Ringraziamo per la segnalazione Beppe Vandai.
di Patrick Kaczmarczyk, 24 febbraio 2017
Traduzione di Michele Paratico
Il protezionismo conduce alla guerra e alla stagnazione, il libero scambio inevitabilmente alla crescita. Questa storiella è un paradosso neoliberista da prima del 1913. Vale la pena dare un’occhiata più attenta alla storia.
Da quando Donald Trump è diventato presidente, ha cominciato a circolare la paura del protezionismo. Eminenti economisti attraverso i mass media ci mettono in guardia all’unisono contro le sventure che il protezionismo avrebbe già apportato all’umanità.
A questo proposito sempre più spesso si traccia un confronto con il periodo precedente alla prima guerra mondiale, che in letteratura notoriamente segna la fine della prima era della globalizzazione. Gabriel Felbermayr, dirigente dell’IFO - Institut für Wirtschaftsforschung (Istituto per la ricerca economica) di Monaco - sezione commercio estero, vede la fine della globalizzazione in arrivo già prima delle elezioni americane in novembre e fa risalire al crescente protezionismo la catastrofe della prima guerra mondiale (1914 – 1918) (vedi qui). Il messaggio è chiaro: appena limitiamo in qualche modo il libero scambio, questo ci porta al disastro economico.
Quando vengono effettuati confronti tanto arditi, vale la pena dare un’occhiata più approfondita alla storia, nel nostro caso allo sviluppo dell’economia mondiale nel 19° secolo. In questo modo due aspetti diventano particolarmente chiari: da una parte, alla tesi che il libero scambio porti a una maggiore crescita e il protezionismo alla catastrofe manca qualsiasi fondamento storico; dall’altra, la politica economica che fece emergere le nazioni industrializzate mostra con quale doppiezza si predica, nel mondo occidentale, la storia dei liberi mercati.
Commercio europeo nel periodo 1870 – 1913 (incluso il commercio intra-europeo)
- Wachstum = crescita
- Gewichteter Durchschnitt = media ponderata
- Rest der Welt = resto del mondo
Sebbene al commercio sia stato attribuito un sempre maggiore impatto sulla attesa crescente prosperità, è interessante però vedere che i flussi commerciali nel 1913 non si differenziano in maniera così marcata da quelli del 18° secolo. I paesi industrializzati occidentali (specialmente l’Europa occidentale e, alla fine del secolo, anche gli USA e il Giappone) esportavano soprattutto beni industriali, mentre il resto del mondo forniva prodotti agricoli per i lavoratori e materie prime per la produzione nei paesi industrializzati.
Le conseguenze di questi flussi commerciali furono pesanti. In primo luogo la dipendenza dalla esportazione di materie prime e la crescente importazione di prodotti industriali (specialmente tessili e abbigliamento) impedì nel Sud una propria industrializzazione. Per questo la distruzione dell’industria tessile indiana viene vista negli studi come il primo esempio di deindustrializzazione, ma anche in altre regioni, tra cui la Cina, l’America Latina e il Medio Oriente, si verificò un declino di importanti settori industriali. Complessivamente la quota di produzione mondiale di prodotti industriali dovuta ai paesi in via di sviluppo tra il 1860 e il 1913 scese da un terzo a un decimo.
Distribuzione percentuale nel mondo della produzione industriale
Una ulteriore conseguenza di questo sviluppo fu che la differenza di reddito tra il Nord industrializzato e il Sud esportatore di materie prime aumentò significativamente in questo periodo ( vedi figura in basso) – un processo che lo storico Kenneth Pommeranz ha definito “Great Divergence” (La grande divergenza) e che contribuì decisamente a porre le basi della situazione attuale di molti paesi poveri del Sud del mondo. Se il periodo precedente alla prima guerra mondiale viene visto come una prova che il libero scambio porta vantaggi a tutti i partecipanti, ci si può porre la domanda, allora come adesso, di chi si intenda con questi “tutti”.
PIL pro capite in alcuni paesi nel periodo 1820-1938
Fonte: Maddison (2001), WTO World Trade Report 2013 (p. 49)
Protezionismo nel bel mezzo del periodo d’oro del liberismo
La spinta liberalizzazione del commercio subì una importante battuta d’arresto dopo due decenni di accordi bilaterali, tanto che in Europa si delineò un crescente protezionismo. La problematica del libero commercio, dal quale in teoria alla fine tutti dovrebbero trarre vantaggi, si delineò già nel 19° secolo, quando la società si divise tra vincitori e sconfitti della globalizzazione. I primi furono principalmente i lavoratori delle città, in quanto i prezzi dei prodotti alimentari, grazie alla riduzione dei costi di trasporto, diminuirono significativamente. Così, in un periodo in cui la maggior parte del reddito doveva essere speso per i bisogni alimentari necessari per vivere, i redditi reali poterono salire del 43% (in Gran Bretagna) tra il 1870 e il 1913.
I perdenti invece furono principalmente i contadini che vivevano nelle campagne, poiché i prezzi dei prodotti agricoli calarono, a causa delle importazioni a prezzi bassi, e i loro redditi si ridussero significativamente. Sovvenzioni statali insufficienti e la politica deflazionistica dovuta al Gold Standard peggiorarono la situazione dei contadini. Come risposta alla crescente guerra dei prezzi e alla incombente depressione del 1870, i proprietari terrieri insieme a nuovi imprenditori emergenti dell’industria riuscirono a far accettare in vaste aree dell’Europa un più forte protezionismo, che è rimasto in vigore fino all’inizio della Prima guerra mondiale. L’impero austro-ungarico innalzò le tariffe doganali nel 1876, l’Italia seguì nel 1878 e la Germania si unì al trend nel 1879.
Anche dall’altra parte dell’Atlantico il forte sviluppo economico degli USA ebbe poco a che fare con il libero commercio. Dopo la vittoria degli stati del Nord nella guerra civile americana nel 1865, il governo cominciò a promuovere la propria economia attraverso interventi statali, con il suo programma di industrializzazione volto alla sostituzione delle importazioni (ISI, Import Substitution Industrialization). Negli anni dal 1866 al 1883 gli USA si trincerarono dietro a dazi doganali mediamente del 45% per l’importazione di prodotti industriali (i dazi inferiori furono del 25%, i superiori del 60%) e ottennero nonostante – o grazie a? – questa politica economica una crescita notevole e progressi tecnologici.
In questo contesto è ancora più incredibile che si associ il capitalismo anglosassone di oggi esattamente al contrario di ciò che ha posato la pietra angolare della prosperità degli USA.
Mentre tutti gli stati ricchi dal 1870 cominciarono a mettere così validamente in campo misure protezionistiche, fu imposta ai paesi in via di sviluppo, principalmente attraverso l’influsso coloniale, una radicale liberalizzazione dei mercati. Lo storico Paul Bairoch descrive in modo particolarmente efficace la situazione nell’anno 1913 con queste parole:
“Quando la politica commerciale fino al 1913 nel mondo industrializzato viene descritta come un’isola di liberismo, circondata da un mare di protezionismo, allora si dovrebbe caratterizzare al meglio il mondo industrializzato come oceano del liberismo con isole di protezionismo” (traduzione libera)
Questa situazione non risulta di certo sconosciuta oggi ad alcuni paesi in via di sviluppo, dove negli ultimi decenni al posto delle potenze coloniali sono stati i fondamentalisti del libero mercato del Fondo Monetario Internazionale o della Banca Mondiale ad imporre ai governi una politica economica neoliberista.
Tra gli studiosi c’è una dibattuta discussione su fino a che punto l’imperialismo del 19° e 20° secolo possa essere visto come inevitabile conseguenza dell’ordine mondiale capitalista. Alcuni, tra cui in particolare l’economista britannico John Atkinson Hobson, hanno sostenuto la tesi che l’espansione coloniale fosse l’inevitabile conseguenza della ricerca di nuovi mercati e luoghi di produzione più economici. Si contrappone a questa tesi l’opinione che motivi economici da soli non possano costituire una spiegazione sufficiente, visto che spesso solo una minima parte degli investimenti andò nelle colonie.
Nel caso dell’impero britannico le colonie britanniche nel loro insieme (escluse Australia, Canada e Nuova Zelanda) ottennero il 16,9% di tutti i crediti e investimenti, mentre gli USA da soli ottennero una quota del 20,5%. Alle colonie tedesche (2,6%) e francesi (8,9%) similmente fu destinata solo una insignificante quota degli investimenti e crediti esteri dalle loro rispettive potenze di occupazione e amministrazione.
Oltre a questo, il prestigio politico di uno stato che si fosse affermato come potenza coloniale ebbe senza dubbio una certa rilevanza.
Contraddizioni neoliberiste dai tempi della prima era della globalizzazione
In considerazione dei contesti visti finora, la tesi che la liberalizzazione del commercio obbligatoriamente porti a un commercio maggiore e maggiori crescita e prosperità pone due domande decisive.
In primo luogo, come è possibile che eminenti economisti si riferiscano al periodo antecedente alla Prima guerra mondiale per mostrare che il “libero scambio” è un elemento essenziale per la crescita economica?
In secondo luogo, su quale fondamento si poggia l’opinione che il protezionismo emergente negli anni settanta del 19° secolo sfociò nella catastrofe del 1914?
In particolar modo i neoliberisti dovrebbero essere di fronte a un mistero per quanto riguarda la crescita nella fase finale del 19° secolo. Da una parte abbiamo visto che “l’Epoca d’oro del liberismo” ebbe una componente protezionistica molto forte e che una grossa parte del commercio mondiale ebbe luogo solamente tra i paesi ricchi. Dall’altra abbiamo visto la forte divergenza di reddito tra il Nord e il Sud, benché il libero scambio avrebbe dovuto condurre invece a una convergenza.
In aggiunta, dovrebbe essere posta un'altra domanda, su come gli USA – dove invece furono imposti alti dazi doganali a protezione dell’industria nazionale – poterono svilupparsi così positivamente. Questo sviluppo non sarebbe per niente sorprendente, se lo si comparasse con la politica economica che ha portato la Cina e le “Tigri asiatiche” ad ottenere una forte crescita verso la fine del 20° secolo, sebbene la loro politica economica fosse diametralmente opposta al dogma neoliberista del libero scambio.
Ancora più chiara diventa la problematicità di una relazione di causalità nel fatto che il libero scambio porterebbe a più commercio e con ciò a maggiore crescita, osservando i dati di crescita in relazione alle rispettive politiche economiche predominanti (vedi figura in basso). Sorprendentemente, con un crescente protezionismo aumentarono sia la crescita economica sia l’export.
Troviamo lo stesso modello se confrontiamo il periodo durante il sistema di Bretton Woods (1950 – 1970 nella tabella) con la fase immediatamente seguente della liberalizzazione (1970 – 1990), fase in cui la crescita sia nei paesi industrializzati sia nei paesi in via di sviluppo raggiunge solo la metà rispetto al periodo precedente. Spesso come motivazione viene riportato il bisogno di recuperare che i paesi industrializzati ebbero dopo la Seconda guerra mondiale. Tuttavia di fronte alla condizione in cui si trovano oggi molti paesi in via di sviluppo e di fronte al bisogno enorme di recupero che la maggior parte dei paesi industrializzati ha nella formazione, nell’ecologia e nelle infrastrutture, a mio avviso l’argomento è insufficiente.
In ogni caso è chiaro che l’idea, che la liberalizzazione del commercio porti con sé necessariamente una crescita maggiore, non si lascia generalizzare. Questo concetto, specialmente in relazione al periodo precedente alla Prima guerra mondiale, rimane un’idea assurda della scuola neoliberista.
Tendenze della crescita economica 1830 – 1990
- Industriestaaten = paesi industrializzati
- Entwicklungsländer = paesi in via di sviluppo
- Welt insgesamt = totale mondiale
Molto più convincente sembra essere la tesi che il rapporto di causa-effetto vada nella direzione opposta: una maggiore crescita economica conduce a maggior commercio internazionale. Bairoch e Kozul-Wright corroborano questa linea di pensiero con gli sviluppi della seconda metà del 19° secolo. Nel periodo dal 1860 al 1879, quando il commercio era fortemente liberalizzato, sia la crescita della produzione sia l’export furono molto deboli. Invece durante la fase protezionistica immediatamente successiva il tasso di crescita della produzione aumentò di più del 100% e l’export aumentò del 35%.
Un’osservazione più ravvicinata dei singoli paesi chiarisce meglio questo concetto (vedi figura in basso). Con l’eccezione dell’Italia, ogni paese in seguito alla propria politica protezionistica vide una rapida crescita del reddito nazionale lordo. Anche il commercio, nella maggior parte dei casi, crebbe nel lungo periodo (20 anni), dopo un calo iniziale delle esportazioni nei primi dieci anni.
Quadro delle riforme della politica commerciale, export e crescita in alcuni paesi europei (*)
(*) tassi di crescita annuale basati sui valori medi di tre anni, media dei tre anni precedenti, incluso l’anno in cui è entrata in vigore la nuova politica commerciale.
- Datum des Politikwechsels = data del cambio di politica (commerciale, ndt).
- 10-Jahres-Zeitraum vor Einführung der protektionistischen Maßnahme = periodo decennale antecedente l’introduzione delle misure protezionistiche.
- Zeiträume nach Einführung der protektionistischen Maßnahme = periodi dopo l’introduzione delle misure protezionistiche.
- Erste 10 Jahre = primi dieci anni
- Folgende 10 Jahre = dieci anni successivi
- BSP (Bruttosozialprodukt) = prodotto nazionale lordo
Una distorsione dei fatti
L’argomento che il protezionismo prima del 1914 contribuì allo scoppio della Prima guerra mondiale non ha nessuna prova fondata. Da una parte le nazioni industrializzate già nel 1870 iniziarono ad adottare misure protezionistiche, dall’altra aumentarono, nel periodo seguente, sia la crescita economica che le esportazioni.
Al contrario, questa epoca chiarisce ciò che le ideologie neoliberiste non vogliono ammettere: che il “libero scambio” nel suo insieme ha arricchito solo pochi e che la crescita economica è possibile anche senza un radicale fondamentalismo del libero mercato. In effetti, considerando la storia, la difesa del libero scambio si mostra come un atto ipocrita. Coloro che oggi sostengono a gran voce il capitalismo anglosassone, gli USA e la Gran Bretagna, hanno essi stessi difeso all’inizio della loro industrializzazione le loro imprese e industrie attraverso alte tariffe doganali. Un simile attacco di amnesia storica lo ha avuto ultimamente anche il capo dello stato e del partito cinese Xi Jinping, che a Davos si è pronunciato fortemente contro il protezionismo (vedi: qui).
L’economista di Cambridge Ha-Joon Chang bolla giustamente questi modi di argomentare come “astorici”, poiché l’analisi del passato è stata rimossa grazie all’uso della matematica e a ipotesi assurde. Il fatto che “la maggior parte dei paesi benestanti, che attraverso una combinazione di protezionismo, sovvenzioni e altre misure di politica economica [sono diventati ricchi], […] sconsiglino ai paesi in via di sviluppo [esattamente queste misure]” viene descritto da Ha-Joon Chang come lo scalciare via la scala dopo essere saliti sull'albero.
Non si dimentichi che sono le attuali tariffe doganali e le sovvenzioni nel ricco Nord che rendono ancora più difficile per i paesi in via di sviluppo la commercializzazione dei loro prodotti.
Nell’insieme ci rimane da evidenziare che un certo protezionismo può essere molto utile per lo sviluppo economico di un paese, se applicato nel quadro di una intelligente strategia di politica commerciale, che corrisponda ogni volta al proprio stadio di sviluppo. E in effetti non solo per i paesi in via di sviluppo, ma anche per i principali paesi industrializzati possono esserci vantaggi derivanti da misure protezionistiche. Soprattutto quando si tratta di difendersi da vantaggi commerciali sleali di altri paesi.
Così, lentamente, si fa largo l’idea che il nocciolo del problema sia qui. In Germania non si vuole ancora ammettere che l’enorme avanzo della bilancia commerciale è stato ottenuto con metodi sleali e a carico dei paesi in disavanzo di bilancia commerciale. Perciò in Germania è ancora più facile che altrove condannare il protezionismo. Tuttavia, come abbiamo visto, il periodo antecedente il 1914 supporta con molta difficoltà le tesi di alcuni economisti e mass media tedeschi.
Non sarebbe più sensato che i noti opinion makers studiassero più attentamente le conseguenze del mercantilismo? È così difficile riconoscere quale logica seguono la politica economica e la politica commerciale tedesche?
"The ordinary means […] to encrease our wealth and treasure is by Forraign Trade, wherein wee must ever observe this rule; to sell more to strangers yearly than wee consume of theirs in value."
“I mezzi normali […] per la crescita della nostra prosperità e del nostro patrimonio sono il commercio con l’estero, dove dobbiamo sempre osservare queste regole: ogni anno dobbiamo vendere agli stranieri più della merce estera che consumiamo.”
Questa frase non è della Merkel o di Schäuble, come si può cogliere immediatamente dal modo di esprimersi.antiquato. Tanto meno è un estratto del programma della Troika, che ha propugnato questa politica nelle sue “riforme” per aumentare la “competitività” dell’Europa. Questa “strategia” di politica economica venne fissata da Thomas Mun, uno degli ex-direttori della Compagnia delle Indie Orientali, nella sua opera “Il patrimonio dell’Inghilterra attraverso il commercio estero”, nel 1664.
Da questo si può riconoscere quanto poco progredito sia l’atteggiamento mentale di alcuni politici, mass media e studiosi di oggi.
Bibliografia
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WTO (2013) World Trade Report – Factors Shaping the Future of World Trade.
Avevo letto il libro di Ha-Joon Chang 'le 23 cose che non ti dicono sul capitalismo'.
RispondiEliminaLibro semplice e un po' generico (dopo aver letto libri come quelli di Bagnai). Però interessante per iniziare.
Interessante l'articolo del prof. Denayer su FlassbeckEconomics:
RispondiEliminahttp://www.flassbeck-economics.com/sixty-years-of-europe-the-emu-crisis-the-brexit-and-the-prime-proposal-to-reform-the-european-institutions/