02/06/14

Il Riequilibrio Asimmetrico tra Cina e USA

Su Project Syndicate, Stephen S. Roach* descrive le differenti risposte di Cina e USA alla crisi: la Cina si sta spostando verso il sostegno della domanda interna, mentre gli Stati Uniti rimangono incastrati nella trappola della politica monetaria espansiva e delle politiche supply-side.
La conseguenza sarà un riequilibrio asimmetrico, in cui gli USA dovranno svalutare il dollaro, per attirare il credito estero dovranno alzare i tassi di interesse,  e lasciar correre l'inflazione. Aumentando la propria instabilità.



E' difficile resistere alla tentazione di estrapolare i dati. Il trend esercita una forte influenza su mercati, politici, famiglie e imprese. Ma gli osservatori più acuti comprendono i limiti del pensiero lineare, perché sanno che le linee si piegano, e talvolta addirittura si spezzano. Questo è il caso nel valutare due fattori chiave che oggi modellano l'economia globale: i rischi associati alla strategia della politica americana e allo stato dell'economia cinese.

Il Quantitative easing o QE (il programma della Federal Reserve di acquisto mensile di asset a lungo termine) è iniziato come un nobile tentativo - ben organizzato e ben articolato come antidoto disperato della Fed ad una crisi lacerante. I controfattuali sono sempre complicati, ma è difficile sostenere che le iniezioni di liquidità della fine del 2008 e l'inizio del 2009 non abbiano giocato un ruolo importante nel salvare il mondo da un qualcosa di molto peggio della Grande Recessione.
La combinazione di strumenti di finanziamento specifici per il prodotto e il primo round di quantitative easing ha fatto impennare il bilancio della Fed a 2.300 miliardi di dollari entro marzo 2009, dal suo livello pre-crisi di 900 miliardi di dollari nell'estate del 2008. Ed il profondo gelo nei mercati devastati dalla crisi si è sciolto.

L'errore della Fed è stato quello di estrapolare - cioè, di credere che la terapia d'urto non solo avrebbe salvato il paziente, ma avrebbe anche favorito una ripresa sostenuta. Altri due cicli di QE hanno ampliato il bilancio della Fed di altri 2.100 miliardi di dollari tra la fine del 2009 e oggi, ma se ne è guadagnato poco rispetto all'obiettivo di far ripartire l'economia reale.
Questo diventa chiaro se confrontiamo le iniezioni di liquidità della Fed con l'aumento del PIL nominale. Dalla fine del 2008 al maggio 2014, il bilancio della Fed è aumentato di un totale di 3.400 miliardi di dollari, ben oltre l'aumento di 2.600 miliardi di dollari del PIL nominale nello stesso periodo. Questa difficilmente può essere definita una "Missione compiuta", come sostengono i sostenitori del QE. Ogni dollaro di QE ha generato solo 76 centesimi di PIL nominale.

A differenza degli Stati Uniti, che in gran parte hanno puntato sull'impegno della loro banca centrale per attenuare la crisi e promuovere la ripresa, nella profondità della crisi la Cina ha impiegato uno stimolo fiscale di 4000 miliardi di renmibi (circa il 12 % del suo PIL nel 2008) per far ripartire la sua economia in declino. Mentre lo stimolo fiscale degli Stati Uniti di 787 miliardi di dollari (il 5,5 % del PIL 2009) ha generato un effetto limitato, nella migliore delle ipotesi, sull'economia reale, lo sforzo cinese ha prodotto un aumento immediato e repentino di progetti infrastrutturali di immediata attuazione, che ha fatto schizzare la quota parte di investimenti fissi del PIL dal 44 % del 2008 al 47% nel 2009.
Sicuramente, anche la Cina ha allentato la politica monetaria. Ma questi sforzi sono stati ben inferiori a quelli della Fed, con tassi di interesse a zero o la strategia del quantitative easing - solo riduzioni standard dei tassi ufficiali (cinque tagli alla fine del 2008) e dei requisiti di riserva (quattro aggiustamenti).

La cosa più importante da notare è che a Pechino non c'è stata la mania dell'estrapolazione. I funzionari cinesi hanno visto i loro interventi nel biennio 2008-2009 come misure una tantum, e sono stati molto più veloci rispetto ai loro omologhi statunitensi nell'affrontare le insidie di politiche avviate nella profondità della crisi. In America, c'è un rifiuto di ammettere la realtà.
A differenza della Fed, che continua a respingere le potenziali ripercussioni negative del QE sui mercati e sull'economia reale - sia in patria che all'estero - le autorità cinesi sono state molto più consapevoli dei rischi corsi durante e dopo la crisi. Si sono mosse rapidamente per affrontarli, soprattutto quelli posti dalla leva finanziaria in eccesso, dal sistema bancario ombra, e dai mercati immobiliari.

Il giudizio se i funzionari cinesi abbiano fatto abbastanza è tuttora sospeso. Io penso di sì, anche se ammetto che la mia oggi è una posizione di minoranza. Davanti all'attuale  rallentamento della crescita, la Cina avrebbe potuto ben tornare al suo approccio precedente, comprovato dalla crisi; che non l'abbia fatto è un altro esempio della volontà dei suoi leader di resistere all'estrapolazione e tracciare una rotta diversa.

La Cina si è già espressa su questo fronte, abbandonando un modello di crescita che aveva guidato con successo lo sviluppo economico del paese per più di 30 anni. Ha riconosciuto la necessità di passare da un modello concentrato principalmente sulla produzione guidata dall'export e dagli investimenti (via produzione manifatturiera) ad uno guidato dai consumi privati ​​(tramite i servizi). Questo cambiamento darà alla Cina molte più possibilità di evitare la temuta "trappola del reddito medio", che incastra la maggior parte delle economie in via di sviluppo, proprio perché i loro politici credono erroneamente che la ricetta per il decollo della crescita nella fase iniziale sia sufficiente per raggiungere lo status di paese sviluppato.

I casi statunitense e cinese non sono sospesi nel vuoto. Come sottolineo nel mio nuovo libro, la interdipendenza di Cina e America le lega indissolubilmente. Si pone quindi la questione delle conseguenze di due diverse strategie politiche - la stasi americana e il riequilibrio cinese.

Il risultato probabile è un "riequilibrio asimmetrico". Come la Cina cambia il suo modello economico, si sposterà da un surplus di risparmio a un'attrazione di risparmio - impiegando i suoi asset per finanziare una rete di sicurezza sociale e, per questa via moderare i risparmi precauzionali guidati dalla paura delle famiglie. Al contrario, l'America sembra intenzionata a mantenere il suo corso attuale - nella convinzione che il suo modello di basso risparmio ed eccesso di consumo che ha funzionato così bene in passato continuerà ad operare senza problemi in futuro.

Riconciliare questi due approcci produrrà delle conseguenze. Mentre la Cina reindirizza il suo surplus di risparmio per sostenere i propri cittadini, avrà meno eccedenze per sostenere la carenza di risparmi degli Americani. E questo probabilmente influenzerà le condizioni alle quali gli Stati Uniti attirano finanziamenti dall'estero, portando ad un dollaro più debole, tassi di interesse più elevati, aumento dell'inflazione, o a una combinazione di tutti e tre questi fattori. In risposta, le turbolenze economiche dell'America si irrigidiranno ancora di più.

Si dice spesso che una crisi non deve mai andare sprecata: politici, decisori e regolatori dovrebbero sfruttare il momento di profonda angoscia e assumersi il pesante fardello della riparazione strutturale. La Cina sembra farlo; l'America no. La co-dipendenza punta verso una conclusione inevitabile: gli Stati Uniti sono in procinto di rimanere intrappolati nei pericoli del pensiero lineare.

*Stephen S. Roach è ex presidente e capo economista di Morgan Stanley Asia, è senior fellow presso il Jackson Institute per gli Affari Globali della Yale University  e docente presso la Scuola di Management di Yale. E' l'autore del nuovo libro "Unbalanced: The Codependency of America and China"

2 commenti:

  1. "gli USA per attirare il credito estero dovranno svalutare il dollaro, alzare i tassi di interesse e far correre l'inflazione. Aumentando la propria instabilità."

    Scusate ma; aumentare l' inflazione e soprattutto svalutare la moneta non è proprio molto coerente col voler attirare investimenti. Alzare i tassi per aumentare l' inflazione poi; la vedo ancora più strana....(semmai un aumento dell' inflazione puo' portare ad un aumento dei tassi)

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  2. Io l'ho letta così: gli Stati Uniti faranno più fatica ad attirare i finanziamenti dall'estero, il dollaro si svaluterà per il deficit della bilancia dei pagamenti e ci sarà un aumento dell'inflazione conseguente alla svalutazione del dollaro, quindi dovranno aumentare i tassi di interesse...
    ...hai ragione, l'abstract non è chiaro (colpa mia e della mia mania per la sintesi, non di Saint Simon), lo correggo.

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