Sul suo sito, l’economista Jaques Sapir commenta il rimpasto del governo Valls. Valls ha deciso di inchinarsi alla Germania, perseguendo una politica miope e contraria agli interessi del proprio paese, oltre che molto diversa da quella promessa agli elettori dal PS. Sapir chiarisce che questa non è una scelta coraggiosa o volitiva, al contrario è una scelta rassegnata e di sottomissione alla forza egemone.
Il nuovo governo 'Valls-2' mette inquietudine, per diversi motivi. Il primo è che, lungi dal porre fine alla dilagante crisi politica che dura da diversi mesi, esso andrà invece ad esacerbarla. Non è cambiando ministri che si risolvono i problemi attuali.
Il nuovo governo Valls può avere una maggiore coerenza politica, ma riduce la base del governo alla testa di uno spillo. Certamente una testa di spillo è coerente, ma esistono basi politiche migliori... A meno che Valls non speri di rivolgersi a destra. Su questo punto, rischia di rimanere parecchio deluso. A meno di tre anni dalle prossime elezioni, non è chiaro perché membri dell’UMP o dell’UDI dovrebbero allearsi con un governo necessariamente impopolare, anche se alcuni potrebbero condividerne le politiche. Inoltre, questa ipotetica alleanza convaliderebbe l’ipotesi che non ci sia più differenza tra PS e UMP. Invece, la scelta era semplice: cambiare politica o tornare alle urne, al fine di ottenere un mandato popolare chiaro sugli orientamenti del governo che, ovviamente, non sono più quelli del 2012. Il Presidente e il suo Primo Ministro non hanno voluto fare né l’una né l’altra cosa. E vogliamo dire che questa è “decisione” e vogliamo vedere in questo governo un esempio di coraggio politico? Immagino che Clemenceau, con cui Manuel Valls piace confrontarsi, si sia rivoltato nella tomba.
Perché, dietro le prese di posizione e gli scatti di Manuel Valls, in realtà c’è, come sempre, il desiderio di mettere insieme capra e cavoli. Senonché è ben noto chi dei due mangerà l’altro. In realtà, questa attuale è una politica profondamente antidemocratica. È questa politica che Manuel Valls è andato ad applaudire alla scuola estiva MEDEF questo mercoledì 27 agosto. I francesi lo capiscono; e ci si può aspettare che non lo tollereranno. Questo governo rischia quindi di infilarsi in continue battaglie parlamentari, che potrebbero renderne inevitabili le dimissioni alla fine dell'inverno. Sarebbe stato meglio un chiarimento immediato. Le dichiarazioni di martedì alle 20.00 nel telegiornale di France 2 di Manuel Valls sono un altro motivo di preoccupazione. Ovviamente, questo signore ha una conoscenza limitata dell'economia e una conoscenza ancora più scarsa della politica estera.
Il debito pubblico e l’austerità.
Cominciamo prima con la questione dell'evoluzione del debito pubblico. Il rapporto che sta alla base della discussione è il debito/PIL. Le grandezze sono espresse in euro attuali. La crescita di questo rapporto (tecnicamente: la sua derivata…) si scrive Δ debito / Δ PIL. Il primo termine, Δ debito, è in realtà il deficit statale. Il secondo termine corrisponde alla crescita del PIL nominale, ossia alla crescita reale più il tasso di inflazione. Il problema è che c’è una relazione tra il valore del deficit e il tasso di crescita. Se si riduce il deficit nella situazione attuale, sia con una riduzione netta della spesa pubblica che con un aumento delle imposte, la crescita si riduce. Si è creduto a lungo che la riduzione della crescita fosse inferiore a quella del deficit (tecnicamente: che il moltiplicatore della spesa pubblica fosse inferiore a 1). In questo modo, si può ridurre il deficit di 40 miliardi (ossia del 2% del PIL) e avere, se il moltiplicatore è 0,5, una riduzione di soli 20 miliardi della crescita potenziale (ossia circa l’1% del PIL). Tutto bene, insomma. E’ certamente doloroso (per gli altri), ma ne vale la pena. Tuttavia, ci si è resi conto che il moltiplicatore è MOLTO superiore a 1 (tra 1,7 e 2,2 a seconda dei Paesi). Esso è stimato, oggi, essere pari a 1,5 in Francia. Quindi, se si riduce di 40 miliardi il deficit, la crescita potenziale viene ridotta di 60 miliardi. Non è certo la stessa cosa. Si capisce quindi perché le politiche di austerità AUMENTINO il debito anziché ridurlo.
Valls ha poi sostenuto che la politica francese non fosse una politica di austerità. Questa è pura e semplice malafede. Da una parte, come abbiamo mostrato, l'austerità può portare a dei deficit e a un debito in crescita costante. Lo si è visto in Grecia, in Spagna e in Italia. D'altra parte, il ragionamento del Primo Ministro è stato: non abbiamo una politica di austerità perché creeremo 60.000 posti di lavoro nell’istruzione (in 5 anni...). Questa argomentazione è grottesca. La disoccupazione aumenta circa di 180.000 persone all’anno (e probabilmente anche di più) e a questo ribattiamo con 60.000 posti creati in 5 anni? Ci sarebbe da ridere se non avessimo a cuore il problema.
Poi abbiamo il tasso di inflazione. Se fossimo negli anni sessanta, con un'inflazione al 3,5%, anche con una crescita di 0,5% un deficit del 4% non farebbe crescere il debito pubblico. Salvo che, in seguito alla politica della BCE, siamo sull'orlo della deflazione, con un tasso di inflazione di 0,5%, o anche meno. Si comprende allora il problema. Mi sembra già di sentire alcuni che dicono: “Eureka, basta che la BCE cambi la sua politica”. Salvo che le cose si complicano ulteriormente. Infatti, l’inflazione dipende da diversi fattori (tranne nel caso di un’economia surreale in cui essa dipende dal fattore Cheval). Infatti, la relazione tra la crescita e l'inflazione dipende dall'inflazione cosiddetta "strutturale", ossia il tasso di inflazione che si ha con una politica monetaria 'neutra' e con l’economia in piena occupazione dei fattori produttivi (quindi, con la disoccupazione dell'ordine del 3%...). Questo tasso strutturale non è lo stesso nei diversi Paesi, il che è perfettamente comprensibile. Esso dipende dal tasso di investimenti, dall'età media del capitale produttivo, dalla formazione della manodopera e dalla dinamica demografica (e potremmo proseguire). Pertanto, quando si impone lo stesso tasso di inflazione a diversi paesi, per alcuni corrisponderà, più o meno, al tasso "strutturale", mentre per altri sarà troppo debole o troppo forte. Quindi, a quale tasso dovrebbe puntare la BCE? Supponiamo che decida per il 4% (e i rappresentanti tedeschi e finlandesi – e non solo – si suicidano sulla pubblica piazza); questo converrebbe alla Francia e all’Italia, ma certamente non alla Germania. Infatti non possiamo avere un tasso di inflazione armonizzato tra paesi con strutture economiche molto differenti, senza immaginare trasferimenti finanziari significativi tra di loro. Per la Germania, sarebbero almeno dell’8% del PIL ogni anno. Perciò dimentichiamocelo, è chiaro che è impossibile.
Ma c'è una trappola dentro la trappola. La questione dell'inflazione determina anche in gran parte la competitività relativa tra i paesi. Infatti, dal 2000 al 2008, i tassi di inflazione sono stati molto diversi nell'eurozona. Quello che abbiamo guadagnato, per un po’, durante la crescita, abbiamo poi perso pochi anni dopo a causa dell’accumulo della differenza nel tasso di inflazione che, se si è in un'unione monetaria, come è l'eurozona, si traduce in uno scarto importante di competitività. Pertanto, se uno lascia diminuire l'inflazione, poco o tanto, rispetto al tasso strutturale, si pone un problema di competitività, e se tutti cercano di avere la stessa inflazione, i Paesi con un'alta inflazione strutturale sono terribilmente penalizzati. NON CI SONO SOLUZIONI all’interno della moneta unica. Solo la svalutazione della moneta, in funzione del reciproco tasso di inflazione, ma anche degli incrementi di produttività, offre una soluzione. Ma ciò implica che ogni paese recuperi la propria sovranità monetaria.
La questione dell’euro.
Ed eccoci qua: la questione dell’euro è al centro del problema. Manuel Valls l’ha riconosciuto, ma per negare immediatamente qualsiasi credibilità a una politica di rottura nei confronti dell’eurozona. Notiamo subito che se questo problema fosse stato DAVVERO insignificante, non si capirebbe la necessità di soffermarsi su di esso con tale violenza e tanta cattiva fede. Qual è la sostanza del suo ragionamento? Se la Francia dovesse lasciare l’euro, cesserebbe di esistere e di contare in Europa. C’è da stupirsi dell’impudenza del ragionamento. Per quel che sappiamo la moneta, sia essa l’euro o il franco, non rappresenta il prestigio o la forza internazionale della Francia. E’ il dinamismo della sua economia, la chiarezza della sua politica, è insomma la capacità della Francia di essere una forza propositiva che determina la sua forza e il suo prestigio. Tuttavia, l’euro condanna la Francia a una lunga e dolorosa agonia economica, alla perdita oggi del suo potenziale industriale e domani della sua capacità scientifica. Ormai ce ne accorgiamo nella gestione delle crisi internazionali. Qual è il peso della Francia in Medio Oriente? Qual è il nostro ruolo nella crisi Ucraina? L’euro ci mette a rimorchio della Germania, ci priva di sovranità, ci conduce a una sparizione inevitabile. Già ora, la politica economica della Francia non viene decisa a Bercy, ma a Francoforte e a Berlino. Siamo condannati a “occuparci dei dettagli”, come disse il cancelliere tedesco Stresemann negli anni '20. Ma egli aveva la scusa del trattato di Versailles e il peso della sconfitta del 1918.
Manuel Valls ha fatto riferimento anche al contesto internazionale. Non sarebbe saggio aprire una crisi europea in un periodo di minacce esterne. Ma questa crisi è GIA’ aperta, se non gli dispiace. Quanto ai "venti di guerra” che ha richiamato, riferendosi implicitamente alla Russia, chi è il responsabile? Come si può qualificare la posizione del governo francese, che si allinea con la posizione degli Stati Uniti e degli europei più entusiasti, mentre ancora oggi non ci sono prove del coinvolgimento della Russia o degli insorti di Donbass nella tragica distruzione del velivolo della Malaysian Airlines (volo MH17). Col nostro sostegno, molto discutibile, al processo 'rivoluzionario' ucraino, ci siamo negati, ormai, di poter svolgere il ruolo di mediatore tra la Russia e l'Ucraina e lasciamo la Germania libera di sviluppare le sue strategie (ma anche le sue contraddizioni). In effetti, la situazione internazionale, che è oggi effettivamente difficile, è essa stessa una condanna senza appello della “politica estera” dell’Unione Europea. Allora, sì, se non vogliamo sprofondare in questo abisso, occorre far scoppiare la crisi europea, facendola passare dalla fase latente alla fase manifesta.
L’ultimo argomento, uscire dall’euro significherebbe attuare la politica del Front National. E’ quindi chiaro per Manuel Valls che se, per via del sole splendente, Marin le Pen dice che fa bel tempo, noi dobbiamo immediatamente sostenere che piove e aprire gli ombrelli. Come non essere stupiti da tale bestialità? Una politica si giudica dalla sua razionalità e dai suoi frutti. Purtroppo oggi sappiamo che i frutti delle politiche attuate dal 2012, in continuità con quelle condotte da François Fillon a partire dal 2011, sono stati molto amari. Un mio collega italiano, Alberto Bagnai, ha scritto sul suo blog “l’acqua bagna e la disoccupazione uccide”. Niente di più vero. Abbiamo avuto 26.000 nuovi disoccupati a luglio, come annunciato mercoledì. Non dobbiamo dimenticarlo.
La scelta di Manuel Valls non è fatta con coraggio e volontà, è fatta con rassegnazione. Sarà pure la sua scelta, libero di farla; ma non può essere quella della Francia e dei francesi. Glielo faremo presente.
Semplicemente un Grande. Ogni altro commento è superfluo.
RispondiEliminaGioC
Il link al mio articolo citato da Jacques, che sarà con noi l'8 e 9 novembre a Pescara per il #goofy3, per parlarci di Francia e di Ucraina.
RispondiEliminaGrazie! Per pigrizia non l`avevo aggiunto. A mia parziale scusante, non c`era nemmeno nell`originale.
EliminaChe analisi fantastica.. Mi spinge ad approfondire la questione del tasso d'inflazione strutturale.. Un grande grazie a bagnai che riesce a portare tali intellettuali al servizio dell'opinione pubblica italiana!
RispondiEliminaMolto bello. Articolo di elevata onestà intellettuale. Da leggere in piazza soprattutto a coloro che criticano il ruolo degli economisti nell'analisi delle scelte di politica economica. Mi riempie di speranza.
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