24/06/14

Vladimiro Giacchè: Euro e Austerity, la tenaglia che ci stritola

Da Sinistrainrete un ottimo articolo di Vladimiro Giacché che fa chiarezza sulla gravità della situazione che stiamo attraversando, su come ci siamo finiti e sui possibili esiti...


 
Credo che il primo dovere nei confronti di noi stessi sia quello della chiarezza.
 
In primo luogo sulla gravità della situazione. Il nostro paese ha perso, dall’inizio della crisi, poco meno del 10% del prodotto interno lordo, il 25% della produzione industriale, il 30% degli investimenti. A chi paventa catastrofi nel caso di un’eventuale fine dell’euro va risposto che al punto in cui siamo l’onere della prova va rovesciato, perché la catastrofe c’è già. E la prima cosa da fare è di comprendere come ci siamo finiti e cosa fare per uscirne.


Ci troviamo, molto semplicemente, nella peggiore crisi dopo l’Unità d’Italia: peggiore di quella del 1866, e peggiore di quella del 1929 (Rapporto CER n. 2/2013).

Peggiore per tre motivi: perché il livello di prodotto pre-crisi – che negli altri casi era già stato recuperato dopo 6 anni – in questo caso non sarà recuperato neppure in 10 anni; perché gli indicatori di cui disponiamo non segnalano alcun miglioramento significativo della situazione (al contrario, quanto alla disoccupazione, essi ne prevedono un ulteriore aumento nel corso del 2014). E anche perché la situazione attuale è caratterizzata da due elementi di rigidità che privano il nostro Paese di margini di manovra.

Il primo vincolo – quello rappresentato dall’appartenenza alla moneta unica – impedisce ogni autonoma politica monetaria e ogni recupero di competitività tramite la svalutazione della moneta.

Il secondo elemento di rigidità – quello dei vincoli di bilancio – impedisce ogni politica anticiclica, per non parlare poi di una politica industriale. Osservo en passant che il modello tedesco, continuamente invocato quando si tratta di precarizzare il mercato del lavoro sul modello dell’Agenda 2010 di Schröder, viene completamente trascurato quando si parla di politiche anticicliche. E sì che con 70 miliardi di euro utilizzati per rilanciare il settore manifatturiero tra 2008 e 2009, la Germania (che in quei due anni aveva perso all’incirca la stessa quota di prodotto perduta dall’Italia) costituisce un caso di scuola in fatto di utilizzo massiccio di politiche di deficit spending in funzione anticiclica…

I vincoli di bilancio hanno conosciuto un aggravamento negli ultimi tre anni anche rispetto a quanto fu previsto a Maastricht. In particolare, la regola relativa alla necessità di ridurre la parte di debito che eccede il 60% del pil nella misura del 5% annuo è una regola che nel Trattato di Maastricht non c’era, e non per caso: era infatti ben chiaro ai negoziatori degli altri Paesi che l’Italia non avrebbe potuto accettare un obbligo di riduzione del debito di queste proporzioni. Questo vincolo è invece stato introdotto nel 2011, nel bel mezzo della peggiore crisi economica globale dagli anni Trenta.

Stretti tra il vincolo monetario e quello delle politiche di bilancio, i governi non hanno alcun margine di manovra. Possono solo accettare la corsa al ribasso sui salari (ossia la svalutazione interna), che però – come si è visto in questi ultimi anni – ha l’effetto di far crollare la domanda interna, e quindi di ridurre, prima, e distruggere, poi, capacità produttiva, a evidente beneficio di produttori localizzati in altri paesi. La verità è che “di fatto, l’austerità fiscale ha collocato l’economia europea su un equilibrio di sottoccupazione” (Rapporto CER 4/2013, p. 7).

Se i vincoli di bilancio dal 2011 in poi si sono fatti più severi e stringenti, anche il vincolo monetario si fa sempre più soffocante, a dispetto dei bassi tassi d’interesse BCE. Per 3 motivi: 1) perché l’euro è sopravvalutato sul dollaro, 2) perché allo stesso annuncio dell’OMT da parte di Draghi, dopo la sentenza di Karlsruhe, sarà molto difficile dare seguito concreto in caso di necessità (ne ha scritto molto bene Gianluigi Nocella: http://re-vision.info/2014/02/in-attesa-di-condanna/ ); 3) infine, perché sul nostro paese incombe la deflazione; la quale, a differenza dell’inflazione, aumenta il valore reale del debito in essere e ne può rendere insostenibile il peso anche in tempi molto brevi.

Per questi motivi lo stesso assottigliarsi dello spread Bund/Btp non deve ingannare: esso infatti è il prodotto della politica di quantitative easing della Fed da un lato, dei flussi di capitale in uscita dai fondi obbligazionari specializzati in emerging markets dall’altro. Si tratta in entrambi i casi di dinamiche che potrebbero facilmente e rapidamente mutare di segno.

Anche perché non si è affatto invertito il processo di balcanizzazione finanziaria in Europa, ossia la risegmentazione dei mercati finanziari e il loro ridisegnarsi secondo linee coincidenti con i confini nazionali. Si tratta del pericolo numero uno per l’euro, assieme alla crescente divergenza tra le economie dell’eurozona. Un processo caratterizzato dal rimpatrio dei crediti effettuati dalle banche tedesche e francesi nei confronti degli altri paesi dell’eurozona, e conseguentemente dall’aumento della quota di titoli pubblici di questi paesi in mano alle banche domestiche. Nel caso delle banche tedesche, le esposizioni nei confronti dei Paesi periferici dell’eurozona è passata in pochi anni da esposizioni per 520 miliardi di euro verso i Paesi periferici dell’eurozona a esposizioni pari a 214 miliardi (dato di novembre 2013).

La ratio dell’Unione Bancaria, la vera posta in gioco con la sua costruzione, consiste nella possibilità di invertire questo processo. Ma purtroppo, per i difetti della sua attuale configurazione (ritagliata sulle esigenze delle banche tedesche e sulla necessità di proteggerne il maggior numero possibile dall’esame della BCE), non sembra in grado né di ridurre entro termini ragionevoli il rischio sistemico, né di costituire una diga efficace alla balcanizzazione finanziaria. Con quello che ne consegue anche per quanto riguarda le prospettive di sostenibilità del nostro debito pubblico.

Più in generale, C.M. Reinhart e K.S. Rogoff ritengono che in base all’esperienza storica l’ottimismo dei governanti europei circa la possibilità di uscire dal debito “per mezzo di un mix di austerity, forbearance e crescita” sia ingiustificato. E che, al contrario, “il finale di partita della crisi finanziaria globale probabilmente richiederà una qualche combinazione di repressione finanziaria (una tassa occulta sui risparmiatori), vera e propria ristrutturazione del debito pubblico e privato, conversioni, inflazione molto più elevata, e misure varie di controllo dei capitali” (C.M. Reinhart e K.S. Rogoff, Financial and Sovereign Debt Crises: Some Lessons Learned and Those Forgotten, IMF Working Paper, dicembre 2013, pp. 3-4).

Se riflettiamo su queste parole, possiamo intendere come molti dibattiti italiani su questi temi siano fuori centro e fuori tempo.
Si invoca lo spettro dell’inflazione (che riduce il valore reale del debito) quando invece siamo prossimi alla deflazione (che lo aumenta). Oppure si invoca lo spettro della svalutazione della moneta quando, semmai, il vero problema oggi è la svalutazione interna: perché stiamo già svalutando, e pesantemente, i salari (la qual cosa, sia detto di passaggio, è precisamente quello che ci viene chiesto quando si parla di “riforme strutturali”).
 
L’errore, qui, è quello di pensare con le categorie e con le priorità degli anni Settanta e Ottanta in uno scenario completamente cambiato, i cui elementi di pericolo sono completamente differenti.
Rigidità delle politiche di bilancio e rigidità del cambio sono difficilmente sostenibili di per sé. Ma soprattutto sono insostenibili contemporaneamente. La conseguenza è molto semplice: o salterà l’una, o salterà l’altra.

O sapremo conquistarci maggiori margini di manovra effettivi sui conti pubblici, e al tempo stesso imporre anche alla Germania la politica espansiva in termini di domanda interna che sinora si è rifiutata di attuare (senza la quale ogni espansione della nostra domanda interna riproporrebbe una situazione di squilibrio della bilancia commerciale), o procederemo verso l’implosione dell’eurozona. Ma, prima ancora, verso la distruzione della nostra capacità produttiva e della nostra economia.

L’unico modo per conquistare quei margini di manovra è porre radicalmente in discussione gli ultimi Trattati e accordi europei: quelli dal marzo 2011, ossia dal Trattato Europlus in poi. Altrimenti, non resta altra strada che l’abbandono della moneta unica. Non ci sono altre vie: in particolare, non sarebbe praticabile né utile la strada di un approfondimento del processo di integrazione europeo anche da un punto di vista politico. Infatti, se non si interviene prima sull’impianto neoliberistico/mercantilistico che impronta di sé i Trattati dall’Atto Unico Europeo dal 1986 in poi – e che fa sì che la competizione tra paesi in Europa sia necessariamente tutta giocata sulla concorrenza al ribasso sulla protezione del lavoro e sulla fiscalità per le imprese – ogni ulteriore passo avanti verso l’integrazione politica rischierà inevitabilmente di rappresentare la blindatura istituzionale, tendenzialmente autoritaria, di un assetto sociale ingiusto e insostenibile.

Una citazione per finire:

Quest’area monetaria rischia oggi di configurarsi come un’area di bassa pressione e di deflazione, nella quale la stabilità del cambio viene perseguita a spese dello sviluppo dell’occupazione e del reddito. Infatti non sembra mutato l’obiettivo di fondo della politica economica tedesca: evitare il danno che potrebbe derivare alle esportazioni tedesche da ripetute rivalutazioni del solo marco, ma non accettare di promuovere uno sviluppo più rapido della domanda interna.” 

Sono parole tratte dal discorso parlamentare con il quale Luigi Spaventa motivò il voto contrario del PCI all’ipotesi di adesione dell’Italia allo SME. Era il 12 dicembre 1978. Il rischio che Spaventa lucidamente aveva individuato si è concretizzato: le sue parole, purtroppo, descrivono alla perfezione la situazione attuale dell’Europa.

È questa la catastrofe in cui già siamo e da cui dobbiamo uscire. Prima che sia troppo tardi.

9 commenti:

  1. 8 settembre 1943
    sarebbe utile che la direzione del Pd, tutta, prendesse atto delle riflessioni di Giacchè e magari provasse a confutarle, giusto per dimostrare che il problema del paese NON sono solo i costi del Senato e la sua riforma....in altre parole, se x sono i costi del senato e 6x il valore del fondo salva stati pagato dall'italia, il problema NON è il senato, e quindi le riflessioni di Giacchè "devono" essere discusse dal partito che ha il 40,8% di voti

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    1. considera che in realtà se X sono i costi del senato il costo del fondo salva stati ad oggi si aggira nell'ordine di 60 X.

      essendo che, prendendo per buone le balle del bomba fiorentino, sul senato si risparmierà un miliardo scarso....mentre per il fondo salvastati ne abbiamo già versati oltre 60.


      questa analisi è ottima e va diffusa....risale a qualche mese cmq direi. ma è sempre più attuale.
      Giacchè è un perfetto esempio di uomo di sinistra che è contro l'euro.

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    2. Ha avuto il 40% del 60% .... su dieci Italiani fermi ad attendere l'autobus in media, 2 o 3 di loro hanno votato il Pd.. sono tanti certo... ma che non si allarghino troppo perchè fin che si vota gli va bene ma in caso di rissa (che si stanno adoperando a provocare, loro) prenderanno un fracco di legnate...

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    3. Perche' c'e' qualche economista alla direzione PD?
      Chi confuta? La Picierno?

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  2. Ogni commento sarebbe superfluo. Cos'altro aggiungere?
    La pervicavia ossessiva dell'armata brancaleone a palazzo chigi, fa spavento.
    Sarà, l'attuale classe politica, ricordata come uno dei più colossali fallimenti della storia del nostro paese.

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    1. @Gianni Ciardiello

      Aspetta a parlare di fallimento di questa classe politica perchè essa prima di ammettere che ha fallito, e mai lo ammetterà, cercherà di piegare la realtà alle sue paturnie.
      Quando il paese tutto sarà in miseria ed i cadaveri si conteranno a migliaia allora si parlerà di fallimento ma solo perchè la si é spazzata via.

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  3. Standing ovation! Corro a comprare il suo libro!

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    1. "Corro a comprare il suo libro!"

      Ottima idea, Enrico, "Anschluss" è un libro davvero spettacolare.
      Ma c'è un "problema": se dopo averlo letto, cerchi di divulgarne il contenuto, preparati perchè ti guardano come un pazzo :)

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  4. Farei un'osservazione prendendo come acquisite le analisi fattuali di Giacchè: a questo punto, visto e considerato che una parte importante della popolazione italiana è stata grecizzata dai mass media e non è in grado di prendere decisioni razionali e conseguentemente utili a se stessa, resta soltanto da aspettare che Renzi sia vittima di se stesso, come lo fu in parte Letta prima di capire intelligentemente che doveva rallentare con i tagli al bilancio e l'aumento della pressione fiscale, per evitare la fine dell'euro e la fine politica del suo partito.
    Voglio dire, ormai la deflazione e lo stato comatoso dell'economia italiana può solo tracollare a forza di continue dosi di tagli Cottarelli e precarizzazione Renziana in uno scenario di progressiva stagdeflazione.
    E' proprio la dinamica delle rigidità, quella nominale e quella vincolistica, ad imporre tale ineluttabile percorso di sottosviluppo che rende già oggi insostenibile non il debito pubblico in quanto superiore ad una certa soglia ma qualsiasi debito pubblico e privato, in quanto il debitore non è solvibile per cause strutturali a lui non imputabili.
    Io dico, con Zingales, massimo un anno e pochi mesi e poi anche Renzi, se ha testa, inizierà a galleggiare e a fare finta di riformare, utilizzando il lessico della neolingua dittatoriale in voga.

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