Un interessante e approfondito studio del prof. Sapir sul ruolo di Stato e mercato e sulla politica industriale
Traduzione di Arturo
La nozione di politica industriale,
che era stata al centro delle politiche economiche in Europa e in
Giappone negli anni '50 e '60, è stata duramente attaccata negli
anni 1980-1995. Un certo numero di spettacolari, e costosi,
fallimenti, principalmente in America Latina tra il 1970-80, spiega,
senza però giustificare, questo cambiamento di paradigma. D'altra
parte, l'internazionalizzazione finanziaria – quella che viene
giornalisticamente definita “la mondializzazione” - ha creato
nuovi vincoli per i paesi che hanno accettato di sottomettersi alle
sue regole. I mercati finanziari internazionali sono privi della
prospettiva di lungo periodo di cui ha bisogno una politica
industriale. Quest'ultima non dà frutti che su periodi compresi fra
i 10 e i 15 anni, mentre i finanzieri internazionali ragionano in
mesi, al massimo su uno o due anni. In queste condizioni, per gli
economisti liberisti la miglior politica industriale consiste nel non
averne una.
Paradossalmente questa svolta liberista
non ha significato un abbandono degli interventi pubblici: questi
ultimi si sono ristrutturati seguendo modelli completamente
differenti. Così, nel quadro della CEE e poi dell'Unione Europea, la
politica industriale viene considerata solo attraverso la nozione di
concorrenza e di lotta contro i monopoli e le posizioni dominanti. Lo
Stato è qui interventista, ma solo per “creare” le condizioni
perfette di mercato della teoria neoclassica. Se i monopoli e le
posizioni dominanti possono avere effetti nefasti che nessuno nega,
vi sono numerose situazioni in cui questi monopoli sono inevitabili
per ragioni di efficienza economica. L'idea che la concorrenza sia
una soluzione per tutti i problemi di coordinamento e allocazione
delle risorse è un mito: gli studi teorici in microeconomia hanno
dimostrato ormai da molto tempo i limiti della concorrenza. Il
confronto delle traiettorie storiche di sviluppo dei diversi paesi
non conferma più l'idea che un approccio liberista sia più
efficiente di un approccio dirigista, almeno quando si tratta di
costruire, o ricostruire, un'industria.
Fondamentalmente, la politica
industriale sembra non essere che un'estensione della pianificazione:
per questa ragione appare intrinsecamente sbagliata e inefficiente.
L'intervento pubblico – quando è accettato, come nelle teorie
dette della “crescita endogena” - è allora limitato alle
esternalità più evidenti: educazione, ricerca scientifica, aiuto
allo sviluppo tecnologico. Questa visione è in realtà molto
semplicista: postula un mercato perfetto e un quadro istituzionale
ideale. Difendo invece qui la necessità di una politica industriale
come principio generale, e in particolare nel quadro di una economia
come quella della Russia che deve affrontare trasformazioni radicali.
Per provare a presentare la totalità
delle argomentazioni, discuterò uno dopo l'altro i seguenti
problemi:
- la politica industriale è concepibile senza fare appello a ipotesi teoriche prossime a quelle della pianificazione. In altri termini, si tratta di chiarire quando lo Stato può lui stesso “scegliere i vincitori” e quando occorre lasciare questo compito al mercato.
- Lo Stato può e deve influenzare la struttura delle imprese. Vedremo quale ruolo, sia di stimolo che in qualità di proprietario, può svolgere lo Stato a questo riguardo.
- Lo Stato può favorire lo sviluppo della competitività e deve farlo a livello di settore o a quello del territorio.
1. Lo Stato o il mercato?
L'argomento contro la nozione di
politica industriale è molto semplice: lo Stato non saprebbe, a meno
di immaginare un universo stazionario, selezionare oggi i successi di
domani. Solo il mercato, inteso come processo di apprendimento, può
favorire l'emersione di innovazioni e iniziative, tra cui saranno
naturalmente selezionate le migliori. Gli aiuti pubblici non servono
quindi che a frenare il processo di selezione, consentendo a imprese
e settori inefficienti di sopravvivere e accaparrarsi risorse che
sarebbero state impiegate meglio altrove. Il concetto si riassume in
una formula di impiego frequente: “è impossibile designare il
vincitore prima che la competizione abbia avuto luogo”. Questo
ragionamento ha una forza evidente: teoricamente, si colloca dal
punto di vista di una conoscenza limitata del futuro e quindi è
realista; in pratica, può basarsi su numerosi esempi in cui
l'intervento pubblico ha sostenuto attività o filiere che si sono
rivelate fallimentari. Nel caso della Francia, possiamo pensare allo
sviluppo del trasporto supersonico Concorde o del satellite per la
diffusione televisiva. Se dunque questa posizione liberista ha
un'evidente forza di persuasione, paga però un prezzo di
semplificazioni, teoriche e storiche, nient'affatto innocenti.
A/ I limiti al darwinismo economico.
La posizione liberista su ricordata si
fonda su un'analogia con la teoria dell'evoluzione delle specie che
abbiamo ereditato da C. Darwin. Tale analogia non è priva di rischi
e può condurre a semplificazioni pericolose. In primo luogo, anche
concedendo la sostanza della metafora, bisogna ricordare che le
specie che sono sopravvissute meglio al fenomeno dell'evoluzione non
sono le più adatte ma le più adattabili. Il processo evolutivo non
si svolge solo in maniera lineare sotto l'effetto della competizione:
implica cambiamenti brutali e imprevedibili dell'ambiente che
possono, in un certo momento, condannare una specie che si è
specializzata in modo troppo ristretto.
Perché il meccanismo dell'evoluzione
economica funzioni spontaneamente, come affermano gli autori che
difendono questa tesi, occorrerebbe che l'ambiente delle imprese
(inteso con riferimento ai vincoli commerciali, tecnici, tecnologici
e istituzionali) rimanesse stabile. Se così non è, e tenendo conto
che le imprese sono capaci di decisioni coscienti (ciò che comporta
una differenza essenziale rispetto al meccanismo dell'evoluzione
delle specie naturali), la direzione dell'impresa si trova
costantemente esposta alla seguente alternativa: si deve
specializzare quanto più possibile per ottenere i migliori risultati
sul mercato così come si presenta oggi o deve conservare un margine
di flessibilità per adattarsi a un possibile mutamento delle
condizioni? Nel momento in cui accettiamo che gli agenti economici
non possono prevedere il futuro, questa scelta implica l'assunzione
di un rischio. Il mercato in quanto tale non può guidare questa
scelta, poiché in esso circolano solo le informazioni esistenti che
forniscono indicazioni sulle situazioni future. La scelta
essenziale tra adattamento e adattabilità non può dipendere dalla
decisione ottimale fondata sulla circolazione delle informazioni nel
mercato: rimane una decisione soggettiva, che implica mediazioni tra
elementi economici ed elementi non economici. In questo senso è una
scelta politica o strategica: può quindi essere tranquillamente
presa dallo Stato.
Una seconda confutazione del darwinismo
economico può essere argomentata a partire dall'analisi della
concorrenza. L'ipotesi fondamentale delle teorie liberiste è che la
concorrenza favorisca l'innovazione e l'investimento. Perché il
meccanismo funzioni nel modo in cui lo immaginano i teorici liberisti
occorre presupporre due situazioni: la prima è l'ipotesi che
l'imprenditore sia in grado di determinare soluzioni migliori sulla
base delle informazioni che ricava dal mercato. Per mantenere i suoi
profitti, la concorrenza lo spinge a ricercare continuamente le
informazioni suscettibili di condurlo alle innovazioni e soluzioni
più efficienti. Questa situazione implica che un imprenditore
privato sia capace di prevedere oggi gli effetti prodotti domani da
un'innovazione. Questo non è vero che quando l'innovazione è
limitata o più precisamente quando si colloca in una logica di
miglioramento progressivo. Se l'innovazione implica una discontinuità
significativa, allora per definizione gli effetti non possono essere
previsti anteriormente. Il meccanismo della concorrenza non
favorisce quindi che “piccole” innovazioni, quelle i cui effetti
restano prevedibili.
Una seconda possibile situazione
consiste nel fatto che gli imprenditori si trovano a produrre
innovazioni radicali senza conoscere la totalità degli effetti
possibili di tali innovazioni. Il mercato seleziona allora le scelte
peggiori attraverso il loro fallimento. Il meccanismo di selezione in
questo caso non funziona come una via per il miglioramento del
processo decisionale, ma sotto forma di una sanzione che elimina i
meno adatti o coloro che hanno fatto scelte sbagliate. Questo
meccanismo solleva però parecchi problemi. Se consideriamo che le
innovazioni devono procedere in modo sequenziale, niente dimostra che
le imprese eliminate alla prima innovazione non avrebbero potuto
ottenere buoni risultati con la seconda o la terza: il successo di
oggi non pregiudica quello di domani a meno che il problema da
risolvere non sia comparabile, cioè se l'innovazione si colloca in
un quadro di continuità e non di discontinuità. Ciò però
contraddice l'ipotesi di base che caratterizza la situazione. Un
ulteriore problema si presenta se integriamo l'idea della selezione
nel ragionamento seguito dall'imprenditore: se quest'ultimo pensa che
un'innovazione può tradursi sia un grande successo che in un
fallimento, non si deciderà a innovare a meno che non rischi il
fallimento non facendolo; se può sopravvivere senza innovare,
preferirà una situazione mediocre all'assunzione di un rischio
notevole, che potrebbe comportare la perdita totale del suo capitale.
Le imprese innovative saranno allora le più fragili e disperate,
mentre le altre adotteranno una posizione attendista. In questo
caso il meccanismo della concorrenza può favorire il conservatorismo
quanto l'innovazione se la percezione è che il rischio è troppo
elevato.
In effetti, la concorrenza sarebbe più
efficiente se la sanzione potesse essere modulata: abbiamo visto che
una sanzione troppo brutale può spingere all'attendismo; se invece
la sanzione è troppo leggera, non ci sarà una vera selezione fra
innovazioni buone e meno buone. Tenuto conto dell'ambente,
bisognerebbe poter far variare l'intensità della concorrenza per
combinare un incentivo all'innovazione con un meccanismo di
selezione: il problema è che il mercato non può, da solo, far
variare l'intensità della concorrenza. Arriviamo quindi al paradosso
seguente: il mercato è un meccanismo tanto più efficiente per
generare innovazioni e selezionare le soluzioni valide quanto più il
suo funzionamento (vale a dire il grado della concorrenza) è
calibrato dall'esterno. In altre parole, un intervento pubblico è
necessario perché il mercato funzioni nelle condizioni che
dovrebbero rendere tale intervento inutile.
Il darwinismo
economico non costituisce quindi che una risposta parziale. Il gioco
della concorrenza non può favorire le decisioni che dipendono dalla
strategia, cioè dalla previsione di un futuro incerto. La
concorrenza non favorisce spontaneamente le innovazioni a meno che
queste non siano in realtà semplici e di portata ridotta; per
favorire innovazioni radicali, bisogna modulare il grado della
concorrenza, ciò che richiede l'intervento pubblico. La teoria
liberista dell'evoluzione economica non costituisce quindi
un'alternativa teoricamente fondata alla politica industriale.
B/ L'interventismo è praticabile?
Se la posizione
liberista non appare teoricamente fondata, potrebbe comunque
rappresentare un male minore se le sue condizioni di applicazione
fossero più semplici e solide rispetto a quelle dell'interventismo.
E' il senso delle argomentazioni che insistono sugli insuccessi
spettacolari delle politiche industriali, in particolare in Francia.
Anche questo discorso però si fonda su notevoli semplificazioni.
Questa
argomentazione presuppone innanzitutto che si confronti ciò che è
confrontabile. Le decisioni pubbliche si traducono in opere inutili o
troppo costose; gli insuccessi delle imprese private sia in
fallimenti sia nella mancata realizzazione di risultati che avrebbero
potuto essere utili e profittevoli. Per quanto riguarda lo Stato,
l'individuazione dell'insuccesso è facile; per le imprese, tale
identificazione non può aver luogo che nel lungo periodo (un elevato
tasso di fallimenti, l'assenza di risultati necessari) ed è ben
lungi dall'essere immediatamente interpretabile. In un certo senso,
quando sbaglia lo Stato, lo vediamo, mentre quando sbagliano gli
imprenditori privati non possiamo perché appunto i loro errori
consistono in mancate realizzazioni. È quindi assai dubbio che si
possa dimostrare che gli errori dello Stato sono più frequenti e
gravi di quelli del settore privato.
Bisogna anche
supporre che tutto sia confrontabile, cioè che le valutazioni dei
diversi progetti possano essere ricondotte tutte ad un unico criterio
di valutazione. Un progetto industriale viene valutato sulla base dei
profitti rispetto all'investimento iniziale ma una tale valutazione
non tiene conto dell'apprendimento da parte dell'impresa di nuove
tecniche nel corso del progetto, dell'acquisizione di nuovi strumenti
industriali come di conoscenze da parte dei lavoratori. Ne deriva che
un progetto che sul momento si rivela un insuccesso commerciale può
costituire la base di un successo futuro. Se questo scenario si
verifica nell'ambito della stessa impresa, possiamo provare a
valutare non più un unico progetto ma una successione di progetti su
un periodo relativamente lungo. Nondimeno, quando si considerano i
grandi progetti industriali finanziati dallo Stato, le ricadute in
termini di attrezzature, conoscenza collettiva, apprendimento, si
ripartiscono su un intero settore piuttosto che su una singola
impresa.
Se analizziamo
da questa prospettiva il fallimento commerciale del trasporto
supersonico Concorde, è chiaro che la diffusione di conoscenze e
attrezzature nell'industria aeronautica francese è stata essenziale
per il successo del programma Airbus. L'impossibilità di trovare
regole contabili adeguate conduce però a considerare separatamente i
due progetti. La confrontabilità finanziaria può così risultare
fuorviante. Tuttavia, nella misura in cui sono impiegati fondi
pubblici, sembra difficile rinunciare totalmente a questo criterio. È
chiaro però che se potesse essere esteso da un certo progetto
all'evoluzione di un intero settore il giudizio cambierebbe subito.
Così, quando consideriamo i programmi pubblici francesi in ambito
aeronautico a partire dal 1945, possiamo evidenziare una serie di
apparenti insuccessi: i grandi aerei da trasporto Bréguet negli anni
Cinquanta, il Concorde e anche, in una certa misura, il Caravelle,
che non ha conosciuto il successo sperato. Se ora paragoniamo
l'evoluzione dell'industria aeronautica francese a quella
dell'industria britannica, tenendo conto che la Francia nel 1945 era
un paese devastato il cui potenziale tecnico era stato distrutto
dall'occupante tedesco, il punto di vista cambia completamente:
l'industria britannica, che da un punto di vista tecnico nel 1945
sopravanzava anche quella americana, è progressivamente appassita;
quella francese non solo è stata ricostruita, ma si afferma oggi
come il polo dominante di un'industria aeronautica europea.
Da questo
esempio possiamo ricavare che la confrontabilità dei progetti, tanto
più se considerati isolatamente, è tanto meno praticabile quanto
più è ridotto l'orizzonte temporale della loro valutazione. Perché
un confronto sia pertinente occorre che lo siano i relativi criteri,
ciò che in generale implica estendere l'orizzonte di valutazione e
collocarsi al livello del settore o della filiera ma non a quello del
singolo progetto. Per sua natura la valutazione che domina in una
logica di mercato non può tenere conto di questa forma di
mutualizzazione sia dei rischi che dei profitti.
Infine occorre
domandarsi se il fallimento di un certo progetto derivi
dall'intervento pubblico mentre il successo di un altro dal ruolo del
mercato nella decisione di realizzarlo. Se riprendiamo l'esempio del
Concorde, le cause del suo fallimento commerciale sono state
l'approvazione di una regolamentazione americana che ne impediva il
normale utilizzo negli Stati Uniti e l'aumento dei costi dei
carburanti che ne hanno reso l'impiego non profittevole. Il primo
fattore non era certamente prevedibile dal mercato; il secondo mette
in causa gli studi commerciali realizzati prima della costruzione
dell'aereo, ma tali studi erano simili a quelli commissionati dalle
società private. Nella misura in cui l'aumento dei costi si è
manifestato a uno stadio della costruzione in cui era ormai
impossibile modificare il disegno iniziale, se anche il finanziamento
fosse stato lasciato al mercato il risultato non sarebbe stato
differente.
Un controesempio è fornito dal finanziamento del tunnel sotto la Manica. Lasciando al mercato il compito di finanziare quest'opera (ricordiamolo: si trattava di un'esigenza del governo britannico), abbiamo chiesto al mercato di valutare un rischio unico, vale a dire un rischio senza precedenti. Ne è risultata una sottovalutazione iniziale dei costi che ha obbligato la società Eurotunnel a trovare finanziamenti complementari a condizioni talmente onerose da intaccare la redditività finale del progetto. Un finanziamento pubblico, fornito in cambio di prestiti pubblici, avrebbe notevolmente ridotto la rendita che le banche hanno potuto ricavare da questa operazione. In questo caso, quindi, è chiaro che è l'affidamento del progetto al mercato che è sbagliato, anche se le difficoltà tecniche emerse durante la realizzazione non erano imputabili a quest'ultimo. Chiedendo al mercato di iniziare un progetto che non poteva valutare, si lasciava la porta aperta a fenomeni di defezione da parte di certi attori, di aumento dei rischi a carico di certe parti della filiera tecnica e di acquisizione di rendita. Una valutazione comparativa di progetti implica che le cause del successo o del fallimento siano dimostrate e pertinenti dal punto di vista della diversa natura dei progetti. Se tali cause non tengono conto di questa natura, allora il confronto di successi e fallimenti perde di senso.
Un confronto tra
l'intervento pubblico e l'operare del mercato, se lo collochiamo non
più sul piano teorico ma su quello della verifica empirica, fa
emergere diverse regole.
La dubbia
confrontabilità falsa gli argomenti a favore del mercato senza che
quest'ultimo mostri una reale superiorità in termini di efficienza.
La confrontabilità è difficile da stabilire e i risultati possono
cambiare completamente se consideriamo i singoli progetti o al
contrario analizziamo un politica di lungo periodo condotta
nell'ambito di un certo settore. L'analisi dei fallimenti come dei
successi si compie senza che le cause di questi ultimi siano
realmente identificate e senza che si sia valutato quale ne sia la
relazione con la natura del processo decisionale.
I difetti metodologici delle analisi
comparative dei progetti frutto di politiche pubbliche rispetto a
quelli condotti secondo logiche di mercato rende le conclusioni di
queste analisi molto discutibili. I fallimenti della politica
industriale tradizionalmente sbandierati derivano più da certi
metodi di presentazione dei fatti, vale a dire da come si sceglie di
raccontare una certa vicenda industriale, che da una verità di tipo
scientifico. Gli argomenti empirici non risultano quindi più
convincenti rispetto a quelli teorici.
C/ Gli insegnamenti di un dibattito
Se riprendiamo
in modo più sereno il dibattito sul ruolo della politica industriale
rispetto agli incentivi del mercato, possiamo dire che siamo in
presenza più di complementarità che di opposizione. Va sottolineato
che i paesi, europei e asiatici, che dal '45 hanno conosciuto i tassi
di crescita più elevati hanno combinato economie di mercato con
importanti interventi pubblici e politiche industriali molto attive.
Il mercato è un
fattore di stimolo all'attività imprenditoriale tanto più efficace
quanto più quest'attività si svolge in un quadro istituzionale
stabile, con rischi calcolabili, ed è indirizzata verso innovazioni
dagli effetti prevedibili. In queste condizioni, il mercato appare
senz'altro come più efficiente di un intervento pubblico
discrezionale. Al contrario, quando la valutazione degli effetti di
un investimento non è possibile nei tempi definiti dalle regole
della contabilità, quando i rischi non sono valutabili, quando le
innovazioni sono suscettibili di produrre discontinuità
significative e quando è profonda l'incertezza sul futuro, il
ricorso al mercato come fattore di stimolo può determinare pesanti
inefficienze. L'intervento pubblico è molto più efficiente quando
costituisce un fattore di stabilizzazione delle aspettative degli
agenti, contribuisce a rendere più prevedibile il futuro e consente
una buona mutualizzazione dei rischi che accompagnano progetti con
significative ricadute.
Questi diversi
elementi mettono quindi in luce i limiti delle condizioni di
esercizio dell'intervento pubblico in ambito industriale. Siccome
quest'ultimo risulta tanto più importante quanto più la
valutabilità degli elementi del progetto e dei suoi effetti è
debole, una decisione puramente tecnica può essere pericolosa. La
creazione di spazi di dibattito e discussione che consentano di
evidenziare gli elementi non intrinsecamente misurabili costituisce
un fattore decisivo dell'intervento pubblico. Questi spazi possono
essere aperti (il parlamento) o possono essere limitati ai
professionisti coinvolti. Ne risulta che la possibilità di
confrontare i diversi interessi non è solo un fattore di legittimità
della decisione ma anche un fattore della sua efficienza tecnica.
Siccome l'intervento pubblico ha come scopo quello di reintrodurre la
prevedibilità e la stabilità necessarie per facilitare le decisioni
degli agenti, esso dovrà essere durevole: una politica industriale
che cambi di direzioni ogni anno o ogni due anni sarebbe la soluzione
peggiore di tutte. Una volta presa una decisione, la continuità
nello svolgimento della politica in questione è importante. Ciò non
implica che gli strumenti di esecuzione non possano evolvere o essere
adattati in funzione delle circostanze; tuttavia gli orientamenti
generali e i livelli di impegno dello Stato dovranno avere una
leggibilità e una stabilità di periodo relativamente lungo.
Se
riprendiamo la formula degli economisti liberisti, lo Stato non può
certamente scegliere oggi i vincitori di domani, ma può educare oggi
i vincitori di domani e dare ai deboli di oggi la possibilità di
essere forti domani. Se questa possibilità è concreta, essa diviene
un imperativo morale e politico. Uno Stato che abbia la
possibilità di fornire agli agenti economici residenti nel suo
territorio di competenza i mezzi per essere più efficienti e che non
faccia uso di tali mezzi verrebbe meno al patto economico implicito
che lo lega a questi agenti sotto forma di raccolta fiscale.
2. Politica
industriale e impresa pubblica
La conduzione di una politica industriale attiva è
spesso associata alla presenza del settore pubblico nell'industria.
In realtà non si tratta di una regola generale: certi paesi hanno
conosciuto politiche industriali molto attive con settori pubblici
relativamente deboli (è il caso del Giappone e degli Stati Uniti
negli anni '50 e '60). In Francia, paradossalmente, la politica
industriale è stata rimessa in discussione negli anni '80, proprio
quando era fortemente aumentato il numero di imprese pubbliche. Se
quindi non vi è una relazione diretta di causa-effetto, non possiamo
neanche liquidare su due piedi la questione del ruolo del settore
pubblico nella realizzazione di una politica industriale.
Dopo gli anni '80 le imprese pubbliche sono state
rimesse in discussione nella maggior parte dei paesi europei. Il
movimento francese di nazionalizzazioni del 1982 appare quindi
retrospettivamente come un'aberrazione in un contesto internazionale
contrassegnato dalla diffusione dell'ideologia liberista. Per un
ironico rovesciamento dei valori e del discorso, la politica
industriale diventa ormai essenzialmente una politica di
privatizzazioni e di smantellamento dei servizi pubblici. Le parole
chiave diventano lotta ai monopoli e rafforzamento della concorrenza.
Questo rovesciamento si fonda su un'argomentazione teorica che è
stata utilizzata tanto nell'ambito della politica europea che per
giustificare le grandi privatizzazioni nelle economie in transizione.
Se la condanna delle imprese pubbliche sembra far parte dell'attuale
consenso occidentale, possiamo chiederci se questo non sia un effetto
più della moda che di una giustificazione teorica fondata. Da questo
punto di vista, le argomentazioni di questa posizione liberista sono
assai meno convincenti di quanto pretendono i sostenitori delle
grandi privatizzazioni.
A/
Le imprese pubbliche sono inefficienti?
I principali paesi europei hanno conosciuto, a partire
dalla seconda metà degli anni '80, delle ondate successive di
privatizzazione delle imprese pubbliche: i grandi settori industriali
e bancari, che avevano caratterizzato le economie europee dopo il
1945, sono dunque sul punto di sparire. Questo movimento ha preceduto
le privatizzazioni delle economie in transizione. È sovente servito
da modello, almeno per quanto riguarda gli argomenti utilizzati per
giustificare l'abbandono del concetto di impresa pubblica. Il primo
argomento invocato è quello degli incentivi. Un'impresa pubblica
sarebbe un ambiente meno favorevole a stimolare il suo personale di
un'impresa privata. Gli argomenti tante volte ripetuti nella
letteratura economica sono però tutt'altro che irrefutabili. In
primo luogo, lo stimolo può dipendere, come ha mostrato J. Stiglitz,
dalla nozione di concorrenza più che da quella di proprietà [1]. La
teoria degli incentivi si fonda implicitamente sull'idea di un
proprietario che gestisce lui stesso il suo capitale, vale a dire
l'immagine dell'imprenditore industriale che abbiamo ereditato dal
XIX secolo. Se quest'immagine corrisponde ancora bene alla situazione
delle piccole e medie imprese (o PMI), risulta discutibile la
possibilità di generalizzare il ragionamento quando l'impresa sia
una grande organizzazione. [2] La questione che dobbiamo allora
porci è quella della ripartizione dell'attività fra grandi e
piccole/medie imprese. Queste ultime sono sovente molto innovative,
con sorprendenti capacità di reazione ai cambiamenti economici.
Nondimeno, le PMI che ottengono i risultati migliori si ritrovano
spesso a ingrandirsi e cambiare di categoria: settori come
l'elettronica e l'informatica forniscono noti esempi. D'altra parte
le PMI non possono svilupparsi a meno che i costi iniziali di
investimento non siano modesti; se siamo in presenza di costi
importanti, la dimensione dell'impresa e la sua complessiva
disponibilità finanziaria divengono fattori essenziali per la sua
capacità di innovare. Il settore dell'industria farmaceutica ne è
un buon esempio, visto che i costi di ricerca e certificazione di
nuovi farmaci oggi sono tali che anche imprese di media dimensione
non riescono a tenere il passo dei giganti internazionali.
Possiamo certamente considerare che un obiettivo
legittimo della politica economica sia di favorire la costituzione di
un tessuto di imprese che comprenda sia PMI che grandi imprese, in
funzione della natura e dei costi degli investimenti richiesti dalle
varie attività. È tuttavia dubbio che la privatizzazione delle
grandi imprese pubbliche sia uno strumento efficace da questo punto
di vista.
Bisogna allora invocare un'altra teoria, quella della
corporate governance, per giustificare la moda attuale delle
privatizzazioni. Possiamo allora dimostrare che il buon uso del
capitale dipende sia dall'esistenza di certe strutture del mercato
dei titoli, sia dalla presenza di un sistema bancario efficiente. [3]
A questo punto del ragionamento, notiamo subito che – quale che sia
la validità della teoria della corporate governance, su cui si
possono avere molti dubbi [4] – è chiaro che in Russia nel 1992 (e
ancora nel '95) mancavano entrambe queste istituzioni che la teoria
ritiene necessarie. [5] Questo punto è fondamentale.
Contrariamente all'opinione della corrente predominante
presso gli economisti, sostengo qui, in accordo con autori che si
rifanno all'eredità hayekiana, che il c.d. comportamento razionale
dell'agente economico non è in realtà una sua qualità intrinseca.
[6] Questa ipotesi in effetti è del tutto astratta. È allo stesso
tempo più rigoroso e più concreto pensare che gli agenti agiscono
in maniera coerente a sistemi di regole e istituzioni: se il sistema
capace di suscitare i comportamenti desiderati non è in funzione, è
vano sperare di trovare quei comportamenti. Invocare la
privatizzazione in nome della teoria degli incentivi o della
corporate governance in economie che, come quella russa, non avevano
le istituzioni e le regole adeguate, è dipeso da un accecamento
ideologico. La questione allora non è tanto quella della
privatizzazione quanto di stabilire diritti di proprietà
verificabili, per proprietari privati come per lo Stato.
D'altra parte occorre aggiungere che l'idea stessa che
lega l'efficienza economica al controllo del proprietario è assai
dubbia e si fonda sull'incomprensione della dimensione puramente
organizzativa dell'impresa [7]. Se questa è un'organizzazione di
grandi dimensioni, sia i suoi membri che i clienti hanno un interesse
comune al suo buon funzionamento. Pensare ad esempio che i salariati
vorranno sfruttare l'impresa esigendo il salario più elevato
possibile è contraddittorio con l'idea di un salariato che deve
scegliere fra un salario presente, una speranza di salario futuro e
un rischio di disoccupazione. In effetti possiamo anche incontrare
comportamenti autolesionisti da parte dei salariati, ma solo se
questi ultimi considerano che non vi sia un legame fra gli sforzi a
cui possono acconsentire oggi e i risultati, in termini di garanzia
dell'impiego e progressione salariale, che possono attendersi domani.
È una rottura, o la minaccia di una rottura, imprevedibile della
continuità organizzativa che genera il comportamento di defezione
per cui diventa razionale chiedere il più alto salario possibile in
nome del “meglio un uovo oggi ...”. Una tale imprevedibilità
può provenire da una situazione di crisi indotta o da una forte
depressione o da una destabilizzazione del quadro precedente in
seguito a una brusca apertura alla concorrenza internazionale. Certe
misure adottate dai liberisti in nome dell'efficienza economica
possono allora sortire effetti contrari. Peraltro bisogna aggiungere
che anche una valorizzazione degli interessi dei consumatori,
attraverso il meccanismo della concorrenza o tramite la loro presenza
effettiva nel consiglio di amministrazione dell'impresa, può
costituire un forte stimolo al miglioramento dell'organizzazione in
questione. Molti esempi concreti dimostrano che le teorie degli
incentivi e della governance sono lungi dal costituire l'ultima
parola in materia. Uno studio sulla Polonia indica che le imprese
pubbliche si sono ristrutturate assai bene e talvolta meglio di
quelle private [8]; un altro studio indica che il loro ruolo
nell'economia resterà fondamentale [9]. Allo stesso modo, uno studio
compiuto in Russia sulla regione di Tambov segnala che i nuovi
proprietari privati non hanno tenuto un comportamento differente da
quello delle imprese di Stato [10]. Infine occorre segnalare che,
secondo alcuni autori giapponesi citati e commentati da C. Johnson, è
l'indipendenza dell'impresa giapponese dai suoi proprietari la fonte
della sua efficienza [11].
La debolezza degli argomenti a favore di
privatizzazioni sistematiche in nome dell'efficienza economica è
lampante, sia in generale sia ancora di più nel caso particolare
della Russia, in ragione dell'assenza delle basi istituzionali e
regolamentari che consentano un buon funzionamento delle imprese
private.
Nella maggior parte degli esempi citati, il tipo di
proprietà è indifferente rispetto ai risultati finali. L'unico
criterio realmente significativo non è quello del regime di
proprietà ma della chiarezza dei diritti di proprietà. Anche in
questo caso si può indicare l'esempio giapponese per dimostrare che
il potere dell'azionariato non è necessariamente un fattore positivo
rispetto a quello del management.
In ogni caso, ciò che è economicamente
significativo è la ripartizione di un certo settore fra piccole e
grandi imprese. Dove gli investimenti iniziali sono modesti, ma la
rapidità di reazione è fondamentale, una struttura che favorisca le
piccole e medie imprese si presenta come la più efficiente; dove
invece gli investimenti iniziali sono importanti e le politiche di
innovazione si fondano su interventi di lungo periodo senza soluzione
di continuità, sono le grandi imprese a risultare più efficienti.
La nazionalizzazione può essere allora uno strumento per accelerare
la concentrazione industriale.
B/ Il miraggio della demonopolizzazione.
Un'altra linea di argomentazione frequentemente invocata
per giustificare le privatizzazioni è il tema della
demonopolizzazione dell'economia. Avendo postulato che la concorrenza
costituisce il fondamento stesso dell'efficienza economica, ogni sua
possibile limitazione è ovviamente considerata come nefasta. Questo
ci porta all'importante questione dei servizi pubblici e dei monopoli
naturali. L'attuale tendenza dell'economia mainstream è di
caldeggiare la privatizzazione delle imprese che corrispondono a
queste situazioni. Il governo russo, in particolare la sua ala più
liberista, ha evidentemente ripreso a propria volta questo discorso.
Questo approccio trascura però un certo numero di problemi. Il primo
è quello della specificità degli input impiegati in queste
attività: parliamo di specificità per quel che riguarda il capitale
e le competenze se consideriamo che non possono essere reimpiegati in
altre attività senza che si abbassi pesantemente il loro valore
[12]. Se dunque un'attività richiede input umani e materiali molto
specifici, un processo di privatizzazione attraverso la messa
all'asta periodica della concessione a favore dell'operatore privato,
metodo raccomandato per i servizi pubblici e i monopoli naturali
[13], smette di essere un processo concorrenziale. In effetti la
società privata che avrà ottenuto la concessione per il primo
periodo, avrà determinato una modifica del capitale e delle
competenze tale da disporre di un significativo vantaggio competitivo
sui suoi futuri concorrenti, a meno che il periodo fra le aste sia
breve; ma se così è, l'impresa concessionaria non potrà condurre
politiche di sviluppo a lungo termine. Si vede quindi che le asta
delle concessioni non consentono una reale concorrenza e non
migliorano la situazione rispetto a un operatore pubblico [14].
Un secondo problema consiste nell'incertezza dei costi
di investimento e nei tempi di costruzione di certe infrastrutture
[15], che può essere sufficiente per giustificare la conservazione
di alcuni monopoli e in ogni caso per obbligare ad affrontare la
questione della deregolamentazione con una certa prudenza. In
effetti, per poter finanziare investimenti importanti, un operatore
privato dovrà procedere o a un aumento di capitale o ricorrere a
prestiti sul mercato dei capitali. Avrà quindi la tendenza a
valutare quanto più precisamente possibile i costi. Se però
consideriamo i grandi investimenti, vediamo che siamo in presenza di
operazioni uniche e rispetto a cui l'incertezza quanto ai tempi di
completamento e ai loro costi, come l'evoluzione di costi relativi ad
altri sistemi potenzialmente concorrenziali, sono notevoli:
ritroviamo qui il problema della confrontabilità di cui abbiamo già
parlato. Possiamo dunque concludere che l'insieme di incertezze
relative ai costi reali di investimento, le evoluzioni dei prezzi
relativi dovute alla scoperta o maturazione di nuove tecnologie, la
lunga durata e la specificità degli investimenti rendono impossibile
concludere un contratto completo fra lo Stato e l'eventuale
concessionario. In questi casi, la conclusione di un contratto a
lungo termine simile alla regolazione di un servizio pubblico risulta
preferibile [16]: questo riduce molto l'interesse a una
privatizzazione. Un terzo problema deriva dall'impossibilità di
misurare l'aumento di ricchezza prodotto dalla fornitura di certi
servizi di cui pure è possibile misurare i costi: questa asimmetria
nella misurabilità induce a razionarne l'offerta quando è possibile
ci si trovi in una situazione di rendimenti crescenti.
La logica della privatizzazione e della
deregolamentazione, come vediamo sia nel caso della Russia che in
Europa, si basa su ipotesi molto restrittive: input non specifici,
una capacità di prevedere tutti i costi e i tempi e infine la
possibilità di misurare altrettanto bene sia l'aumento di ricchezza
per la società che i costi del servizio. Quando queste ipotesi non
sono tutte presenti, la demonopolizzazione e la privatizzazione
conducono a situazioni di grave inefficienza. Nel caso delle economie
in transizione, i cambiamenti strutturali, l'imperfezione delle
strutture finanziarie e i mutamenti dell'economia nel suo complesso
non fanno altro che rafforzare gli ostacoli che già naturalmente
esistono alla realizzazione di queste ipotesi.
C/
I rischi dell'acquisizione di rendite
Oltre che con gli argomenti puramente economici, le
privatizzazioni sono spesso giustificate sulla base di argomenti
sociologici e antropologici. Viene supposto qui che una struttura
proprietaria pubblica favorisca la comparsa di comportamenti di
acquisizione di rendite: la proprietà pubblica fungerebbe da alibi
per interessi privati o settoriali che userebbero gli strumenti
pubblicistici per distorcere a loro favore una parte della ricchezza
nazionale.
Il problema di abuso di proprietà pubblica è
senz'altro reale; non è però granché diverso da quello di
proprietà privata. Molti esempi mostrano che i dirigenti di imprese
private possono avere un comportamento da “percettori di rendita”
altrettanto chiaro che se l'impresa fosse nazionalizzata. Se
guardiamo alla moltiplicazione avvenuta in Francia di indagini
giudiziarie relative a reati come l'abuso di bene sociale o la
corruzione possiamo verificare che le imprese private vi sono
generosamente presenti. La questione è prima di tutto quella
della collusione. Quanto le élite economiche e politiche si
mescolano senza controllo pubblico (parlamentare o indiretto
attraverso i tribunali), le occasioni di acquisizione di rendite si
moltiplicano. D'altra parte è indiscutibile che uno Stato debole con
un'amministrazione disorganizzata è sprovvisto dei mezzi per farsi
rispettare.
Sarebbe quindi pericoloso ritenere che in questo caso la
privatizzazione potrebbe costituire la panacea. Essa non è una
soluzione preferibile solo se è dimostrabile che il processo di
realizzazione di istituzioni che consentano un controllo reale sulle
imprese private si compie più velocemente del processo di
restaurazione dello Stato. Queste istituzioni – si tratti di quelle
che garantiscono l'uguaglianza rispetto alla concorrenza o
all'accesso alle risorse finanziarie a alle reti di
commercializzazione, o quelle che consentono di risolvere le
controversie secondo la legge e non il caso – implicano comunque la
restaurazione dello Stato. Il mercato non produce istituzioni non
prima di essere organizzato lui stesso, vale a dire di aver
beneficiato di un quadro giuridico e istituzionale che solo lo Stato
può fornire. Storicamente, sono gli Stati che hanno consentito lo
sviluppo del mercato, non viceversa.
Possiamo allora sostenere che il comportamento del
“percettore di rendita” è contrastato più efficacemente da
un'identificazione dell'agente con la sua organizzazione, vale a dire
attraverso la reintroduzione di una prevedibilità di lungo termine
delle ripercussioni del suo comportamento presente sulla sua
situazione futura. È senz'altro possibile che in un paese in cui lo
Stato è generalmente considerato debole e sottomesso all'arbitrio la
privatizzazione costituisca un elemento per creare questa
identificazione; il caso è tuttavia molto diverso in altri paesi, in
particolare quelli in cui le nozioni di competenze tecniche e
professionali sono molto valorizzate nell'amministrazione.
Questo suggerisce allora un altro argomento a favore
della privatizzazione: se lo Stato non è democratico e se
l'amministrazione pubblica può essere catturata da interessi
particolari, allora possiamo attenderci uno sviluppo di situazioni
inefficienti [17]. I sistemi dittatoriali sono spesso accompagnati da
una forte corruzione, proprio in ragione di una mancanza di controlli
sugli agenti pubblici.
D'altro canto, le imprese che restano sotto controllo
pubblico devono essere sottoposte a regole di gestione chiare e
verificabili. Uno statuto dell'impresa pubblica (come esiste in
Francia o in Italia) è indispensabile. La creazione di corti dei
conti regionali indipendenti, incaricate di indagare sulle pratiche
finanziarie dei funzionari e degli amministratori, è una necessità,
così come la possibilità giuridica che queste corti possano
trasmettere le eventuali contestazioni alla giustizia.
D/ Gli effetti perversi delle privatizzazioni.
Da quanto detto, possiamo concludere che la
privatizzazione non è una panacea e i suoi effetti perversi sono
pesantemente sottovalutati quando non del tutto ignorati.
Si dimentica spesso che tutti i massicci trasferimenti
patrimoniali danno luogo a significativi effetti irreversibili. Essi
dovrebbero quindi essere equi, cioè offrire opportunità a un
pubblico più ampio possibile: il contrario di ciò a cui abbiamo
assistito in Russia [18]. Le piccole privatizzazioni hanno dato luogo
a evidenti collusioni degli organi incaricati delle privatizzazioni
con la mafia, riuscendo a far incancrenire completamente il settore
della distribuzione. Così, nella primavera del 1994, fattorie nella
regione di Tambov non potevano vendere i loro prodotti a Mosca per la
semplice ragione che non trovavano dei rivenditori. Questi, sotto
controllo delle mafie locali, distribuivano solo prodotti alimentari
importati da cui i capi mafia ricavavano una generosa percentuale. E
le reti distributive sono un anello fondamentale dello sviluppo sano
di un'economia: gran parte del successo dell'economia giapponese si
basa sull'organizzazione di queste reti, tanto a livello nazionale
che internazionale [19].
Un altro effetto perverso è invece direttamente
macroeconomico. Quando si privatizza prima di ristrutturare, è ovvio
che saranno le imprese più profittevoli ad essere acquisite per
prime; lo Stato si ritrova quindi con le imprese in deficit, cioè
quelle zoppicanti, nel momento stesso in cui sta cercando di ridurre
il suo stesso deficit [20]. Se procede a liquidazioni su vasta scala,
rischia di provocare una nuova depressione economica, il cui peso,
sotto forma di sussidi di disoccupazione, ricadrà su di lui. In più,
in un'economia che non è quella dei modelli matematici in cui
normalmente si postula la perfetta sostituibilità dei prodotti, la
messa in liquidazione di imprese non profittevoli può determinare il
fallimento di fornitori che invece lo erano. Questa possibilità
è stata ammessa dagli autori di un'opera che riassume i diversi
problemi legati alla creazione dei mercati nelle economie di
transizione:
“Un vasto programma di liquidazioni e licenziamenti
è difficile da giustificare da un punto di vista economico. In
un'economia già in crisi, e in cui non esiste nessun nuovo settore
di attività abbastanza importante e dinamico per ammortizzare lo
“choc da liquidazione” e assorbire la disoccupazione indotta,
chiusure sistematiche non possono che peggiore la contrazione
dell'attività e non sarebbero quindi affatto in grado di aumentare
la credibilità delle riforme o ispirare la fiducia nella situazione
economica.” [21]
La questione delle privatizzazioni dev'essere spogliata
delle illusioni così come del dogmatismo che vi si trova troppo
spesso. La questione fondamentale resta quello del tipo di
funzionamento dell'impresa che intendiamo favorire e della stabilità
dei diritti di proprietà, appartengano questi ad agenti privati o
allo Stato. [22] L'obiettivo di sviluppo di un settore privato
sarebbe stato avvantaggiato da aiuti sistematici alla creazione di
nuove imprese. Questo avrebbe consentito di ricostruire dalle
fondamenta un tessuto economico e industriale che resta oggi in
Russia molto squilibrato. Molto probabilmente, queste nuove imprese
avrebbero promosso lo spirito imprenditoriale, che teoricamente si
intendeva sviluppare, più della privatizzazione delle grandi imprese
di Stato. Bisogna comunque aggiungere che le PMI sono molto più
vulnerabili a una politica di rigore finanziario rispetto a quelle
grandi [23]. In effetti in Polonia, la “terapia choc” ha
penalizzato molto di più le imprese emergenti che il settore
pubblico [24]. Ritroviamo qui le conseguenze degli errori passati dei
liberisti. Infine, pare, come ha dimostrato L. Taylor, che si siano
sottovalutate le interazioni positive che possono esistere fra un
settore di grandi imprese pubbliche e un settore di PMI e piccole
medie industrie emergenti [25].
La conservazione di una presenza pubblica nel settore
industriale o dei servizi è perfettamente giustificabile nell'ambito
di in un'economia di mercato. La dimensione di questo settore non è
necessariamente il criterio più significativo della sua efficacia
nella realizzazione di una politica industriale attiva. Le dimensioni
del settore pubblico, il punto a cui dev'essere sviluppato oppure
ridotto, sono le conseguenze delle linee guida e delle priorità
della politica industriale e non il contrario.
[1]
J.Stiglitz, Wither Socialism?, MIT
Press, Cambridge, Mass, 1994.
[2]
M. Jensen and W. Meckling, “Theory of
the firm: managerial behavior, agency costs and capital structure”,
in Journal of Financial Economics , n°3/1976, pp 305-360.
E.Fama, “Agency problem and the theory of the firm” in Journal
of Political Economy , n°88, 1980.
[3]
M. Jensen e W. Meckling, “Theory of the
Firm: Managerial Behavior, Agency Costs and Ownership Structure”,
op.cit..
[4]
A.H. Amsden, J. Kochanowicz e L. Taylor,
The Market Meets its Match, op.cit., pp.130-137.
[5]
Vedi EBRD, Transition Report 1995,
EBRD, Londra, settembre 1995, pp. 131-135.
[6]
Su questo punto, W.N.Butos and R.G.Koppl,
“Hayekian Expectations: Theory and Empirical Applications”, in
Constitutional Political Economy, vol. 4, n°3/1993, e
R.G.Koppl, “Animal Spirits” in Journal of Economic
Perspective, Vol.5, n°1/1991.
[7]
P. Fridenson, “Les organisations, un
nouvel objet”, in Les Annales ESC , N°6/1989.
[8]
B.Pinto, M.Belka & S.Krajewski,
“Transforming State Enterprises in Poland: Microeconomic Evidence
on Adjustment”, World Bank, Working paper WPS 1101,
Washington, Dc., 1993, Miméo.
[9]
A. Dudzinski, “Le secteur public en
Pologne après quatre années de transition”, in Revue d’Études
Comparatives Est-Ouest, vol.26, n°2/1995, giugno, pp. 85-112.
[10]
J.Sapir, “Transformations structurelles
dans la région de Tambov”, Rapport de Mission, CEMI-EHESS, Parigi,
giugno 1994, Miméo.
[11]
C. Johnson, Japan, who governs?,
Norton, New York & Londra, 1995.
[12]
Questa nozione di input specifici è stata sviluppata in B.
Klein, R. Crawford et A. Alchian, “vertical Integration,
Appropriable Rents and the Competitive Contracting System”, in
Journal of Law and economics, vol. 21, 1978, pp. 297-326. Vedi
anche A. Alchian, “Specificity, Specialization and Coalitions” in
Journal of economic Theory and Institutions , n°140, 1984,
pp. 34-49, e O. Williamson, “Credible Commitments: Using Hostage to
Support Exchange”, in American Economic Review, vol.73, n°2,
1983, pp.519-531.
[13]
Vedi H. Demsetz, “Why Regulate
Utilities”, in Journal of Law and Economics, vol. 11, 1968;
O. Williamson, “Franchise Bidding for Natural Monopolies-In General
and with Regard to CATV”, in Bell Journal of Economics, vol.
7, n°73, 1976.
[14]
Questa in particolare è la tesi difesa da O. Williamson in “The
Logic of Economic Organization”, in O.E. Williamson et S.G. Winter,
(edits.), The Nature of the Firm. origins, Evolutions and
Development, Oxford University Press, Oxford e New York, 1993,
p.99. Vedi anche la critica del sistema di concessioni in O.
Williamson, “Franchise Bidding for Natural Monopolies-In General
and with Regard to CATV”, op.cit..
[15]
Il problema delle strutture e complementarità degli investimenti è
anche invocata per mettere in dubbio certe deregolamentazioni e
privatizzazioni. Vedi: P. Joskow et R.
Schmalensee, Markets for Power: An Analysis of Electric Utility
Deregulation, MIT Press, Cambridge, Mass., 1983.
[16]
P.J. Joskow, “Asset Specificity and the
Structure of Vertical Relationships: Empirical Evidence” in O.E.
Williamson et S.G. Winter, (edits.), The Nature of the Firm.
origins, Evolutions and Development, op.cit., pp. 117-137.
[17]
J.Kornaï, The road to a Free Economy
– Shifting from a Socialist System: the Example of Hungary,
Norton, New York, NY, 1990.
[18]
Sulla criminalizzazione dell'economia russa in seguito alle
privatizzazioni, “Interview d’Igor
Birman par la rédaction du Courrier des pays de l’Est sur la
situation en Russie”, in Le Courrier des pays de l’Est,
maggio 1994.
[19]
M.Y. Yoshino & T.B. Lifson, The
Invisible Link – Japan ‘s Shogo Shosha and the Organization of
Trade , MIT Press, Cambridge, Mass., 1986.
[20]
S.Islam, “Conclusion: Problems of
Planning a Market Economy”, in S. Islam & M. Mandelbaum,
(edits.), Making Markets – Economic Transformation in Eastern
Europe and the Post-Soviet States , Council on Foreign Relations,
New York, 1993, p.194.
[21]
S.Islam, “Conclusion: Problems of
Planning a Market Economy”, op.cit., p.197.
[22]
Argomenti sviluppati da G.Yavlinsky &
S.Braginsky, “The Inefficiency of Laissez-Faire in Russia:
Hysteresis Effects and the Need for Policy-Led Transformation”, in
Journal of Comparative Economics , Vol. 19, n°1, agosto 1994
[23]
M.Gertler & S.Gilchrist, “Monetary
Policy, Business Cycles and the Behavior of Small Manufacturing
Firms”, in Quarterly Journal Of Economics, Vol.CIX,
n°2/1994, May
[24]
Y.Zlotowski, “Politique Monétaire et
thérapie de choc en Pologne: les limites de l’expérience
1990-1991″, in Economie Prospective Internationale, n°53,
1° trimestre 1993.
[25]
L.Taylor, “The Market Met its Match:
Lessons for the Future from the Transition’s Initial Years” in
Journal of Comparative Economics , Vol. 19, n°1, agosto 1994.
ottimo pezzo dal sempre ottimo Sapir che semplicemente ci ricorda come, qui e sempre nella vita e nella storia umana, sono tutti moralisti quando il culo che rischia è quello altrui.
RispondiEliminae come sono tutti liberisti sulle spalle dei lavoratori ma come siano tutti interventisti quando si tratta di salvare le terga a banche fallite e industriali alla ricerca di maggior profitto.
il robin hood che ruba ai poveri per dare ai ricchi. ecco in che realtà siamo.
Tosto ma grandioso Sapir
RispondiEliminaC'è un altro argomento contro il darwinismo economico (e quello sociale), ed è che Darwin non c'entra un bel nulla. Costoro hanno letto solo il titolo dell'opera di Darwin ma non l'hanno capito; vi hanno letto quel che volevano loro.
RispondiEliminaIn Darwin non c'è nessuna "competizione" tra specie, subspecie, o individui: semplicemente è la pressione dell'ambiente che elimina gli inadatti (non "premia gli ottimi") nel contesto della riproduzione che è sempre con variazione (mutazione: il cancro è la norma, non l'eccezione, la malattia consiste nella mancata soppressione dei tessuti tumorali, non nella produzione di cellule cancerose).
Il titolo dell'opera di Darwin parla infatti della lotta dei viventi ma non tra di loro, bensì contro le avverse condizioni ambientali per sopravvivere, condizioni le quali sopprimono i disadatti.
La teoria di Darwin è continuista, come dice esplicitamente lui stesso (si legga Stephen J. Gould), nel senso che il processo è lento e graduale: la filogenesi è invisibile alla scala di tempo dell'ontogenesi, cosa questa che semmai è una difficoltà della visione di Darwin (vedasi la teoria dello sviluppo punteggiato sempre di Gould, dove si reintroduce una forma di "competizione", ma leggere e capire bene prima di tirarla in ballo a sproposito).
Cosa c'entri tutto questo con lo sviluppo sociale o economico è incomprensibile, se non alla luce di una riduzione a fumetti del darwinismo.
Semmai da Darwin si trae la lezione dell'importanza della diversificazione, ovvero l'esatto opposto dell'ottimizzazione.
interessante.
Eliminaa ben vedere cmq quasi tutte le teorie o pseudo-tali e i concetti dei pensatori del passato che verrebbero tirati in ballo dai liberisti-paraculisti che ci dominano oggi per fabbricare le loro lezioncine sono semplicemente frutto di interpretazioni parziali e volutamente pressapochiste delle idee cui dicono di richiamarsi.
sono cioè frutto del processo inverso: partono dal risultato che vorrebbero ottenere e poi risalgono fino a formulare una teoria o un pensiero che ne giustifichi la realizzazione.
il contrario del metodo scientifico. e quando questi sono i canoni su cui si regge la governance di mezzo mondo si può ben dire che quella parte di mondo sta sprofondando verso un piccolo nuovo medioevo.
@Tonelli.
RispondiEliminaChe dire, che sia "nuovo" questo medioevo, non c'è dubbio. La storia è un po' difficile si ripeta uguale. Ma che sia piccolo, temo proprio di no. Rischiamo una "stagnazione secolare", un lungo nuovo medioevo ...