27/09/20

È un errore pensare che tutti i test positivi al COVID siano uguali


In un articolo pubblicato il 21 agosto scorso su TheSpectator 
il prof. Heneghan, Direttore del Centro di Medicina basata sull’evidenza dell’Università di Oxford, e il suo Collaboratore Tom Jefferson ripercorrono succintamente l’esperienza italiana con il COVID-19 ed esortano a seguire un cammino basato sulle evidenze scientifiche. Non tutti i test positivi al COVID, sostengono, hanno il medesimo significato e ciò che dobbiamo conoscere per orientare in modo convincente le decisioni non è semplicemente il numero dei positivi, bensì il numero di quelli che sono contagiosi. Un concetto  ulteriormente chiarito  in questo articolo già presentato nel nostro blog.

di Carl Heneghan*   e Tom Jefferson*

Traduzione di Rosa Anselmi  

The Spectator, 21 agosto 2020

L’Italia è stato il primo paese in Europa a implementare il lockdown, così cosa possiamo imparare dal tentativo del Paese di imporre restrizioni per sconfiggere il COVID-19? E l’esperienza dell’Italia nel trovare una via d’uscita dal lockdown cosa insegna alla Gran Bretagna, mentre essa stessa sta emergendo dal lockdown?

Il 23 febbraio 2020 dieci città nella provincia di Lodi, in Lombardia, e una città nel Veneto sono state designate aree o “zone rosse”: due giorni dopo il primo decesso da COVID-19 e tre giorni dopo l’identificazione del primo caso autoctono di Covid-19 (vale a dire un caso che non ha potuto essere correlato a contatti con estranei). Quando il premier italiano Giuseppe Conte annunciò il lockdown nazionale completo – la “zona arancione” - l'11 marzo, c’erano 12.482 casi e 827 decessi. In una forma progressivamente attenuata il lockdown continua tuttora.

La mancanza di preparazione alla pandemia, in un contesto di isteria alimentata dai media dovuta alla natura inizialmente esplosiva della pandemia europea, ha avuto una ripercussioni sulle decisioni prese. Qualunque cosa possiamo pensare della saggezza e dell'impatto di tali drastiche misure, ora non è il momento di puntare il dito e biasimare i politici per aver preso decisioni difficili in tempi di crisi imprevista. Dovremmo guardare cosa è cambiato. E domandarci se un altro lockdown generalizzato o locale possa essere giustificato dalla nostra situazione attuale e quanto siamo preparati per una futuro scoppio epidemico.

Dopo otto settimane di restrizioni, in Italia il lockdown è stato alleggerito il 4 maggio. Gli italiani ne sono emersi con cautela. Pochi per volta hanno visitato i loro congiunti; le industrie e i cantieri hanno riaperto, ma le scuole e le chiese sono rimaste chiuse.  La maggior parte delle persone ha vissuto con preoccupazione il primo caffè al bar dopo mesi. A giugno le ansie hanno cominciato ad allentarsi: i casi erano diminuiti fino a soli 200 al giorno. Tuttavia l'abitudine sociale di abbracciare e stringere la mano agli amici, fondamentale per lo stile di vita italiano, si è persa in poco tempo.

Durante l'estate i casi “debolmente positivi” (cioè in cui era rilevata solo una piccola quantità di virus) sono aumentati, ma i ricoveri e i decessi hanno continuato a diminuire. È emerso che coloro che risultavano positivi avevano meno virus nei loro organismi. In Lombardia, la percentuale di debolmente positivi era attorno al 50 per cento dei casi totali e la proporzione è in aumento. I ricoveri nella Regione erano pochi e sporadici e i decessi fortunatamente ancora più rari.

Comprendere il ruolo dei “debolmente positivi” e il rischio che pongono è cruciale per rispondere alla domanda su cosa accadrà dopo. Evidenze italiane non pubblicate suggeriscono che meno del tre per cento sia contagioso. Quattordici altri studi sulla relazione tra infettività e risultati della PCR [N.d.T la tecnica molecolare con cui si cerca l’RNA virale nei tamponi] puntano nella stessa direzione. Tuttavia l'impatto dell'annuncio del numero di nuovi “positivi” continua a infondere paura nell'opinione pubblica.

I casi importati e il ruolo delle persone asintomatiche spiegano in parte la continua circolazione di virus endemici. Annunciare semplicemente i nuovi "positivi" ci dice molto poco. Un test affidabile ci informerebbe se un caso "positivo" è contagioso con un ragionevole grado di certezza.

Ad agosto i casi sono aumentati, i test sono in crescita. Il governo, segnato dagli effetti dei primi di marzo, ha rapidamente promosso nuove restrizioni. I locali notturni hanno chiuso, le mascherine per il viso sono obbligatorie nelle aree affollate. Eppure, in mezzo a queste decisioni affrettate di reimporre le restrizioni, c’è poco che sappiamo con certezza. Non c'è una definizione universalmente accettata dei casi di Covid-19, dato che la malattia di una persona può essere diversa da quella di un'altra (come indicano i risultati dei "debolmente positivi", il livello del virus rilevato può variare sostanzialmente).

Di conseguenza, il numero di casi non dovrebbe essere il motore principale di futuri lockdown. Il vino italiano è stato trasformato in gel per le mani; i turisti sono scomparsi; le chiese, sebbene aperte, sono quasi deserte. Lo stile di vita italiano potrebbe essere cambiato per sempre. I nostri ricordi svaniscono presto, ma dobbiamo tenere a mente il contesto in cui i lockdown sono stati utilizzati per la prima volta. Una situazione del tipo Lombardia potrebbe ripresentarsi, ma decisioni valide e convincenti possono essere prese solo se sappiamo cosa stiamo facendo.


Un approfondimento sul 'problema di realtà' dei test utilizzati in tutto il mondo per identificare i casi è svolto dal prof. Heneghan in questo articolo (qui tradotto da Vocidallestero)




* Professore di Medicina basata sull’evidenza e Direttore del Centro di Medicina basata sull’evidenza dell’Università di Oxford

* Ricercatore del Centro di Medicina basata sull’evidenza dell’Università di Oxford


Nessun commento:

Posta un commento