

 

 

La domanda del resto del mondo ha in parte compensato questa austerità fiscale. La domanda interna e gli investimenti fissi presi insieme ammontano a meno del 60% della crescita totale dell’eurozona a partire dal 2010. Il crescente surplus commerciale ha fatto il resto. La crescita di tale surplus è da addebitarsi in primis alla debole domanda europea per importazioni anziché a un significativo miglioramento delle esportazioni dell’eurozona.

 

Il quadro diventa ancor più stridente se ci focalizziamo sul risparmio del settore privato europeo. In reazione alla crisi, le famiglie e le imprese hanno diminuito le proprie spese in rapporto al loro reddito di circa il 6% del PIL.

 

Inizialmente, i deficit di governo avevano compensato questa stretta grazie all’aumento degli ammortizzatori sociali e alla diminuzione delle entrate fiscali. Quando l’economia ha iniziato a riprendersi nel 2009, i risparmi dei privati e i deficit governativi sono entrambi diminuiti. Tuttavia, dal 2012, l’alto risparmio del settore privato è perdurato mentre le spese governative hanno continuato a contrarsi. Il resto del mondo ci ha messo la differenza, il che spiega perché il surplus delle partite correnti dell’eurozona è cresciuto di pari passo con l’irrigidirsi della politica fiscale.

 

La domanda estera per gli export europei è stata sostenuta dalla domanda europea per gli asset finanziari esteri e dalla vendita straniera di asset europei. Questo è più evidente esaminando il flusso degli investimenti in redditi fissi. Dopo circa 15 anni in cui la domanda estera per i bond europei e la domanda europea per i bond stranieri sono stati approssimativamente bilanciate, la somma delle strette fiscali governative e degli acquisti della BCE ha spazzato via l’offerta di debito denominato in euro per il settore privato.  Meno del 15% del debito sovrano tedesco è ora detenuto da enti che non siano le banche centrali, per esempio.

 

 

L’effetto netto è stato un ingente flusso di capitali fuori dall’eurozona e nel resto del mondo a partire dalla metà del 2014, guidato dagli investitori in obbligazioni. Questo è coinciso con il deprezzamento reale dell’euro nei confronti delle valute dei suoi partner commerciali, che di conseguenza hanno contribuito ad alimentare il surplus di partite correnti dell’eurozona, anche quando la spesa interna europea ha iniziato a recuperare.

 

I leader europei possono tranquillamente invertire questi flussi. Inoltre, farlo porterebbe beneficio ai loro cittadini così come al resto del mondo.

 

 

Il primo passo consisterebbe nel ripensare le regole fiscali dell’eurozona. I governi dovrebbero poter indebitarsi per investire in infrastrutture, senza rischiare l’ira della Procedura per Deficit Eccessivo dell’UE. La BCE dovrebbe sostenere questo cambiamento di politica promettendo di comprare i bond governativi europei fin quando necessario, al contrario dell’approccio attuale di comprare bond solo quando i deficit sono bassi e in discesa.

 

 

Infine, gli Europei dovrebbero spostare le autorità di spesa, tassazione e indebitamento dal livello nazionale al livello europeo. Sistemi comuni di garanzia sui depositi, ammortizzatori sociali, pensioni di anzianità, investimenti in infrastrutture, tassazione delle multinazionali, ed euro-bond renderebbero più facile fornire beni pubblici senza preoccuparsi di creare un panico bancario o una crisi di valuta.

 

 

Tutte insieme, queste riforme alimenterebbero la spesa europea interna, aumenterebbero il benessere, e accrescerebbero la domanda di importazioni. Cosa potrebbe chiedere di più dalla vita un negoziatore commerciale statunitense?

 

 

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