Il Financial Times conferma in sordina che gli investimenti esteri non sono quella panacea da ricercare ed esibire come un trofeo da Champions League, ma tutt'altro, rappresentano una passività che deve essere rimborsata (il grassetto è nostro). Qui una voce dall'Italia che lo spiega molto efficacemente.
Se c'è
un argomento su cui i politici di tutto il mondo sembrano essere
d'accordo, è che gli investimenti esteri diretti sono
una buona cosa.
Le tabelle annuali degli investimenti diretti esteri (IDE) sono viste dai governi come i tifosi di calcio trattano la classifica nella Premier League, con i paesi nel gruppo di testa che esultano e quelli in zona retrocessione che sorvolano.
Non c'è dubbio che gli IDE possano essere positivi: possono aumentare la capacità produttiva di un'economia e non importare solo capitali, ma tecnologia, processi produttivi e una migliore gestione. La Cina, che non solo ha accolto gli IDE ma ha visto una forte concorrenza tra le diverse province per attirarli, si erge come un fulgido esempio.
Come il colesterolo buono contro il colesterolo cattivo, gli IDE sono anche più stabili degli investimenti finanziari di portafoglio e dei prestiti bancari, che hanno la pessima abitudine di dirottarsi altrove molto rapidamente durante una crisi. Un governo la cui economia ha un disavanzo delle partite correnti, ma attrae un sacco di IDE, può sostenere che il disavanzo rifletta più delle opportunità di investimento che il paese può così riuscire a finanziarsi, che un basso tasso di risparmio e consumi eccessivi.
I mercati
emergenti stanno ricevendo
una quota crescente di IDE, in ripresa dopo il crollo dovuto alla crisi finanziaria globale. Ma questo non è un puro
vantaggio. Gli
incentivi concessi
per attirare gli investimenti possono
essere costosi e
difficili da ritirare. E se gli investimenti hanno
più a che fare con l'acquisizione di quote di mercato e con l'ingegneria
finanziaria piuttosto che con l'aumento del capitale sociale, possono diminuire la
competitività delle imprese nazionali o lasciare i
paesi soggetti
ad arresti
improvvisi dei
flussi di capitale.
L'efficacia
e il vantaggio costi-benefici degli incentivi agli
IDE, come ad
esempio gli incentivi fiscali,
è stata a lungo messa in discussione. Se le aziende avessero
investito in ogni caso, sovvenzionarle
significa rinunciare a preziose
entrate fiscali per niente. Inoltre, privilegiare
un particolare insieme di imprese o un particolare settore può
introdurre distorsioni nell'economia.
Con le
aziende che usano ricorrere spesso alle
controversie legali,
si rischia che
gli incentivi, una volta dati,
non possano
essere ritirati
senza provocare denunce di espropriazione e di trattamento ingiusto e iniquo - anche
se le sovvenzioni sono disponibili per le società nazionali e quelle straniere
allo stesso modo. La Repubblica Ceca, ad
esempio, che ha seguito la
tendenza globale favorendo gli investimenti in tecnologia solare, è
stata investita
da una raffica di arbitrati
tra investitori e
Stato ai sensi del Energy Charter Treaty, dopo che ha imposto un
onere fiscale retroattivo sui profitti delle aziende solari.
Più in
generale, i benefici degli IDE sembrano dipendere da se
rappresentano fusioni e acquisizioni (M & A) o investimenti
"greenfield" (impianto di nuove
attività produtive, ndt), e dallo scopo dell'investimento.
In teoria, le M & A possono aiutare l'economia di destinazione migliorando la gestione e la redditività (e quindi la base imponibile locale), con possibili ripercussioni positive sul resto dell'economia. In pratica, è noto da tempo che i benefici sulla crescita degli investimenti M & A sono modesti, se mai esistono davvero. Se una società straniera investe esclusivamente per guadagnare quote di mercato, e se rimpatria gli utili alla società controllante, l'impatto sull'economia che riceve gli investimenti risulta spuntato. E sembra anche dimostrato che, nella misura in cui il denaro entra nel paese e vi rimane, va a peggiorare la competitività internazionale delle imprese esistenti apprezzando il tasso di cambio reale.
Spesso le
aziende fanno investimenti di breve durata
– usando le
filiali per
prendere in prestito sui mercati dei capitali locali e rigirando
il prestito alla società controllante. Questo va
ad aggiungersi
all'indebitamento del settore privato e
sono capitali che
rischiano di
fuoriuscire rapidamente in caso di crisi finanziaria, agendo più
come investimenti di
portafoglio che non come IDE
comunemente intesi.
Dovremmo stare attenti a non esagerare i rischi: non ci sono spie rosse lampeggianti. Per i mercati emergenti, la quota degli investimenti greenfield sul totale degli IDE è superiore al 70 per cento ed è cambiata poco nel corso delle crisi (qui i dati). Eppure la quota crescente di investimenti verso i paesi emergenti - dal 36 per cento del 2007 al 54 per cento del 2013 - significa che la stabilità degli IDE è sempre più un problema. Gli economisti delle Nazioni Unite dicono che gli IDE rappresentano ora la più grande passività estera nelle economie in via di sviluppo.
Questo dovrebbe riguardare in particolare i paesi in deficit come il Brasile e la Turchia che hanno fatto affidamento sugli IDE per finanziare le loro partite correnti. In America Latina, il reddito generato e rimpatriato dallo stock esistente di investimenti diretti esteri è quasi pari ai nuovi afflussi di IDE, il che significa che le multinazionali non compensano più il disavanzo delle partite correnti.
Con i
mercati emergenti che rappresentano
una quota maggiore dell'economia mondiale, non sorprende che si
stiano facendo
una grande
scorpacciata di
IDE. Eppure, come parte dei loro
preparativi per il potenziale deflusso di capitali, come la Federal
Reserve continua a ritirare gli
stimoli, i
politici farebbero bene a ricordare che gli IDE sono una passività
che, in un modo o nell'altro, deve essere rimborsata.
Gli IDE possono
essere uno strumento utile, ma non sono una
base su cui l'economia possa
contare ciecamente.
del resto tra sgravi e finanziamenti vari le multinazionali che investono si trovano oggi ad avere impatti reali della tassazione enormemente enormemente inferiori a quelli delle PMI (che almeno possono evadere qualcosa) e del lavoro dipendente.
RispondiEliminasi è davvero tutto trasformato in un gigantesco robin hood al contrario. i popoli oppressi da regimi fiscali a livello da esproprio, forzati a lavorare per pochi spiccioli se non disoccupati, per ripagare debiti creati ad arte per spostare ricchezza dal basso all'alto.
è un periodo molto buio per l'uomo. molto buio. le analogie storiche sono da far gelare il sangue. c'è davvero il caso che si vada incontro a un collasso occidentale, ma anche mondiale, da cui serviranno generazioni per riprendersi.
TRovo che l'articolo abbia il merito di mettere il dito su una vera e propria "piaga", dovuta null'altro dalla non conoscenza "deliberatamene voluta, della serie o ci sono o ci fanno" nella quale omettono di dire che uno stato vero, non ha bisogno di fondi esteri, questa è una pura idiozia del pensiero unico.
RispondiEliminaA parte questo, vorrei ricordare che i soldi per la crescita, non si debbono andare a cercare fuori... lo stato può emette soldi fin che vuole, salvo l'ovvietà "mica tanto" che tali fondi vadano a buon fine. Nel caso sopra indicato, è ovvio che le stesse li utilizzino per fare mercato alle spalle del popolo e degli stati, con l'ovvia compiacenza dei nostri no anzi "loro governanti".