04/05/14

Feldstein: Il Quantitative Easing non servirebbe per un Euro più debole

Martin Feldstein, che già nel 1997 sosteneva che l'euro avrebbe aumentato la conflittualità in Europa, su Project Syndicate analizza le opzioni a disposizione della BCE per evitare la deflazione nell'eurozona. La conclusione è che il Quantitative Easing non funzionerebbe, ma occorrerebbero degli interventi diretti sul mercato delle valute per svalutare l'euro (senza risolvere gli squilibri interni all'eurozona, naturalmente!). 
Se non stessimo vivendo la peggiore catastrofe europea del secondo dopoguerra (come vocidallestero documenta quotidianamente), potremmo apprezzare l'ironia del fatto che l'unico modo per tenere a galla l'economia europea è quella che gli apologeti del "vincolismo" definiscono l' "ingloriosa" svalutazione con i suoi "effetti tossici", per sbarazzarci della quale abbiamo rinunciato alla sovranità monetaria.


Nonostante la recente ripresa in alcuni dei suoi paesi membri, l'economia della zona euro rimane in stasi, con il tasso complessivo di crescita annuale del PIL che quest'anno rischia di essere solo di poco superiore all'1%. Anche il tasso di crescita della Germania è inferiore al 2%, mentre il PIL è ancora in calo in Francia, Italia e Spagna. E questo lento tasso di crescita ha mantenuto il tasso di disoccupazione totale della zona euro ad un penosamente alto 12%. 

La crescita e l'alta disoccupazione non sono i soli problemi della zona euro. Il tasso annuo di inflazione, allo 0,5%, è ora così vicino allo zero che anche un piccolo shock potrebbe spingerlo in territorio negativo e innescare una spirale al ribasso dei prezzi. La deflazione indebolirebbe la domanda aggregata aumentando il valore reale (al netto dell'inflazione) del debito di privati e aziende e aumentando i tassi di interesse reali. La minore domanda potrebbe causare, a sua volta, un'accelerazione nel calo dei prezzi, avviando la dinamica dei prezzi in una spirale pericolosa.
In economia esistono pochi toccasana, o nessuno addirittura. Ma un forte calo del tasso di cambio dell'euro - diciamo del 15 % - sarebbe un rimedio a molti degli attuali problemi economici della zona euro. Un euro più debole potrebbe aumentare il costo delle importazioni e dei prezzi potenziali delle esportazioni, spingendo così in alto il tasso di inflazione complessivo della zona euro. La svalutazione farebbe anche da stimolo alla crescita media del PIL della zona euro, favorendo le esportazioni e incoraggiando gli europei a sostituire gli articoli importati con beni e servizi di produzione nazionale. Anche se la competitività all'interno della zona euro rimarrebbe inalterata, un euro più debole migliorerebbe in modo significativo l'equilibrio esterno con il resto del mondo, che rappresenta circa la metà del commercio della zona euro.
Il presidente della Banca Centrale Mario Draghi ha sottolineato la sua preoccupazione sul fatto che l'apprezzamento dell'euro negli ultimi tre anni ha aumentato il rischio di deflazione. Ma è stata la sua famosa dichiarazione nel luglio 2012, quella secondo cui la BCE avrebbe fatto "tutto il possibile" per preservare l'euro, che, per quanto efficace nel ridurre i tassi di interesse nei paesi in difficoltà della periferia dell'eurozona, ha anche contribuito all'attuale forza dell'euro.
Oggi, né le recenti dichiarazioni di Draghi né la prospettiva di un programma in stile americano di grandi acquisti di asset (conosciuto come quantitative easing, QE) sono riusciti ad indebolire l'euro o a far tornare indietro il tasso di inflazione verso il livello target del 2%. Quindi, operativamente, la domanda è come ridurre il valore relativo dell'euro, riuscendo a mantenere la percezione di stabilità che Draghi ha contribuito a creare nel 2012.
Poichè il quantitative easing della BCE è stato proposto come un modo per indebolire l'euro, vale la pena di esaminare l'impatto del suo utilizzo da parte della Federal Reserve sul valore del dollaro e sul tasso di inflazione negli Stati Uniti.
La risposta breve è che il QE non ha influenzato molto nessuno dei due. Il reale valore ponderato del dollaro è ora allo stesso livello al quale si trovava nel 2007, prima dell'inizio della Grande Recessione. E' salito un po' durante il picco della crisi del 2008, poichè gli investitori globali hanno cercato un rifugio sicuro nelle attività denominate in dollari, ma nel corso del 2009 è tornato  al livello precedente. Il valore del dollaro poi è rimasto relativamente stabile durante più di tre anni di quantitative easing - e in realtà è aumentato nel corso del 2013, quando gli acquisti di asset della Fed hanno raggiunto il massimo di oltre 1 trilione di dollari.
Naturalmente, anche altri fattori hanno influenzato il valore del dollaro durante questo periodo. Tuttavia, il comportamento del tasso di cambio del dollaro durante il periodo di quantitative easing non offre alcun sostegno alla proposta di grandi acquisti di asset da parte della BCE come modo per provocare la svalutazione dell'euro.
Il quantitative easing della Fed, inoltre, non ha causato un aumento del tasso di inflazione. L'indice dei prezzi al consumo è aumentato dell' 1,6 % nel 2010, all'inizio del quantitative easing, poi è aumentato un po' più rapidamente nel 2011 e 2012, prima di cadere di nuovo ad 1,5 % nel 2013, l' anno del picco negli acquisti di asset.
Se la BCE vuole ridurre il valore dell'euro e aumentare il tasso di inflazione a breve termine della zona euro, l'unico modo affidabile per farlo può essere un intervento diretto nel mercato delle valute - vale a dire, vendere euro e acquistare un paniere di altre valute. Anche se un intervento diretto ad indebolire l'euro creerebbe problemi in altre parti del mondo, i politici negli Stati Uniti e in altri Paesi dovrebbero riconoscere l'importanza di un euro più competitivo per il futuro dell'economia europea.

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