Un docente della Cattolica, Andrea Terzi, pubblica su economiaepolitica.it un articolo sulla MMT
Andrea Terzi - Dopo gli articoli apparsi sull’Economist e sul Washington Post e il reportage di Repubblica,
è cresciuto l’interesse per l’economia ‘neo-cartalista’, nota anche con
l’acronimo MMT (Modern Monetary Theory). Qui vorrei proporre ai lettori
di Economia e Politica una sintesi dei concetti principali di questo
approccio ‘eterodosso’ per ricavarne alcune ricette per l’Europa, in
alternativa alla visione che domina il dibattito in corso, e che si può
riassumere più o meno così:
La
crisi dell’euro non è un problema della moneta unica europea, che
invece ha dimostrato di mantenere stabile il proprio potere d’acquisto
interno ed estero, grazie alla BCE. È piuttosto un problema di alcuni
stati che hanno fallito su due fronti: la competitività e l’equilibrio
dei conti pubblici. In altre parole, se fossimo tutti come la Germania
l’area dell’euro godrebbe di ottima salute. Per quei paesi che hanno
fallito, e che possono ancora rimboccarsi le maniche per evitare di
uscire dall’euro, la ricetta è una sola: austerità e riforme
strutturali, e quindi sacrifici fino a quando le riforme non daranno i
loro frutti. È un cammino non breve, né facile, ma è l’unico
percorribile: solo riducendo sprechi e costi di produzione (anche
attraverso una minor tutela del lavoro dipendente) si riacquisterà la
competitività che consentirà di creare nuovi posti di lavoro.
Secondo
la MMT, le ragioni della crisi non sono affatto queste, né le ricette
sul tavolo dell’Europa (e dell’Italia) hanno una qualche possibilità di
successo. E in considerazione del fatto che l’Europa, tra summit,
annunci della BCE e nuovi trattati, entra ormai nel terzo anno della
“sua” crisi, può essere utile esaminare alcune proposizioni
neo-cartaliste e valutare le proposte per l’Europa che se ne possono
trarre. Si tratta, d’altra parte, di proposte condivise da un più ampio
fronte di economisti di formazione keynesiana e postkeynesiana, con i
quali la MMT condivide alcuni principi di fondo.
1. La moneta è un istituzione politica, non una manifestazione delle leggi del mercato
È
il punto centrale della teoria neo-cartalista. La moneta, come gli
scienziati sociali non economisti ben sanno, è un fenomeno
politico-istituzionale, sia dal punto di vista storico che logico. È
documento (‘carta’) emessa dallo stato. Non è la soluzione dei privati
al problema dei costi di transazione. In un celebre articolo del 1998,
Charles Goodhart[1] mosse una serie irresistibile di
obiezioni alla teoria privata della moneta, concludendo che la
costruzione dell’euro è a rischio: la separazione tra moneta e sovranità
politica, spesso elogiata dagli architetti dell’euro come la vera forza
della nuova moneta unica, costituisce invece un elemento di profonda
fragilità. A distanza di oltre un decennio, I fatti danno ragione a
Goodhart.
2. Ogni taglio della spesa e ogni aumento delle tasse riduce la ricchezza finanziaria di famiglie e imprese
Si
tratta di un principio che si ricava dalla contabilità settoriale: il
disavanzo finanziario di un settore corrisponde sempre ad un equivalente
avanzo finanziario di un altro settore. Nel caso del disavanzo
pubblico, la maggior ricchezza finanziaria del settore privato
corrisponde all’emissione dei titoli e/o delle riserve bancarie prodotti
dal disavanzo[2]. In altre parole, il disavanzo pubblico crea (non distrugge) risparmio privato.
Ciò
significa che lo sforzo coordinato dell’Europa nel ridurre i disavanzi
pubblici comporta una pari riduzione delle attività finanziarie di
famiglie e imprese, con effetti depressivi su consumi, investimenti e
occupazione. [3] È vero: anche nella letteratura mainstream non
si legge più che l’austerità è espansiva. Ma qui c’è un aspetto in più:
il disavanzo del settore pubblico è considerato l’unica sorgente netta di
ricchezza finanziaria per il settore privato. L’unica alternativa, e
cioè un avanzo commerciale con l’estero, è un gioco a somma a zero tra
l’esportatore netto e l’importatore netto. Anche la Cina l’ha capito e
si sta prudentemente spostando verso un maggior peso dei consumi
interni, anche grazie al ruolo della politica fiscale. Gli Europei
preferiscono invece la sterile virtù dei bilanci in pareggio.
3. Solo uno stato che si lega le mani rinunciando alla propria
sovranità monetaria può trovarsi nell’impossibilità di pagare il
servizio del debito
La
politica fiscale di uno stato la cui moneta non sia vincolata da
accordi di cambio è sempre libera di perseguire la piena occupazione e
la stabilità dei prezzi. Il rischio di default dei titoli pubblici entra
in gioco solo quando un paese intende garantire un tasso di conversione
fisso della propria moneta con una valuta estera, oppure quando un
paese rinuncia alla propria moneta.[4]
La
crisi europea è dunque una crisi, in primo luogo, di sovranità
monetaria. Questa, invece che essere trasferita dalla periferia al
centro dell’Unione, è finita nelle mani della BCE, che ha poteri di
gestione delle riserve nel sistema dei pagamenti, ma non di politica
fiscale. In queste condizioni, era solo una questione di tempo (e di
avverse condizioni dell’economia mondiale) prima che i paesi con i
disavanzi pubblici e commerciali maggiori si trovassero in condizioni di
rischio di default e si manifestasse la “crisi del debito sovrano”, che
“sovrano”, in realtà non è più.
4. L’inflazione non è generata da tassi d’interesse troppo bassi,
ma si manifesta invece per cause esterne (il prezzo del petrolio)
oppure, per cause interne, a causa di un disavanzo pubblico eccessivo
rispetto alla capacità produttiva del paese
Questa
è la parte più eminentemente teorica. Più che di Modern Monetary Theory
(che è un termine a mio parere poco pregnante) bisognerebbe parlare di
“teoria del monopolio della moneta”. In altre parole, l’offerta di
moneta è vista come un caso di monopolio del settore pubblico che è in
grado, come insegna la teoria del monopolio, di fissarne il prezzo,
lasciando che la quantità si aggiusti alla domanda. Allo stesso modo, lo
stato è in grado di ancorare i prezzi (invece che all’oro) alla merce
base dell’economia: il lavoro. Invece che utilizzare la disoccupazione
come strumento per stabilizzare i salari, lo stato diventa il datore di
lavoro di ultima istanza e fissa un salario minimo, dando un lavoro ai
disoccupati.[5]
Che fare?
La
crisi del debito “NON-sovrano” è diventata rapidamente una profonda
crisi dell’occupazione e del futuro stesso dell’Europa e delle sue più
giovani generazioni. La ricetta che più spesso viene ripetuta da
politici, media e istituzioni è quella che conosciamo. L’alternativa
offerta dall’approccio qui descritto si può invece riassumere in due
pilastri fondamentali, cha partono dalla premessa che la crisi dell’euro
è duplice: A) di finanziamento degli stati e B) di insufficiente
domanda aggregata. E occorre una duplice risposta.
A. La crisi finanziaria si risolve unicamente con il coinvolgimento della BCE
Il
susseguirsi di piani di salvataggio è un esercizio tecnicamente
inefficace e pericoloso: paesi non sovrani non possono essere finanziati
da altri paesi non sovrani. Se non è politicamente accettabile che la
BCE diventi il prestatore di ultima istanza dei 17 paesi, occorre allora
trovare una soluzione che, aggirando l’ostacolo politico, faccia
comunque riscorso al monopolista della moneta in Europa: la BCE. Sta
alla leadership politica europea, che si è fin qui dimostrata inadeguata
alla straordinaria sfida che abbiamo davanti, battere un colpo!
B. L’occupazione (e, di conseguenza, anche il credito bancario)
cresce al crescere della domanda aggregata, e non per effetto delle
liberalizzazioni, del pareggio di bilancio, o del ‘quantitative easing’
della BCE
Per
uscire dalla recessione non bastano gli strumenti della BCE. Ed è
chiaro che in un’unione monetaria non è possibile, per i motivi discussi
sopra, affidarsi alle politiche fiscali espansive indipendenti dei
singoli paesi, e che quindi una qualche forma di coordinamento fiscale è
il prezzo inevitabile da pagare all’integrazione europea. Ma allora o
si decide di elevare il limite del disavanzo concesso a tutti i paesi
(una strada politicamente in salita all’attuale stato delle cose),
oppure occorre trovare una strada comune che dia nuovo ossigeno
all’economia europea oberata da una pressione fiscale troppo alta per la
dimensione attuale di spesa pubblica.
Una strada meno soggetta a veti politici potrebbe essere questa.
L’Europa dovrebbe tenere un summit nel corso del quale i 17 paesi
dell’euro concordano un considerevole taglio fiscale nell’intera area
dell’euro. Può trattarsi di una riduzione di un imposta regressiva come
l’Iva, oppure delle imposte che gravano sui redditi medi e bassi.
Contestualmente, i governi europei dovrebbero annunciare che il calo di
introiti corrisponderà a una raccolta attraverso titoli europei emessi
dall’European Financial Stability Facility (EFSF) con la garanzia della
BCE. Nello stesso summit i paesi dell’euro dovrebbero anche
preannunciare che nel corso del summit successivo daranno il via ad una
seconda emissione di Eurobonds diretta a sostenere un programma
ambizioso di infrastrutture nel campo della comunicazione digitale, dei
trasporti e dell’ambiente.
È chiedere troppo a questa Europa?
*Andrea Terzi scrive su questi temi su www.mecpoc.org.
Vorrei far notare all'estensore del pur pregevole articolo che usa l'aggettivo "fiscale" qualche volta nel senso della lingua italiana (le tasse), e qualche volte inglese (il bilancio dello stato). E' un pessimo (e nocivo) gergalismo da economista. I comuni mortali fanno confusione e molta gente in italia pensa che quando si parla di "politica fiscale" si intenda quella tributaria. E così accade che milioni di italiani siano convinti che il famoso "fiscal pact" sia un accordo su come far pagare le tasse in europa.
RispondiEliminaCosa ci vuole, santo dio, a scrivere "politica di bilancio"?
Immaginatevi una cosa del genere in castigliano, dove "el fiscal" è il procuratore della repubblica!
Caro anonimo, tieni conto che l'estensore del pur pregevole articolo è un economista, e che nel linguaggio economico italiano si parla correntemente di politica fiscale o di politica di bilancio, intendendoli come sinonimi. Entrambi i termini si riferiscono alla politica che fa il governo manovrando entrate e spese.
EliminaNon credo che tu possa rincorrere in giro per il web tutti gli articoli di economisti che usano questo termine economicamente corretto perché che si presta a delle incomprensioni a causa del linguaggio comune che identifica fisco/tasse. Anche perché non ce la potresti mai fare.
Sarebbe meglio spiegare alle persone che si interessano di economia cosa si intende, nel linguaggio economico, per politica fiscale.
Del resto, l'intero senso dell'articolo va contro l'interpretazione che tu paventi.
P.S. Tra l'altro, anche politica di bilancio non è che sia così illuminante, dato che si parla sempre di pareggio e di equilibrio di bilancio!
Insomma, non ci attacchiamo alle parole, sono i concetti che vanno spiegati.
No, non è chiedere troppo a quest'Europa, è chiedere l'impossibile. La Germania non accetterà mai di perdere la vittoriosa blitzkrieg che sta conducendo contro i suoi concorrenti dell'eurozona. I tedeschi non acconsentiranno mai di finanziare il loro debito pubblico (tutt'altro che modesto, sia detto tra parentesi) con gli eurobond, i cui rendimenti saranno per necessità di cose più alti dei bund. I governanti dei paesi in bancarotta, del testo, cercando disperatamente di non perdere del tutto la capacità d'indebitarsi (è questo il fine meschino e sbagliato delle loro politiche economiche procicliche) ridurranno alla miseria i loro popoli. Del resto, perché no? A ciascuno il suo, come dice la Bibbia. Deutschland, Deutschland über alles.
RispondiEliminaGabriele, concordo con te. Non vedo come l'Europa possa prendere la rotta giusta. Temo che abbia ragione Martin Wolf quando vede anni e anni di miseria davanti a noi. Oppure i Nordisti si stufano ed escono loro, o infine siamo noi periferici e sudisti a mandare all'aria questi governi complici. L'ultima sarebbe la migliore...
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