07/12/13

NYT: L'americanizzazione delle politiche del lavoro si diffonde in Europa

Un articolo del New York Times spiega il metodo e la finalità della perversa trasformazione economica e sociale che si sta imponendo ad un'Europa intrappolata nel vincolo del cambio fisso: la distruzione delle tutele dei lavoratori e un ulteriore aumento delle disuguaglianze sociali.
(Sorpresi? Ovviamente no. Che non potendo svalutare la moneta si svaluti il lavoro ve l'hanno detto perfino i rappresentanti del PD: ricordate Fassina? e poche settimane fa anche Cuperlo - sentitelo al minuto 7.45!)

Proteste sindacali a Lisbona lo scorso mese con dei cartelli con su scritto “Governo vattene”.
Francisco Seco / Associated Press.

di Eduardo Porter 3 dicembre 2013

Nel 2008, 1,9 milioni di lavoratori portoghesi nel settore privato erano coperti da contratti di lavoro collettivi. Lo scorso anno il numero era sceso a trecentomila.

La Spagna ha allentato le restrizioni sui licenziamenti collettivi e sui licenziamenti ingiusti, ed ha ridotto i limiti all’estensione del lavoro interinale, permettendo che i lavoratori vengano tenuti con contratti a termine fino a quattro anni. L’Irlanda e il Portogallo hanno congelato il salario minimo, mentre la Grecia lo ha tagliato di quasi un quarto. Tutto ciò è noto in Europa come “svalutazione interna”.

Vincolati all’euro e perciò impossibilitati a svalutare la moneta per rendere i propri prodotti meno costosi sui mercati esteri, molti paesi europei – soprattutto quelli della costa meridionale del Continente, che sono stati martellati dalla crisi finanziaria – hanno cominciato un furioso smantellamento delle tutele lavorative nel tentativo di ridurre il costo del lavoro.


La logica – propugnata con forza dal governo tedesco di Angela Merkel, dalla Commissione Europea, e in modo un po’ meno entusiastico dal Fondo Monetario Internazionale – è che questa sia la sola strategia possibile per ripristinare la competitività, far crescere l’occupazione e recuperare la solvibilità.
Queste mosse politiche stanno cambiando radicalmente la natura della società in Europa.

“La rapidità del cambiamento è stata certamente molto elevata,” dice Raymond Torres, il capo economista dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (O.I.L.), a Ginevra. “Per quanto posso dire, si tratta dei cambiamenti più significativi dalla Seconda Guerra Mondiale ad oggi.”

Mentre molto del dibattito sulla reazione data dall’Europa alla crisi finanziaria riguarda l’austerità di bilancio che avviluppa il continente, l’erosione delle tutele dei lavoratori, al confronto molto meno sbandierata, sembra destinata ad avere un altrettanto grande e duraturo impatto sul patto sociale in Europa.

“Ha un effetto disastroso sulla coesione sociale e un enorme effetto sulla disuguaglianza,” argomenta Jean-Paul Fitoussi, professore di economia all’Institut d’Études Politiques di Parigi. “Il benessere è crollato in tutta Europa. Un sintomo è la crescita dei partiti politici estremisti".

La strategia europea offre una verifica del ruolo giocato dalle istituzioni del mercato del lavoro – dai sindacati al salario minimo – nel moderare l’impennata delle disuguaglianze nella distribuzione dei redditi che è diventata una delle caratteristiche distintive della nostra epoca.

Le disuguaglianze sono aumentate in gran parte d’Europa, ma sono ancora relativamente modeste rispetto all’immenso divario dei redditi che c’è negli Stati Uniti.

La questione è se una relativa equità potrà continuare nel momento in cui le istituzioni del mercato del lavoro, che per decenni hanno protetto lo standard di vita dei lavoratori europei, lasceranno il passo ad un approccio meno regolato, in stile americano, dove il governo interferisce poco nel mercato del lavoro e le organizzazioni dei lavoratori hanno poca voce in capitolo.

L’evidenza finora suggerisce che la risposta sia no. Il crollo della sindacalizzazione in Portogallo “sta mandando in pezzi la distribuzione dei redditi,” dice David Card, un economista del lavoro dell’Università di California, Berkeley.

Forse la più chiara evidenza che la sperimentazione di questo nuovo percorso da parte dell’Europa sta portando ad un aggravamento della disuguaglianza viene dal paese che ha adottato tale strategia per primo e che emerge come un termine di paragone di successo: la Germania.

La trasformazione del mercato del lavoro in Germania è cominciata poco dopo la riunificazione, all’inizio degli anni ’90, quando le fabbriche nella parte Est del paese, meno produttive, si trovarono a non poter competere agli stessi livelli salariali offerti nella parte Ovest, e disertarono in massa gli accordi di settore concordati tra le associazioni di categoria e i grandi sindacati. Le aziende della Germania Ovest adottarono ben presto la stessa strategia. La proporzione di lavoratori coperti da contratti collettivi di lavoro crollò.

All’inizio degli anni 2000 – quando una Germania zoppicante aveva l’appellativo di “malato d’Europa" – gli sforzi per migliorare la competitività e l’occupazione erosero ulteriormente le tutele dei lavoratori, alimentando un boom di lavori sottopagati e a termine, i “mini-job”, che oggi compongono oltre un quinto dell’occupazione in Germania.

Oggi la Germania viene vista come un fulgido esempio di virtù di questo sforzo di fare le riforme. È una potenza esportatrice con un tasso di disoccupazione che secondo l’agenzia statistica Europea, l’Eurostat, è del 5,2 percento: l’invidia del mondo occidentale. Ma ad un esame più attento diventa chiaro che non tutti i tedeschi hanno beneficiato del successo della Germania.

Nel 1991, il 10 percento dei tedeschi più ricchi prendeva il 26 percento del reddito del paese al lordo di imposte e trasferimenti, secondo un report di Kai Daniel Schmid e Ulrike Stein del Macroeconomic Policy Institute di Düsseldorf, che è molto vicino alla Confederazione dei sindacati tedeschi. Nel 2010 la percentuale era salita al 31 percento.

Nello stesso periodo di tempo, la fetta di reddito nazionale preso dalla metà inferiore della popolazione era sceso dal 22 al 17 percento.

Come nota il professor Card, l’allargamento del divario dei redditi tra gli uomini tedeschi nel periodo 1996–2009 è grossomodo pari a quello che ci fu negli Stati Uniti durante gli anni ’80 – uno dei periodi di più rapida crescita delle disuguaglianze nella distribuzione dei redditi dalla fine dell’Età d’Oro [“Gilded Age” nell’originale, indica un periodo di grande speculazione finanziaria tra la fine dell'Ottocento e la prima parte del Novecento, ndt].

E sebbene le disuguaglianze in Germania si siano in qualche misura ridotte negli ultimi due anni poiché il numero dei lavori part-time a basso salario si è stabilizzato, esse rimangono comunque molto maggiori rispetto a un decennio fa.

Se la strategia tedesca sarà di qualche utilità oggi per i paesi europei in difficoltà è oggetto di accesi dibattiti. L’export tedesco è decollato, ma la domanda interna è debole, una diretta conseguenza, dicono le voci critiche, delle minori retribuzioni. Quindi ci è voluto molto tempo perché gli sforzi producessero posti di lavoro.

Per di più, la ripresa tedesca si era affidata ad una economia globale in rapida crescita che aveva fame del suo export. Il mondo è diverso oggi. “La domanda proveniente dall’Asia era molto più importante dei mini-job,” afferma il signor Torres, dell’O.I.L.

Ma c’è un’altra questione in campo. Anche se la strategia dovesse alla fine aumentare l’occupazione, cosa altro farà all’Europa?

Andrew Watt, un economista che guida il Macroeconomic Policy Institute in Germania, teme che una spinta alla deregolamentazione del mercato del lavoro possa avere un effetto a cascata da un paese debole all’altro, nel momento in cui tutti si impegnino in una futile corsa a contendersi quote di mercato in un mondo in cui la domanda è insufficiente. “Qualsiasi paese si trovi ad essere il più debole in un dato momento sarebbe costretto a pesanti tagli. Prima la Germania, ora la Spagna, presto la Francia,” dice.

“Sono preoccupato dei costi nel lungo termine,” dice il signor Watt. “È difficile ricostruire una contrattazione collettiva e le strutture dello Stato sociale una volta che sono state distrutte.”

Lowell Turner, alla guida del Worker Institute all’Università di Cornell, sostiene che c’è sempre stata una tensione tra il progetto economico dell’Unione Europea – centrato sulla creazione di un grande mercato unico – e il radicato impegno del continente europeo verso l’equità sociale. La crisi ha spostato l'ago della bilancia. “Per uno o due anni i governi hanno protetto i loro lavoratori,” dice. Ma “l’equilibrio si è rotto a svantaggio dell’Europa sociale.”

Ci sono segni di cambiamento, tuttavia. Le elezioni tedesche di quest’anno hanno costretto l’Unione dei Cristiano-Democratici della cancelliera Merkel a stare in coalizione con il Partito Socialdemocratico. Una parte del patto per la formazione del governo include l’introduzione in Germania del salario minimo, fissato a 8,5 euro per ora, circa 11,5 dollari.

L’aumento dei salari tedeschi più bassi potrebbe aiutare in qualche misura gli altri paesi europei, espandendo la domanda tedesca dei loro prodotti. È forse troppo ottimistico, comunque, immaginare che Berlino possa salutare favorevolmente simili politiche per i suoi vicini, più deboli e più poveri.

Piuttosto, il mercato del lavoro nell’Europa meridionale sembra destinato a seguire sempre di più la via americana. “Questo è infatti un modo per rendere l’Europa molto più simile agli Stati Uniti,” dice il signor Watt. “Con tutto il rispetto, non è questo che la maggior parte degli Europei vuole.”

Email: eporter@nytimes.com; Twitter: @portereduardo

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