Continua la seconda parte del pezzo mandato da Nicola, tratto dal n.16 della Rivista Indipendenza.org, dove si spiegano con la stessa chiarezza gli strumenti del dominio finanzario: i rating, le cartolarizzazioni, i derivati.
Fondo Monetario Internazionale ed Unione Europea. Significative analogie
La questione dell’indebitamento verso l’estero non concerne solo gli acquisti di titoli di Stato. Al fine di rispettare i vincoli del Patto di stabilità, che restringono fortemente il ricorso all’indebitamento pubblico interno e vietano i finanziamenti monetari della Banca Centrale, lo Stato è tra l’altro spinto a tagliare i trasferimenti agli Enti Territoriali. I quali, bisognosi di fondi, si stanno pesantemente indebitando verso banche d’affari e fondi d’investimento esteri. Lo Stato stesso ricorre al contempo ad operazioni finanziarie (esempio: le cartolarizzazioni) verso tali istituti finanziari, anch’essi generatori di un non palese ma altrettanto pericoloso indebitamento.
Oltre all’indebitamento pubblico verso l’estero, aumenta quello privato: il caso Parmalat, il primo grande gruppo italiano a ricorrere ai servizi delle banche d’affari statunitensi, rappresenta un monito per le stesse parassitarie grandi famiglie. Stato e grandi imprese si stanno avvitando insomma in una spirale debitoria i cui effetti non si sono ancora pienamente dispiegati. Il baratro davanti cui si trova la collettività di questo paese, in futuro chiamata come in Argentina alla socializzazione selvaggia dei costi di tali politiche, non è ancora percepito. Così come non si è presa coscienza delle conseguenze derivanti dal processo d’unificazione europea, analoghe a quelle scaturenti dai cosiddetti programmi di aggiustamento strutturale del Fondo Monetario Internazionale (FMI) negli Stati ad esempio dell’America Latina o del Sud-Est asiatico. Programmi con cui tali Stati, costretti ad accedere ai prestiti-usurai dell’FMI, si sono visti rimodellare gli elementi portanti del proprio sistema economico.
Molte delle condizioni politico/economiche che il FMI –istituto fattivamente operante nel quadro degli interessi statunitensi– ha imposto lì con tali programmi, sono veicolate qui dal processo d’unificazione europea: l’imposizione di vincoli sul disavanzo di bilancio (comportanti anche il taglio degli investimenti pubblici, l’abolizione dei sussidi e delle sovvenzioni per le imprese statali e lo smantellamento dello Stato sociale); l’abolizione di controlli di Stato sull’economia; la liberalizzazione dei movimenti dei capitali finanziari privati; “l’indipendenza” della Banca Centrale dalle autorità politiche; le privatizzazioni dei servizi pubblici e dei settori strategici; la deregolamentazione di prezzi e tariffe; la libertà d’azione per le grandi multinazionali industriali e finanziarie estere. In due parole, lo smantellamento di pezzi decisivi di sovranità economica e finanziaria. Tali programmi, ricordiamo, hanno infine accresciuto il debito estero dei malcapitati Stati e peggiorato drasticamente le condizioni di vita delle rispettive popolazioni, che hanno tra l’altro assistito ad un rilevante aumento del costo della vita.
Analoghe conseguenze si stanno registrando negli Stati membri dell’Unione Europea, in particolar modo in Italia. Dietro il principio della “stabilità dei prezzi” (uno dei cardini del Trattato di Maastricht), si sono esautorati gli Stati membri dal potere di regolare la propria liquidità interna. La politica monetaria, così come quella del cambio, è stata ceduta alla Banca Centrale Europea, cui le normative europee vietano qualsiasi forma di sostegno finanziario agli Stati; quella fiscale, invece, è compressa dai vincoli del Patto di stabilità. Priva di sovranità economica e finanziaria, ed avvitata in una spirale perversa di bassa crescita del PIL ed elevati disavanzi statali, l’Italia si ritrova sempre più tra le braccia di istituti finanziari esteri a dominanza statunitensi.
Così come per i paesi sottoposti alle cure del FMI, il rischio sempre più concreto per il nostro paese è di finire invischiati in un meccanismo debitorio usuraio finalizzato, in ultima istanza, ad un’ulteriore accentuazione del controllo dell’Italia da parte di oligarchie economiche statunitensi. Ad un’attenta analisi, il sistema capitalistico statunitense nel suo complesso si rivela il vero beneficiario del processo di unificazione europea. L’indebolimento dei sistemi economici degli Stati membri e la loro immissione nel “mercato finanziario globale” rafforza la penetrazione di interessi capitalistici statunitensi, soprattutto delle sempre più presenti oligarchie finanziarie. Aggiunto allo smantellamento di pezzi rilevanti di sovranità economica e finanziaria, ed al meccanismo di subordinazione militare e di controllo politico ed economico della NATO, gli Stati Uniti stanno prevenendo a tutto campo l’emergere di un concorrente imperialista anche nel ‘Vecchio Continente’. Sarebbe ora di rendersi conto dei meccanismi di sudditanza indotti dall’unificazione europea, per spezzare catene imperialiste di qualsiasi provenienza, di diretta od interposta natura.
Rinazionalizzare la finanza
A partire dalla metà degli anni '80 gli Stati uniti si sono trovati di fronte alla seguente questione: come finanziare il debito (estero e di bilancio) in assenza di risparmio nazionale? Semplicemente facendo venire il denaro dai paesi risparmiatori. Ovvero, all'epoca (come d'altronde ancora oggi), Giappone e Germania, a cui si è aggiunta ormai anche la Cina. La deregolamentazione finanziaria è dunque la risposta strategica consistente nell'impostare le strutture della circolazione internazionale dei capitali per esonerare l'economia americana dal dover completare il circuito risparmio-investimento all'interno del proprio spazio nazionale.
Nelle relazioni tra debitori e creditori, le strutture dei mercati di capitali liberalizzati rovesciano i rapporti di forza a favore dei secondi. Prendere denaro in prestito sui mercati significa sottomettersi al loro verdetto. Dall'imposizione di tassi d'interesse i più bassi possibili alla sanzione di qualunque scostamento dal deficit di bilancio, passando per l'interdizione del suo finanziamento monetario e la santificazione del modello della banca centrale indipendente, è possibile farsi un'idea, anche solo superficiale, dell'ampiezza delle rinunce di politica economica determinate dal controllo dei mercati. Quelli che in condizioni di normalità sono dei vincoli, in una situazione di crisi si trasformano in incubi. Infatti, la diffidenza degli investitori si manifesta attraverso la vendita dei titoli del debito pubblico, il cui risultato è un aumento dei tassi d'interesse, ovvero del costo del finanziamento degli stati. Il supplemento di tensioni finanziarie che ne segue può arrivare fino all'imposizione di costi esorbitanti ai bilanci pubblici, come se ne stanno dolorosamente rendendo conto i greci. Le tensioni che si determinano intorno all'ipotesi di una crisi delle finanze pubbliche hanno l'effetto di condurre gli operatori in una direzione che manifesta tutte le caratteristiche della dottrina normalizzatrice dei mercati e che inasprisce l'adeguamento della politica economica - per capirlo è sufficiente guardare all'ampiezza dei sacrifici che gli investitori esigono a breve termine dalla Grecia in cambio di un'apparente ritorno alla calma... È proprio in questo frangente che il caso giapponese potrebbe fare scuola. Per affrancarsi dai creditori abusivi è necessario... cambiare creditori. Il Giappone ha avuto la saggezza di fare ciò, o piuttosto ha avuto il buonsenso di non compiere il primo passo, quello che ha gettato la maggior parte degli altri paesi tra gli artigli degli investitori a cui le strutture dei mercati deregolamentati hanno permesso di entrare nei mercati nazionali... dando loro un enorme potere di condizionamento rispetto alle politiche economiche degli stati. Contrariamente a quanto enunciato dall'ideologia della globalizzazione, che fa l'apologia della soppressione di tutte le frontiere (e specialmente di quelle che potrebbero ostacolare i movimenti di capitali) il caso giapponese, in materia di indebitamento dello stato, offre l'esempio di un'opzione non solo valida ma dotata di proprietà vantaggiose. Non si vuole qui sostenere che la soluzione giapponese offra una riposta infallibile, che permetterebbe ai debiti pubblici di essere finanziati in modo illimitato e al di fuori di qualunque vincolo - è possibile che anche il Giappone, con il suo debito al 200 % del Pil, possa incontrare qualche ostacolo imprevisto - , ma è doveroso almeno riconoscere a Tokyo il merito di avere portato un alto livello di debito pubblico in condizioni di eccellente stabilità. Il compimento di questa opera è stato possibile anche grazie ad una serie di condizioni (oltre al possesso locale del debito) che non vanno trascurate: in particolare, va sottolineato il lavoro coordinato dei poteri pubblici e degli istituti di risparmio. Attraverso un compromesso tipicamente giapponese, sistema bancario e casse pensioni sono effettivamente «state al gioco», orientando massicciamente i capitali delle famiglie verso l'acquisto di titoli del debito pubblico.
Derivati, rating, cartolarizzazioni: strumenti finanziari di dominio della finanza statunitense dai risvolti politici
“Globalizzazione” o americanizzazione capitalistica?
Attraverso il controllo del sistema finanziario, si detiene nelle proprie mani l’intero sistema produttivo di un paese. Se nel nostro paese andiamo a verificare chi suona le danze, emergerà la preminenza assunta da banche d’affari, agenzie di rating (valutazione solvibilità dei debiti) e fondi d’investimento statunitensi. Il controllo ha finalità politico-strategiche: finanziando figure amiche (vedasi il ruolo della banca d’affari statunitense Chase Manhattan, ora JP Morgan Chase, nelle scalate su Telecom) e direzionando gli investimenti in determinati settori, si concorre alla configurazione di una divisione internazionale della produzione a guida statunitense. In ultima istanza, si impedisce l’emergere di un serio competitore nei cruciali settori ad alto contenuto di innovazione di prodotto.
Focalizzare alcuni strumenti finanziari (derivati, rating, cartolarizzazioni) concepiti e perfezionati negli Stati Uniti ed attraverso i quali le oligarchie finanziarie di quel paese tengono sempre più sotto scacco Stati ed imprese.
Le finalità speculative dei derivati
È risaputo che i flussi finanziari sono diventati esponenzialmente superiori ai movimenti commerciali di beni e servizi. Tale massa monetaria, esponenzialmente superiore a quella controllata dalle banche centrali (banconote emesse e credito concesso dalle banche, quelle che gli economisti denominano masse monetarie M1 ed M2), è costituita prevalentemente dai derivati, i principali dei quali sono i futures [Ad esempio, se ritengo che il prezzo delle banane in futuro salirà, con un contratto a termine derivato (il cui prezzo cioè “deriva” da quello del bene o dell’attività di riferimento) denominato future, mi impegno oggi ad acquistare tra un anno un chilo di banane al prezzo di 100 lire, versando solamente una cauzione di 10 lire. Se dopo sei mesi il suo prezzo sale a 130 lire, vendendo il contratto guadagnerò 30 lire e rientrerò in possesso delle 10 precedentemente versate, che avranno così fruttato il 300%], le options e gli swaps.
I derivati sono contratti a termine con cui i contraenti si impegnano, ad una data prefissata, ad effettuare un’operazione di scambio a condizioni (prezzo, quantità) stabilite al momento della stipula. Il termine “derivato” sta a significare che la quotazione di tale contratto “deriva”, cioè dipende, dall’andamento del bene o dell’attività finanziaria o reale di riferimento.
In ambito finanziario, i derivati sono definiti “strumenti di copertura del rischio”, vale a dire mezzi di protezione dal rischio di perdite dovute ad indesiderate variazioni delle quotazioni di merci, tassi di cambio e d’interesse, eccetera, sui “mercati finanziari”. Nella pratica, tali strumenti sono prevalentemente adoperati per operazioni speculative, soprattutto perché per l’acquisto di taluni contratti è sufficiente versare solo una piccola somma cauzionale, rappresentativa però di cifre ben più elevate. Tali strumenti permettono dunque di acquistare o vendere beni, attività finanziarie, eccetera, per un ammontare ben superiore al capitale posseduto, e basta una piccola variazione del prezzo del bene in oggetto per generare ampi guadagni o perdite in percentuale al capitale investito.
L’economista Susan Strange li ha perciò definiti “strumenti da casinò”. A differenza però che nella roulette, il giocatore/grande investitore istituzionale, in possesso d’ingenti capitali, è in grado di condizionare il risultato desiderato. Ipotizziamo la stipula di un future, con cui, ad una data prefissata, ci si impegna ad acquistare una determinata quantità di azioni, stabilendo immediatamente il prezzo che verrà pagato al momento del contratto. Puntando sull’ascesa delle quotazioni, grandi istituti finanziari, acquistando tale azioni, possono far salire i loro corsi. Eccezionali i guadagni realizzabili sia con il normale acquisto di titoli, sia con i derivati, una volta che si è verificato l’aumento su cui si è scommesso.
Che cos’è la cartolarizzazione
Tra le misure governative volte al reperimento di capitali, attenzione particolare merita la tecnica finanziaria della cartolarizzazione –traduzione italiana del termine inglese securitization–, un portato di quell’americanizzazione che tanto sta cambiando lo stesso volto del capitalismo italiano. Uno strumento che, indotto dalle rigidità del patto di stabilità, ha fatto la sua comparsa pure sui bilanci di Austria, Grecia, Irlanda, Portogallo. Per l’Italia, finita l’epoca del debito pubblico ‘facile’, i fondi occorre procurarseli –pagandoli, come vedremo più avanti a caro prezzo– presso banche e fondi d’investimento in prevalenza esteri.
La cartolarizzazione consiste nella cessione di attività finanziarie (ad esempio un credito, ma anche attività altrimenti non negoziabili come il diritto a ricevere ricavi futuri) o di attività reali (come un immobile) ad apposite società veicolo, che le “trasformeranno” in garanzia per l’emissione di “carta”, cioè di titoli obbligazionari da collocare presso istituzioni finanziarie varie. Obbligazioni che le società veicolo dovrebbero poi remunerare e rimborsare con i proventi derivanti esclusivamente dalle attività ricevute, considerato che il proprio patrimonio, peraltro risibile, è esentato per legge a risponderne.
Il meccanismo delle cartolarizzazioni
L’americanizzazione del sistema finanziario italiano si estrinseca pure nell’importazione di tecniche finanziarie come la cartolarizzazione. Essa consiste nella cessione di immobili o attività finanziarie di vario genere ad una apposita società veicolo. Questa, sulla base di tali attività, emetterà obbligazioni: in gergo finanziario, il passaggio appena menzionato viene chiamato “trasformazione” delle attività ricevute in titoli (“carta”, da cui, appunto, cartolarizzazione). Gli acquirenti delle obbligazioni emesse dalla società veicolo saranno poi “remunerati e rimborsati” con i proventi derivanti esclusivamente dalla vendita o gestione delle attività ricevute.
Le cartolarizzazioni di Stato in Italia sono state inaugurate dal centrosinistra –nel 1998 crediti Sace [istituto statale per i servizi assicurativi del commercio estero, nato allo scopo di garantire (con soldi pubblici) le imprese italiane da tutti i rischi connessi a commesse all’estero o esportazioni], Inps ed Inail rispettivamente nel 1999 e nel 2000– ed hanno conosciuto una notevole espansione sotto il centrodestra. La dismissione del patrimonio immobiliare degli enti previdenziali, innanzitutto, con le operazioni Scip 1 –che Tremonti ha più volte affermato di «aver trovato nella finanziaria» predisposta dal governo di centrosinistra Amato– e Scip 2; in preparazione Scip 3, con la quale saranno ceduti immobili demaniali e del ministero della Difesa. Ma non solo: il centrodestra ha “cartolarizzato” pure i “ricavi attesi futuri” di Lotto ed Enalotto, i mutui della Cassa depositi e prestiti e persino i prestiti che l’Inpdap (l’ente di previdenza dei dipendenti pubblici) ha concesso ai dipendenti.
Effetti sulla collettività e meccanismo di funzionamento delle cartolarizzazioni sono ben resi dalla vicenda Scip 2. Ultimo significativo evento, il decreto varato in aprile sotto dettatura della Standard and Poor’s, che minacciava altrimenti una revisione del rating italiano.
Spieghiamo intanto cosa sia Scip 2. La Scip 2 è la società veicolo di “una delle più grandi dismissioni immobiliari mai effettuata al mondo”: dismissioni che riguardano un nutrito pacchetto di immobili degli enti previdenziali, acquistati con i contributi dei lavoratori al fine di garantire loro la pensione.
La società veicolo Scip 2, definita da Roberta Carlini (il Manifesto, 2 marzo 2004) una scatola vuota, un “tramite per la ricerca dei fondi, un veicolo che va in giro per i mercati, raccoglie soldi, anticipa e poi restituisce a vendita avvenuta”, ha acquistato in blocco immobili degli enti previdenziali. In cambio, ha girato al Tesoro un corrispettivo, ricavato dall’emissione di obbligazioni collocate sul “mercato” dalle grandi banche d’affari estere. Tali obbligazioni verranno poi ripagate dalla “società veicolo” vendendo gli immobili.
Ricapitoliamo. Il Tesoro vuole vendere degli immobili, e cosa fa? Li cede in blocco ad una società costituitasi appositamente, la Scip 2 appunto, che in cambio “anticipa” al Tesoro una parte del valore “stimato” di vendita degli immobili. Come trova la Scip 2 tali fondi? Indebitandosi (emettendo obbligazioni) con investitori soprattutto esteri. Obbligazioni collocate con il determinante aiuto di grandi banche d’affari estere. Scip 2, a sua volta, rimborserebbe gli investitori, a scadenze prefissate, delle somme ricevute e dei relativi interessi vendendo gli immobili ricevuti dal Tesoro.
Ora spunta la sorpresa. Cosa succederebbe se Scip 2, non riuscendo a vendere gli immobili o a cederli ai prezzi sperati, non potesse rimborsare le obbligazioni? Il senso comune direbbe: affari suoi. Le leggi dell’americanizzazione finanziaria impongono invece che, a farsene carico, sia lo Stato.
Cartolarizzazioni ‘italiane’ (2002)
Al fine di ricevere denaro dalle grandi istituzioni finanziarie, estere in primis, Tremonti sta utilizzando –e prevede ancora di utilizzare– la tecnica della cartolarizzazione su tutto quanto risulti appetibile: gli immobili su tutti, ma non solo. Sono già stati trasformati in “carta” (titoli) la seconda riscossione dei crediti INPS, INAIL e SACE e le vendite future dei biglietti Lotto e Superenalotto (mandato assegnato a Bnl, IntesaBci, Citigroup e Ubs Warburg). Mentre è già partita la terza “tranche” dei crediti INPS (affidata ad Unicredit Banca mobiliare, Morgan Stanley ed Ubs Warburg), si parla di cartolarizzare le future riscossioni di tariffe e pedaggi, i biglietti dei musei ed addirittura il Trattamento di fine rapporto (cioè la liquidazione, ovverosia il salario differito dei lavoratori), al fine di alimentare i fondi pensione, che disporrebbero così di risorse da investire nelle privatizzazioni o in quant’altro, lasciando nel contempo il TFR nella disponibilità delle imprese.
Le cartolarizzazioni del centrosinistra
L’uso di tale tecnica finanziaria non è però un’esclusiva del centrodestra. Proprio il centrosinistra l’aveva ‘importata’ –disciplinandola con leggi come la 130/99 sulla cartolarizzazione dei crediti– ed usata a proposito dei crediti SACE nel 1998, nonché di quelli INPS nel 1999 ed INAIL nel 2000. Operazioni su cui si buttarono a capofitto soprattutto le più rinomate banche d’affari estere, cui venne ceduta, a prezzi di favore e al netto delle spese (e dei “costi della cartolarizzazione”), la riscossione di tali crediti. La prima cernita di quelli INPS (selezionati tra quelli considerati esigibili e lasciando all’ente il resto) e l’istituzione della relativa “società veicolo”, ad esempio, sono state affidate dall’allora Direttore generale del Tesoro Mario Draghi a Morgan Stanley, Warburg Dillon Read (oggi Ubs Warburg) e Banca Imi, il loro prezzo fissato da agenzie di rating (valutanti cioè il grado di solvibilità di crediti, ecc.) come Moody’s, ed il gruppo di banche Caboto-Gruppo Intesa, Merril Lynch e la francese Paribas incaricato del collocamento dei titoli e/o dell’erogazione di finanziamenti alla società veicolo.
Dietro l’assegnazione di incarichi dai nomi più svariati (advisor, arranger, lead manager, servicer, ecc.), si assiste sostanzialmente alla classica “spartizione della torta” delle commissioni tra il maggior numero di istituti finanziari, con conseguente lievitazione dei costi della cartolarizzazione, di per sé elevati a causa della complessità e quantità di operazioni da effettuare e soggetti coinvolti da remunerare.
Ecco, così, dei crediti trasformati in garanzia per l’emissione di titoli, soggetti ad agevolazioni ed esenzioni fiscali varie, e soprattutto garantiti dallo Stato. Il che sta a significare che, nel momento in cui la loro riscossione non dovesse andare a buon fine, sarà la collettività a farsi carico del capitale nominale, nonché degli interessi e dei costi delle emissioni obbligazionarie e delle riscossioni (da certuni stimate attorno al 50% del valore nominale dei crediti ceduti). Se a questo si aggiunge che tali titoli sono stati collocati in maggioranza tra gli investitori istituzionali stranieri, ciò significa che il credito di un ente dello Stato rischia di trasformarsi in un aumento del debito estero, ben più grave di quello pubblico. L’Argentina dovrebbe pur insegnare qualche cosa.
Il centrosinistra, tra l’altro, aveva già in cantiere di privatizzare gli immobili. Il decreto del Ministro del Tesoro del 27 marzo 2000 costituisce l’iter finale di un percorso che, prevedendo la vendita a privati di beni di interesse artistico e storico, nonché di beni del demanio naturale, capovolge il principio secondo cui detti beni sarebbero inalienabili. Nella stessa finanziaria per il 2001 erano previste, benché non effettuate, entrate derivanti da cessioni di immobili.
Dal centrosinistra al centrodestra: il passaggio del testimone
Il sinistro ed inquietante ‘tocco di genio’ del centrodestra sta nel fatto che, attraverso il decreto legge 351/2001, la procedura della cartolarizzazione viene usata –per la prima volta in Europa– per privatizzare beni immobili. I titoli emessi dalla società veicolo saranno dunque garantiti dal valore dei beni immobili destinati alla vendita. Un patrimonio pubblico di immobili residenziali e commerciali –case, magazzini, negozi, terreni, uffici– di proprietà di sette Enti previdenziali pubblici (ancora l’INPS e l’INAIL, ma anche l’ENPALS, l’INPDAI, l’INPDAP, l’IPOST e l’IPSEMA), dai già alti valori catastali e con valori di mercato passibili di ulteriori incrementi, si appresta ad essere riconvertito –si parla di ristrutturazioni o addirittura di abbattimenti e ricostruzioni– in alberghi, supermercati e quant’altro, per la gioia di banche, assicurazioni, fondi d’investimento ed immobiliari, ecc.
Per la cronaca, il mandato di organizzare la cartolarizzazione della prima “tranche” del patrimonio immobiliare è stato assegnato a Deutsche Bank, Caboto-IntesaBci, Lehman Brothers e Banca Imi, affiancate nel ben remunerato ruolo di advisor (consulenti) per la dismissione degli immobili dal consorzio G6, formato da Pirelli &C. Real Estate, Romeo Gestioni, Romeo immobiliare, Knight Frank, IntesaBci, e la società di revisione statunitense Arthur Andersen.
La “cordata” ha innanzitutto acquisito i beni immobili pattuendo un prezzo di gran lunga inferiore al loro valore di mercato, che gli esperti prevedono possa decuplicare in pochi anni. Parte di tale prezzo è stato “pagato” dalle banche capofila con la concessione di un prestito-ponte, al fine di consentire al Governo il rispetto dei vincoli del patto di stabilità.
Per il resto, invece, verranno utilizzati come “moneta” gli introiti della cartolarizzazione, cioè l’emissione di obbligazioni garantite dallo Stato che la “società veicolo” SCIP (Società Cartolarizzazione Immobili Pubblici) dall’ininfluente capitale minimo dovrà effettuare. Detto in altre parole, è come se Tizio cedesse a prezzi di saldo un immobile in cambio di denaro che lo spiantato Caio corrisponderà gradualmente tramite l’assunzione di debiti il cui buon esito è garantito sia dall’immobile “acquistato” sia da Tizio stesso. Potenza del capitalismo! Alzi la mano chi intenda vendere la propria casa alle medesime condizioni.
Senza contare le altre “agevolazioni” concesse dal decreto. Tra queste: le operazioni di cartolarizzazione andranno esenti dalle imposte di bollo, di registro, ipotecaria e catastale, indirette, nonché dall’imposta comunale sull’incremento di valore degli immobili (con ulteriori ripercussioni sulla spinta dei prezzi verso l’alto) e da ogni altro tributo o diritto; agli enti previdenziali cedenti saranno addossati costi e rischi legati alla manutenzione ordinaria e straordinaria degli immobili, “messa a norma” di impianti ed edifici, copertura assicurativa ed altro (ennesimo esempio di socializzazione dei costi e privatizzazione dei profitti); penalizzazioni per gli attuali inquilini, per cui il mancato rinnovo dei contratti di locazione porterà a breve allo sfratto di migliaia di famiglie.
Non deve poi ingannare il trattamento di favore concesso alle famiglie a basso reddito: dopo nove anni, non c’è nessuna garanzia che il contratto di locazione venga rinnovato alle precedenti condizioni. Si progetta dunque lo svuotamento dei centri storici di città come Roma e Milano dalla gente che vi risiede per trasformarli in luoghi destinati a supermercati o uffici o a qualsiasi altra destinazione d’uso che produca profitti. Perché altro utilizzo per gli immobili pubblici non sarà ammesso. Come si vede, da qualunque parte si osservi l’operazione, gli interessi collettivi sono il vero perdente. Se le società veicolo non riusciranno a ripagare le obbligazioni emesse con gli introiti del processo di dismissione, la collettività sarà chiamata a risponderne. In ogni caso, aumenti alle stelle di affitti e prezzi delle case sono assicurati.
Sotto la spada di Damocle delle agenzie di rating statunitensi
Il rating è definito in ambito finanziario come giudizio sulla capacità di un debitore-impresa o di uno Stato nel far fronte puntualmente al pagamento del capitale e degli interessi, relativi ad una determinata emissione di titoli. Espresso con una curiosa scala di valutazioni in lettere –tipo AAA, eccetera– si presenta come una mera opinione, dotata però di particolare autorità, sul grado di solvibilità finanziaria del soggetto in questione. Apparentemente. Nella pratica, le valutazioni dei debiti delle agenzie di rating si rivelano uno strumento di controllo politico su Stati ed imprese, per le finalità più recondite.
Le agenzie di rating (valutazione della solvibilità dei debiti) dominanti sono tre: le statunitensi Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch. Le origini di tali agenzie risalgono agli inizi del Novecento, ma è recente (primi anni Novanta) l’emissione di giudizi fuori dei confini degli States. Si è stimato che, mentre nel 1984 le agenzie di rating non avevano alcun analista fuori degli Stati Uniti, già nel 1993 ne disponevano di un centinaio negli Stati europei, in Giappone ed Australia. La quantità delle emissioni obbligazionarie –cioè prestiti– di Stati ed imprese scrutinate si sarebbe quintuplicato tra il 1993 ed il 1998. Come si spiega tale diffusione? Grazie alla stipula di accordi, recepiti tra le pieghe del processo di integrazione monetaria europea, come quelli di Basilea del 1988. Un’ulteriore diffusione del rating è prevista con l’entrata in vigore, tra qualche anno, dell’accordo Basilea 2, che fissa i nuovi requisiti che le banche devono detenere per poter erogare credito, requisiti fortemente penalizzanti, tra l’altro, per le piccole imprese di casa nostra.
La vicenda della riforma delle pensioni ha mostrato chiaramente quali pesanti condizionamenti tali agenzie possano esercitare. Konrad Reuss, direttore esecutivo della Standard & Poor’s, dichiarava lo scorso settembre all’agenzia di stampa Bloomberg che «il rating deve rimanere sotto una spada di Damocle» per spingere al varo di misure come questa ed altre desiderate dalle oligarchie finanziarie estere. Dichiarazioni accolte con allarme da politici ed imprenditori.
Un “declassamento” del rating potrebbe scatenare conseguenze di non poco conto: innanzitutto un aumento del costo delle emissioni di titoli dello Stato come BOT, BTP, eccetera, detenuti per il 50% da investitori esteri, con conseguente crescita della spesa per interessi e dunque del disavanzo annuale di bilancio. E non di poco, se consideriamo l’enorme quantità di titoli emessi a fronte del debito pubblico italiano.
I titoli statali non sarebbero inoltre gli unici a dover sborsare maggiori interessi. Il “declassamento” si ripercuoterebbe a cascata sul costo delle emissioni dei titoli obbligazionari delle imprese partecipate dallo Stato –tipo Eni, Enel, Finmeccanica, Patrimonio ed Infrastrutture Spa, eccetera– nonché degli enti territoriali. I precedenti non mancano. Pensiamo al “declassamento” dei titoli di Stato italiani sanzionato a più riprese da Moody’s negli anni 1992-93, quelli della svalutazione della lira che, guarda caso, rese la privatizzazione delle imprese di Stato molto più appetibile agli investitori esteri. Nel marzo 1993, addirittura l’allora Presidente Scalfaro chiese pubblicamente se Moody’s non intendesse «destabilizzare l’Italia».
Non bisogna dunque pensare che tali agenzie vestano i panni di “giudici indipendenti” e fidati del grado di solvibilità dei debitori. Ad avvalorare questa convinzione, non ci sono soltanto le ripetute dimostrazioni d’incapacità nel prevedere crisi finanziarie come quella Parmalat o della multinazionale statunitense Enron, quest’ultima giudicata, cinque giorni prima della dichiarazione formale di fallimento, impresa dotata di «capacità di rimborso solida ed adeguata». Lo mostra soprattutto il fatto decisivo che i loro giudizi negativi aggravano la situazione finanziaria dei malcapitati, chiudendo canali di finanziamento o innalzando, nel migliore dei casi, i costi delle emissioni di titoli. Si noti, inoltre, che i ricavi delle agenzie di rating derivano dalle commissioni pagate proprio dalle società giudicate, le quali peraltro forniscono le informazioni sulla cui base le agenzie di rating sentenziano. Insomma, quali argomentazioni di maggiore conoscenza sulla salute finanziaria dei debitori motivano il ricorso al rating? Come non vedere che la loro autorità deriva da ragioni politiche e trova la propria sponda nella forza dell’unico imperialismo esistente, quello statunitense?
L’indebitamento estero degli enti territoriali
Un esempio di come normative e vincoli europei favoriscano la sempre più pericolosa influenza di istituti finanziari statunitensi, è fornito dall’indebitamento degli enti territoriali. Negli ultimi anni si è registrato un vero e proprio boom delle emissioni obbligazionarie di tali enti. Secondo le stime della Standard & Poor’s, per oltre il 70% queste sarebbero state collocate all’estero.
Il fenomeno può essere brevemente spiegato così. Il contenimento della spesa pubblica, prescritto in particolare dal Patto di stabilità europeo, ha determinato la riduzione dei trasferimenti dello Stato centrale a regioni, province e comuni. Al contempo, lo scaricamento di competenze e responsabilità da parte dello Stato, senza corrispondente assistenza finanziaria, accresce la loro sete di risorse. L’aumento della pressione fiscale ed il taglio dei servizi non sono sufficienti. Per finanziare investimenti ed affari, gli enti territoriali emettono obbligazioni: politica del resto incoraggiata da normative di derivazione anche europea, che consentono loro il ricorso a tale strumento.
Ad emetterle, particolarmente attive, come rivela Enrico Cisnetto (Panorama, 23 gennaio 2004), le regioni. Sia quelle più ricche del Nord, che «hanno fatto programmi convinte che, con il federalismo fiscale, presto avrebbero potuto disporre di una quota maggiore delle entrate fiscali raccolte sul proprio territorio». Sia quelle più povere del Sud, che «s’indebitano invece per finanziare deficit cronici, sempre meno coperti dai trasferimenti statali, e sanno benissimo che, in caso di un federalismo fiscale “poco solidale”, sarebbero davvero ad un passo dal fallimento». Insomma, sullo sfondo dei vincoli del Patto di stabilità, ci sono tutte le premesse per un forte scontro tra “Nord” e “Sud” sull’accaparramento delle risorse necessarie a rimborsare la finanza estera.
Le obbligazioni emesse, in considerazione della scarsità di risorse interne, risultano infatti collocate prevalentemente all’estero: qui entrano ancora in gioco le agenzie di rating, la cui certificazione si rivela indispensabile per non incorrere nell’esclusione dal circuito dei prestiti esteri. Una certificazione in molti casi imprescindibile per reperire fondi anche al di fuori dei mercati obbligazionari: ad esempio, per incentivare gli insediamenti produttivi in loco di multinazionali od attrarre investimenti esteri nell’area nell’ambito del project financing, finanza di progetto.
I penalizzati dalle cartolarizzazioni
Provate a questo punto a mettervi nei panni dello Stato, e ad immaginare di vendere a tali condizioni un vostro immobile: comprenderete subito la razionalità economica con cui opera tale supposto “rappresentante della collettività”.
Provate a mettervi ora nei panni dei lavoratori, i cui contributi sono stati a suo tempo investiti in quegli immobili, e scoprirete che lo Stato vi ha espropriato dei vostri contributi per cartolarizzarli a fini speculativi.
Provate a mettervi invece in quelli degli enti previdenziali, che ricaveranno solamente qualche briciola da tutta l’operazione: e poi parlano di conti previdenziali in deficit.….
Provate ancora a mettervi in quelli della collettività nazionale, e scoprirete che se prima avevate un immobile tra l’attivo dei vostri beni, ora quest’immobile rischia seriamente di “cartolarizzarsi” in un debito estero, da saldare tagliando ulteriormente spesa sociale, trasferimenti agli enti Territoriali, eccetera. Senza contare le ripercussioni sulle quotazioni di mercato di immobili ed affitti. Per attrarre gli investitori e remunerare le banche d’affari, le “società veicolo” emettono infatti obbligazioni per interessi ed importi che incorporano prezzi di vendita degli immobili più alti di quelli esistenti al momento dell’emissione.
Provate a mettervi infine in quelli delle famiglie affittuarie di tali immobili, che dalla condizione di inquilini di un ente previdenziale –dunque affitti abbordabili e buone condizioni contrattuali– si ritrovano, se non hanno la possibilità di comprare l’immobile, gettati per strada alla ricerca di un contratto di locazione privato. Sempre più caro.
Patto di stabilità europeo e cartolarizzazioni
A questo punto, va data risposta ad un’ultima domanda: a parte i beneficiari privati, perché questo ampio ricorso alle cartolarizzazioni? Un ruolo fondamentale lo giocano i vincoli sul bilancio statale del Patto di stabilità europeo, che limitano fortemente il ricorso all’indebitamento pubblico e spingono a ricercare fonti alternative di finanziamento. Una strana concezione della “stabilità” hanno i tecnocrati dell’Unione Europea: questa sarebbe compromessa da un aumento dell’indebitamento pubblico, mentre non sarebbe messa in pericolo da un aumento di quello verso l’estero, che rischia di avviluppare il paese in una spirale tipo Argentina.
Da quanto argomentato sopra, emerge dunque che dietro gli esponenziali aumenti del prezzo di immobili ed affitti, un ruolo lo gioca anche il processo d’unificazione europea. Sono i vincoli del Patto di stabilità a gettare questo Stato, comunque compiacente, in pasto ai pescecani della finanza estera, in particolare statunitense. Sono proprio le normative europee ad avere spianato la strada per la sempre più diffusa americanizzazione finanziaria degli Stati membri e per l’importazione di tecniche su cui la finanza statunitense gioca fattivamente un ruolo dominante. Non è poi superfluo aggiungere che il quadro di liberalizzazioni e privatizzazioni imposto dalle normative europee, cui l’approvazione della Costituzione europea darebbe ulteriore suggello, disegnano un contesto sociale in cui tali speculazioni e privatizzazioni di profitti sono la normalità.
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