- Dalle colonne del New York Times, il premio Nobel per l'economia Paul Krugman spiega l'attuale crisi della Turchia come la più classica delle bolle gonfiate dai capitali esteri. Lo si era già visto in molti paesi asiatici nel 1998, in Argentina all'inizio del 2000, in Islanda recentemente. La caratteristica comune è il solito afflusso di capitali esteri spinti dalla crescita e dai tassi elevati, l’esplosione del debito privato estero denominato in valuta straniera, in un paese piccolo o emergente, seguito da un inevitabile "sudden stop" che sgonfia la bolla. (Lo dovremmo definire un fallimento dei mercati, se non fosse il loro modo normale di funzionare.)
di Paul Krugman, 11 agosto 2018
E ora parliamo di qualcosa di decisamente poco originale.
Per un po’, quelli di noi che hanno dedicato del tempo a cercare di capire le crisi finanziarie asiatiche di due decenni fa, si sono chiesti se in Turchia non stesse accadendo la stessa cosa. Esatto: sembra che stia accadendo la stessa cosa.
Questo è il copione: si inizia con un paese che, per una qualsiasi ragione, diventa il paese preferito degli investitori esteri, e riceve un grande afflusso di capitali esteri per diversi anni. Aspetto importante, il debito che entra è denominato in moneta straniera, non nella moneta nazionale (ed è per questo motivo che gli Stati Uniti, che pure hanno ricevuto grandi afflussi di valuta estera in passato, non sono vulnerabili – perché noi ci indebitiamo in dollari).
A un certo punto, però, la festa finisce. Non ha molta importanza quale sia la causa del “blocco improvviso” [“sudden stop”, NdT] degli afflussi di capitali: può trattarsi di eventi interni al paese, come il fatto che hai nominato tuo genero ministro dell’economia, oppure può essere un aumento dei tassi di interesse statunitensi, o la crisi in un altro paese che gli investitori vedono come simile al tuo.
Qualunque sia la causa dello shock, il punto cruciale è che il debito estero ha reso la tua economia vulnerabile a un mortale effetto a catena. La perdita di fiducia fa svalutare la tua moneta, il che rende più difficile ripagare il debito in valuta estera, il che danneggia l’economia reale e compromette ulteriormente la fiducia, portando a una ulteriore svalutazione della tua moneta, e così via.
Il risultato è che esplode il rapporto tra debito estero e PIL. L’Indonesia iniziò la crisi finanziaria degli anni ’90 con un debito estero sotto al 60 per cento del PIL, più o meno confrontabile a quello della Turchia all’inizio di quest’anno. Arrivati al 1998, la svalutazione della rupia aveva fatto salire il rapporto al 170 per cento.
In che modo termina una crisi come questa? In assenza di una risposta politica efficace, ciò che accade è che la svalutazione della moneta e il debito misurato in moneta nazionale cresce, fino a che chiunque può fare bancarotta la fa. A quel punto la moneta debole favorisce un boom delle esportazioni e l’economia inizia a riprendersi grazie al grande surplus commerciale. (Questa può essere una sorpresa per Donald Trump, che sta aumentando i dazi punitivi verso la Turchia come ritorsione per la sua moneta debole.)
C’è un modo di evitare questo corto circuito infernale? Sì, ma è complesso. Per ridurre i costi della crisi bisogna attuare una combinazione di politiche eterodosse nel breve termine, con la rassicurazione di tornare a quelle ortodosse nel lungo termine.
Come funziona: si ferma l’esplosione del debito rispetto al PIL con una qualche combinazione di controlli temporanei dei capitali, per arginare una fuga dovuta al panico, ed eventualmente si ripudia una parte del debito denominato in valuta estera. Nel frattempo ci si organizza per avere un regime fiscalmente sostenibile una volta che la crisi sarà passata. Se tutto va bene, la fiducia tornerà graduamente, e alla fine si potranno togliere i controlli sui capitali.
La Malesia lo ha fatto nel 1998. La Corea del Sud, con l’aiuto statunitense, ha fatto qualcosa del genere nello stesso momento, esercitando pressioni sulle banche perché mantenessero le linee di credito nel breve termine. Un decennio più tardi, l’Islanda ha attuato molto bene una combinazione di controlli sui capitali e di ripudio del debito (tecnicamente, ha rifiutato di addossare al settore pubblico la responsabilità della crescita del debito fatta dai banchieri privati).
Anche l’Argentina ha fatto piuttosto bene con le sue politiche eterodosse nel 2002 e in seguito per alcuni anni, ripudiando in effetti i due terzi del suo debito. Ma il regime dei Kirchner non ha saputo quando fermarsi per tornare nuovamente alle politiche ortodosse, e questo ha gettato le basi per una nuova crisi del paese.
E forse proprio questo esempio dimostra quanto sia difficile gestire una crisi del genere. Bisogna avere un governo che sia al tempo stesso flessibile e responsabile, nonché abbastanza competente dal punto di vista tecnico per mettere in atto misure speciali, e abbastanza onesto per realizzarle senza una esagerata corruzione.
Questo purtroppo non è il caso della Turchia di Erdogan. Certo, non sembra nemmeno il caso dell’America di Trump. Quindi è un bene che i nostri debiti siano denominati in dollari.
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