Le cose si mettono nuovamente male per la Germania e Foreign Policy riepiloga tutto quello che non va nell’approccio economico tedesco: la compressione della domanda interna, la troppa dipendenza dalle esportazioni (per un paese di tali dimensioni), le riforme Hartz, l’enorme accumulo di risparmio, gli scarsi investimenti interni e il pareggio di bilancio. La Germania confonde il successo economico (e la produttività) con la competitività di prezzo, e sbandiera orgogliosamente questa sua confusione. A nostro parere mancano due punti nell’analisi. Il primo, madornale ma comprensibilmente assente, è la menzione del ruolo della moneta unica (che come sappiamo paralizza proprio gli aggiustamenti della competitività di prezzo tra paesi). Il secondo è che forse alla classe dominante tedesca il successo economico potrebbe interessare relativamente poco rispetto all’imposizione delle condizioni che permettano il loro dominio politico sull’intera Europa.
di Simon Tilford, 21 agosto 2019
Durante la maggior parte degli ultimi 10 anni la Germania è stata lodata per la sua capacità di adattamento alla globalizzazione, la sua oculata gestione delle finanze pubbliche e la sua stabilità politica. Alcuni si sono perfino lanciati a parlare di un nuovo Wirtschaftswunder (miracolo economico). Oggi stanno crescendo i timori che un aggravarsi delle tensioni nel commercio globale e un rallentamento della Cina mettano in seri guai l’economia del tedesca, così dipendente dalle esportazioni, minacciando di riportare il paese alla condizione di “malato d’Europa” che aveva all’inizio degli anni 2000.
La realtà è meno esagerata di così. L’economia tedesca negli ultimi 10 anni non è andata così bene come si dice di solito, e d’altra parte il governo tedesco potrebbe facilmente intraprendere delle mosse per rafforzare la propria economia, se lo volesse. Tuttavia ci sono ben pochi segnali che indichino una sua volontà di fare quanto necessario; questo a causa di una radicata convinzione in Germania (in tutto lo spettro politico) che la spesa in deficit sarebbe economicamente controproducente e politicamente impopolare.
Nel corso degli ultimi 10 anni l’economia tedesca è andata abbastanza bene in confronto a economie europee simili, come quella francese e quella britannica, tuttavia non ha fatto meglio rispetto agli Stati Uniti. In più, nel corso degli ultimi 20 anni la Germania è cresciuta complessivamente in linea con le altre grandi economie europee (a eccezione dell’Italia, che è stata un disastro), e per molti aspetti è andata peggio rispetto agli Stati Uniti. Di sicuro non c’è stato alcun Wirtschaftswunder.
In aggiunta a tutto questo, l’economia tedesca nel corso dello stesso periodo è diventata fortemente dipendente dalle esportazioni. La Germania già da tempo tendeva ad accumulare surplus commerciali, ma mai della dimensione attuale. Il paese accumula surplus commerciali in media di quasi l’8 percento del PIL dal 2005, e del 6.5 percento dal 2004. Con una somma vicina ai 300 miliardi di dollari nel solo 2018, il surplus commerciale tedesco è indubbiamente il più grande al mondo. La forte attenzione dell’economia tedesca verso il commercio estero spiega perché la Germania abbia avuto un rimbalzo più rapido delle altre economie europee dopo la crisi finanziaria, ma spiega anche perché le prospettive della Germania si siano deteriorate in modo molto netto negli ultimi 12 mesi, periodo in cui il contesto internazionale è rapidamente peggiorato.
C’è la tendenza, in Germania e altrove, a parlare degli squilibri commerciali in termini di competitività, per cui i paesi coi surplus sarebbero “competitivi” e quelli coi deficit sarebbero “non competitivi”. In risposta alle critiche del presidente statunitense Donald Trump nel 2017 sulla dimensione del surplus tedesco, l’allora ministro dell’economia del paese, Sigmar Gabriel (socialdemocratico), scherzò dicendo che gli Stati Uniti dovevano preoccuparsi solo di costruire automobili migliori. Gli economisti tedeschi e i rappresentanti dei ministeri dell’economia e delle finanze, dal canto loro, tendono ad alzare le mani e dire che il surplus commerciale tedesco non è altro che l’esito delle decisioni del settore privato, e che il governo tedesco non ci può fare nulla. Entrambi i punti sono, nel migliore dei casi, fuorvianti.
La bilancia commerciale di un paese è la differenza tra ciò che il paese produce e quello che consuma. La Germania produce molto più di quello che consuma, perché è un paese che risparmia molto più di quanto investa. Questo non è dovuto in modo determinante all’invecchiamento della popolazione (il tasso di risparmio delle famiglie è sempre stato alto e non è cresciuto in modo determinante nel corso degli ultimi 15 anni), ma è dovuto al gonfiarsi dei risparmi del settore imprenditoriale e del settore pubblico, dato che la Germania accumula surplus fiscali dal 2013. Gli Stati Uniti, al contrario, consumano più di quanto producano. Vale a dire che i risparmi interni sono insufficienti a finanziare gli investimenti. Questo ci dice poco sul successo delle due rispettive economie, quantomeno se per successo intendiamo i livelli di produttività e, di conseguenza, gli standard di vita. Ci dice molto, invece, sulla competitività dei prezzi dei due paesi sui mercati globali.
È decisamente inusuale, per un’economia grande come la Germania, essere così sensibile ai cambiamenti della domanda estera. Di solito un’economia di quelle dimensioni è guidata principalmente dalla domanda interna. Ma non c’è nulla di inevitabile nella dipendenza della Germania dalle esportazioni. Essa riflette le scelte politiche fatte dal paese negli ultimi 15 anni. Lungi dall’essere alla mercé di forze globali oltre il proprio controllo, il governo tedesco potrebbe intraprendere delle misure per ribilanciare l’economia del proprio paese.
La ragione principale per la quale i risparmi tedeschi sono cresciuti e gli investimenti si sono indeboliti è un grande trasferimento del reddito nazionale dalle famiglie alle imprese. Questo riflette una crescita molto modesta dei salari per quelli che hanno un basso reddito, e una politica fiscale che ha favorito il settore commerciale a discapito delle famiglie. Secondo il Fondo Monetario Internazionale, i consumi delle famiglie tedesche sono crollati da circa il 63 percento del PIL nel 2005 al 51 percento del PIL nel 2018. Se il trasferimento dei redditi verso il settore imprenditoriale ha aumentato i profitti e la competitività di prezzo delle esportazioni tedesche, non ha fatto nulla per potenziare gli investimenti e, quindi, la crescita della produttività dell’economia tedesca nel suo insieme. La ragione è che la debolezza dei consumi ha minato gli incentivi delle aziende a investire all’interno del paese, preferendo invece sedersi su una montagna di liquidità.
La domanda estera di beni tedeschi si sta contraendo, portando l’economia del paese alla paralisi. Ma non c’è motivo di pensare che la Germania stia tornando a essere il malato d’Europa. La maggiore sfida alla quale il paese si trova di fronte è quella delle proprie politiche, non quella del peggioramento del contesto internazionale. La Germania potrebbe facilmente intraprendere delle misure per potenziare i consumi interni e compensare l’indebolimento della domanda estera. Il governo tedesco potrebbe ridurre le tasse sui redditi medio-bassi, aumentare i salari nel settore pubblico, lanciare un grande programma di investimenti pubblici e rovesciare gli elementi fondamentali della riforma Hartz del mercato del lavoro implementata tra il 2003 e il 2005, che ha minato il potere contrattuale dei lavoratori e contribuito a creare un’ampia economia di bassi salari.
Molti economisti tedeschi, e non solo quelli di sinistra, stanno chiedendo al governo di riformare l’impegno del paese, costituzionalmente sancito, sul pareggio di bilancio del governo federale nel ciclo economico. Affermano giustamente che questo impegno sta impedendo al paese di rinnovare le sue infrastrutture progressivamente fatiscenti. In una situazione in cui il costo del debito è addirittura negativo (vale a dire che gli investitori sono disposti a pagare pur di prestare soldi al governo tedesco), l’indebitamento si pagherebbe da solo. Molti economisti conservatori e molti uomini d’azienda, però continuano a sostenere che ciò di cui il paese ha bisogno sono tagli alle tasse per le aziende e ulteriore flessibilità nel mercato del lavoro.
Esiste un compromesso: un allentamento delle regole fiscali del paese e un aumento degli investimenti pubblici, ma anche l’abolizione della cosiddetta tassa di solidarietà, una sovrattassa del 5,5 percento sul reddito e sulle impsote societarie introdotta dopo la riunificazione per finanziare la ricostruzione della Germania orientale. Una maggiore spesa pubblica, specialmente in investimento, darà certamente stimolo all’economia, specialmente ora che il governo può prendere soldi in prestito gratuitamente. Maggiori investimenti pubblici stimolerebbero la produttività, per esempio alleviando i colli di bottiglia nei trasporti all’interno del paese e migliorando la scarsa infrastruttura di telecomunicazioni, senza con questo sostituirsi a maggiori investimenti privati. Al contrario delle affermazioni degli economisti conservatori, abolire la tassa di solidarietà farà ben poco per stimolare gli investimenti, perché servirà in modo sproporzionato a beneficiare chi sta già bene e le aziende e i gruppi che hanno un’alta propensione al risparmio. Con una tassazione sui profitti già ampiamente ridotta, le aziende siedono già su una montagna di liquidità che non ha precedenti. Ciò che un ulteriore taglio delle tasse sui profitti farebbe è di aumentare ancora di più i risparmi e, con essi, la dipendenza del paese dalle esportazioni.
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