Versione riveduta e ampliata dell’intervento audio di Emiliano Brancaccio alla conferenza “MMT Calabria Europa” del 30 novembre 2012.
di Emiliano Brancaccio
“Mezzogiornificazione”
europea: Paul Krugman (1991) l’aveva preannunciata in tempi non
sospetti ed altri, poi, l’hanno riesaminata e ne hanno studiato gli
sviluppi. Con questa espressione possiamo intendere, sinteticamente,
quei processi di desertificazione produttiva, annientamento o
assorbimento estero dei capitali nazionali, ed emigrazione di massa dei
lavoratori, che soprattutto a seguito della crisi economica stanno
determinando profondi mutamenti nella struttura produttiva dei paesi
periferici dell’Unione monetaria europea. La “mezzogiornificazione”
indica, in sostanza, che il dualismo economico che ha duramente segnato
la storia dei rapporti tra Nord e Sud Italia non costituisce più un caso
particolare limitato al nostro paese, ma andrebbe ormai riletto come
caso anticipatore ed emblematico di un dualismo molto più ampio, che si
riproduce oggi su scala continentale tra i paesi del Nord e del Sud
dell’Europa, e che rischia di compromettere gravemente i loro futuri
rapporti economici e politici.
Non
suscita quindi particolare meraviglia che i cittadini meridionali,
oggi, risultino particolarmente sensibili ai mutamenti in corso negli
assetti dell’eurozona. Subendo gli effetti del dualismo economico già da
tempo, essi sembrano intuire più rapidamente di altri quali siano i
rischi che l’Europa oggi sta correndo. Non credo sia del tutto casuale,
dunque, che iniziative come questa, che mirano a diffondere maggior
consapevolezza dei processi economici in atto, maturino proprio lì da
voi, a Reggio Calabria, città estrema situata esattamente al centro del
Mediterraneo, nei pressi di Scilla e al cospetto di Cariddi.
Con
questo intervento audio da Napoli cercherò di non sottrarre tempo alle
ulteriori relazioni dei colleghi Kelton, Auerbach e Black, di cui ho
letto con interesse vari lavori e che saluto. Pertanto, in quel che
segue mi limiterò ad accennare solo ad alcuni degli snodi concettuali e
delle questioni aperte riguardanti la “modern money theory” (MMT), la
“teoria della moneta moderna”, definita anche “teoria monetaria
moderna”.
La
prima questione verte sul concetto di “novità”. E’ lecito definire la
teoria monetaria moderna una novità assoluta nel campo della teoria
economica? Io credo di no: la teoria monetaria moderna non rappresenta
un inedito. La mia posizione riflette per certi versi quella
dell’economista canadese Marc Lavoie (2011). Secondo Lavoie le
proposizioni chiave della teoria monetaria moderna possono essere
ricavate dagli schemi tipici della tradizione Post-Keynesiana; in
particolare, dalle versioni di quegli schemi dette del “circuito
monetario”, che in Italia hanno avuto una certa diffusione grazie
soprattutto al contributo dell’economista Augusto Graziani (2003).
Va
ricordato, inoltre, che la teoria monetaria moderna eredita dalla più
ampia tradizione dei filoni di pensiero economico critico una tesi
cruciale, direi attualissima: una economia capitalistica di mercato,
lasciata a sé stessa, non è in grado di garantire stabilmente la piena
occupazione del lavoro e delle altre forze produttive esistenti, né nel
“breve” né nel “lungo periodo”. Tra le numerose implicazioni di questa
tesi vi è l’idea che il finanziamento monetario della spesa pubblica, a
date condizioni, può determinare aumenti duraturi della produzione
fisica e della stessa capacità produttiva, con effetti sull’inflazione
che solo per caso risulterebbero proporzionali all’entità del
finanziamento monetario della spesa.
Credo
sia utile ricordare che questa tesi trova un rigoroso fondamento di
teoria dei prezzi relativi e della distribuzione negli sviluppi della
cosiddetta teoria della produzione, alla quale, tra gli altri, Leontief e
soprattutto Sraffa hanno dato fondamentali contributi (cfr. Pasinetti
1975; Kurz e Salvadori 1995; Petri 2004). In particolare, è proprio alla
luce della teoria della produzione che la tesi suddetta e le sue
implicazioni possono essere estese al cosiddetto “lungo periodo”, e le
obiezioni di Krugman (2011) alla MMT possono quindi essere efficacemente
criticate.
Ora,
questo rinvio alla storia, alla tradizione, al profondo substrato di
pensiero critico sul quale la “teoria monetaria moderna” inevitabilmente
poggia, è un fatto che magari potrà creare qualche imbarazzo tra gli
apologeti di quella diffusa malattia politica che va sotto il nome di
“nuovismo”, ma a ben pensarci dovrebbe esser considerato positivo. In
particolare, dovrebbe essere considerato una vera fortuna da parte di
coloro che intendano realmente contribuire alla edificazione di un
fronte alternativo, autorevole e non evanescente, nella durissima
battaglia delle idee in campo economico.
Il
guaio è che il nuovismo è una malattia atavica e tenace. Mi vengono in
mente, per esempio, gli agitatori russi che nel 1920 pretendevano di
costruire una nuova cultura rivoluzionaria sulle rovine di quella
vecchia, e si dichiaravano pronti a bruciare le opere rinascimentali di
Raffaello pur di raggiungere il loro scopo. Dovette scomodarsi
addirittura Lenin (1977) per spiegare che essi erano soltanto dei poveri
illusi, per un motivo che in un’ottica storico-materialista risulta
subito evidente: una nuova cultura, che possa dirsi realmente
rivoluzionaria, non sbucherà mai fuori dal nulla ma potrà solo scaturire
da uno sviluppo del sapere che l’umanità ha sedimentato nel corso della
sua Storia. Nei tempi confusi che viviamo, che sono anche tempi di
rivoluzioni di cartone, coltivo il sospetto che simili puntualizzazioni
non siano del tutto banali.
Mi
permetto di far notare, a questo riguardo, che anche gli aspetti
apparentemente più sorprendenti, che sembrano un pochino più eretici,
della teoria monetaria moderna, in realtà possono esser considerati dei
casi molto particolari degli schemi Post-Keynesiani. Faccio un esempio:
una tesi apparentemente sconcertante di alcuni esponenti della teoria
monetaria moderna è che da un punto di vista logico verrebbe prima la
spesa pubblica del governo, e solo dopo di essa potrebbero verificarsi
il prelievo fiscale e i prestiti al governo da parte dei privati. In
altri termini, secondo questa visione, se il governo prima non spende,
non ci potrà essere né prelievo fiscale né prestiti privati allo stesso
governo. Ora, l’idea secondo cui la spesa pubblica viene logicamente
prima di ogni altra cosa, a prima vista sembra incredibile. Tuttavia,
come Lavoie ha mostrato, essa deriva da una semplice convenzione
contabile: alcuni teorici monetari moderni analizzano la banca centrale e
lo stato come se fossero un unico settore consolidato. L’arcano è
facilmente risolto, dunque. Tuttavia bisogna anche aggiungere che questo
consolidamento, nella attuale realtà politico-istituzionale, non
esiste. Magari è auspicabile, ma non esiste ancora. E in periodi confusi
come questi, forse sarebbe il caso di tenere sempre ben distinti i meri
auspici dai fatti.
I
colleghi presenti mi scuseranno per queste precisazioni, che loro forse
reputeranno scontate. Io tuttavia credo si tratti di chiarimenti
necessari. Perché a mio avviso, se davvero si vuol contribuire alla
lunga e faticosa opera di formazione di una coscienza critica collettiva
in grado di avanzare precise obiezioni alla visione economica dominante
e di suggerire una teoria economica alternativa e moderna, magari
anche una “teoria monetaria moderna”, allora è indispensabile sfrondare
tale teoria dagli orpelli, e soprattutto dagli eventuali errori.
A
proposito di errori. In un interessante documento a supporto della
teoria monetaria moderna, leggo che «nell’economia reale le importazioni
sono un beneficio, mentre le esportazioni sono un costo» (Mosler et al.
2012). Ora, intendiamoci bene: se questo vuole essere un modo per
criticare l’odierno assetto capitalistico mondiale, che induce interi
paesi a deflazionare l’economia e a creare disoccupazione interna nello
strenuo tentativo di gareggiare sui mercati internazionali, io apprezzo
le buone intenzioni. Al tempo stesso, però, credo che questa modalità di
avanzare la critica all’assetto vigente sia potenzialmente fuorviante.
Sotto
questo aspetto, c’è un punto della teoria monetaria moderna che appare
ancora opaco, e che rischia di rivelarsi debole se non viene meglio
approfondito: si tratta dei rapporti che un paese sovrano ha con il
resto del mondo, che vengono sinteticamente espressi proprio
dall’andamento delle importazioni e delle esportazioni, e più in
generale della bilancia dei pagamenti verso l’estero.
A
me pare che su questo punto alcuni elementi di debolezza della MMT
emergano non solo nei documenti di propaganda, inevitabilmente limitati
dalle necessità della sintesi, ma anche in contributi accademici
caratterizzati da un livello di raffinatezza superiore: per esempio,
quando uno dei più autorevoli esponenti della teoria monetaria moderna
sembra suggerire che la soluzione chiave per gestire i problemi di
bilancia dei pagamenti risiede in un tasso di cambio flessibile (Wray
1998). Ebbene, io non credo che le cose stiano esattamente in questi
termini. Mi spiego.
L’obiettivo
principale della MMT è di fare in modo che un paese sovrano usi il
finanziamento monetario della spesa pubblica per rendere praticabile
l’attuazione di un programma nazionale per la piena occupazione. Alcuni
esponenti della MMT parlano in questo senso dello stato come “occupatore
di ultima istanza” (Wray, cit.), proponendo così una feconda parafrasi
del concetto di “prestatore di ultima istanza” di Bagehot. Prendendo
spunto da Leontief, invece, personalmente credo che un programma per la
piena occupazione dovrebbe farsi carico di alcuni problemi tipici della
pianificazione, tra cui l’esigenza di intervenire sugli squilibri
strutturali fra i territori. Per questo preferisco parlare dello stato
come “occupatore di prima istanza”. Tali differenze però possono essere
affrontate anche a un secondo livello di analisi. L’idea preliminare
della MMT, di finanziare con moneta la spesa pubblica, è a mio avviso
corretta e condivisibile. Tuttavia, è necessario soffermarsi sul fatto
che tale politica farebbe aumentare anche le importazioni dall’estero.
Ed è difficilmente contestabile che tale aumento delle importazioni
potrebbe creare problemi rilevanti alla bilancia dei pagamenti e, più in
generale, all’intera struttura del sistema produttivo nazionale.
Problemi che vanno ben al di là delle scelte intorno alla mera gestione
del tasso di cambio e alla stessa sovranità monetaria.
Gli
italiani, i latino americani, gli stessi britannici, sanno benissimo,
per esperienza diretta, che i problemi di bilancia dei pagamenti non
possono essere gestiti tramite la mera dinamica del cambio. Anzi, dal
punto di vista del nesso tra bilancia dei pagamenti e sovranità, al pari
e anche più rapidamente della deflazione interna, un cambio flessibile
può ridurre il valore dei capitali nazionali, può quindi esporre a
facili acquisizioni estere e può dunque diminuire, anziché aumentare, il
grado di sovranità. Ecco perché in passato, in Italia, in America
Latina e in Gran Bretagna, anche in periodi di fluttuazione dei cambi,
venivano evocati e talvolta venivano anche realizzati dei programmi
detti di “sostituzione delle importazioni”: cioè dei programmi più o
meno protezionistici, di limitazione dei movimenti di capitali, di
disciplinamento degli investimenti esteri e, laddove necessario, di
controllo dei movimenti di merci.
Verrebbe
a questo punto da chiedersi per quale motivo alcuni esponenti
statunitensi della MMT tendono a sottovalutare questi problemi, e
talvolta arrivano per questa via a giudicare in termini acriticamente
ottimistici gli stessi investimenti diretti esteri. Questo in un certo
senso è un paradosso, se si considera che il finanziamento monetario
della spesa pubblica è stato adoperato, in molti casi storici, proprio
per scongiurare la perdita di sovranità che può derivare dalle
acquisizioni estere. In una fase in cui il tema dell’inserimento di
capitali esteri negli assetti proprietari e di controllo sembra
travalicare l’ambito degli ultimi asset strategici in mano pubblica e
arriva a lambire persino il sistema bancario, sarebbe bene fare molta
più chiarezza, su questo punto. Ma se mi dilungassi qui pure su questi
aspetti finirei per prendere troppo tempo.
Ciò
che conta stabilire immediatamente, in questa sede, è che la teoria e
la storia ci dicono che se davvero si vuol ripristinare un certo grado
di sovranità – e a fortiori di sovranità democratica - allora la
bilancia dei pagamenti verso l’estero diventa una variabile cruciale. Ed
è opportuno aggiungere che per controllare questa variabile bisogna
passare per forza tra Scilla e Cariddi: o si attua un coordinamento
internazionale tra paesi, oppure si attuano forme più o meno stringenti
di protezionismo finanziario e commerciale, oppure ancora si realizza
una combinazione tra le due opzioni. Le scelte sui cambi fanno
senz’altro parte del problema ma di certo non lo esauriscono, né possono
esser considerate l’aspetto decisivo.
E
qui veniamo alla questione politica fondamentale. E’ la questione della
scelta tra una strategia di profonda revisione del palinsesto della
moneta unica e del mercato unico europeo da un lato, e una strategia
alternativa, che sia basata non soltanto sullo sganciamento dalla moneta
unica ma anche, se necessario, su una revisione critica del mercato
unico europeo. In Italia e altrove, come voi sapete, si stanno formando
due fronti, su questo tema. Curiosamente, noto che persino tra i
sostenitori della teoria monetaria moderna sono emerse posizioni
diversificate, a questo riguardo.
Ebbene,
in un libro recente abbiamo provato a suggerire una via dialettica per
cercare di affrontare questo decisivo snodo politico (Brancaccio e
Passarella 2012). La nostra proposta parte da una serie di evidenze, che
provo qui ad esporre in estrema sintesi.
Osserviamo
in primo luogo che la “mezzogiornificazione” europea ha fatto
registrare una forte accelerazione a seguito della crisi economica. I
portatori degli interessi prevalenti, in Germania e nei paesi “centrali”
dell’Unione, traggono grandi vantaggi, relativi e assoluti, da questo
processo. La crisi ovviamente colpisce anche tali paesi, ma in termini
comparati il suo impatto su di essi è più modesto, il che accresce la
forbice rispetto alle aree “periferiche” dell’Unione. Basti guardare
allo spread, non solo tra i tassi d’interesse ma anche tra le bancarotte
aziendali e, soprattutto, tra i livelli di occupazione: dal 2007 al
2012 i paesi del Sud Europa hanno perso quasi quattro milioni di posti
di lavoro, mentre la Germania ha addirittura accresciuto l’occupazione
di circa un milione e mezzo di unità. Ma c’è di più: la miscela di
mezzogiornificazione e crisi, in ultima istanza, implica
“centralizzazione” dei capitali nel senso di Marx, e di Hilferding
(2011). Rilevo, a questo proposito, che a seguito della crisi gli indici
azionari della Germania da un lato, e dei paesi del Sud Europa
dall’altro, si sono chiaramente divaricati. La forbice, si badi bene, in
termini relativi caratterizza anche il settore bancario. Questo aumento
generalizzato della varianza dei valori azionari contribuisce a
spiegare perché il rapporto tra investimenti diretti esteri netti e
formazione lorda di capitale fisso della Germania verso l’Italia sia
mutato di segno a cavallo del 2008-2009. Mentre nei primi anni dell’euro
i proprietari tedeschi sono risultati venditori netti di capitale, dopo
la crisi essi hanno nuovamente assunto il ruolo storico di acquirenti
netti.
I
dati insomma segnalano che siamo al cospetto di una tremenda
accelerazione del processo di centralizzazione dei capitali e di
“egemonizzazione” tedesca dell’Unione europea. Un processo che
ovviamente genera contraddizioni e conflitti, che a un certo punto
potrebbero rivelarsi ingestibili. A tale riguardo, i portatori degli
interessi prevalenti in Germania sanno che l’allargamento dei divari
economici e i connessi meccanismi di centralizzazione dei capitali
potrebbero a un certo punto rivelarsi politicamente insostenibili per le
nazioni periferiche. Questi fenomeni dunque accrescono la probabilità
di una deflagrazione della moneta unica europea. E’ interessante notare,
sotto questo aspetto, che ai vertici delle istituzioni tedesche sembra
piuttosto diffuso lo scetticismo intorno alla reale efficacia della
strategia di riequilibrio deflazionistico a carico dei soli paesi
debitori che viene perseguita dalla Banca centrale europea. In effetti,
benché gli ultimi dati sugli spread e sulle bilance commerciali sembrano
rinnovare le speranze tra le file degli ottimisti (cfr. Congiuntura
Ref. 2012), allo stato dei fatti ritengo anche io, con molti altri, che
vi siano tuttora valide ragioni per nutrire forti dubbi sulla tenuta
futura dell’eurozona (cfr. ad esempio le posizioni di Stiglitz e dello
stesso Krugman; tra gli italiani fu Graziani uno dei primi a dubitare
della sostenibilità della zona euro; più di recente, cfr. ad esempio
Bagnai 2012).
Sarà
forse la memoria del fallimento delle politiche di Bruning, o magari un
sussulto di “cattiva coscienza” politica, ma in Germania sembrano in
effetti più consapevoli di noi della difficoltà di aggiustare gli
squilibri intra-europei a colpi di deflazione nei paesi debitori. Ecco
perché le autorità tedesche non nascondono di attendersi una crescita
delle tensioni politiche future, e una ulteriore accentuazione della
fragilità dell’eurozona. Non è un caso, del resto, che abbiano messo in
conto prima di tutti l’eventualità di una sua deflagrazione. La forza
dei tedeschi, ai tavoli delle trattative europee, deriva anche da questa
capacità di anticipazione degli eventi. E’ evidente cioè che essi sono
già pronti a sostenere i costi di una implosione della moneta unica,
anche perché dal tracollo potrebbero trarre persino dei vantaggi
ulteriori: infatti, come abbiamo cercato di mostrare, il solo mutamento
dei rapporti di cambio tra le valute non frenerebbe il processo di
centralizzazione in atto, ma anzi potrebbe addirittura intensificarlo
(Brancaccio e Fontana 2011).
L’unica
vera paura che agita i portatori degli interessi prevalenti in Germania
è che una eventuale crisi della moneta unica sia accompagnata anche da
una crisi del mercato unico europeo. Essi cioè temono che i paesi
periferici siano a un certo punto tentati dall’adozione di soluzioni di
tipo “neo-protezionistico”, sui mercati finanziari ed anche sui mercati
delle merci. In Germania discutono animatamente di questo pericolo,
poiché sanno che il processo di egemonizzazione tedesca dell’Unione
europea subirebbe una pesante battuta d’arresto se venisse messa in
discussione la libera circolazione dei flussi finanziari e delle merci.
Il dibattito interno alle associazioni imprenditoriali, in Germania, ci
pare emblematico in questo senso (cfr. ancora Brancaccio e Passarella,
cit.).
Una
volta che si tenga conto di tutti questi elementi, diventa a nostro
avviso ragionevole tentare di tratteggiare una linea d’azione politica.
La nostra proposta, in questo senso, si dispiega lungo due traiettorie
interconnesse, e può essere sintetizzata nei seguenti termini.
Da
un lato, ai tavoli delle trattative europee, le autorità italiane e
degli altri paesi periferici dell’Unione dovrebbero riunirsi intorno a
un progetto organico di riforma dell’Unione monetaria europea, che si
proponga di affrontare alla radice, in termini strutturali e non
assistenzialistici, gli squilibri tra le economie del continente. I
contributi alla definizione di un piano sostenibile di riforma, in
questo senso, sono già numerosi (cfr. per esempio il Manifesto per
l’Europa del Sole 24 Ore, nonché la www.letteradeglieconomisti.it del 2010; si veda anche la proposta di “standard retributivo europeo”, in Brancaccio 2012).
Dall’altro
lato, per far sì che simili progetti non siano destinati alla critica
roditrice dei topi, è indispensabile che le autorità di quegli stessi
paesi dichiarino esplicitamente che, se in Europa non dovesse farsi
largo una generale volontà riformatrice nel senso indicato, il rischio
che esse reagiscano non solo con una uscita dall’euro ma anche con una
svolta di tipo neo-protezionista, dovrà ritenersi concreto.
Questa,
a nostro avviso, è l’unica carta politica di cui i paesi periferici
realmente dispongono oggi in sede europea. Tale strategia, si badi bene, è
valida in ogni caso: sia per indurre le autorità tedesche a
riconsiderare l’entità dei costi di una eventuale deflagrazione, e
quindi a non ostacolare una eventuale riforma dell’Unione, sia
eventualmente per far sì che i paesi periferici si attrezzino al meglio
per uscire da un’eurozona eventualmente irriformabile.
Per
inciso, segnalo pure che una strategia di gestione del break-up che
ammettesse anche la possibilità di limitazioni del mercato unico europeo
potrebbe avere – per usare un termine antico ma tutt’altro che desueto -
una precisa connotazione “di classe”, poiché a date condizioni
consentirebbe di salvaguardare maggiormente gli interessi dei lavoratori
subordinati.
Beninteso,
sappiamo tutti che fino ad oggi le autorità italiane e degli altri
paesi periferici hanno agito in direzione esattamente opposta a quella
che ho cercato qui di tratteggiare. Basti notare che negli ultimi mesi
le redini degli esecutivi dei paesi periferici dell’eurozona sono state
affidate ad alcuni tra i più risoluti fautori del liberoscambismo
europeo. Sotto questo aspetto Mario Monti rappresenta l’antitesi ideale
di una opzione neo-protezionista: egli mai si sognerebbe di evocarla in
sede di trattativa, nemmeno di fronte alla prospettiva di una
depressione di lungo periodo. E forse nemmeno di fronte a un
assorbimento delle banche nazionali ad opera di capitali esteri. In
questo senso, potremmo dire che il Professor Monti incarna una clausola
di salvaguardia non solo e non tanto della moneta unica, ma anche e
soprattutto del mercato unico europeo.
Il
mondo però si muove, e la crisi avanza in fretta. Vale la pena di
ricordare che la stessa Commissione europea ravvisa numerosi sintomi di
revisione della politica del libero scambio già in varie parti del mondo
(EU Commission 2012). Inoltre, è interessante notare che anche
all’interno del mainstream svariati studiosi, tra cui Dani Rodrik
(2011), hanno avviato una critica all’ideologia liberoscambista.
Il
messaggio di fondo di questa nota è dunque il seguente: ci sono buoni
motivi per ritenere che alle numerose critiche alla perdita di sovranità
sulla moneta sia giunto il tempo di affiancare anche una critica più
generale al liberoscambismo europeo.
In
tal senso domando: la MMT è liberoscambista o neo-protezionista? La mia
opinione è che la coerenza logico-politica della MMT richieda un
impianto di tipo neo-protezionista. Per quel che mi è dato sapere,
alcuni suoi esponenti la pensano così. Non tutti, però. O sbaglio?
Naturalmente,
questo cruciale interrogativo dovrebbe porsi in ambito non solo
scientifico ma anche e soprattutto politico. Per esempio, tutti i
partiti eredi più o meno diretti della tradizione del movimento dei
lavoratori dovrebbero prender coscienza, in Europa, che il
liberoscambismo, in particolare il liberoscambismo di sinistra, deve
essere abbandonato in fretta. Il rischio maggiore, invece, è che tali
forze politiche scelgano di restare arroccate a tutti i costi in difesa
dell’euro e del mercato unico (Brancaccio, Bragantini, Pianta 2012).
Così facendo, tuttavia, esse lasceranno praterie sempre più vaste di
potenziali consensi nelle mani di forme nuove di nazionalismo
ideologico, e al limite di nuove formulazioni dell’orrida triade di
suolo, sangue e razza. Con il tracollo del Pasok e l’ascesa di Alba
Dorata, e con le incertezze della stessa Syriza sull’euro, la Grecia
costituisce in questo senso l’immagine più nitida del possibile futuro
europeo che tanti aborriscono ma che pochi, in questo momento, si
preoccupano di scongiurare. Occorrerà lavorare molto, io credo, affinché
l’Europa non si tramuti entro qualche anno in un laboratorio sociale in
cui magari verificare, questa volta, che la tesi storiografica del
fascismo quale mera “reazione” era sbagliata, e che aggregazioni di
stampo neofascista possono in realtà espandersi anche nell’assenza
totale di movimenti rivoluzionari di matrice comunista. Qualsiasi
possibile apporto a questo durissimo lavoro che ci attende dovrà
ritenersi, a mio avviso, benvenuto.
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la data non può essere giusta. Forse la conferenza era il 30 novembre, non dicembre.
RispondiEliminaeh, già...salvo macchina del tempo...
EliminaIl prof. Emiliano Brancaccio al convegno che si è appena tenuto in Calabria sulla moneta e debito con tre economisti americani della MMT (Kelton, Black e Auerback) avanza la solita obiezione che i nostri economisti "dissidenti" (cioè contrari all'austerità) tirano sempre fuori, cioè che è giusto finanziare il deficit con moneta e non con debito, ma poi.. e la Bilancia dei Pagamenti.. ?
RispondiEliminaIn base alla mia modesta e piccola esperienza, che però è più completa di quella di chi abbia solo fatto il professore (aver studiato un poco di economia e finanza in dottorato e master estero, aver lavorato in strategia aziendale per multinazionali e poi operato come trader sui mercati finanziari) vorrei sfatare questo problema
L'Italia ha la grande fortuna di aver decine di migliaia di aziende che esportano o lavorano strettamente con aziende che esportano e tuttora vende all'estero 450 miliardi di euro l'anno di merci. Tanto per dare un idea la Grecia esporta per 20 miliardi di euro, la Spagna per 220 miliardi, l'Argentina (più che altro materie prime) per 70 miliardi. L'Italia ha come suo "tesoro" queste migliaia di aziende che esportano e che sono state l'invidia del resto d'europa e molto temute anche da Francia e Germania che solo ora grazie a Monti le vedono finalmente morire
Ma se invece tu (un utopico governo italiano) rovesci la fottuta politica di austerità e fai il contrario esatto tagliando le tasse, irap, irpef, iva, contributi in busta paga Inps... per almeno 100 miliardi, di colpo queste imprese hanno costi molto più bassi e hanno più ordinativi e fatturato.
E basta! Sei a posto ! Queste decine di migliaia di imprese se smetti di soffocarle di tasse (e anche di regolamentazioni sempre più asfissianti sanitarie, di lavoro e di altro genere) sono capaci di arrangiarsi ed esportare e tenerti la bilancia dei pagamenti in pareggio, anzi in surplus. Non devi più preoccuparti della bilancia commerciale se togli la camicia di forza di tasse e regolamentazioni che è stata imposta negli ultimi 20 anni e se riduci le tasse a tutti inclusi i poveri lavoratori dipendenti che così possono anche spendere.
Tuttto quello che devi fare è eliminare gli 80 miliardi di interessi l'anno sul debito pubblico che paghiamo ora (2.000 mld di debito @ 4% = 80 mld) finanziando il deficit pubblico con MONETA E NON CON DEBITO e poi anche aumentare detto deficit dal 2% all'8% del PIL ( 6% @ 1.600 mld = 90 mld). In questo modo liberi 80 mld + 90 mld = 170 mld di risorse, di moneta, che puoi restituire a famiglie ed imprese rimborsandogli le tasse
Brancaccio però, con tutto il rispetto, è n professore o intellettuale comunista come si evince dalle sue graziose citazioni di Lenin e Sraffa e quindi come la maggior parte dei "dissidenti ed eterodossi" (Barnard, Bagnai...) per cui non capisce nel modo più assoluto come funzionano le imprese e l'economia reale
Caro gz, tu lo sai, perché te l'ho detto, che ti apprezzo, e da parecchio tempo, dai tempi del Blog Economy Day.
EliminaIo non sono né vera economista, né trader, quindi esprimo un punto di vista che è da verificare, e mi rimetto a chi ne capisce più di me, però mi pare:
che quella che tu chiami la "solita obiezione" è un problema cruciale delle politiche espansive finanziate a deficit, e cioè che "purtroppo" una volta raggiunta la piena occupazione si innesta un processo inflattivo e un peggioramento dei conti con l'estero di cui - come dicono, a mio avviso giustamente, gli economisti dissidenti - occorre tener seriamente conto.
Lo dimostrano le vicende ultime dell'Argentina, che (a parte il nuovo default minacciato dagli strascichi legali degli hedge funds), pare che stia effettivamente, dal 2006, incontrando i limiti di politiche fiscali espansive a oltranza che si manifestano con una preoccupante inflazione e un peggiormento dei conti con l'estero.
Ora, tu porti un discorso un po' diverso, perché invece che di spesa pubblica tu parli di ridurre la pressione fiscale tagliando il costo degli interessi, (che giustamemte vanno monetizzati), e in pratica di fregarsene del deficit, ma anzi aumentarlo per ridurre la assurda pressione fiscale a famiglie e imprese. La diminuita pressione fiscale sulle imprese farebbe aumentare l'export, è giusto. Ma è importante, ne converrai, che la accresciuta domanda interna (via crescita della produzione e dei redditi e via maggior reddito disponibile per le famiglie) non salga sino al punto di sbilanciare le importazioni.
Quindi? Credo che ci siamo. E allora?
Possiamo cercare di fare in modo che "la solita critica" non venga accolta con "la solita risposta"? - e noi siamo traders e abbiamo i piedi per terra e voi siete intellettuali staccati dalla realtà... - NON E' COSI', BASTA!
Gli "intellettuali" si stanno spendendo con coraggio e universalmente riconosciuta intelligenza, portando un sacco di dati e di argomenti - grazie allo studio e alla ricerca - per sfatare i luoghi comuni di cui la gente è IMPREGNATA. Questo è il PRIMO lavoro da fare, e lo stanno facendo egregiamente, Bagnai in prima linea.
Ma glielo vogliamo riconoscere? (Rispondere: si o no)
Io dal canto mio credo di interpretare gran parte dei lettori di questo blog e della gente non addetta ai lavori che cerca di capire e trovare una via d'uscita percorribile da questo pasticcio brutto , se dico che sarebbe l'ora che chiunque "dissente" sia disposto a confrontare le sue idee e magari anche a modificarle in parte, accogliendo le critiche che gli vengono opposte, negli aspetti che possono essere corretti, e rispondendo con altre argomentazioni (per es. adesso tu proponi di puntare sulla riduzione della pressione fiscale) - piuttosto che scadere sul personale con attacchi tipo questo degli "intellettuali" (molto contenuto, comunque, questa volta, grazie, un livello un pochino meglio delle famigerate merdaviglie).
Almeno quelli che pensano - saliamo di livello, per favore, altrimenti anche se si riuscisse a cambiare sistema di governo...cosa ci assicura che sarebbe migliore? E' vero, questo non è solo un problema economico, ma è un problema di democrazia, dobbiamo arrivare a saper gestire la democrazia!
Tu oltre ad aver studiato sei un bravo trader, conosci i mercati, puoi apportare dei suggerimenti e delle soluzioni? Ben vengano.
Eleviamo il livello, cerchiamo di imparare il dialogo.
Sig. Zibordi,
EliminaSenza polemica, e con tutto il rispetto (seriamente), ma quello che lei scrive (peraltro per certi versi condivisibile, a parte alcuni salti logici discutibili), cosa c'entra col fatto banale che Brancaccio sottolinea? Ovvero che solo gli USA hanno la flessibilità di cui parlano gli autori MMT. Per inciso, è impossibile che lei che ha esperienza nei mercati finanziari non si sia reso conto che non tutti i paesi hanno la stessa flessibilità avendo un vincolo dovuto alla bilancia dei pagamenti. Guardi Zibordi che questa è una banalità che chiunque, JPMorgan compreso, le potrebbe confermare. Non è una idea malsana di quelli che lei definisce "dissidenti".
Sinceramente non capisco che ci vuole a riconoscere questa ovvietà, a prescindere dalle proposte politiche successive. Il contesto e il vincolo rimangono anche dopo aver tagliato tasse e quant'altro.
gz, quando mai i traders hanno capito una mazza di macroeconomia? di solito l'hanno danneggiata, lasciando ad altri il compito ingrato di rimediare ai loro danni. Il fatto stesso che lei si illuda di risolvere lo squilibrio macroeconomico delle partite correnti intra-europee con la riduzione delle tasse in disavanzo, nei paesi in deficit verso l'estero, è la dismotrazione che lei dovrebbe tornare a rileggere qualche manuale. In fondo basta Blanchard. Bene ha fatto invece il prof. Brancaccio a riprendere il tema dell'import substitution. Il modo in cui Mosler - un altro trader - accenna alla questione è incasinatissimo, e ci voleva un professore che facesse chiarezza. I professori saranno un po' professorali ma servono, ragazzi. Nino.
RispondiEliminaNino, avevo appena detto di mantenere alto il livello...gz non sta dicendo che vuole risolvere lo squilibrio delle partite correnti con la riduzione delle tasse, è chiaro che ritiene anche lui necessario uscire dall'euro. E' solo una proposta per riprendersi dopo l'uscita.
EliminaRiconosciamo a ognuno le sue competenze - ai professori la macroeconomia, ai traders quelle relative ai mercati finanziari, a tutti (quelli che ce l'hanno) il dono di poter applicare la ragionevolezza...
suvvia orsù ecchecavvolo
Mah, io quando penso ad un trader penso a Taleb.Penso allo stesso tempo che una volta che si possa usare la svalutazione del cambio,cosa sulla quale tutti i "dissidenti ortodossi" paiono d'accordo,invece che quella dei salari,tante piccole aziende aumenterebbero il fatturato,ergo le entrate migliorerebbero e la riduzione delle tasse sarebbe il necessario corollario.Senza bisogno di far sempre le guerre sulle virgole.......
RispondiEliminaMeno male, Dino977, avanti così!
Eliminasuggerisco di trascrivere anche all'intervento di Pier Giorgio Gawrosky alla MMT calabria dal min 0.25 http://www.youtube.com/watch?v=ZWDy_kYb-kA
RispondiEliminaBravo vinci, procedi..;) io ti pubblico.
EliminaOttimo intervento: il discorso cambi fissi/flessibili è solo un pezzettino del problema, i sostenitori della MMT devono chiarire se vogliono attuare politiche di import substitution e di controllo dei FDI. Spero che qualcuno lo traduca in inglese e lo giri agli amerikani, a cominciare da Wray.
RispondiEliminaNon penso invece che l'analogia con la situazione politica greca sia condivisibile. Brancaccio, che comunque stimo moltissimo, secondo me sotto questo aspetto agita lo spettro del fascismo più per fini retorici che per altro.
P.S. Quella sul sito di Brancaccio mi pare una seconda versione. Ci sono delle aggiunte nel testo e in bibliografia, incluso il botta e risposta del Branka con Barba Navaretti sul Sole 24 Ore, qualche mese fa:
http://www.emilianobrancaccio.it/2012/11/30/dalla-crisi-della-moneta-unica-alla-critica-del-liberoscambismo-europeo-brevi-note-sulla-mmt/
C'era stata una prima trascrizione che poi Brancaccio ha integrato, ma ora testo e note mi sembrano identici...
Elimina"....Brancaccio, che comunque stimo moltissimo, secondo me sotto questo aspetto agita lo spettro del fascismo più per fini retorici che per altro."
EliminaGrecia, l’escalation di Alba dorata: in Parlamento con le pistole
http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/12/05/grecia-escalation-alba-dorata-parlamento-pistole/436866/
Bravo Brancaccio.Ragionevole nel contenuto e civile nei toni
RispondiEliminaMosler ha risposto.
RispondiEliminahttp://keynesblog.com/2012/12/05/pregi-e-limiti-della-modern-money-theory-mmt-una-critica-costruttiva/#comment-3846
segnalo i commenti di mosler in coda all'articolo di brancaccio http://keynesblog.com/2012/12/05/pregi-e-limiti-della-modern-money-theory-mmt-una-critica-costruttiva/#comment-3837
RispondiEliminaosvaldo b
Terzo post identico su quest blog, sorry :(
RispondiEliminama qualcuno mi spiegherebbe, cortesemente, con parole semplici e senza citazioni (che non capirei perché non ho studiato economia)perché il ragionamento (qui sotto) non funziona?
" E' evidente che solo gli USA possono permettersi maggiori
import essendo lo USD moneta di riserva... ma questo non
significa che non possa funzionare per gli stati "normali",
come logica conseguenza si arriva secondo me proprio al
bilanciamento delle partite correnti.
Mi spiego: nella visione MMT gli import sono beni o servizi
REALI, gli export sono costi REALI... Io vivo nella vita
REALE consumando ciò che posso produrre o posso importare.
Se gli altri stati non sono (probabilmente) disposti ad
accettare la mia moneta (perché non è di riserva) in cambio
dei beni che ci spedisce... probabilmente io dovrò esportare
proprio per garantirmi altre monete più "accettate" (tipo lo USD) quindi i miei export mi servono per permettermi l'import.
Se consideriamo l'export un costo REALE, in che misura lo
debbo sostenere? nella misura tale per cui mi ripaghi l'import... quindi arrivo al bilanciamento delle partite correnti... poi se riesco a "rifilare" più moneta come potrebbero fare gli USA... tanto meglio per me. "
Cosa c'è di sbagliato?
grx, ho risposto per come la vedo io. Qui
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