Il nostro presidente del consiglio non elettivo ha sostenuto recentemente che lo Statuto dei lavoratori, pur proponendosi nelle sue buone intenzioni la tutela della "supposta" (ha dei dubbi?) parte debole del rapporto di lavoro, in realtà era controproducente, e per le troppe tutele e la troppa rigidità otteneva l'effetto contrario. Ecco perché si rende necessaria la riforma "strutturale" del mercato del lavoro, per introdurre ancor più flessibilità e aumentare l'occupazione.
Ma su quali argomenti si basano queste considerazioni?
Uno studio della prof. Antonella Stirati dell'Università di Roma Tre, Crescita
e “riforma” del mercato del lavoro, contenuto
nell'e-book Oltre l'Austerità, analizza gli argomenti a favore della flessibilità, e gli argomenti contrari, e ci fornisce un quadro chiaro del perché - dopo anni di flessibilità - ci troviamo... in stato di piena occupazione...?!
Ecco un sunto delle argomentazioni di Stirati:
Ma
è vero che l'eccessiva rigidità del mercato del lavoro creava
disoccupazione? E che la flessibilità ha favorito la creazione di
posti di lavoro?
1.
Gli argomenti utilizzati per sostenere le politiche di “flessibilità”
Un
primo argomento
è che la flessibilità del lavoro ridurrebbe il costo del lavoro per
le imprese inducendo una flessibilità
verso il basso dei salari reali (cioè
in termini di potere d’acquisto), perché la riduzione delle tutele
tende ad indebolire i sindacati e in generale a rendere i lavoratori
più ricattabili e quindi meno in grado di contrattare sulle
condizioni retributive e di lavoro - e il minor salario favorirebbe
le assunzioni.
Secondo
la teoria economica tradizionale (pre-keynesiana e oggi di nuovo in
auge) infatti esiste una relazione inversa tra costo del lavoro per
l’impresa e occupazione di lavoro, a parità di altre circostanze.
Un
altro argomento addotto a favore
della riforma del mercato del lavoro è che questa, attraverso la
riduzione dei costi per le imprese, porterebbe ad una riduzione dei
prezzi dei beni esportati rispetto a quelli di altri paesi
concorrenti e quindi favorirebbe una maggiore competitività
internazionale dell’Italia. Cioè, si sostiene, poiché a livello
europeo non è più possibile svalutare il cambio, quei paesi che
hanno perso competitività all’interno e all’esterno
dell’eurozona devono ridurre i prezzi dei propri prodotti,
consentendo così la crescita delle esportazioni - e una ripresa
dell'economia guidata dalle esportazioni che farebbe aumentare
l'occupazione.
Infine,
un
terzo argomento
è che la flessibilità nell’uso del lavoro favorirebbe una
maggiore produttività/efficienza delle imprese.
2.
Argomenti generali contro la flessibilità
Per
quanto concerne la prima tesi, cioè che una riduzione del costo del
lavoro per le imprese porterebbe comunque ad una maggiore
occupazione, essa è molto controversa sul piano teorico: la analisi
keynesiana mette in luce che la diminuzione dei salari reali, in
quanto riduce la propensione al consumo (cioè la quota del reddito
destinata al consumo), tende a ridurre la domanda aggregata di beni e
servizi, e quindi a ridurre il livello di produzione (che si adegua
alla domanda) e di conseguenza a ridurre anche l’occupazione.
Nell’aggregato le imprese assumeranno più lavoratori solo se
avranno l’opportunità di vendere una maggiore quantità di beni e
servizi, e la questione è dunque di capire se una riduzione dei
salari potrà portare ad una maggiore domanda di beni e servizi –
la risposta è no, semmai il contrario, tranne che per una eventuale
capacità di stimolare le esportazioni.
E
veniamo così a valutare il secondo argomento, quello secondo il
quale la flessibilità del mercato del lavoro, e la conseguente
flessibilità dei salari, potrebbe migliorare la competitività
internazionale del paese e quindi le esportazioni nette. A questo
riguardo il primo punto da mettere in evidenza è che il concetto di
competitività è relativo, e nel momento in cui le politiche di
flessibilizzazione di salari e lavoro vengono richieste/imposte a un
gran numero di economie Europee, l’effetto complessivo è quello di
una “deflazione salariale” generalizzata, cioè di una rincorsa
competitiva al ribasso dagli effetti positivi molto incerti e con
effetti negativi sicuri - soprattutto se la politica di contenimento
dei costi e dei prezzi viene sistematicamente perseguita, come è
avvenuto sinora, anche dal paese europeo che ha un vantaggio
competitivo e un grande surplus commerciale, cioè la Germania 1.
Veniamo
infine all’idea che una maggiore flessibilità del lavoro favorisca
la produttività delle imprese. Certo, la maggiore facilità di
licenziamento realizzata attraverso la precarizzazione e la rimozione
della protezione dal licenziamento ha la capacità di rendere più
ricattabili e quindi più “disciplinati” i lavoratori…Ma la
competitività internazionale delle imprese richiede altro:
tecnologia, capacità innovativa. Il grado di innovazione tecnologica
e quindi di produttività delle imprese è fortemente legato ai nuovi
investimenti – ma questi ultimi sono stimolati da un contesto di
crescita della domanda e della produzione. Inoltre è stato
argomentato da vari economisti che proprio l’aumento dei salari può
costituire un incentivo ad innovare per le imprese, in modo da
ricercare nella tecnologia una via per ridurre i costi, piuttosto che
ridurli attraverso un maggiore sfruttamento del lavoro. L’opportunità
di perseguire quest’ultima strada, favorita dalla
de-regolamentazione del mercato del lavoro, tende ad incentivare una
“via bassa” al contenimento dei costi che finisce per danneggiare
il paese e la sua capacità tecnologica.
3.
Cosa suggeriscono i dati?
I
dati aggregati1,
relativi all’insieme dell’eurozona, suggeriscono che, su un
periodo di tempo molto lungo, la caduta del costo del lavoro è stata
associata ad un aumento del
tasso di disoccupazione.
La
caduta della quota salari rispetto al PIL, iniziata negli anni ’80
e proseguita sino a oggi, è associata ad un significativo aumento
del tasso di disoccupazione rispetto alla fase precedente (anni ’60
e ’70).
Per
quanto riguarda più specificamente il rapporto tra gli indici di
protezione del lavoro (di cui è un esempio l’articolo 18
recentemente “riformato” in Italia) e i tassi di disoccupazione,
i dati documentano l’assenza di
una relazione significativa.
Risultati
analoghi si ottengono confrontando gli indici di protezione
all’impiego con i tassi di disoccupazione dei giovani. Osservando i
dati è possibile affermare che non esiste una correlazione tra
disoccupazione giovanile e rigidità del mercato del lavoro per i
paesi OCSE considerati.
Per
quanto riguarda la produttività, nel nostro paese sia la
produttività che il PIL sono cresciuti quanto e spesso di
più di
quanto crescessero in media nell’unione europea sino a circa la
metà degli anni ’903,
e solo a partite dalla metà degli anni ‘90 entrambe le grandezze
(Pil aggregato e valore aggiunto
per addetto) hanno
iniziato a crescere in Italia meno che in altri paesi. Logica
vorrebbe quindi che non si attribuisse la cattiva performance
italiana a partire dalla fine degli anni ’90 a fattori – quali le
“rigidità del mercato del lavoro” - che erano presenti in misura
maggiore quando PIL e produttività crescevano significativamente sia
in termini assoluti che relativamente agli altri paesi. Che cosa è
cambiato dunque nell’economia italiana nella seconda metà degli
anni novanta? I cambiamenti più significativi paiono i seguenti: 1)
è aumentata la flessibilità del mercato del lavoro: abolizione
della scala mobile e riforma della contrattazione, con le riforme
Treu del 1997 e Biagi del 2003 che hanno esteso la possibilità di
ricorrere a forme contrattuali atipiche; 2) è peggiorata
ulteriormente e significativamente la distribuzione del reddito, con
un rapporto tra reddito medio da lavoro dipendente e valore aggiunto
per addetto che a metà del 2000 era il più basso in Europa; 3) si
sono avute politiche di bilancio pubblico volte alla realizzazione di
avanzi primari (il saldo primario, cioè al netto del pagamento degli
interessi, rimane positivo sino al 2008)
Questi
fattori hanno contribuito negativamente alla crescita della domanda e
del Pil, disincentivando quindi anche gli investimenti, mentre le
“riforme” del mercato del lavoro in particolare possono aver
scoraggiato le imprese dall’utilizzare lo strumento
dell’innovazione per ridurre i costi, preferendo la più facile
riduzione diretta del costo del lavoro.
1 Si potrebbe recuperare nelle esportazioni verso i paesi esterni
all’eurozona, ma l’apprezzamento dell’euro rispetto al dollaro
(che risente dei surplus della Germania e dei paesi del centro) oggi
rende difficile questo passaggio, senza considerare il fatto che la
maggior parte del nostro commercio estero è intraeuropeo.
2I
dati cui si riferisce il paragrafo sono reperibili nell studio di
Antonella Stirati sopra citato.
3L’indice
di produttività relativa
dell’Italia
rispetto agli altri paesi dell’unione europea a 14 paesi, stimato
da Eurostat e posto pari a 100 per tutti i paesi nel 2000, passa da
85 a 103 in Italia tra il 1960 e il 1995 e poi inizia a scendere,
arrivando a 93 nel 2007.
sull'argomento mi permetto di segnalare questi due post:
RispondiEliminaFlessibilità e disoccupazione
Flessibilità ed investimenti
Sì, ottime analisi, grazie.
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