Un breve post sul blog Global Inequality sottolinea due lezioni che possiamo trarre dalla rivolta dei Gilet Jaunes: in primo luogo, l'ipocrisia insita in alcuni aspetti della retorica della "decrescita" (più o meno felice) e dell'ambientalismo, che spesso nasconde un programma di impoverimento generale e di inasprimento delle diseguaglianze; in secondo luogo l'elitismo e la distanza dalla popolazione dei leader incensati dai media in quanto progressisti e vincenti, come Macron e la Clinton. Ora è però necessario vigilare perché il legittimo risentimento popolare non venga dirottato in senso radicale e violento, poiché ciò potrebbe sfociare in un risultato diametralmente opposto.
Branko Milanovic, 5 dicembre 2018
I recenti fatti accaduti in Francia, eventi che visti da fuori appaiono meno drammatici che dall’interno, sollevano due questioni importanti: una nuova, l'altra "storica". È infatti un caso che la goccia che ha fatto traboccare il vaso sia stata una tassa sul carburante che colpiva soprattutto le aree rurali e suburbane, le popolazioni con redditi relativamente modesti. Apparentemente il punto non era tanto l'entità dell'aumento, ma il fatto che esso ha contribuito a intensificare un sentimento molto diffuso: che oggi, dopo aver già pagato i costi della globalizzazione, delle politiche neoliberiste, della delocalizzazione, della concorrenza con la manodopera straniera più economica e del deterioramento dei servizi sociali, a tutto questo si aggiunga quella che è considerata, probabilmente non in modo del tutto infondato, una tassa elitaria sul cambiamento climatico.
Ciò solleva un problema più generale che ho precedentemente discusso nella mia polemica con Jason Hickel e Kate Raworth. I fautori della decrescita, e coloro che sostengono sia necessario prendere provvedimenti drastici per quanto riguarda il cambiamento climatico, sono stranamente evasivi e riservati quando si tratta di precisare a chi toccherebbe sostenere i costi di queste misure. Come ho fatto presente a Jason e Kate durante questa discussione, se fossero seri dovrebbero uscire allo scoperto e dire chiaramente all'opinione pubblica dei paesi occidentali che i loro redditi reali dovrebbero essere dimezzati, e spiegare anche come intendono farlo. Ovviamente i decrescisti sanno che un programma del genere sarebbe un suicidio politico, quindi preferiscono rimanere nel vago e mascherare la questione sotto la retorica "falsamente comunitaria" che [il cambiamento climatico] ci influenzerebbe tutti e che in qualche modo l'economia prospererebbe se tutti prendessimo coscienza del problema - senza mai dirci quali tasse specifiche vorrebbero aumentare o in che modo intendono ridurre i redditi delle persone.
La rivolta francese porta ora questo problema allo scoperto. Le classi medie occidentali, già colpite dalle ricadute della globalizzazione, sembrano non voler pagare un’ulteriore tassa sul cambiamento climatico. Si spera che adesso i decrescisti abbiano capito l’importanza di avere piani concreti.
Il secondo problema è "storico". È il problema della divisione tra le élite politiche e una parte significativa della popolazione. L’ascesa di Macron si è realizzata su una piattaforma apparentemente anti-mainstream, e il suo eterogeneo partito è stato creato appena prima delle elezioni. Ma le sue politiche sono state fin dall’inizio a favore dei ricchi, una sorta di rivisitazione del thatcherismo. Si è trattato inoltre di politiche molto elitarie, spesso disdegnose dell'opinione pubblica. È alquanto bizzarro che questa presidenza, per sua stessa ammissione "napoleonica”, sia stata glorificata dalla stampa liberal, in particolare quella di lingua inglese, sebbene la sua politica interna fosse fortemente pro-capitalistica, e quindi non dissimile da quella di Trump. Ma poiché la retorica internazionale di Macron (ma solo la retorica) era anti-Trump, la sua politica interna passava in secondo piano.
In più, poco saggiamente, Macron ha approfondito la separazione tra sé e la gente comune, sia per le sue abitudini patrizie che per la tendenza a dispensare lezioni paternalistiche, che a volte sono degenerate nell'assurdo (come quando ha passato diversi minuti a insegnare a un bambino di 12 anni il modo corretto di rivolgersi al presidente). Nel momento in cui più che mai i ceti popolari occidentali si aspettavano dai politici che mostrassero almeno un minimo di empatia, Macron ha scelto la prospettiva opposta di colpevolizzare le persone per la loro incapacità di avere successo o di trovare un lavoro (dicendo loro che per fare ciò bastava uscire di casa). Ha quindi commesso lo stesso errore di Hillary Clinton con il suo infelice commento sui "deplorables". Non sorprende che i sondaggi sul suo gradimento abbiano subìto un crollo, e, a quanto pare, neanche questi colgono appieno l'entità del disprezzo in cui è tenuto da molti.
È in tali condizioni che si sono verificati "gli eventi". Il pericolo è tuttavia che un’ulteriore radicalizzazione, e in particolare se violenta, comprometta i loro obiettivi originari. Non dimentichiamo che le manifestazioni del maggio 1968, dopo aver spinto de Gaulle a rifugiarsi a Baden-Baden, pochi mesi dopo gli consegnarono una delle più grandi vittorie elettorali, a causa della violenza dei manifestanti e degli errori commessi nella gestione di quella grande opportunità politica.
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