31/08/18
Lettera aperta di una madre a Tsipras - di Panagiotis Grigoriou
Mentre risuonano ancora i festeggiamenti e le ipocrite felicitazioni europee per la presunta "uscita della Grecia dalla crisi", riceviamo questa storia straziante da Grigoriou Panagiotis, che ben illustra quale sia la realtà in questo paese meraviglioso e martoriato, a noi così vicino. Troviamo che sia importante diffondere queste informazioni di prima mano, sia perché i nostri media mainstream si guardano bene dal farne menzione, sia perché, è bene ricordarlo, le vessazioni cui è sottoposta la Grecia sono le stesse cui è sottoposta l'Italia, e la differenza tra i due paesi è solo di qualche anno. Motivo di più, se mai fosse necessario, per riflettere sugli effetti di una politica migratoria dichiaratamente punitiva, pilotata dall'esterno e assolutamente incontrollata.
Ricordiamo inoltre che è possibile contribuire al prezioso lavoro di Panagiotis con una donazione, certamente necessaria e quanto mai apprezzata, tramite il link che trovate qui.
di Panagiotis Grigoriou, 26 agosto 2018
Più di 600.000 giovani greci hanno lasciato il paese, oltre a quasi 200.000 stranieri residenti che si erano stabiliti e integrati nella società greca da quasi 30 anni. Questo salasso demografico a partire dal 2014-2015 è stato sostituito in modo incontrollato da nuovi migranti, e già alcuni quartieri di Atene di greco hanno solo il nome.
La cosiddetta criminalità "spicciola" esplode dappertutto, anche nei luoghi turistici sotto l'Acropoli; personalmente, sono stato costretto a respingere gli attacchi di alcuni ladri a danno di gruppi di turisti in stato di shock tre volte tra luglio e agosto. E bisogna dire che i ladri fanno parte di bande composte da migranti, il più delle volte arrivati recentemente. Alcuni giorni fa, una delle bande che agiscono sul posto ha attaccato un giovane greco e la sua compagna portoghese sulla collina di Filopappo, di fronte all'Acropoli. Il ragazzo greco, spinto dai suoi aggressori, è precipitato dalla roccia ed è morto. Questo episodio è sufficientemente emblematico della nuova realtà greca, e per questo motivo ha immediatamente suscitato uno scalpore a dir poco enorme presso l'opinione pubblica.
La vittima, Nikolas Moustakas, era un giovane greco di 25 anni, costretto a lasciare il suo paese per stabilirsi a Edimburgo in Scozia, dove lavorava nel settore alberghiero, e che si trovava in Grecia per le vacanze. Gli assassini, che sono stati arrestati dalla polizia e hanno confessato, sono tre immigrati arrivati di recente, due pakistani e un iracheno, già noti alla polizia per reiterate rapine e aggressioni violente. Non erano stati estradati perché avevano fatto uso del loro (presunto) diritto di presentare una seconda richiesta di asilo. La realtà è che si tratta di individui entrati illegalmente nel territorio greco e qui illegalmente rimasti, dal momento che la loro seconda domanda di asilo è stata registrata solo perché ovviamente hanno reso dichiarazioni false, come è stato riportato da radio SKAI e 90.1 il 24 agosto 2018 e dalla stampa greca.
Non erano stati estradati soprattutto perché la politica delle imposizioni esterne, che include il recente accordo tra Berlino e Atene affinché la Grecia accolga i migranti che sono indesiderati per la Germania, mira a trasformare definitivamente la demografia e la cultura del nostro paese, così com'è già stato fatto dall'economia colonialista che la neolingua definisce più spesso "austerità".
La madre di Nikólas ha inviato una lettera aperta ad Aléxis Tsípras, pubblicata inizialmente dal quotidiano "Kathimeriní" il 23 agosto.
"Signor Primo Ministro,
Sono nata e cresciuta ad Atene e ne sono sempre stata orgogliosa. Il monumento di Filopappo l’avevo visitato nei tempi passati, quando c'erano sia le opportunità per farlo, che le misure di sicurezza necessarie per percorrere questa meravigliosa collina delle Muse e ammirare la nostra bellissima città dalla sommità.
Mio figlio Nicolas è un figlio di Atene che non ha avuto la possibilità di visitare il monumento. Aveva soltanto visitato l'Acropoli e i monumenti di Thission alcune volte, ma le sue visite al sito si erano limitate alla strada pedonale che conduce a San Demetrio Loubardiaris.
A 21 anni, così come tante migliaia di altri giovani della sua età, è stato costretto a partire dalla sua terra natia, a scegliere l’esilio di una speranza per un "futuro migliore". Si è trasferito in Scozia, dove è stato accolto molto bene e dove si sentiva protetto e, cosa più importante, era fiducioso riguardo al futuro. "La Scozia è il mio futuro", ci ha detto, "lì ho una vera prospettiva". 'La Grecia, sfortunatamente, è solo per le vacanze'. Ma ormai la Grecia non è più nemmeno per le vacanze.
In effetti, questa estate è tornato in Grecia, ma questa volta ha avuto la sfortuna di voler visitare la collina di Filopappo per mostrare alla sua fidanzata, una ragazza portoghese, la bellezza della città che amava così tanto.
Un errore? Sì. FATALE. Poiché Nicolas era da tempo assente nella realtà greca, non era consapevole di quanto questo posto sia ormai pericoloso, per cause originate e perpetuate dalla vostra stessa complicità".
"Quando ho visitato questo luogo dopo la tragica morte di mio figlio per deporre alcuni fiori, ho visto scene che mi hanno riempito di tristezza, frustrazione e rabbia. Per di più, nonostante fossi accompagnata da altri genitori, mi sono trovata costantemente minacciata da ogni tipo di attività criminale, e tutto questo in pieno giorno.
Primo Ministro,
Invece di utilizzare metà delle forze di polizia per proteggere la classe politica e le loro famiglie, lo Stato dovrebbe provvedere ad una presenza di polizia più consistente vicino al sito archeologico dell'Acropoli.
Il governo dovrebbe utilizzare diversamente il denaro dei contribuenti, che sono così pesantemente tassati, e non solo per pagare i vostri salari principeschi, ma anche le feste private annuali che organizzate in questi luoghi. Ad esempio, sarebbe opportuno recintare i belvedere e le rocche, in modo che questo altopiano non appaia più come una triste fossa che sfocia in un abisso, dalla quale si può scivolare e cadere in qualsiasi momento, senza nemmeno essere attaccati, come invece è successo al mio Nicolas.
Questo spazio attorno al monumento di Filopappo dovrebbe essere sufficientemente illuminato, e non solamente durante la visita di Obama di pochi mesi fa. E magari tutto il miserabile scenario di accampamenti improvvisati e abiti a brandelli sotto gli arbusti dovrebbe un giorno sparire.
Lo Stato, invece di accogliere benevolmente dei criminali animati da ogni sorta di istinti selvaggi, assassini e pericolosi, e permettere loro di fare quello che vogliono, dovrebbe preoccuparsi principalmente della sicurezza dei propri cittadini, che già ogni giorno patiscono abusi di ogni genere, e come non bastasse sono abbandonati nelle mani di bande spietate, per le quali il valore della vita umana è meno importante del valore di un cellulare o una catena d'oro."
"Signor Primo Ministro,
Si rende conto di quale paese lei è chiamato a servire?
La nostra Atene è la città più antica e ricca di storia d'Europa, e continua ad attrarre visitatori il cui sogno è quello di vedere l'Acropoli, un'area che lei ha però abbandonato, come ha fatto con tutto il nostro bel paese, in preda a criminali che attaccano i visitatori in pieno giorno.
I paesi civilizzati, signor Primo Ministro, si prendono cura dei visitatori, e quando esiste un pericolo naturale, ad esempio installano barriere appropriate intorno all'area, provvedendo anche ad un rivestimento antiscivolo, magari bloccando l’accesso al crepuscolo e, soprattutto, installando un’illuminazione sufficiente, mentre voi lasciate solo la luce romantica della luna piena!
E lei, signora Ministro del turismo,
proprio lei dovrebbe, in collaborazione con tutti gli interessati, preoccuparsi in primo luogo di questa situazione. Perché, prima di invitare i visitatori in questo paese, lei dovrebbe almeno garantire la sicurezza dei loro effetti personali, e soprattutto della loro vita.
Invece di sbandierare ogni anno l'aumento del numero di turisti, dovrebbe informarli che qui, nel cuore di Atene, possono essere attaccati e persino essere vittime di bande "di colorati", come quelli che hanno attaccato il mio Nikolas.
Il mio Nikolas, Primo Ministro, era stato ben accolto dalla Scozia, questo paese gli offriva una vita decente e sicura, e persino lo onorava, perché dal suo canto il mio Nikolas aveva onorato con il suo comportamento esemplare il suo paese d'origine, diventandone degno ambasciatore in uno stato straniero.
Primo Ministro,
Mio figlio ha conosciuto l'ospitalità e la protezione del forte di Edimburgo, certamente roccioso e ripido, ma protetto dallo Stato, e ora la sua stessa patria lo ha ucciso, con tutta la sua complicità e negligenza criminale.
Lambrini Moustaka,
La madre di Nicolas. "
Purtroppo la storia non finisce qui. Il 27/08, tra 50 e 100 migranti provenienti da un campo vicino, hanno bloccato l'autostrada Atene - Salonicco, vicino ad Atene.
La notizia è riportata qui.
Le "rimostranze" sono, come al solito, una "protesta per le condizioni insoddisfacenti" ecc. La polizia ha deviato inizialmente il traffico (per un periodo durato alcune ore), e nel frattempo ci sono stati ingorghi stradali per molti chilometri. Quando i Greci bloccano le strade per protestare contro le imposizioni della Troika, vengono subito picchiati, sgomberati e persino arrestati dalla polizia. Ma ai migranti non viene fatto nulla. La globalizzazione, e la sua politica migratoria organizzata, è il capovolgimento completo dei diritti tra cittadini e stranieri a beneficio degli stranieri, a qualsiasi livello, proprio come le prerogative dell'euro in economia. Questo è esattamente ciò che la sinistra non vuole vedere perché... vien da pensare che sia perché è "pagata" per non vedere e per inquinare il dibattito!
Nei video che circolavano su questo evento si vedono chiaramente alcuni migranti (entrati e rimasti illegalmente sul territorio greco), che attaccano gli automobilisti greci con bastoni e con il lancio di pietre.
Il video è qui:
https://www.youtube.com/watch?v=Lw6gZhy9hwQ&feature=youtu.be
30/08/18
Il lato oscuro di McCain
Il famoso giornalista Max Blumenthal rivela il vero volto del defunto senatore McCain, eroe della “sinistra” nostrana. McCain è stato uno dei più potenti e convinti guerrafondai del pianeta, sempre schierato dalla parte sbagliata e sempre pronto a provocare il caos in tutte le delicate situazioni internazionali, dalla Libia alla Siria, dall’Iran all’Ucraina.
Di Max Blumenthal, 27 agosto 2018
Mentre la Guerra fredda entrava nella sua fase finale nel 1985, la giornalista Helena Cobban partecipò a una conferenza accademica presso un resort di lusso vicino a Tucson, in Arizona, sulle relazioni USA-URSS in Medio Oriente. Partecipando a quella che veniva definita la "cena di gala con discorso programmatico”, scoprì presto che il tema della serata era “adotta un Mujaheddin”.
“Ricordo di essermi mescolata a tutte quelle ricche donne repubblicane che venivano dalla periferia di Phoenix che mi chiedevano: hai adottato un Mujaheddin? “ mi disse la Cobban. “Ognuna aveva promesso soldi per sponsorizzare un membro dei Mujaheddin afghani allo scopo di sconfiggere i comunisti. Alcune erano persino sedute vicine al loro Mujaheddin personale”.
Il principale relatore della serata, secondo la Cobban, era un nuovo e caricatissimo membro del Congresso di nome John McCain.
Durante la guerra in Vietnam, McCain era stato catturato dall’esercito Vietcong dopo essere stato abbattuto mentre andava a bombardare una fabbrica civile di lampadine. Trascorse due anni in isolamento e fu sottoposto a torture che gli lasciarono lesioni paralizzanti. McCain tornò dalla guerra con una ripugnanza profonda e costante per i suoi ex rapitori, tanto che nel 2000 disse: “Odio i vietnamiti. Li odierò finché vivo”. Dopo esser stato criticato per questa frase razzista, McCain si rifiutò di scusarsi. “Mi riferivo ai miei carcerieri”, disse, “e continuerò a riferirmi a loro con un linguaggio che per alcuni potrebbe essere offensivo a causa delle botte e delle torture subite dai miei amici”.
Il risentimento viscerale di McCain lo portò a un convinto sostegno dei Mujaheddin, così come degli squadroni della morte di ultra destra in America Centrale – come di qualsiasi altro gruppo votato alla distruzione dei governi comunisti.
McCain era talmente dedito alla causa anti-comunista che nella metà degli anni '80 si era unito al Comitato Consultivo del Consiglio degli Stati Uniti per la libertà mondiale, ossia l’affiliato americano della Lega Mondiale Anti-Comunista (WACL). Geoffrey Stewart-Smith, ex leader della filiale britannica del WACL che si era schierato contro il gruppo nel 1974, ha descritto l’organizzazione come un “gruppo di Nazisti, fascisti, anti-semiti, falsari, sporchi razzisti ed egoisti corrotti. E’ diventata un’internazionale anti-semita”.
Facevano compagnia a McCain persone notevoli come Jaroslav Stetsko, il collaboratore nazista ucraino che aveva contribuito a supervisionare lo sterminio di 7.000 ebrei nel 1941; l’ex brutale dittatore argentino Jorge Rafael Videla; e il comandante degli squadroni della morte guatemalteco Mario Sandoval Alarcon. L’allora presidente Ronald Reagan elogiava il gruppo perchè giocava “un ruolo leader nel portare l’attenzione sulla nobile battaglia ora combattuta dai veri guerrieri per la libertà dei giorni nostri”.
Esaltato come un eroe
In occasione della sua morte, McCain viene onorato allo stesso modo – un eroe patriottico e un guerriero per la libertà e la democrazia. Un fiume di agiografi della Beltway press corps, che lui ha definito la sua vera base politica, si è messo al lavoro. Tra i fan più entusiasti di McCain c’è Jake Tapper della CNN, che lui scelse come stenografo personale per un suo viaggio in Vietnam nel 2000. Quando l’ex ospite della CNN Howard Kurtz chiese a Tapper nel febbraio del 2000: “Quando sei sul bus della campagna politica di McCain, fai uno sforzo cosciente per non cadere sotto l’incantesimo magico di McCain?”.
Ma il defunto senatore ha anche ottenuto spontanei tributi da una serie di importanti liberal, da George Soros fino al suo persuasivo cliente, Ken Roth, insieme a tre colleghi consiglieri di Human Rights Watch e della celebrità “democratica socialista” Alexandra Ocasio-Cortez, che ha salutato McCain come “un esempio impareggiabile di decenza umana”. Il repubblicano John Lewis, il simbolo preferito dei diritti civili della classe politica della Beltway, si è unito al coro ricordando McCain come un “guerriero della pace”.
Se i peana a McCain da questo diversificato cast di politici ambiziosi e frequentatori di Davos sembrano scollegati dalla realtà, è perché riflettono perfettamente il punto di vista delle élite sugli interventi militari americani, come un gioco di scacchi dove i milioni di morti lasciati sul campo sulla scia delle aggressioni gratuite dell’occidente sono solo mere statistiche.
Ci sono stati pochi altri personaggi nella storia americana recente che si sono spesi così personalmente per la perpetuazione della guerra e dell’imperialismo come ha fatto McCain. Ma per Washington l’aspetto più importante della sua carriera è stato volutamente tralasciato, o spazzato via, come un difetto di poco conto di un nobile servitore dello Stato che nonostante questo meritava il rispetto di tutti.
McCain non si è limitato a tuonare dagli scranni del Senato in favore di ogni importante intervento militare succesivo all’epoca della guerra fredda, appoggiando le sanzioni e le relative campagne di disinformazione. Era straordinariamente spietato nel proporre obiettivi imperialisti, saltando da una zona calda all’altra per reclutare personalmente fanatici di estrema destra come alleati.
In Libia e Siria, si è alleato con gli affiliati di Al Qaeda, e in Ucraina McCain ha fatto la corte a veri, spudorati neonazisti.
Mentre l’ufficio di McCain in Senato serviva da luogo di ritrovo per lobbysti dell’industria delle armi e agenti neoconservatori, i suoi alleati fascisti intraprendevano una campagna di devastazione umana che continuerà ancora per molto tempo dopo che i fiori si saranno seccati sulla sua tomba.
I media americani potranno aver cercato di seppellire questa eredità insieme al corpo del senatore, ma questo è quello per cui gran parte del mondo lo ricorderà.
Non sono Al-Qaeda
Quando nel 2011 in Libia avvenne una violenta insurrezione, McCain si paracadutò nel paese per incontrare i leader dei principali insorti, il Gruppo Combattente Islamico Libico (LIFG), che combatteva il governo di Gheddafi. Il suo obiettivo era accreditare questa banda di estremisti islamici agli occhi dell’Amministrazione Obama, che ai tempi stava considerando un intervento militare.
Quello che accadde è ben documentato, anche se raramente viene discusso dalla classe politica di Washington che puntava sulla “Bengasi Charade” per distrarre dal vero scandalo della distruzione sociale della Libia. Il corteo di Gheddafi venne attaccato dai jet della NATO, permettendo a una banda di combattenti della LIFG di catturarlo, sodomizzarlo con una baionetta, e poi ucciderlo e lasciare il suo corpo a marcire in una macelleria di Misurata mentre i fan dei ribelli si facevano selfy vicino al suo fetido cadavere.
Subito dopo l’uccisione del leader pan-africano, seguì un massacro dei cittadini neri della Libia, perpetrato dalle milizie settarie razziste reclutate da McCain. L’ISIS si impadronì di Sirte, la città natale di Gheddafi, mentre le milizie di Belhaj presero il controllo di Tripoli, e iniziò una battaglia tra i signori della guerra. Proprio come aveva presagito Gheddafi, il paese in rovina divenne un terreno fertile per i trafficanti di esseri umani nel Mediterraneo, alimentando l’ascesa dell’estrema destra in tutta Europa e consentendo il ritorno della schiavitù in Africa.
Molti potrebbero descrivere la Libia come uno stato fallito, ma rappresenta anche la realizzazione compiuta della visione portata avanti da McCain e dai suoi alleati sulla scena mondiale.
A seguito dell’assassinio orchestrato dalla NATO del leader libico, McCain twittò: “Gheddafi andato, Bashar al Assad è il prossimo”.
Il fallimento di McCain in Siria
Anche la Siria, come la Libia, non accettò di allinearsi all’Occidente e all’improvviso si trovò a dover fronteggiare un’insurrezione-Jihad Salafita armata dalla CIA. Ancora una Volta, McCain pensò che fosse un suo preciso dovere spacciare all’America gli insorti islamisti come un incrocio tra i patrioti delle tredici colonie originarie americane e gli attivisti per i diritti civili. Per farlo, prese sotto la sua ala un giovane operatore mezzo americano e mezzo siriano residente a Washington che era stato consulente del Consiglio di transizione Libico durante la preparazione dell’invasione NATO.
Nel maggio 2013, Moustafa convinse McCain a fare un viaggio illegale in Siria per incontrare alcuni “combattenti per la libertà”. Un milionario israeliano chiamato Moti Kahana che coordinò i rapporti tra l’opposizione siriana e l’esercito israeliano attraverso la sua ONG (Amaliah), sostenne di aver “finanziato il gruppo di opposizione che il senatore John McCain era venuto a visitare nella belligerante Siria”.
“Questo potrebbe essere il suo momento-Bengasi “ disse Moustafa eccitato in una scena di un documentario, “Linee rosse”, che descriveva i suoi sforzi per rovesciare il governo. “[McCain] andò a Bengasi, tornò, e noi bombardammo”.
Durante la sua breve incursione in Siria, McCain incontrò un gruppo di insorti sostenuti dalla CIA e benedisse la loro battaglia. “Il senatore voleva rassicurare la Free Syrian Army che il popolo americano sosteneva il loro grido di libertà, sosteneva la loro rivoluzione” disse Moustafa in un’intervista alla CNN. L’ufficio di McCain rilasciò prontamente una foto che mostrava il senatore in posa di fianco a un raggiante Moustafa e a due uomini armati dall’aspetto truce.
Giorni dopo, quegli uomini vennero identificati dal Daily Star libanese come Mohamamad Nour e Abu Ibrahim. Entrambi erano implicati nel rapimento, l'anno precedente, di 11 pellegrini Shia, ed erano stati identificati da uno dei sopravvissuti. McCain e Moustafa negli USA furono oggetto di scherno e derisione da parte dell’ospite del Daily Show John Stewart e di rapporti aspramente critici da tutto lo spettro dei media. In un municipio dell’Arizona, McCain venne rimproverato dagli elettori, inculsa Jumana Hadid, una donna siriana cristiana che avvertì che i militari settari con cui aveva fatto amicizia avevano minacciato la sua comunità di genocidio.
Ma McCain andò avanti comunque. A Capitol Hill, introdusse un’altra giovane equivoca operatrice nel suo teatro d'intervento. Di nome Elizabeth O’Bagy, era un membro dell’Istituto per lo Studio della Guerra, un think-tank finanziato dalle industrie degli armamenti diretto da Kimberly Kagan del clan neo conservatore Kagan. Dietro le quinte, O’Bagy faceva consulenze per Moustafa alla sua Task Force di Emergenza Siriana, un chiaro conflitto di interessi di cui il loro patrono senatore era perfettamente consapevole. Davanti al Senato, McCain citò un editoriale del Wall Street Journal scritto da O’Bagy per sostenere il suo giudizio sui ribelli siriani come prevalentemente “moderati”, e potenzialmente amici dell’occidente.
Giorni dopo, si scoprì che la O’Bagy aveva falsificato il suo PhD (titolo di studio, NdVDE) in studi arabi. Non appena Kagan, umiliato, la licenziò, l'accademica fraudolenta fece un altro passo dentro le porte girevoli della Beltway, approdando ai corridoi del Congresso come la nuovissima aiutante in politica estera di McCain.
Infine, McCain fallì nel suo tentativo di vedere i “rivoluzionari” islamisti prendere il controllo di Damasco. Il governo siriano resse grazie all’aiuto dei suoi mortali nemici in Teheran e Mosca, ma non prima che un’operazione della CIA da un miliardo di dollari avesse aiutato a produrre una delle peggiori crisi migratorie della storia post-guerra fredda. Fortunatamente per McCain, c’erano altri intrighi che richiedevano la sua attenzione, e nuove bande di gruppi fanatici che richiedevano la sua benedizione. Mesi dopo il suo fallimento in Siria, il testardo militarista spostò la sua attenzione sull’Ucraina, allora in preda a uno sconvolgimento provocato da una ONG finanziata dagli USA e dalla UE.
Coccolare i neonazisti in Ucraina
Il 14 dicembre 2013, McCain si materializzò a Kiev per un incontro con Oleh Tyanhbok, un irriducibile fascista che era diventato uno dei principali leader dell’opposizione. Tyanhbok era un co-fondatore del Partito fascista Social-Nazionale, uno schieramento di estrema destra che si pubblicizzava come “l’ultima speranza per la razza bianca, per l’umanità come tale”. Non esattamente un amico degli Ebrei, si era lamentato che la “mafia ebreo-moscovita” aveva preso il controllo del suo paese, ed era stato fotografato mentre faceva il saluto nazista durante un discorso pubblico.
Niente di tutto questo interessava McCain. E nemmeno gli interessavano le scene dei neo-nazisti del Settore di Destra che riempivano la Piazza Maidan a Kiev mentre egli appariva sul campo per incitarli.
“L’Ucraina renderà l’Europa migliore e l’Europa renderà l’Ucraina migliore!” proclamava McCain alle folle che facevano il tifo mentre Tyanhbok rimaneva al suo fianco. L’unica cosa che per lui contava a quel tempo era il rifiuto del presidente ucraino eletto di firmare un piano di austerità dell’Unione Europea, preferendo invece un accordo economico con Mosca.
McCain era così impegnato a rimpiazzare un governo indipendente con uno vassallo della NATO che evocò addirittura un assalto militare su Kiev. “Non vedo un’opzione militare, e questo è tragico” si lamentò McCain in un’intervista riguardo la crisi. Fortunatamente per lui, il colpo di stato arrivò poco dopo la sua apparizione a Maidan, e gli alleati di Tyanhbok si affrettarono a riempire il vuoto di potere.
Entro fine anno, l’esercito ucraino si ritrovò impantanato in una sanguinosa guerra di trincea con i separatisti filo-russi e anti colpo di stato dell’est del paese. Una milizia affiliata con il nuovo governo a Kiev chiamata Dnipro-1 fu accusata da osservatori di Amnesty International di bloccare gli aiuti umanitari destinati all’area dei separatisti, inclusi cibo e abiti per la popolazione tormentata dalla guerra.
Sei mesi dopo, McCain apparve alla base di addestramento del Dnipro-1 con i senatori Tom Cotton e John Barasso. “Il popolo del mio paese è fiero della vostra battaglia e del vostro coraggio” disse McCain a un ritrovo di soldati della milizia. Quando terminò il suo discorso, i combattenti mostrarono un saluto dell’epoca della seconda guerra mondiale, reso celebre dai collaboratori nazisti ucraini: “Gloria all’Ucraina!”.
Oggi, i nazionalisti di estrema destra occupano posti chiave nel governo ucraino filo-occidentale. Il portavoce del parlamento è Andriy Parubiy, il co-fondatore con Tyanhbok del Partito Social-Nazionalista e leader del movimento in onore dei collaboratori del regime nazista durante la seconda guerra mondiale come Stepan Bandera. Sulla copertina del suo manifesto del 1998, “Vista da destra”, Parubiy appare in una maglietta marrone in stile nazista con una pistola alla vita. Nel giugno 2017, McCain e il portavoce repubblicano del parlamento Paul Ryan diedero il benvenuto a Parubiy a Capitol Hill per quello che McCain definì “un buon incontro”. Era una pacca sulla spalla alle forze fasciste che imperversano in Ucraina.
Gli ultimi mesi in Ucraina hanno visto una milizia neo-nazista sponsorizzata dallo stato chiamata C14 svolgere un pogrom contro la popolazione ROM ucraina, il parlamento del paese organizzare una mostra in onore dei collaboratori dei nazisti e l’esercito ucraino approvare formalmente il saluto filo-nazista “Gloria all’Ucraina” come suo saluto ufficiale.
L’Ucraina ora è il malato d’Europa, un perpetuo caso disperato impantanato in una guerra senza fine ad est. A testimonianza della rovina del paese seguita alla cosiddetta “Rivoluzione della dignità”, il presidente estremamente impopolare Petro Poroshenko ha promesso all’Advisor per la Sicurezza Nazionale alla Casa Bianca, John Bolton, che il suo paese – una volta una ricca fonte di carbone al pari della Pennsylvania – ora comprerà carbone dagli Stati Uniti. Ancora una volta, un’operazione improvvisa di cambio di regime che ha generato uno stato fallito e fascista è quello che rimane di uno dei più grandi trionfi di McCain.
La storia di McCain evoca il ricordo di una delle affermazioni più provocatorie di Sarah Palin, un’altra cretina fanatica che lui ha imposto sulla scena mondiale. Durante un tipico comizio itinerante nell’ottobre 2008, la Palin accusò Barack Obama di “trastullarsi coi terroristi”. L’affermazione fu ignorata come ridicola e quasi diffamatoria, come avrebbe dovuto. Ma guardando alla carriera di McCain, l’accusa suona grandemente ironica.
Come la si voglia mettere, è stato McCain a trastullarsi coi terroristi, e ha strappato quante più risorse possibile al contribuente americano per massimizzare il caos. La speranza è che le società frantumate dagli amici di McCain possano un giorno avere la pace.
Max Blumenthal è un giornalista pluri-premiato e autore di libri come i best seller: Republican Gomorrah: Inside the Movement That Shattered the Party, Goliath: Life and Loathing in Greater Israel, The Fifty One Day War: Ruin and Resistance in Gaza. Ha anche prodotto molti articoli per la stampa, molti report video e documentari, incluso “Io non sono Charlie” e il nuovo “Killing Gaza”. Blumenthal ha fondato il Grayzoneproject.com nel 2015 ed è il suo redattore.
Di Max Blumenthal, 27 agosto 2018
Mentre la Guerra fredda entrava nella sua fase finale nel 1985, la giornalista Helena Cobban partecipò a una conferenza accademica presso un resort di lusso vicino a Tucson, in Arizona, sulle relazioni USA-URSS in Medio Oriente. Partecipando a quella che veniva definita la "cena di gala con discorso programmatico”, scoprì presto che il tema della serata era “adotta un Mujaheddin”.
“Ricordo di essermi mescolata a tutte quelle ricche donne repubblicane che venivano dalla periferia di Phoenix che mi chiedevano: hai adottato un Mujaheddin? “ mi disse la Cobban. “Ognuna aveva promesso soldi per sponsorizzare un membro dei Mujaheddin afghani allo scopo di sconfiggere i comunisti. Alcune erano persino sedute vicine al loro Mujaheddin personale”.
Il principale relatore della serata, secondo la Cobban, era un nuovo e caricatissimo membro del Congresso di nome John McCain.
Durante la guerra in Vietnam, McCain era stato catturato dall’esercito Vietcong dopo essere stato abbattuto mentre andava a bombardare una fabbrica civile di lampadine. Trascorse due anni in isolamento e fu sottoposto a torture che gli lasciarono lesioni paralizzanti. McCain tornò dalla guerra con una ripugnanza profonda e costante per i suoi ex rapitori, tanto che nel 2000 disse: “Odio i vietnamiti. Li odierò finché vivo”. Dopo esser stato criticato per questa frase razzista, McCain si rifiutò di scusarsi. “Mi riferivo ai miei carcerieri”, disse, “e continuerò a riferirmi a loro con un linguaggio che per alcuni potrebbe essere offensivo a causa delle botte e delle torture subite dai miei amici”.
Il risentimento viscerale di McCain lo portò a un convinto sostegno dei Mujaheddin, così come degli squadroni della morte di ultra destra in America Centrale – come di qualsiasi altro gruppo votato alla distruzione dei governi comunisti.
McCain era talmente dedito alla causa anti-comunista che nella metà degli anni '80 si era unito al Comitato Consultivo del Consiglio degli Stati Uniti per la libertà mondiale, ossia l’affiliato americano della Lega Mondiale Anti-Comunista (WACL). Geoffrey Stewart-Smith, ex leader della filiale britannica del WACL che si era schierato contro il gruppo nel 1974, ha descritto l’organizzazione come un “gruppo di Nazisti, fascisti, anti-semiti, falsari, sporchi razzisti ed egoisti corrotti. E’ diventata un’internazionale anti-semita”.
Facevano compagnia a McCain persone notevoli come Jaroslav Stetsko, il collaboratore nazista ucraino che aveva contribuito a supervisionare lo sterminio di 7.000 ebrei nel 1941; l’ex brutale dittatore argentino Jorge Rafael Videla; e il comandante degli squadroni della morte guatemalteco Mario Sandoval Alarcon. L’allora presidente Ronald Reagan elogiava il gruppo perchè giocava “un ruolo leader nel portare l’attenzione sulla nobile battaglia ora combattuta dai veri guerrieri per la libertà dei giorni nostri”.
Esaltato come un eroe
In occasione della sua morte, McCain viene onorato allo stesso modo – un eroe patriottico e un guerriero per la libertà e la democrazia. Un fiume di agiografi della Beltway press corps, che lui ha definito la sua vera base politica, si è messo al lavoro. Tra i fan più entusiasti di McCain c’è Jake Tapper della CNN, che lui scelse come stenografo personale per un suo viaggio in Vietnam nel 2000. Quando l’ex ospite della CNN Howard Kurtz chiese a Tapper nel febbraio del 2000: “Quando sei sul bus della campagna politica di McCain, fai uno sforzo cosciente per non cadere sotto l’incantesimo magico di McCain?”.
“Oh, non è possibile. Diventi come Patty Hearst quando la colse la SLA” ha risposto Tapper scherzando.
Ma il defunto senatore ha anche ottenuto spontanei tributi da una serie di importanti liberal, da George Soros fino al suo persuasivo cliente, Ken Roth, insieme a tre colleghi consiglieri di Human Rights Watch e della celebrità “democratica socialista” Alexandra Ocasio-Cortez, che ha salutato McCain come “un esempio impareggiabile di decenza umana”. Il repubblicano John Lewis, il simbolo preferito dei diritti civili della classe politica della Beltway, si è unito al coro ricordando McCain come un “guerriero della pace”.
Se i peana a McCain da questo diversificato cast di politici ambiziosi e frequentatori di Davos sembrano scollegati dalla realtà, è perché riflettono perfettamente il punto di vista delle élite sugli interventi militari americani, come un gioco di scacchi dove i milioni di morti lasciati sul campo sulla scia delle aggressioni gratuite dell’occidente sono solo mere statistiche.
Ci sono stati pochi altri personaggi nella storia americana recente che si sono spesi così personalmente per la perpetuazione della guerra e dell’imperialismo come ha fatto McCain. Ma per Washington l’aspetto più importante della sua carriera è stato volutamente tralasciato, o spazzato via, come un difetto di poco conto di un nobile servitore dello Stato che nonostante questo meritava il rispetto di tutti.
McCain non si è limitato a tuonare dagli scranni del Senato in favore di ogni importante intervento militare succesivo all’epoca della guerra fredda, appoggiando le sanzioni e le relative campagne di disinformazione. Era straordinariamente spietato nel proporre obiettivi imperialisti, saltando da una zona calda all’altra per reclutare personalmente fanatici di estrema destra come alleati.
In Libia e Siria, si è alleato con gli affiliati di Al Qaeda, e in Ucraina McCain ha fatto la corte a veri, spudorati neonazisti.
Mentre l’ufficio di McCain in Senato serviva da luogo di ritrovo per lobbysti dell’industria delle armi e agenti neoconservatori, i suoi alleati fascisti intraprendevano una campagna di devastazione umana che continuerà ancora per molto tempo dopo che i fiori si saranno seccati sulla sua tomba.
I media americani potranno aver cercato di seppellire questa eredità insieme al corpo del senatore, ma questo è quello per cui gran parte del mondo lo ricorderà.
Non sono Al-Qaeda
Quando nel 2011 in Libia avvenne una violenta insurrezione, McCain si paracadutò nel paese per incontrare i leader dei principali insorti, il Gruppo Combattente Islamico Libico (LIFG), che combatteva il governo di Gheddafi. Il suo obiettivo era accreditare questa banda di estremisti islamici agli occhi dell’Amministrazione Obama, che ai tempi stava considerando un intervento militare.
Quello che accadde è ben documentato, anche se raramente viene discusso dalla classe politica di Washington che puntava sulla “Bengasi Charade” per distrarre dal vero scandalo della distruzione sociale della Libia. Il corteo di Gheddafi venne attaccato dai jet della NATO, permettendo a una banda di combattenti della LIFG di catturarlo, sodomizzarlo con una baionetta, e poi ucciderlo e lasciare il suo corpo a marcire in una macelleria di Misurata mentre i fan dei ribelli si facevano selfy vicino al suo fetido cadavere.
Subito dopo l’uccisione del leader pan-africano, seguì un massacro dei cittadini neri della Libia, perpetrato dalle milizie settarie razziste reclutate da McCain. L’ISIS si impadronì di Sirte, la città natale di Gheddafi, mentre le milizie di Belhaj presero il controllo di Tripoli, e iniziò una battaglia tra i signori della guerra. Proprio come aveva presagito Gheddafi, il paese in rovina divenne un terreno fertile per i trafficanti di esseri umani nel Mediterraneo, alimentando l’ascesa dell’estrema destra in tutta Europa e consentendo il ritorno della schiavitù in Africa.
Molti potrebbero descrivere la Libia come uno stato fallito, ma rappresenta anche la realizzazione compiuta della visione portata avanti da McCain e dai suoi alleati sulla scena mondiale.
A seguito dell’assassinio orchestrato dalla NATO del leader libico, McCain twittò: “Gheddafi andato, Bashar al Assad è il prossimo”.
Il fallimento di McCain in Siria
Anche la Siria, come la Libia, non accettò di allinearsi all’Occidente e all’improvviso si trovò a dover fronteggiare un’insurrezione-Jihad Salafita armata dalla CIA. Ancora una Volta, McCain pensò che fosse un suo preciso dovere spacciare all’America gli insorti islamisti come un incrocio tra i patrioti delle tredici colonie originarie americane e gli attivisti per i diritti civili. Per farlo, prese sotto la sua ala un giovane operatore mezzo americano e mezzo siriano residente a Washington che era stato consulente del Consiglio di transizione Libico durante la preparazione dell’invasione NATO.
Nel maggio 2013, Moustafa convinse McCain a fare un viaggio illegale in Siria per incontrare alcuni “combattenti per la libertà”. Un milionario israeliano chiamato Moti Kahana che coordinò i rapporti tra l’opposizione siriana e l’esercito israeliano attraverso la sua ONG (Amaliah), sostenne di aver “finanziato il gruppo di opposizione che il senatore John McCain era venuto a visitare nella belligerante Siria”.
“Questo potrebbe essere il suo momento-Bengasi “ disse Moustafa eccitato in una scena di un documentario, “Linee rosse”, che descriveva i suoi sforzi per rovesciare il governo. “[McCain] andò a Bengasi, tornò, e noi bombardammo”.
Durante la sua breve incursione in Siria, McCain incontrò un gruppo di insorti sostenuti dalla CIA e benedisse la loro battaglia. “Il senatore voleva rassicurare la Free Syrian Army che il popolo americano sosteneva il loro grido di libertà, sosteneva la loro rivoluzione” disse Moustafa in un’intervista alla CNN. L’ufficio di McCain rilasciò prontamente una foto che mostrava il senatore in posa di fianco a un raggiante Moustafa e a due uomini armati dall’aspetto truce.
Giorni dopo, quegli uomini vennero identificati dal Daily Star libanese come Mohamamad Nour e Abu Ibrahim. Entrambi erano implicati nel rapimento, l'anno precedente, di 11 pellegrini Shia, ed erano stati identificati da uno dei sopravvissuti. McCain e Moustafa negli USA furono oggetto di scherno e derisione da parte dell’ospite del Daily Show John Stewart e di rapporti aspramente critici da tutto lo spettro dei media. In un municipio dell’Arizona, McCain venne rimproverato dagli elettori, inculsa Jumana Hadid, una donna siriana cristiana che avvertì che i militari settari con cui aveva fatto amicizia avevano minacciato la sua comunità di genocidio.
Ma McCain andò avanti comunque. A Capitol Hill, introdusse un’altra giovane equivoca operatrice nel suo teatro d'intervento. Di nome Elizabeth O’Bagy, era un membro dell’Istituto per lo Studio della Guerra, un think-tank finanziato dalle industrie degli armamenti diretto da Kimberly Kagan del clan neo conservatore Kagan. Dietro le quinte, O’Bagy faceva consulenze per Moustafa alla sua Task Force di Emergenza Siriana, un chiaro conflitto di interessi di cui il loro patrono senatore era perfettamente consapevole. Davanti al Senato, McCain citò un editoriale del Wall Street Journal scritto da O’Bagy per sostenere il suo giudizio sui ribelli siriani come prevalentemente “moderati”, e potenzialmente amici dell’occidente.
Giorni dopo, si scoprì che la O’Bagy aveva falsificato il suo PhD (titolo di studio, NdVDE) in studi arabi. Non appena Kagan, umiliato, la licenziò, l'accademica fraudolenta fece un altro passo dentro le porte girevoli della Beltway, approdando ai corridoi del Congresso come la nuovissima aiutante in politica estera di McCain.
Infine, McCain fallì nel suo tentativo di vedere i “rivoluzionari” islamisti prendere il controllo di Damasco. Il governo siriano resse grazie all’aiuto dei suoi mortali nemici in Teheran e Mosca, ma non prima che un’operazione della CIA da un miliardo di dollari avesse aiutato a produrre una delle peggiori crisi migratorie della storia post-guerra fredda. Fortunatamente per McCain, c’erano altri intrighi che richiedevano la sua attenzione, e nuove bande di gruppi fanatici che richiedevano la sua benedizione. Mesi dopo il suo fallimento in Siria, il testardo militarista spostò la sua attenzione sull’Ucraina, allora in preda a uno sconvolgimento provocato da una ONG finanziata dagli USA e dalla UE.
Coccolare i neonazisti in Ucraina
Il 14 dicembre 2013, McCain si materializzò a Kiev per un incontro con Oleh Tyanhbok, un irriducibile fascista che era diventato uno dei principali leader dell’opposizione. Tyanhbok era un co-fondatore del Partito fascista Social-Nazionale, uno schieramento di estrema destra che si pubblicizzava come “l’ultima speranza per la razza bianca, per l’umanità come tale”. Non esattamente un amico degli Ebrei, si era lamentato che la “mafia ebreo-moscovita” aveva preso il controllo del suo paese, ed era stato fotografato mentre faceva il saluto nazista durante un discorso pubblico.
Niente di tutto questo interessava McCain. E nemmeno gli interessavano le scene dei neo-nazisti del Settore di Destra che riempivano la Piazza Maidan a Kiev mentre egli appariva sul campo per incitarli.
“L’Ucraina renderà l’Europa migliore e l’Europa renderà l’Ucraina migliore!” proclamava McCain alle folle che facevano il tifo mentre Tyanhbok rimaneva al suo fianco. L’unica cosa che per lui contava a quel tempo era il rifiuto del presidente ucraino eletto di firmare un piano di austerità dell’Unione Europea, preferendo invece un accordo economico con Mosca.
McCain era così impegnato a rimpiazzare un governo indipendente con uno vassallo della NATO che evocò addirittura un assalto militare su Kiev. “Non vedo un’opzione militare, e questo è tragico” si lamentò McCain in un’intervista riguardo la crisi. Fortunatamente per lui, il colpo di stato arrivò poco dopo la sua apparizione a Maidan, e gli alleati di Tyanhbok si affrettarono a riempire il vuoto di potere.
Entro fine anno, l’esercito ucraino si ritrovò impantanato in una sanguinosa guerra di trincea con i separatisti filo-russi e anti colpo di stato dell’est del paese. Una milizia affiliata con il nuovo governo a Kiev chiamata Dnipro-1 fu accusata da osservatori di Amnesty International di bloccare gli aiuti umanitari destinati all’area dei separatisti, inclusi cibo e abiti per la popolazione tormentata dalla guerra.
Sei mesi dopo, McCain apparve alla base di addestramento del Dnipro-1 con i senatori Tom Cotton e John Barasso. “Il popolo del mio paese è fiero della vostra battaglia e del vostro coraggio” disse McCain a un ritrovo di soldati della milizia. Quando terminò il suo discorso, i combattenti mostrarono un saluto dell’epoca della seconda guerra mondiale, reso celebre dai collaboratori nazisti ucraini: “Gloria all’Ucraina!”.
Oggi, i nazionalisti di estrema destra occupano posti chiave nel governo ucraino filo-occidentale. Il portavoce del parlamento è Andriy Parubiy, il co-fondatore con Tyanhbok del Partito Social-Nazionalista e leader del movimento in onore dei collaboratori del regime nazista durante la seconda guerra mondiale come Stepan Bandera. Sulla copertina del suo manifesto del 1998, “Vista da destra”, Parubiy appare in una maglietta marrone in stile nazista con una pistola alla vita. Nel giugno 2017, McCain e il portavoce repubblicano del parlamento Paul Ryan diedero il benvenuto a Parubiy a Capitol Hill per quello che McCain definì “un buon incontro”. Era una pacca sulla spalla alle forze fasciste che imperversano in Ucraina.
Gli ultimi mesi in Ucraina hanno visto una milizia neo-nazista sponsorizzata dallo stato chiamata C14 svolgere un pogrom contro la popolazione ROM ucraina, il parlamento del paese organizzare una mostra in onore dei collaboratori dei nazisti e l’esercito ucraino approvare formalmente il saluto filo-nazista “Gloria all’Ucraina” come suo saluto ufficiale.
L’Ucraina ora è il malato d’Europa, un perpetuo caso disperato impantanato in una guerra senza fine ad est. A testimonianza della rovina del paese seguita alla cosiddetta “Rivoluzione della dignità”, il presidente estremamente impopolare Petro Poroshenko ha promesso all’Advisor per la Sicurezza Nazionale alla Casa Bianca, John Bolton, che il suo paese – una volta una ricca fonte di carbone al pari della Pennsylvania – ora comprerà carbone dagli Stati Uniti. Ancora una volta, un’operazione improvvisa di cambio di regime che ha generato uno stato fallito e fascista è quello che rimane di uno dei più grandi trionfi di McCain.
La storia di McCain evoca il ricordo di una delle affermazioni più provocatorie di Sarah Palin, un’altra cretina fanatica che lui ha imposto sulla scena mondiale. Durante un tipico comizio itinerante nell’ottobre 2008, la Palin accusò Barack Obama di “trastullarsi coi terroristi”. L’affermazione fu ignorata come ridicola e quasi diffamatoria, come avrebbe dovuto. Ma guardando alla carriera di McCain, l’accusa suona grandemente ironica.
Come la si voglia mettere, è stato McCain a trastullarsi coi terroristi, e ha strappato quante più risorse possibile al contribuente americano per massimizzare il caos. La speranza è che le società frantumate dagli amici di McCain possano un giorno avere la pace.
Max Blumenthal è un giornalista pluri-premiato e autore di libri come i best seller: Republican Gomorrah: Inside the Movement That Shattered the Party, Goliath: Life and Loathing in Greater Israel, The Fifty One Day War: Ruin and Resistance in Gaza. Ha anche prodotto molti articoli per la stampa, molti report video e documentari, incluso “Io non sono Charlie” e il nuovo “Killing Gaza”. Blumenthal ha fondato il Grayzoneproject.com nel 2015 ed è il suo redattore.
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28/08/18
FT - La Germania deve abbandonare il suo surplus da record e riportarsi in equilibrio
Sul Financial Times si sottolinea per l'ennesima volta un tema che non giunge mai alla ribalta dei media italiani, eppure rappresenta uno dei più grossi problemi, sia per la Germania stessa, sia per i paesi partner dell'eurozona, sia per il resto del mondo: l'abnorme surplus commerciale del paese, che in silenzio trasgredisce da anni le regole previste dai trattati europei. Qui si individuano le ragioni di questa propensione dei tedeschi per la crescita a spese degli altri, trainata dalle esportazioni, legate alla riunificazione delle due Germanie degli anni '90, e le modalità seguite per attuarla. Il risultato è che la Germania, economia più potente dell'eurozona, ha il più grande settore a basso salario dell'Europa occidentale.
di Anke Hassel*, 27 agosto 2018
L'economia tedesca ha bisogno di maggiori investimenti interni e di contrastare i salari bassi
Il surplus delle partite correnti della Germania, il saldo commerciale tra esportazioni e importazioni, dovrebbe ormai raggiungere quasi 300 miliardi di dollari, ovvero il 7,8 per cento del prodotto interno lordo: è il più grande del mondo.
Questo ha attirato le critiche dell'amministrazione Trump e di organizzazioni internazionali come l'FMI, che segnalano i crescenti squilibri globali tra paesi in deficit e in surplus e i rischi per la stabilità dei mercati finanziari derivanti dagli alti livelli di attività all'estero.
La risposta della Germania è quella di insistere sui benefici per tutti del libero scambio, sulla domanda di prodotti tedeschi di alta qualità e sulle esigenze di una società che invecchia.
Tuttavia questi argomenti non sono del tutto convincenti, in quanto le esportazioni elevate potrebbero essere parzialmente compensate da una maggiore domanda interna, e salari più alti consentirebbero ai tedeschi di risparmiare per la vecchiaia.
La Germania è un caso estremo di combinazione di alti tassi di esportazione e depressione della domanda interna. Nonostante le sue dimensioni, ha questa peculiarità in comune con il Benelux e con i paesi scandinavi, anch'essi fortemente trainati dalle esportazioni. Parte della spiegazione per le performance delle esportazioni tedesche è la sottovalutazione dell'euro, ma ciò non spiega la crescita dei bassi salari negli ultimi due decenni e la debolezza della domanda interna.
Allora perché la Germania si comporta in questo modo? La chiave per comprendere l'ossessione dei politici e degli imprenditori tedeschi per una crescita trainata dalle esportazioni sta nelle conseguenze della riunificazione nel 1990. L'economia della Germania riunificata all'inizio fu colpita da una grave recessione nel 1992-93, quando 500.000 posti di lavoro manifatturieri andarono persi e il mercato del lavoro dell'ex Germania dell'Est crollò.
Negli anni '90 la disoccupazione si aggirava intorno al 19%, nonostante i generosi regimi di prepensionamento e riqualificazione. Nel 1999 la Germania era etichettata come "il malato d'Europa".
Furono due le principali risposte a tutto questo. In primo luogo, le imprese manifatturiere nella Germania occidentale e i loro sindacati hanno avviato importanti sforzi di ristrutturazione per recuperare competitività. Furono negoziati accordi a livello aziendale, basati sulla condizione che l'occupazione del nucleo centrale della forza lavoro di quelle società fosse assicurata e che gli aumenti salariali rimanessero moderati.
La seconda risposta è stata la ristrutturazione del mercato del lavoro della Germania dell'Est. I salari nelle regioni deindustrializzate dell'Est si ridussero a livelli bassi, come riflesso di strutture industriali e produttività deboli.
Negli anni '90 la disuguaglianza di salari e di reddito aumentò in tutta la Germania. In Germania crebbe anche la dimensione dei settori a basso salario, passando dal 15% nel 1995 al 22,6% nel 2006, approssimativamente lo stesso livello di oggi. Si è dovuti arrivare al 2015 per introdurre un modesto salario minimo. Di conseguenza, la Germania oggi ha il più grande settore a basso salario dell'Europa occidentale, persino maggiore di quello del Regno Unito.
Contrariamente a quanto a volte si sostiene, le riforme del mercato del lavoro dei primi anni 2000, intitolate a Peter Hartz, ex capo delle risorse umane presso la Volkswagen, non possono essere considerate la causa dell'economia a bassi salari della Germania.
Tuttavia hanno rinforzato le tendenze preesistenti, tagliando l'indennità di disoccupazione e portandola a un sussidio correlato al reddito di 12-18 mesi, in confronto piuttosto misero. Ciò ha aumentato le pressioni sulle grandi aziende manifatturiere perché evitassero i licenziamenti e sui sindacati perché accettassero bassi aumenti salariali.
Ad Est, i tagli ai sussidi di disoccupazione e altri aspetti delle riforme Hartz hanno spinto i disoccupati di lunga durata di bassa o media qualificazione verso impieghi nel settore dei servizi a basso reddito. Sono state introdotte anche agevolazioni volte a favorire il lavoro part-time per le persone a bassa o media qualificazione.
Gli aumenti salariali sono stati bloccati da altre politiche. Il sistema del quoziente familiare per le imposte sul reddito delle coppie sposate si traduce in una riduzione dell'orario di lavoro delle donne e nel fatto che le persone a basso reddito da lavoro in Germania sopportano l'aliquota d'imposta effettiva più elevata nel club dei paesi più ricchi dell'OCSE.
Infine, il freno all'indebitamento, entrato in vigore nel 2011, ha messo ulteriormente sotto pressione il governo federale e i governi regionali, perché dessero priorità al risparmio rispetto agli investimenti. Rispetto ad altri paesi europei, la Germania ha un record particolarmente negativo di investimenti pubblici.
Riequilibrare l'economia è necessario e andrebbe a vantaggio della Germania e dei suoi partner commerciali. Il paese ha bisogno di maggiori investimenti interni e di un migliore livello retributivo, soprattutto nel settore dei servizi. Sebbene le tensioni sul mercato del lavoro potrebbero spingere i salari verso l'alto, la strategia tedesca in patria è considerata di successo ed è saldamente sancita da leggi e istituzioni. Ciò significa che un reale cambiamento richiederà una significativa e difficile inversione di tendenza della politica.
*L'Autrice è direttore della ricerca presso l' Institute of Economic and Social Research (WSI) e professore di politiche pubbliche alla Hertie School of Governance (Berlino)
di Anke Hassel*, 27 agosto 2018
L'economia tedesca ha bisogno di maggiori investimenti interni e di contrastare i salari bassi
Il surplus delle partite correnti della Germania, il saldo commerciale tra esportazioni e importazioni, dovrebbe ormai raggiungere quasi 300 miliardi di dollari, ovvero il 7,8 per cento del prodotto interno lordo: è il più grande del mondo.
Questo ha attirato le critiche dell'amministrazione Trump e di organizzazioni internazionali come l'FMI, che segnalano i crescenti squilibri globali tra paesi in deficit e in surplus e i rischi per la stabilità dei mercati finanziari derivanti dagli alti livelli di attività all'estero.
La risposta della Germania è quella di insistere sui benefici per tutti del libero scambio, sulla domanda di prodotti tedeschi di alta qualità e sulle esigenze di una società che invecchia.
Tuttavia questi argomenti non sono del tutto convincenti, in quanto le esportazioni elevate potrebbero essere parzialmente compensate da una maggiore domanda interna, e salari più alti consentirebbero ai tedeschi di risparmiare per la vecchiaia.
La Germania è un caso estremo di combinazione di alti tassi di esportazione e depressione della domanda interna. Nonostante le sue dimensioni, ha questa peculiarità in comune con il Benelux e con i paesi scandinavi, anch'essi fortemente trainati dalle esportazioni. Parte della spiegazione per le performance delle esportazioni tedesche è la sottovalutazione dell'euro, ma ciò non spiega la crescita dei bassi salari negli ultimi due decenni e la debolezza della domanda interna.
Allora perché la Germania si comporta in questo modo? La chiave per comprendere l'ossessione dei politici e degli imprenditori tedeschi per una crescita trainata dalle esportazioni sta nelle conseguenze della riunificazione nel 1990. L'economia della Germania riunificata all'inizio fu colpita da una grave recessione nel 1992-93, quando 500.000 posti di lavoro manifatturieri andarono persi e il mercato del lavoro dell'ex Germania dell'Est crollò.
Negli anni '90 la disoccupazione si aggirava intorno al 19%, nonostante i generosi regimi di prepensionamento e riqualificazione. Nel 1999 la Germania era etichettata come "il malato d'Europa".
Furono due le principali risposte a tutto questo. In primo luogo, le imprese manifatturiere nella Germania occidentale e i loro sindacati hanno avviato importanti sforzi di ristrutturazione per recuperare competitività. Furono negoziati accordi a livello aziendale, basati sulla condizione che l'occupazione del nucleo centrale della forza lavoro di quelle società fosse assicurata e che gli aumenti salariali rimanessero moderati.
La seconda risposta è stata la ristrutturazione del mercato del lavoro della Germania dell'Est. I salari nelle regioni deindustrializzate dell'Est si ridussero a livelli bassi, come riflesso di strutture industriali e produttività deboli.
Negli anni '90 la disuguaglianza di salari e di reddito aumentò in tutta la Germania. In Germania crebbe anche la dimensione dei settori a basso salario, passando dal 15% nel 1995 al 22,6% nel 2006, approssimativamente lo stesso livello di oggi. Si è dovuti arrivare al 2015 per introdurre un modesto salario minimo. Di conseguenza, la Germania oggi ha il più grande settore a basso salario dell'Europa occidentale, persino maggiore di quello del Regno Unito.
Contrariamente a quanto a volte si sostiene, le riforme del mercato del lavoro dei primi anni 2000, intitolate a Peter Hartz, ex capo delle risorse umane presso la Volkswagen, non possono essere considerate la causa dell'economia a bassi salari della Germania.
Tuttavia hanno rinforzato le tendenze preesistenti, tagliando l'indennità di disoccupazione e portandola a un sussidio correlato al reddito di 12-18 mesi, in confronto piuttosto misero. Ciò ha aumentato le pressioni sulle grandi aziende manifatturiere perché evitassero i licenziamenti e sui sindacati perché accettassero bassi aumenti salariali.
Ad Est, i tagli ai sussidi di disoccupazione e altri aspetti delle riforme Hartz hanno spinto i disoccupati di lunga durata di bassa o media qualificazione verso impieghi nel settore dei servizi a basso reddito. Sono state introdotte anche agevolazioni volte a favorire il lavoro part-time per le persone a bassa o media qualificazione.
Gli aumenti salariali sono stati bloccati da altre politiche. Il sistema del quoziente familiare per le imposte sul reddito delle coppie sposate si traduce in una riduzione dell'orario di lavoro delle donne e nel fatto che le persone a basso reddito da lavoro in Germania sopportano l'aliquota d'imposta effettiva più elevata nel club dei paesi più ricchi dell'OCSE.
Infine, il freno all'indebitamento, entrato in vigore nel 2011, ha messo ulteriormente sotto pressione il governo federale e i governi regionali, perché dessero priorità al risparmio rispetto agli investimenti. Rispetto ad altri paesi europei, la Germania ha un record particolarmente negativo di investimenti pubblici.
Riequilibrare l'economia è necessario e andrebbe a vantaggio della Germania e dei suoi partner commerciali. Il paese ha bisogno di maggiori investimenti interni e di un migliore livello retributivo, soprattutto nel settore dei servizi. Sebbene le tensioni sul mercato del lavoro potrebbero spingere i salari verso l'alto, la strategia tedesca in patria è considerata di successo ed è saldamente sancita da leggi e istituzioni. Ciò significa che un reale cambiamento richiederà una significativa e difficile inversione di tendenza della politica.
*L'Autrice è direttore della ricerca presso l' Institute of Economic and Social Research (WSI) e professore di politiche pubbliche alla Hertie School of Governance (Berlino)
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26/08/18
Eurointelligence: AfD è un partito di sinistra o di destra?
Una sintesi da Eurointelligence si sofferma su un aspetto del panorama politico tedesco, in parte presente anche in altri paesi, ossia il venir meno di distinzioni nette tra partiti di destra e di sinistra. In particolare si osservano sempre più punti di contatto tra AfD e la Linke, i due partiti agli estremi opposti dello spettro politico, i quali su una vasta gamma di temi si trovano però molto più in sintonia di quanto non appaia. D'altra parte, tra i partiti tradizionali, i socialdemocratici sono ormai indistinguibili dai neoliberisti di destra.
22 agosto 2018
Mentre nell'UE si torna lentamente al lavoro dopo la pausa estiva, un interessante articolo su FAZ discute gli sforzi compiuti da alcuni esponenti di AfD per riposizionare il partito a sinistra per quanto riguarda le politiche sociali, in diretta competizione con l'SPD e la Linke. Ricordiamo il famoso dibattito nel Partito della Linke, in cui Oskar Lafontaine e Sahra Wagenknecht hanno cercato di aprire il partito a destra - con le loro richieste di uscita dall'euro e stop all'immigrazione.
Esistono ancora alcuni libertari economici all'interno dell'AfD, la cui appartenenza risale ai tempi in cui il partito si concentrava essenzialmente sull'uscita dall'euro, ma molti di loro l’hanno abbandonato, e i rimasti sono ora in minoranza rispetto all'estrema destra.
La questione politica su cui si concentra adesso il dibattito all'interno dell'AfD è il futuro del sistema pensionistico tedesco. Due importanti esponenti di AfD, Bjorn Hocke, capo del partito in Turingia, una delle roccaforti AfD, e Jurgen Pohl, deputato AfD per lo stesso Land, si sono dichiarati a favore di una pensione statale come parte di un pacchetto più ampio di diritti dei cittadini. Ciò rappresenterebbe la più grande riforma sociale nella Germania del dopoguerra, nel cui sistema pensionistico tutti versano contributi in un fondo, e la pensione è finanziariamente correlata all'importo e al numero di anni di pagamento.
Il costo stimato per le pensioni statali sarebbe di 125 miliardi di euro all'anno. Hocke è all'estrema destra del partito, ed è lì dove c'è il più grande sostegno per le politiche di welfare sociale di sinistra. L'ala destra del partito vorrebbe inoltre aumentare l'indennità di disoccupazione. L’unica - e, presumiamo, insormontabile - differenza con la SPD è la vicinanza di quest'ultimo ai sindacati.
A parziale sostegno di questi argomenti si colloca un recente commento di Steve Fuller, un accademico che ha studiato i cambiamenti ideologici e le svolte dei partiti socialdemocratici in Europa. La sua tesi è che i socialdemocratici sono diventati praticamente indistinguibili dai neoliberali, ovvero da quel movimento nato nella Germania del dopoguerra per rafforzare la base istituzionale del liberalismo. A questo proposito cita il sociologo Robert Michels, secondo il quale la socialdemocrazia sarebbe il paradigma di un'ideologia disposta a tutto per mantenere il potere, adattando i propri principi alle circostanze. Tra gli esempi troviamo l'appoggio dato dalla SPD alle riforme sociali di Bismarck, e dopo la seconda guerra mondiale la rottura ufficiale del partito dal marxismo. Fuller sostiene che la principale differenza rimanente tra socialdemocratici e neoliberisti è come reagiscono ai propri fallimenti politici. Mentre i socialdemocratici danno la colpa ai ricchi, i neoliberali danno invece la colpa ai poveri.
22 agosto 2018
Mentre nell'UE si torna lentamente al lavoro dopo la pausa estiva, un interessante articolo su FAZ discute gli sforzi compiuti da alcuni esponenti di AfD per riposizionare il partito a sinistra per quanto riguarda le politiche sociali, in diretta competizione con l'SPD e la Linke. Ricordiamo il famoso dibattito nel Partito della Linke, in cui Oskar Lafontaine e Sahra Wagenknecht hanno cercato di aprire il partito a destra - con le loro richieste di uscita dall'euro e stop all'immigrazione.
Esistono ancora alcuni libertari economici all'interno dell'AfD, la cui appartenenza risale ai tempi in cui il partito si concentrava essenzialmente sull'uscita dall'euro, ma molti di loro l’hanno abbandonato, e i rimasti sono ora in minoranza rispetto all'estrema destra.
La questione politica su cui si concentra adesso il dibattito all'interno dell'AfD è il futuro del sistema pensionistico tedesco. Due importanti esponenti di AfD, Bjorn Hocke, capo del partito in Turingia, una delle roccaforti AfD, e Jurgen Pohl, deputato AfD per lo stesso Land, si sono dichiarati a favore di una pensione statale come parte di un pacchetto più ampio di diritti dei cittadini. Ciò rappresenterebbe la più grande riforma sociale nella Germania del dopoguerra, nel cui sistema pensionistico tutti versano contributi in un fondo, e la pensione è finanziariamente correlata all'importo e al numero di anni di pagamento.
Il costo stimato per le pensioni statali sarebbe di 125 miliardi di euro all'anno. Hocke è all'estrema destra del partito, ed è lì dove c'è il più grande sostegno per le politiche di welfare sociale di sinistra. L'ala destra del partito vorrebbe inoltre aumentare l'indennità di disoccupazione. L’unica - e, presumiamo, insormontabile - differenza con la SPD è la vicinanza di quest'ultimo ai sindacati.
A parziale sostegno di questi argomenti si colloca un recente commento di Steve Fuller, un accademico che ha studiato i cambiamenti ideologici e le svolte dei partiti socialdemocratici in Europa. La sua tesi è che i socialdemocratici sono diventati praticamente indistinguibili dai neoliberali, ovvero da quel movimento nato nella Germania del dopoguerra per rafforzare la base istituzionale del liberalismo. A questo proposito cita il sociologo Robert Michels, secondo il quale la socialdemocrazia sarebbe il paradigma di un'ideologia disposta a tutto per mantenere il potere, adattando i propri principi alle circostanze. Tra gli esempi troviamo l'appoggio dato dalla SPD alle riforme sociali di Bismarck, e dopo la seconda guerra mondiale la rottura ufficiale del partito dal marxismo. Fuller sostiene che la principale differenza rimanente tra socialdemocratici e neoliberisti è come reagiscono ai propri fallimenti politici. Mentre i socialdemocratici danno la colpa ai ricchi, i neoliberali danno invece la colpa ai poveri.
24/08/18
La macroeconomia e il voto italiano
Proponiamo con piacere la traduzione di un articolo apparso su INET Blog, di grande attualità per il nostro paese. Walter Paternesi Meloni e Antonella Stirati, rispettivamente assegnista di ricerca e professore ordinario di Economia politica presso il dipartimento di Economia dell’Università di Roma Tre, ci invitano a fare un passo indietro ed esaminare le cause macroeconomiche che hanno portato alla vittoria dell'attuale coalizione di governo, tenendo d'occhio anche le sfide che attendono i partiti di governo nei prossimi mesi.
Di Walter Paternesi Meloni e Antonella Stirati, 6 agosto 2018
Per comprendere l'ascesa della Lega e del Movimento Cinque Stelle basta dare un’occhiata agli indicatori economici.
I risultati delle elezioni del 2018 in Italia - con il successo del Movimento Cinque Stelle, l'importanza relativa acquisita dalla Lega Nord, e il netto calo con conseguente disgregazione del Partito Democratico - hanno attirato molta attenzione all’estero e forse anche suscitato qualche sorpresa. Il carattere anti-euro e anti-austerità di gran parte della retorica pre-elettorale dei due partiti al potere è stato vicino a provocare una crisi istituzionale nel Paese e ha generato le reazioni, tra l’irritato e l’arrogante, di vari leader e commentatori europei.
In questo breve contributo non è nostra intenzione fare un'analisi sociologica né politica del voto, per la quale non abbiamo competenze, ma fornire alcuni dati sulle tendenze macroeconomiche e sulla disuguaglianza e la distribuzione del reddito nell'ultimo decennio, oltre a ulteriori informazioni sui fatti antecedenti alla crisi del 2008. In questo modo pensiamo di poter aiutare a chiarire alcuni equivoci e facilitare una migliore comprensione del perché la maggioranza degli italiani abbia votato chiaramente contro "riavere la stessa cosa", per quanto capire a favore di cosa abbiano effettivamente votato potrebbe essere meno chiaro.
Non ci soffermeremo sulla questione scottante e complessa dell'immigrazione, che è comunque centrale nel dibattito politico interno in Italia e in altri paesi europei e allo stesso tempo rivela così apertamente la disunione europea e l'incapacità di unire gli sforzi per affrontarla. Tuttavia, riteniamo che le informazioni riportate di seguito possano indicare che, anche senza tenere conto dell'immigrazione, i problemi economici e sociali siano tali da indirizzare in buona parte la politica italiana nella stessa direzione e misura. In altre parole, riteniamo che la preoccupazione per l'immigrazione non sia necessariamente la ragione principale della svolta politica in Italia. Piuttosto, è un segnale che in Italia, come in altri paesi europei, le politiche di austerità, la deregolamentazione del mercato del lavoro e il crescente tasso di povertà non sono compatibili con un clima che consenta una gestione civile e ordinata dei flussi migratori, nonché la loro integrazione.
Il Double Dip dell'Italia e le sue conseguenze
La crisi del 2008 ha colpito duramente l'economia italiana, come si può vedere nella figura 1; eppure il crollo iniziale non è stato maggiore di quello della Germania.
Entrambi i paesi hanno un grande settore manifatturiero, notoriamente più sensibile alle fluttuazioni dei mercati rispetto al settore dei servizi. Dopo la crisi c’è stata una ripresa iniziale, ma è stata interrotta dalla "crisi dello spread" europea (ovvero, caduta dei prezzi e aumento dei tassi di interesse sui titoli pubblici italiani e di altri paesi "periferici" nei mercati finanziari) e il successivo avvio di politiche di austerità più pesanti, che hanno causato un calo delle spese correnti e degli investimenti pubblici (come documentato dalle figure 2-5) e un aumento delle entrate fiscali complessive di 18 miliardi di euro nel periodo 2011-2013, soprattutto a causa dell'aumento della tassazione indiretta. Come conseguenza di tali misure, il PIL ha subito un forte calo (-73 miliardi di euro reali, vale a dire -4,5 punti percentuali), nonostante una discreta ripresa delle esportazioni. La produzione industriale è scesa molto più del PIL: è scesa di un quarto tra il 2007 e il 2009, ha poi recuperato 7 punti nel 2010-11, ma successivamente è diminuita nuovamente e nel 2015 era ancora leggermente inferiore al livello del 2009.
La disoccupazione complessiva, pari al 6,2% nel 2007, è cresciuta dall'8,4% toccato nel 2010 al 12,4% nel 2013, ed è attualmente appena inferiore all'11%. La disoccupazione giovanile (quella tra i 15 e i 29 anni) è aumentata di oltre 10 punti (figura 6) in due anni, tra il 2011 e il 2013, a causa della combinazione del calo del PIL e della riforma delle pensioni. Quest'ultima, rinviando il pensionamento dei lavoratori dipendenti, ha impedito il ricambio fisiologico della forza lavoro, e quindi ha ridotto drasticamente le opportunità per i lavoratori più giovani di entrare nel mondo del lavoro a sostituire gli anziani in uscita per pensione. La stessa riforma ha anche causato un aumento della disoccupazione tra i lavoratori anziani che hanno perso il lavoro durante la crisi. Ci sono circa 500.000 disoccupati di età superiore ai 50 anni (la maggior parte dei quali ha grandi difficoltà a trovare un impiego), oltre tre volte quanti ce ne fossero nel 2006.
Oltre ad aumentare la disoccupazione e ridurre il PIL e il reddito a disposizione delle famiglie, le politiche di austerità colpiscono anche i servizi pubblici e lo stato sociale. In particolare, il Servizio sanitario nazionale e l'istruzione pubblica, che si possono considerare i due pilastri principali del sistema di welfare universale italiano. Il primo ha subito una riduzione del 7% in termini reali tra il 2011 e il 2013, mentre il secondo ha visto un calo progressivo delle risorse a più lungo termine, con una perdita reale del 20% tra il 2007 e il 2015. Ciò ha anche comportato, tra le altre cose, enormi riduzioni del sostegno finanziario concesso agli studenti universitari meritevoli provenienti da famiglie a basso reddito, nonché grandi difficoltà per giovani altamente qualificati nell'ottenere posti di lavoro nell'istruzione pubblica e nei sistemi di ricerca. E questo nonostante la spesa pubblica italiana in questi settori specifici e nel suo complesso (compresi tutti i servizi e la protezione sociale), pro capite e in percentuale sul PIL, sia attualmente, e sia sempre stata, inferiore a quella di altri paesi europei di comparabili dimensioni e livello di sviluppo. Anche gli investimenti pubblici sono diminuiti drasticamente durante il periodo di austerità, con ricadute visibili sul mantenimento degli edifici pubblici e delle infrastrutture.
Ma, si potrebbe obiettare, queste misure erano necessarie per frenare l'alto rapporto debito pubblico/PIL, che si diceva fosse alla base della "crisi dello spread", ed infatti è così che il messaggio è stato fatto passare. Al contrario, come era in effetti prevedibile, le politiche di austerità hanno causato un aumento del rapporto debito/PIL (figura 7), riducendo il reddito nazionale (il denominatore di quel rapporto) e, di conseguenza, le entrate fiscali.
In altre parole, l'Italia è un esempio vivente del fatto, oggi ampiamente riconosciuto anche dagli economisti tradizionali [1], che i consolidamenti fiscali possono avere effetti "perversi" persistenti sul rapporto debito/PIL, specialmente quando l'economia è in recessione e i moltiplicatori fiscali sono particolarmente alti. Secondo altre interpretazioni della crisi, le previsioni dei mercati finanziari che la Banca centrale europea (BCE) non sarebbe intervenuta sul mercato dei titoli pubblici a causa del suo peculiare statuto hanno avuto un ruolo importante nell'emergere della crisi diffusa e hanno quasi causato il fallimento dell'euro, dovuto alla persistente inerzia da parte della BCE. Ad ogni modo, è stato il cambiamento di rotta della BCE, non l'austerità, a porre fine alla crisi.
In realtà, l'austerità ha causato, e causa ancora, una crescente fragilità nell'economia italiana, non solo a seguito dell'aumento del rapporto debito pubblico/PIL, ma anche della riduzione della capacità produttiva nel settore manifatturiero e delle difficoltà nel settore bancario (cfr. Giacchè, 2017). Per quanto riguarda quest'ultimo, la crisi dell'economia reale ha causato un aumento del carico dei crediti in sofferenza nelle banche italiane. Queste ultime in generale erano meno implicate delle banche tedesche e francesi in rischiose speculazioni sul mercato finanziario, ma più attive nel fornire credito alle famiglie e alle piccole e medie imprese, che rappresentano una quota molto ampia del settore manifatturiero italiano. Le famiglie e le imprese hanno entrambe subito forti perdite a causa delle due crisi menzionate sopra: la prima causata dalla crisi finanziaria internazionale, la seconda dalle politiche di austerità. Per questo la fragilità del settore bancario, oltre ad essere un problema di per sé, tende anche a causare persistenti difficoltà nell’accesso al credito da parte delle famiglie e, ancora più significativamente, delle imprese.
Nonostante una moderata ripresa negli ultimi tre anni, il PIL reale, l'occupazione (misurata in unità di lavoro standard) e la produzione industriale rimangono molto inferiori ai valori pre-crisi (dal 2007 al 2017, -5,25%; -4,63%; 24,39%, rispettivamente) [2].
Se guardiamo al lavoro e alla distribuzione del reddito, l'Italia ha subito a partire dagli anni '90 una serie di "riforme" relative ai contratti salariali e di impiego e alla (de)regolamentazione del mercato del lavoro. L'ultimo di questi, approvato nel 2015, ha eliminato tutte le protezioni legali ancora esistenti contro licenziamenti individuali ingiustificati (cioè senza alcuna motivazione disciplinare o economica), ad eccezione di una compensazione monetaria relativamente limitata. In aggiunta a ciò, il continuum delle riforme ha consentito un utilizzo crescente di contratti "atipici" e di breve durata. Questi ultimi rappresentano attualmente il 16% della forza lavoro dipendente totale e il 40% dei dipendenti tra i 15 e i 29 anni, mentre i lavoratori a part-time involontario ammontano a 2,6 milioni.
I salari reali sono rimasti invariati da molto tempo: secondo i dati dell'OCSE, i guadagni lordi medi in termini reali da lavoro dipendente sono attualmente di quasi l'1% al di sotto del livello del 2008 e solo del 3% superiori a quelli del 1990. Il reddito medio annuo lordo dei lavoratori a parità di potere d'acquisto in Italia è attualmente inferiore (pari a 36.700 dollari) rispetto a Francia (43.800) e Germania (47.600), e il terzo più basso nell'Eurozona dopo Portogallo e Grecia. La povertà assoluta è cresciuta e nel 2017 riguarda cinque milioni di persone (8,3% dei residenti); mentre la povertà relativa, che ammonta al 15% della popolazione, è diffusa non solo tra i disoccupati ma anche tra i lavoratori, in particolare quelli che hanno a carico due o più figli. La combinazione di alta disoccupazione, bassa retribuzione e lavori precari ha causato, soprattutto tra i giovani italiani, ma non solo, incertezza, mancanza di prospettive e difficoltà a realizzare una vita individuale e familiare indipendente.
Tendenze prima del 2008
Un'analisi a lungo termine della stagnazione dell'economia risulta complessa.
A differenza di altri paesi "periferici" in Europa, l'Italia non ha vissuto un precedente "boom" trainato dal debito in seguito all'unificazione monetaria. Mentre paesi come la Grecia e la Spagna hanno beneficiato, seppur temporaneamente, di una crescita (per quanto destabilizzante) derivante da ingenti afflussi di capitali dai paesi core europei, che a loro volta hanno finanziato l'aumento dell'indebitamento del settore privato e la crescita sostenuta della domanda interna, processi simili non si sono materializzati in Italia. Sebbene il debito delle famiglie private sia aumentato anche in Italia, soprattutto dopo il 2008, rimane ancora molto al di sotto di quello della maggior parte degli altri paesi europei.
Tuttavia, la situazione era tutt'altro che ideale ancora prima della crisi, ma la causa non è da ricercare nella mancanza di misure di austerità, ma piuttosto in una tendenza politica che, dopo il 2008, si è solo, ma drasticamente, intensificata.
Già prima dell'inizio dell'euro, nei primi anni '90, nell'ambito del suo obiettivo di convergenza verso l'unificazione monetaria, l'Italia ha perseguito politiche fiscali di avanzo primario del bilancio pubblico, che è continuato fino ad oggi, con la sola eccezione del 2008 (il rapporto debito pubblico/PIL si è ridotto di circa 20 punti tra il 1990 e il 2007). Di conseguenza, la dinamica della spesa pubblica è stata da allora molto più moderata di quella sperimentata dalla Germania o dalla Francia (cfr. figura 8).
Queste tendenze, combinate con il peggioramento della distribuzione del reddito, la stagnazione dei salari e l’apprezzamento del tasso di cambio reale, in particolare nei confronti della Germania, hanno causato una stagnazione della domanda aggregata e, di conseguenza, una stagnazione della crescita della produzione e quindi della produttività. Molti studi hanno infatti documentato sia in generale, sia con riferimento specifico ai dati italiani, la validità della legge di Kaldor-Verdoorn, cioè che la crescita della produttività, in particolare nel settore manifatturiero, è in larga misura endogena e dipende dal crescita complessiva dell'economia (Millemaci e Ofria, 2014). Uno dei motivi è la dipendenza degli investimenti privati - che hanno ovviamente un ruolo molto importante nell'aggiornamento dei beni strumentali e della tecnologia - dalla crescita della domanda aggregata (Girardi et al., 2018).
Infine, va sottolineato che gli italiani, in netto contrasto con la retorica prevalente secondo la quale avrebbero vissuto "al di sopra delle loro possibilità", non hanno mai beneficiato di un sistema di spesa e di welfare pubblico davvero generoso. Nel complesso, la spesa pubblica pro capite, sia al netto che al lordo degli interessi, è sempre stata inferiore a quella di paesi avanzati comparabili, tra cui Francia e Germania (cfr. figura 9).
Le origini dell'elevato debito pubblico non sono dovute a una spesa eccessiva; e - nonostante le entrate fiscali soffrano di un problema strutturale di evasione da parte dei lavoratori autonomi e delle imprese - le origini dell’elevato debito pubblico devono essere principalmente ricercate in un periodo di tempo specifico e relativamente breve, e nelle scelte fatte dalle autorità monetarie. Fu infatti durante gli anni Ottanta che l'Italia vide un raddoppio del rapporto debito pubblico/PIL, come conseguenza di tassi di interesse reali molto alti, che causavano un effetto valanga sul debito pubblico. Tassi di interesse così elevati servivano a sostenere l'obbligo a mantenere un tasso di cambio fisso all'interno dell'Unione economica e monetaria (UEM) tramite l’afflusso di capitali dall'estero, a fronte di un più alto tasso di inflazione rispetto ad altri paesi europei, che comportava un apprezzamento reale e il peggioramento della bilancia commerciale. Questa politica, tuttavia, non riuscì a impedire l'attacco speculativo e la svalutazione della lira italiana nel 1992, con la successiva uscita temporanea dal sistema di cambi fissi. In aggiunta a ciò, secondo alcune interpretazioni, la Banca d'Italia, attraverso tassi di interesse così elevati, mirava a sostenere i rendimenti delle banche nazionali, in modo che fossero in grado di fronteggiare una più intensa concorrenza internazionale nel settore finanziario. A prescindere dalle motivazioni, tuttavia, il punto è che, a partire dai primi anni '90, la preoccupazione di ridurre il peso del debito pubblico non implicava la necessità di una riduzione dell’eccessiva spesa pubblica, ma piuttosto lo scarso contributo del settore pubblico allo stimolo della domanda e alla crescita a livello macroeconomico rispetto ad altri paesi europei, nonché il basso coinvolgimento del settore pubblico (rispetto ad altri paesi industriali) nel fornire infrastrutture e servizi moderni e il sostegno pubblico agli investimenti e all'innovazione tecnica, che finiva col contribuire agli scarsi risultati complessivi in termini di crescita della produttività.
Conclusioni
Il triste quadro della situazione sociale ed economica italiana contribuisce a spiegare il recente voto italiano. Che si consideri giusta o sbagliata la scelta fatta dagli elettori, il messaggio principale è che la maggioranza della popolazione vuole un cambiamento rispetto al passato. Ciò non implica necessariamente che esista una chiara consapevolezza diffusa su ciò che sta accadendo. L’informazione nei media italiani su tutto ciò che riguarda la vita economica è insufficiente e standardizzata, generalmente tesa al sostegno dell'austerità e della deregolamentazione, e della tesi per cui i problemi del paese sono l’inefficienza, la corruzione e le spese eccessive, o almeno mal pianificate, da parte del settore pubblico. Ma quale che sia la comprensione dei problemi attuali a livello intellettuale, i cittadini sanno per esperienza diretta quali sono le loro difficoltà e i loro problemi. Sia il Movimento Cinque Stelle che la Lega hanno raccolto i voti di milioni di lavoratori della classe operaia e della classe media (in molti casi già elettori del Partito Democratico), e le loro campagne elettorali includevano molte promesse di un radicale cambiamento rispetto all'austerità (il Movimento Cinque Stelle si concentrava sull'attuazione di un ampio sistema di sostegno al reddito per i disoccupati e le persone a basso reddito, e su ulteriori investimenti pubblici nel Sud, mentre la Lega sottolineava una riduzione dell'imposizione fiscale mediante una "flat tax"; entrambe le parti inoltre concordavano sulla necessità di rivedere la legge sulla riforma delle pensioni del 2011 per renderla meno gravosa) e anche rispetto ad ulteriori liberalizzazioni del commercio internazionale. Non è chiaro se e fino a che punto manterranno ciò che hanno promesso. Ma, come già accaduto con il presidente del Consiglio Matteo Renzi alcuni anni fa, a meno che l'attuale governo non riesca a rispondere ai bisogni di una larga fetta del proprio elettorato e dimostri di attuare cambiamenti tangibili in termini di opportunità di lavoro, salari più alti, protezione sociale e investimenti pubblici in servizi e infrastrutture, il consenso attuale rischia di scomparire rapidamente. Tuttavia, anche senza tener conto delle reali intenzioni originali dei partiti ora al governo, le pressioni delle istituzioni europee e dei "mercati finanziari"[3] hanno già suscitato numerose dichiarazioni da parte dei membri del governo italiano, e in particolare del ministro per l’Economia, che ribadiscono la volontà di rispettare le regole di bilancio, il che a sua volta limiterebbe significativamente gli spazi di azione per affrontare i problemi appena elencati. D'altra parte, le iniziative del leader del Movimento Cinque Stelle e del ministro del Lavoro, volte a ridurre moderatamente la deregolamentazione del mercato del lavoro, stanno incontrando feroci critiche e opposizione da parte dell'associazione nazionale dei datori di lavoro (Confindustria). Ma la posta è molto alta: se il governo attuale perde consenso popolare ed elettorale, sia i grandi capitalisti sia gli elettori difficilmente torneranno a forze politiche moderate e liberali come il Partito Democratico o Forza Italia di Berlusconi, e le tensioni all'interno dell'UE e nella zona euro probabilmente continueranno a deteriorarsi.
Bibliografia
DeLong, J. B., Summers, L. H., Feldstein, M., & Ramey, V. A. (2012). Fiscal policy in a depressed economy [con commenti e discussione]. Brookings Papers on Economic Activity, 233-297.
Ciccone, R. (2012). Austerità, BCE e il peggioramento dei conti pubblici, in Oltre l’austerità, MicroMega.
Fatás, A., & Summers, L. H. (2018). The permanent effects of fiscal consolidations. Journal of International Economics, 112, 238-250.
Nuti, D. M. (2013). Perverse Fiscal Consolidation, Sbilanciamoci.info, 11. Versione italiana.
Millemaci, E., & Ofria, F. (2016). Supply and demand-side determinants of productivity growth in Italian regions. Structural Change and Economic Dynamics, 37, 138-146.
Giacchè, V. (2017) The Real Cause of the Italian Bank Bailouts and Euro Banking Troubles, https://www.ineteconomics.org/perspectives/blog/the-real-cause-of-the-italian-bank-bailouts-and-euro-banking-troubles
Girardi, D., Paternesi Meloni, W., & Stirati, A. (2017). Persistent effects of autonomous demand expansions. INET working paper No 70.
Note
[1] Si vedano DeLong et al. (2012) e Fatàs and Summers (2018); per un’analisi non mainstream, si vedano Ciccone (2012) e Nuti (2013).
[2] Il PIL reale era di circa 1,683 miliardi di euro nel 2007 e di 1,543 nel 2017 (OCSE), le unità di lavoro standard sono passate da 25,125 milioni a 23,962 (Istat) e l'indice di produzione industriale da 118,8 a 95,5 (Ameco).
[3] "I mercati finanziari", naturalmente, sono tutt’altro che una serie di piccoli investitori anonimi, ma possono essere guidati dalle azioni intraprese da un numero relativamente piccolo di grandi istituzioni finanziarie; a sua volta questi saranno molto sensibili alle tensioni con le Istituzioni europee e in particolare all'atteggiamento della Banca centrale europea, poiché da ciò dipende la "rischiosità" (caduta dei prezzi o ridenominazione) dei titoli pubblici italiani e la relativa debolezza delle banche italiane che possiedono una grande percentuale di queste ultime.
Di Walter Paternesi Meloni e Antonella Stirati, 6 agosto 2018
Per comprendere l'ascesa della Lega e del Movimento Cinque Stelle basta dare un’occhiata agli indicatori economici.
I risultati delle elezioni del 2018 in Italia - con il successo del Movimento Cinque Stelle, l'importanza relativa acquisita dalla Lega Nord, e il netto calo con conseguente disgregazione del Partito Democratico - hanno attirato molta attenzione all’estero e forse anche suscitato qualche sorpresa. Il carattere anti-euro e anti-austerità di gran parte della retorica pre-elettorale dei due partiti al potere è stato vicino a provocare una crisi istituzionale nel Paese e ha generato le reazioni, tra l’irritato e l’arrogante, di vari leader e commentatori europei.
In questo breve contributo non è nostra intenzione fare un'analisi sociologica né politica del voto, per la quale non abbiamo competenze, ma fornire alcuni dati sulle tendenze macroeconomiche e sulla disuguaglianza e la distribuzione del reddito nell'ultimo decennio, oltre a ulteriori informazioni sui fatti antecedenti alla crisi del 2008. In questo modo pensiamo di poter aiutare a chiarire alcuni equivoci e facilitare una migliore comprensione del perché la maggioranza degli italiani abbia votato chiaramente contro "riavere la stessa cosa", per quanto capire a favore di cosa abbiano effettivamente votato potrebbe essere meno chiaro.
Non ci soffermeremo sulla questione scottante e complessa dell'immigrazione, che è comunque centrale nel dibattito politico interno in Italia e in altri paesi europei e allo stesso tempo rivela così apertamente la disunione europea e l'incapacità di unire gli sforzi per affrontarla. Tuttavia, riteniamo che le informazioni riportate di seguito possano indicare che, anche senza tenere conto dell'immigrazione, i problemi economici e sociali siano tali da indirizzare in buona parte la politica italiana nella stessa direzione e misura. In altre parole, riteniamo che la preoccupazione per l'immigrazione non sia necessariamente la ragione principale della svolta politica in Italia. Piuttosto, è un segnale che in Italia, come in altri paesi europei, le politiche di austerità, la deregolamentazione del mercato del lavoro e il crescente tasso di povertà non sono compatibili con un clima che consenta una gestione civile e ordinata dei flussi migratori, nonché la loro integrazione.
Il Double Dip dell'Italia e le sue conseguenze
La crisi del 2008 ha colpito duramente l'economia italiana, come si può vedere nella figura 1; eppure il crollo iniziale non è stato maggiore di quello della Germania.
Figura 1-PIL in termini reali dell'Italia (in miliardi di euro a valore costante).
Fonte: OECD Economic Outlook.
Entrambi i paesi hanno un grande settore manifatturiero, notoriamente più sensibile alle fluttuazioni dei mercati rispetto al settore dei servizi. Dopo la crisi c’è stata una ripresa iniziale, ma è stata interrotta dalla "crisi dello spread" europea (ovvero, caduta dei prezzi e aumento dei tassi di interesse sui titoli pubblici italiani e di altri paesi "periferici" nei mercati finanziari) e il successivo avvio di politiche di austerità più pesanti, che hanno causato un calo delle spese correnti e degli investimenti pubblici (come documentato dalle figure 2-5) e un aumento delle entrate fiscali complessive di 18 miliardi di euro nel periodo 2011-2013, soprattutto a causa dell'aumento della tassazione indiretta. Come conseguenza di tali misure, il PIL ha subito un forte calo (-73 miliardi di euro reali, vale a dire -4,5 punti percentuali), nonostante una discreta ripresa delle esportazioni. La produzione industriale è scesa molto più del PIL: è scesa di un quarto tra il 2007 e il 2009, ha poi recuperato 7 punti nel 2010-11, ma successivamente è diminuita nuovamente e nel 2015 era ancora leggermente inferiore al livello del 2009.
Figura 2-Spese correnti del governo italiano, compresa la spesa per gli interessi (in miliardi di euro a valore costante).
Fonte: OECD.Stat (COFOG).
Figura 3-Investimenti pubblici italiani (in miliardi di euro a valore costante).
Fonte: OECD.Stat (COFOG).
Figure 4 e 5-Spesa corrente del governo italiano secondo la funzione (in miliardi di euro a valore costante).
Fonte: OECD. Stat (COFOG).
La disoccupazione complessiva, pari al 6,2% nel 2007, è cresciuta dall'8,4% toccato nel 2010 al 12,4% nel 2013, ed è attualmente appena inferiore all'11%. La disoccupazione giovanile (quella tra i 15 e i 29 anni) è aumentata di oltre 10 punti (figura 6) in due anni, tra il 2011 e il 2013, a causa della combinazione del calo del PIL e della riforma delle pensioni. Quest'ultima, rinviando il pensionamento dei lavoratori dipendenti, ha impedito il ricambio fisiologico della forza lavoro, e quindi ha ridotto drasticamente le opportunità per i lavoratori più giovani di entrare nel mondo del lavoro a sostituire gli anziani in uscita per pensione. La stessa riforma ha anche causato un aumento della disoccupazione tra i lavoratori anziani che hanno perso il lavoro durante la crisi. Ci sono circa 500.000 disoccupati di età superiore ai 50 anni (la maggior parte dei quali ha grandi difficoltà a trovare un impiego), oltre tre volte quanti ce ne fossero nel 2006.
Oltre ad aumentare la disoccupazione e ridurre il PIL e il reddito a disposizione delle famiglie, le politiche di austerità colpiscono anche i servizi pubblici e lo stato sociale. In particolare, il Servizio sanitario nazionale e l'istruzione pubblica, che si possono considerare i due pilastri principali del sistema di welfare universale italiano. Il primo ha subito una riduzione del 7% in termini reali tra il 2011 e il 2013, mentre il secondo ha visto un calo progressivo delle risorse a più lungo termine, con una perdita reale del 20% tra il 2007 e il 2015. Ciò ha anche comportato, tra le altre cose, enormi riduzioni del sostegno finanziario concesso agli studenti universitari meritevoli provenienti da famiglie a basso reddito, nonché grandi difficoltà per giovani altamente qualificati nell'ottenere posti di lavoro nell'istruzione pubblica e nei sistemi di ricerca. E questo nonostante la spesa pubblica italiana in questi settori specifici e nel suo complesso (compresi tutti i servizi e la protezione sociale), pro capite e in percentuale sul PIL, sia attualmente, e sia sempre stata, inferiore a quella di altri paesi europei di comparabili dimensioni e livello di sviluppo. Anche gli investimenti pubblici sono diminuiti drasticamente durante il periodo di austerità, con ricadute visibili sul mantenimento degli edifici pubblici e delle infrastrutture.
Ma, si potrebbe obiettare, queste misure erano necessarie per frenare l'alto rapporto debito pubblico/PIL, che si diceva fosse alla base della "crisi dello spread", ed infatti è così che il messaggio è stato fatto passare. Al contrario, come era in effetti prevedibile, le politiche di austerità hanno causato un aumento del rapporto debito/PIL (figura 7), riducendo il reddito nazionale (il denominatore di quel rapporto) e, di conseguenza, le entrate fiscali.
Figura 7-Rapporto debito pubblico/PIL dell'Italia.
Fonte: Ameco.
In altre parole, l'Italia è un esempio vivente del fatto, oggi ampiamente riconosciuto anche dagli economisti tradizionali [1], che i consolidamenti fiscali possono avere effetti "perversi" persistenti sul rapporto debito/PIL, specialmente quando l'economia è in recessione e i moltiplicatori fiscali sono particolarmente alti. Secondo altre interpretazioni della crisi, le previsioni dei mercati finanziari che la Banca centrale europea (BCE) non sarebbe intervenuta sul mercato dei titoli pubblici a causa del suo peculiare statuto hanno avuto un ruolo importante nell'emergere della crisi diffusa e hanno quasi causato il fallimento dell'euro, dovuto alla persistente inerzia da parte della BCE. Ad ogni modo, è stato il cambiamento di rotta della BCE, non l'austerità, a porre fine alla crisi.
In realtà, l'austerità ha causato, e causa ancora, una crescente fragilità nell'economia italiana, non solo a seguito dell'aumento del rapporto debito pubblico/PIL, ma anche della riduzione della capacità produttiva nel settore manifatturiero e delle difficoltà nel settore bancario (cfr. Giacchè, 2017). Per quanto riguarda quest'ultimo, la crisi dell'economia reale ha causato un aumento del carico dei crediti in sofferenza nelle banche italiane. Queste ultime in generale erano meno implicate delle banche tedesche e francesi in rischiose speculazioni sul mercato finanziario, ma più attive nel fornire credito alle famiglie e alle piccole e medie imprese, che rappresentano una quota molto ampia del settore manifatturiero italiano. Le famiglie e le imprese hanno entrambe subito forti perdite a causa delle due crisi menzionate sopra: la prima causata dalla crisi finanziaria internazionale, la seconda dalle politiche di austerità. Per questo la fragilità del settore bancario, oltre ad essere un problema di per sé, tende anche a causare persistenti difficoltà nell’accesso al credito da parte delle famiglie e, ancora più significativamente, delle imprese.
Nonostante una moderata ripresa negli ultimi tre anni, il PIL reale, l'occupazione (misurata in unità di lavoro standard) e la produzione industriale rimangono molto inferiori ai valori pre-crisi (dal 2007 al 2017, -5,25%; -4,63%; 24,39%, rispettivamente) [2].
Se guardiamo al lavoro e alla distribuzione del reddito, l'Italia ha subito a partire dagli anni '90 una serie di "riforme" relative ai contratti salariali e di impiego e alla (de)regolamentazione del mercato del lavoro. L'ultimo di questi, approvato nel 2015, ha eliminato tutte le protezioni legali ancora esistenti contro licenziamenti individuali ingiustificati (cioè senza alcuna motivazione disciplinare o economica), ad eccezione di una compensazione monetaria relativamente limitata. In aggiunta a ciò, il continuum delle riforme ha consentito un utilizzo crescente di contratti "atipici" e di breve durata. Questi ultimi rappresentano attualmente il 16% della forza lavoro dipendente totale e il 40% dei dipendenti tra i 15 e i 29 anni, mentre i lavoratori a part-time involontario ammontano a 2,6 milioni.
I salari reali sono rimasti invariati da molto tempo: secondo i dati dell'OCSE, i guadagni lordi medi in termini reali da lavoro dipendente sono attualmente di quasi l'1% al di sotto del livello del 2008 e solo del 3% superiori a quelli del 1990. Il reddito medio annuo lordo dei lavoratori a parità di potere d'acquisto in Italia è attualmente inferiore (pari a 36.700 dollari) rispetto a Francia (43.800) e Germania (47.600), e il terzo più basso nell'Eurozona dopo Portogallo e Grecia. La povertà assoluta è cresciuta e nel 2017 riguarda cinque milioni di persone (8,3% dei residenti); mentre la povertà relativa, che ammonta al 15% della popolazione, è diffusa non solo tra i disoccupati ma anche tra i lavoratori, in particolare quelli che hanno a carico due o più figli. La combinazione di alta disoccupazione, bassa retribuzione e lavori precari ha causato, soprattutto tra i giovani italiani, ma non solo, incertezza, mancanza di prospettive e difficoltà a realizzare una vita individuale e familiare indipendente.
Tendenze prima del 2008
Un'analisi a lungo termine della stagnazione dell'economia risulta complessa.
A differenza di altri paesi "periferici" in Europa, l'Italia non ha vissuto un precedente "boom" trainato dal debito in seguito all'unificazione monetaria. Mentre paesi come la Grecia e la Spagna hanno beneficiato, seppur temporaneamente, di una crescita (per quanto destabilizzante) derivante da ingenti afflussi di capitali dai paesi core europei, che a loro volta hanno finanziato l'aumento dell'indebitamento del settore privato e la crescita sostenuta della domanda interna, processi simili non si sono materializzati in Italia. Sebbene il debito delle famiglie private sia aumentato anche in Italia, soprattutto dopo il 2008, rimane ancora molto al di sotto di quello della maggior parte degli altri paesi europei.
Tuttavia, la situazione era tutt'altro che ideale ancora prima della crisi, ma la causa non è da ricercare nella mancanza di misure di austerità, ma piuttosto in una tendenza politica che, dopo il 2008, si è solo, ma drasticamente, intensificata.
Già prima dell'inizio dell'euro, nei primi anni '90, nell'ambito del suo obiettivo di convergenza verso l'unificazione monetaria, l'Italia ha perseguito politiche fiscali di avanzo primario del bilancio pubblico, che è continuato fino ad oggi, con la sola eccezione del 2008 (il rapporto debito pubblico/PIL si è ridotto di circa 20 punti tra il 1990 e il 2007). Di conseguenza, la dinamica della spesa pubblica è stata da allora molto più moderata di quella sperimentata dalla Germania o dalla Francia (cfr. figura 8).
Figura 8-Spesa pubblica totale in termini reali (indice, 1991=100).*
Fonte: nostra elaborazione su OCSE.Stat, Economic Outlook n. 102 - Novembre 2017. *La spesa totale si riferisce alla spesa corrente più la spesa per investimenti (al lordo dei pagamenti di interessi se non diversamente specificato).
Queste tendenze, combinate con il peggioramento della distribuzione del reddito, la stagnazione dei salari e l’apprezzamento del tasso di cambio reale, in particolare nei confronti della Germania, hanno causato una stagnazione della domanda aggregata e, di conseguenza, una stagnazione della crescita della produzione e quindi della produttività. Molti studi hanno infatti documentato sia in generale, sia con riferimento specifico ai dati italiani, la validità della legge di Kaldor-Verdoorn, cioè che la crescita della produttività, in particolare nel settore manifatturiero, è in larga misura endogena e dipende dal crescita complessiva dell'economia (Millemaci e Ofria, 2014). Uno dei motivi è la dipendenza degli investimenti privati - che hanno ovviamente un ruolo molto importante nell'aggiornamento dei beni strumentali e della tecnologia - dalla crescita della domanda aggregata (Girardi et al., 2018).
Infine, va sottolineato che gli italiani, in netto contrasto con la retorica prevalente secondo la quale avrebbero vissuto "al di sopra delle loro possibilità", non hanno mai beneficiato di un sistema di spesa e di welfare pubblico davvero generoso. Nel complesso, la spesa pubblica pro capite, sia al netto che al lordo degli interessi, è sempre stata inferiore a quella di paesi avanzati comparabili, tra cui Francia e Germania (cfr. figura 9).
Figura 9-Spesa pubblica pro-capite in termini reali (al netto e al lordo degli interessi).
Fonte: nostra elaborazione su OCSE.Stat, Economic Outlook n. 102 - Novembre 2017.
Le origini dell'elevato debito pubblico non sono dovute a una spesa eccessiva; e - nonostante le entrate fiscali soffrano di un problema strutturale di evasione da parte dei lavoratori autonomi e delle imprese - le origini dell’elevato debito pubblico devono essere principalmente ricercate in un periodo di tempo specifico e relativamente breve, e nelle scelte fatte dalle autorità monetarie. Fu infatti durante gli anni Ottanta che l'Italia vide un raddoppio del rapporto debito pubblico/PIL, come conseguenza di tassi di interesse reali molto alti, che causavano un effetto valanga sul debito pubblico. Tassi di interesse così elevati servivano a sostenere l'obbligo a mantenere un tasso di cambio fisso all'interno dell'Unione economica e monetaria (UEM) tramite l’afflusso di capitali dall'estero, a fronte di un più alto tasso di inflazione rispetto ad altri paesi europei, che comportava un apprezzamento reale e il peggioramento della bilancia commerciale. Questa politica, tuttavia, non riuscì a impedire l'attacco speculativo e la svalutazione della lira italiana nel 1992, con la successiva uscita temporanea dal sistema di cambi fissi. In aggiunta a ciò, secondo alcune interpretazioni, la Banca d'Italia, attraverso tassi di interesse così elevati, mirava a sostenere i rendimenti delle banche nazionali, in modo che fossero in grado di fronteggiare una più intensa concorrenza internazionale nel settore finanziario. A prescindere dalle motivazioni, tuttavia, il punto è che, a partire dai primi anni '90, la preoccupazione di ridurre il peso del debito pubblico non implicava la necessità di una riduzione dell’eccessiva spesa pubblica, ma piuttosto lo scarso contributo del settore pubblico allo stimolo della domanda e alla crescita a livello macroeconomico rispetto ad altri paesi europei, nonché il basso coinvolgimento del settore pubblico (rispetto ad altri paesi industriali) nel fornire infrastrutture e servizi moderni e il sostegno pubblico agli investimenti e all'innovazione tecnica, che finiva col contribuire agli scarsi risultati complessivi in termini di crescita della produttività.
Conclusioni
Il triste quadro della situazione sociale ed economica italiana contribuisce a spiegare il recente voto italiano. Che si consideri giusta o sbagliata la scelta fatta dagli elettori, il messaggio principale è che la maggioranza della popolazione vuole un cambiamento rispetto al passato. Ciò non implica necessariamente che esista una chiara consapevolezza diffusa su ciò che sta accadendo. L’informazione nei media italiani su tutto ciò che riguarda la vita economica è insufficiente e standardizzata, generalmente tesa al sostegno dell'austerità e della deregolamentazione, e della tesi per cui i problemi del paese sono l’inefficienza, la corruzione e le spese eccessive, o almeno mal pianificate, da parte del settore pubblico. Ma quale che sia la comprensione dei problemi attuali a livello intellettuale, i cittadini sanno per esperienza diretta quali sono le loro difficoltà e i loro problemi. Sia il Movimento Cinque Stelle che la Lega hanno raccolto i voti di milioni di lavoratori della classe operaia e della classe media (in molti casi già elettori del Partito Democratico), e le loro campagne elettorali includevano molte promesse di un radicale cambiamento rispetto all'austerità (il Movimento Cinque Stelle si concentrava sull'attuazione di un ampio sistema di sostegno al reddito per i disoccupati e le persone a basso reddito, e su ulteriori investimenti pubblici nel Sud, mentre la Lega sottolineava una riduzione dell'imposizione fiscale mediante una "flat tax"; entrambe le parti inoltre concordavano sulla necessità di rivedere la legge sulla riforma delle pensioni del 2011 per renderla meno gravosa) e anche rispetto ad ulteriori liberalizzazioni del commercio internazionale. Non è chiaro se e fino a che punto manterranno ciò che hanno promesso. Ma, come già accaduto con il presidente del Consiglio Matteo Renzi alcuni anni fa, a meno che l'attuale governo non riesca a rispondere ai bisogni di una larga fetta del proprio elettorato e dimostri di attuare cambiamenti tangibili in termini di opportunità di lavoro, salari più alti, protezione sociale e investimenti pubblici in servizi e infrastrutture, il consenso attuale rischia di scomparire rapidamente. Tuttavia, anche senza tener conto delle reali intenzioni originali dei partiti ora al governo, le pressioni delle istituzioni europee e dei "mercati finanziari"[3] hanno già suscitato numerose dichiarazioni da parte dei membri del governo italiano, e in particolare del ministro per l’Economia, che ribadiscono la volontà di rispettare le regole di bilancio, il che a sua volta limiterebbe significativamente gli spazi di azione per affrontare i problemi appena elencati. D'altra parte, le iniziative del leader del Movimento Cinque Stelle e del ministro del Lavoro, volte a ridurre moderatamente la deregolamentazione del mercato del lavoro, stanno incontrando feroci critiche e opposizione da parte dell'associazione nazionale dei datori di lavoro (Confindustria). Ma la posta è molto alta: se il governo attuale perde consenso popolare ed elettorale, sia i grandi capitalisti sia gli elettori difficilmente torneranno a forze politiche moderate e liberali come il Partito Democratico o Forza Italia di Berlusconi, e le tensioni all'interno dell'UE e nella zona euro probabilmente continueranno a deteriorarsi.
Bibliografia
DeLong, J. B., Summers, L. H., Feldstein, M., & Ramey, V. A. (2012). Fiscal policy in a depressed economy [con commenti e discussione]. Brookings Papers on Economic Activity, 233-297.
Ciccone, R. (2012). Austerità, BCE e il peggioramento dei conti pubblici, in Oltre l’austerità, MicroMega.
Fatás, A., & Summers, L. H. (2018). The permanent effects of fiscal consolidations. Journal of International Economics, 112, 238-250.
Nuti, D. M. (2013). Perverse Fiscal Consolidation, Sbilanciamoci.info, 11. Versione italiana.
Millemaci, E., & Ofria, F. (2016). Supply and demand-side determinants of productivity growth in Italian regions. Structural Change and Economic Dynamics, 37, 138-146.
Giacchè, V. (2017) The Real Cause of the Italian Bank Bailouts and Euro Banking Troubles, https://www.ineteconomics.org/perspectives/blog/the-real-cause-of-the-italian-bank-bailouts-and-euro-banking-troubles
Girardi, D., Paternesi Meloni, W., & Stirati, A. (2017). Persistent effects of autonomous demand expansions. INET working paper No 70.
Note
[1] Si vedano DeLong et al. (2012) e Fatàs and Summers (2018); per un’analisi non mainstream, si vedano Ciccone (2012) e Nuti (2013).
[2] Il PIL reale era di circa 1,683 miliardi di euro nel 2007 e di 1,543 nel 2017 (OCSE), le unità di lavoro standard sono passate da 25,125 milioni a 23,962 (Istat) e l'indice di produzione industriale da 118,8 a 95,5 (Ameco).
[3] "I mercati finanziari", naturalmente, sono tutt’altro che una serie di piccoli investitori anonimi, ma possono essere guidati dalle azioni intraprese da un numero relativamente piccolo di grandi istituzioni finanziarie; a sua volta questi saranno molto sensibili alle tensioni con le Istituzioni europee e in particolare all'atteggiamento della Banca centrale europea, poiché da ciò dipende la "rischiosità" (caduta dei prezzi o ridenominazione) dei titoli pubblici italiani e la relativa debolezza delle banche italiane che possiedono una grande percentuale di queste ultime.
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22/08/18
La privatizzazione dei servizi pubblici nel Regno Unito: storia di un fallimento
Vista la grande attenzione intorno alle concessioni e privatizzazioni, riprendiamo un pezzo dell’Independent dello scorso anno riguardante le privatizzazioni anglosassoni. Nel Regno Unito i progressisti sanno perfettamente che le privatizzazioni dei servizi essenziali che sono monopoli naturali sono enormi regali agli azionisti, che drenano ricchezza e qualità dei servizi altrimenti nelle mani di tutti i cittadini. L’immotivata difesa dei concessionari privati allinea la “sinistra” italiana alla destra anglosassone.
Di John McDonnell, 6 giugno 2017
La maniera in cui le nostre compagnie ferroviarie, dell’energia e dell’acqua sono state gestite da quando sono state privatizzate dai conservatori è uno scandalo assoluto. L’impegno del Manifesto dei Laburisti a riprendere il controllo dell’acqua e delle ferrovie, e ad intervenire per correggere il mercato dell'energia, è decisamente emozionante e porterà a un vero cambiamento.
Quando queste industrie furono privatizzate da Margaret Thacher, ci fu promesso che l’efficienza sarebbe aumentata, che la proprietà si sarebbe allargata e che il processo avrebbe generato investimenti. Ma è accaduto l’esatto contrario. E anziché imparare dai propri errori, i governi conservatori hanno venduto anche il Servizio Postale per una frazione del suo valore, danneggiando i contribuenti ed estendendo ulteriormente l’influenza delle compagnie private e della finanza sulla vita di tutti i giorni.
A quasi trent’anni dalla vendita della gestione dell’acqua, la proprietà delle azioni è oggi saldamente in mano a un piccolo gruppo di investitori internazionali – molti dei quali hanno sede in paradisi fiscali. Nel frattempo, i prezzi sono aumentati del 40% e più di un quarto di quanto i consumatori pagano in bolletta finisce a ripagare gli interessi sui debiti delle società private e in dividendi agli azionisti.
I nuovi investimenti sono stati finanziati con nuovo debito anziché coi soldi degli azionisti. Quando l’acqua è stata privatizzata, il governo si è generosamente fatto carico di tutto il debito del settore – 4,9 miliardi di sterline – in modo da lasciare i nuovi proprietari senza debiti. I nuovi proprietari ne hanno approfittato, accumulando sino al 2016 l'incredibile ammontare di 46 miliardi di sterline di debiti .
Mentre accumulavano debiti a discapito dei contribuenti, le compagnie private dell’acqua pagavano miliardi agli azionisti in dividendi. Il totale di 18,8 miliardi di profitti al netto delle tasse degli ultimi 10 anni è stato tutto distribuito agli azionisti, salvo 700 milioni di sterline. Ciò significa che più di 18 miliardi di sterline sono entrati nelle tasche degli azionisti anziché essere utilizzati per diminuire le bollette e migliorare i servizi. Tre società hanno addirittura pagato più dividendi di quanto siano stati i loro profitti al lordo delle tasse. Si tratta di una situazione semplicemente insostenibile.
Questa rapina alla luce del sole sta avvenendo anche nel settore energetico. Nel 2016-17, la Rete Nazionale ha ottenuto un profitto di 1,9 miliardi di sterline sulla distribuzione dell’elettricità e del gas. Circa 660 milioni sono stati usati per pagare dividendi, cosa che rappresenta un costo nascosto per i consumatori del 12%.
I benefici promessi grazie alla concorrenza del mercato non si sono mai visti: le grandi “sei sorelle” dell’energia hanno sfruttato i consumatori, addebitando agli utenti nel 2015 ben 2 miliardi di sterline. Le persone non vogliono essere costrette a vagliare le diverse opzioni per trovare un contratto decente; vogliono soltanto energia sicura e a un prezzo accessibile.
Dobbiamo fare cambiamenti drastici nel nostro sistema energetico entro pochi anni se vogliamo avere la possibilità di affrontare i cambiamenti climatici. Trasferendo la proprietà e la responsabilità delle nostre utilities a organismi di proprietà pubblica e alle comunità locali che devono rispondere ai cittadini, saremo in grado di creare un sistema energetico sostenibile e a basso utilizzo di carbone, adatto al ventunesimo secolo.
Più importante ancora, la proprietà pubblica metterebbe fine al flusso di denaro dei contribuenti che va a sostenere i profitti privati delle società e dei loro azionisti, mentre i prezzi aumentano, i servizi peggiorano, e i debiti si accumulano.
Riportare le utilities sotto controllo pubblico rimetterebbe i profitti nelle tasche dei cittadini e nei servizi stessi, abbassando la bolletta media di 220 sterline all’anno per famiglia e consentendo di investire altri risparmi nelle infrastrutture e per migliorare i servizi.
Inoltre, ponendo un freno agli aumenti dei biglietti dei treni – che sono aumentati del 27% a partire dal 2010 – i laburisti farebbero risparmiare ai passeggeri una media di 1.014 sterline all’anno sui biglietti.
Si è molto parlato di quanto costerebbe tutto questo, ma i commentatori, pronti a sparare grandi cifre, mostrano tutta la loro ignoranza in economia, e anche in storia. Quando nel 1977 l’industria della costruzione navale venne nazionalizzata, questo fu fatto scambiando le azioni con titoli di stato – una mossa che non ebbe alcun effetto sull’erario.
Nel mondo negli ultimi anni c’è stata un’inversione del processo delle privatizzazioni. Negli Stati Uniti, l’85% delle forniture di acqua proviene dal settore pubblico, e l’80% della rete di distribuzione elettrica tedesca è ora posseduta e gestita dalle autorità regionali e locali.
Una delle più grandi beffe della privatizzazione britannica – che fu dettata da una profonda perdita di fiducia nella capacità dello stato di gestire queste cose – è che molti dei nostri tesori nazionali sono finiti nelle mani di società pubbliche straniere. I piani di rinazionalizzazione dei laburisti assicureranno la supervisione democratica locale sui servizi, mettendo il potere nelle mani delle comunità.
Al di là delle chiacchiere sul rigore dei conti, i conservatori sono più interessati ad aiutare i ricchi evasori a fare soldi facili di quanto non lo siano a fermare l’emorragia di soldi del popolo britannico. Come ho recentemente sottolineato durante un dibattito con Damian Green all’Andrew Marr show, questa posizione ha qualcosa a che fare con il fatto che molti finanziatori dei conservatori, ed effettivamente anche alcuni parlamentari e ministri conservatori, hanno ottenuto profitti dalle privatizzazioni.
E’ tempo di mettere fine a questa truffa dei conservatori. I laburisti chiuderanno il rubinetto che versa miliardi di sterline nelle tasche degli azionisti e si assicureranno che questi servizi vitali siano gestiti nell’interesse della maggioranza, non di pochi.
Di John McDonnell, 6 giugno 2017
La maniera in cui le nostre compagnie ferroviarie, dell’energia e dell’acqua sono state gestite da quando sono state privatizzate dai conservatori è uno scandalo assoluto. L’impegno del Manifesto dei Laburisti a riprendere il controllo dell’acqua e delle ferrovie, e ad intervenire per correggere il mercato dell'energia, è decisamente emozionante e porterà a un vero cambiamento.
Quando queste industrie furono privatizzate da Margaret Thacher, ci fu promesso che l’efficienza sarebbe aumentata, che la proprietà si sarebbe allargata e che il processo avrebbe generato investimenti. Ma è accaduto l’esatto contrario. E anziché imparare dai propri errori, i governi conservatori hanno venduto anche il Servizio Postale per una frazione del suo valore, danneggiando i contribuenti ed estendendo ulteriormente l’influenza delle compagnie private e della finanza sulla vita di tutti i giorni.
A quasi trent’anni dalla vendita della gestione dell’acqua, la proprietà delle azioni è oggi saldamente in mano a un piccolo gruppo di investitori internazionali – molti dei quali hanno sede in paradisi fiscali. Nel frattempo, i prezzi sono aumentati del 40% e più di un quarto di quanto i consumatori pagano in bolletta finisce a ripagare gli interessi sui debiti delle società private e in dividendi agli azionisti.
I nuovi investimenti sono stati finanziati con nuovo debito anziché coi soldi degli azionisti. Quando l’acqua è stata privatizzata, il governo si è generosamente fatto carico di tutto il debito del settore – 4,9 miliardi di sterline – in modo da lasciare i nuovi proprietari senza debiti. I nuovi proprietari ne hanno approfittato, accumulando sino al 2016 l'incredibile ammontare di 46 miliardi di sterline di debiti .
Mentre accumulavano debiti a discapito dei contribuenti, le compagnie private dell’acqua pagavano miliardi agli azionisti in dividendi. Il totale di 18,8 miliardi di profitti al netto delle tasse degli ultimi 10 anni è stato tutto distribuito agli azionisti, salvo 700 milioni di sterline. Ciò significa che più di 18 miliardi di sterline sono entrati nelle tasche degli azionisti anziché essere utilizzati per diminuire le bollette e migliorare i servizi. Tre società hanno addirittura pagato più dividendi di quanto siano stati i loro profitti al lordo delle tasse. Si tratta di una situazione semplicemente insostenibile.
Questa rapina alla luce del sole sta avvenendo anche nel settore energetico. Nel 2016-17, la Rete Nazionale ha ottenuto un profitto di 1,9 miliardi di sterline sulla distribuzione dell’elettricità e del gas. Circa 660 milioni sono stati usati per pagare dividendi, cosa che rappresenta un costo nascosto per i consumatori del 12%.
I benefici promessi grazie alla concorrenza del mercato non si sono mai visti: le grandi “sei sorelle” dell’energia hanno sfruttato i consumatori, addebitando agli utenti nel 2015 ben 2 miliardi di sterline. Le persone non vogliono essere costrette a vagliare le diverse opzioni per trovare un contratto decente; vogliono soltanto energia sicura e a un prezzo accessibile.
Dobbiamo fare cambiamenti drastici nel nostro sistema energetico entro pochi anni se vogliamo avere la possibilità di affrontare i cambiamenti climatici. Trasferendo la proprietà e la responsabilità delle nostre utilities a organismi di proprietà pubblica e alle comunità locali che devono rispondere ai cittadini, saremo in grado di creare un sistema energetico sostenibile e a basso utilizzo di carbone, adatto al ventunesimo secolo.
Più importante ancora, la proprietà pubblica metterebbe fine al flusso di denaro dei contribuenti che va a sostenere i profitti privati delle società e dei loro azionisti, mentre i prezzi aumentano, i servizi peggiorano, e i debiti si accumulano.
Riportare le utilities sotto controllo pubblico rimetterebbe i profitti nelle tasche dei cittadini e nei servizi stessi, abbassando la bolletta media di 220 sterline all’anno per famiglia e consentendo di investire altri risparmi nelle infrastrutture e per migliorare i servizi.
Inoltre, ponendo un freno agli aumenti dei biglietti dei treni – che sono aumentati del 27% a partire dal 2010 – i laburisti farebbero risparmiare ai passeggeri una media di 1.014 sterline all’anno sui biglietti.
Si è molto parlato di quanto costerebbe tutto questo, ma i commentatori, pronti a sparare grandi cifre, mostrano tutta la loro ignoranza in economia, e anche in storia. Quando nel 1977 l’industria della costruzione navale venne nazionalizzata, questo fu fatto scambiando le azioni con titoli di stato – una mossa che non ebbe alcun effetto sull’erario.
Nel mondo negli ultimi anni c’è stata un’inversione del processo delle privatizzazioni. Negli Stati Uniti, l’85% delle forniture di acqua proviene dal settore pubblico, e l’80% della rete di distribuzione elettrica tedesca è ora posseduta e gestita dalle autorità regionali e locali.
Una delle più grandi beffe della privatizzazione britannica – che fu dettata da una profonda perdita di fiducia nella capacità dello stato di gestire queste cose – è che molti dei nostri tesori nazionali sono finiti nelle mani di società pubbliche straniere. I piani di rinazionalizzazione dei laburisti assicureranno la supervisione democratica locale sui servizi, mettendo il potere nelle mani delle comunità.
Al di là delle chiacchiere sul rigore dei conti, i conservatori sono più interessati ad aiutare i ricchi evasori a fare soldi facili di quanto non lo siano a fermare l’emorragia di soldi del popolo britannico. Come ho recentemente sottolineato durante un dibattito con Damian Green all’Andrew Marr show, questa posizione ha qualcosa a che fare con il fatto che molti finanziatori dei conservatori, ed effettivamente anche alcuni parlamentari e ministri conservatori, hanno ottenuto profitti dalle privatizzazioni.
E’ tempo di mettere fine a questa truffa dei conservatori. I laburisti chiuderanno il rubinetto che versa miliardi di sterline nelle tasche degli azionisti e si assicureranno che questi servizi vitali siano gestiti nell’interesse della maggioranza, non di pochi.
21/08/18
Bloomberg - L'ordalia greca è tutt'altro che finita
Mentre la propaganda politica che domina sui media spaccia l'uscita della Grecia dai programmi di "salvataggio" come un successo e una vittoria di Tsipras, i siti più prestigiosi di informazione finanziaria come Bloomberg - rivolgendosi in primo luogo agli investitori che maneggiano denaro - non hanno alcun interesse a nascondere la verità dei fatti. E mostrano con i dati la cruda realtà: le proiezioni della UE sull'andamento del debito greco nei prossimi anni si basano su avanzi di bilancio realisticamente impossibili da ottenere, per cui il risultato sarà inevitabilmente un'altra crisi.
Redazione di Bloomberg, 20 agosto 2018
Solo una vera cancellazione del debito può garantire che non sarà di nuovo crisi.
La Grecia raggiunge oggi un traguardo importante: dopo quasi nove anni di crisi, austerità brutale e caos politico, sta uscendo da quello che dovrebbe essere l'ultimo di tre programmi di salvataggio. Se solo non avesse ancora il debito più pesante di tutta Europa.
I leader europei sono comprensibilmente desiderosi di mettere fine a una storia imbarazzante. La crisi del debito, iniziata nel 2010, ha messo in luce non solo la cattiva gestione finanziaria della Grecia, ma anche come la Germania, la Francia e altri paesi del Centro abbiano permesso alle loro banche di realizzare questi prestiti. Salvare la Grecia è stato un gioco di prestigio politico: ha indirettamente salvato le banche, scaricandone il peso sul popolo greco.
Miracolosamente, la Grecia è sopravvissuta. Il bilancio pubblico è in surplus e l'economia sta crescendo di nuovo dopo una delle recessioni più profonde di sempre. Ma il conto è ancora da pagare: oltre 240 miliardi di euro di debito ufficiale, che insieme al debito privato porta l'indebitamento complessivo del governo a oltre il 180% del prodotto interno lordo.
I creditori dell'Unione europea insistono sul fatto che il debito è sostenibile. Hanno ridotto gli interessi da pagare e dato alla Grecia più tempo per i pagamenti, estendendo alcune scadenze fino al 2060. Questo, stimano, dovrebbe aiutare il governo a riportare il debito a circa il 100% del PIL entro il 2060 - ancora molto alto, ma almeno orientato nella giusta direzione. Ecco approssimativamente come appare la situazione:
Pura illusione
Sfortunatamente, le proiezioni dell'UE implicano un pensiero estremamente ottimistico. Per esempio, assumono un livello di austerità impossibile: la Grecia deve realizzare un avanzo primario di bilancio (al netto degli interessi) del 3,4% del PIL per un decennio, e poi del 2,2% fino all'anno 2060 - qualcosa che nessun paese dell'area dell'euro con una così precaria storia economica ha mai fatto. Ridimensionando queste proiezioni a un soltanto improbabile 2 per cento e poi 1 per cento, e usando le stime di crescita e di tasso d'interesse del Fondo monetario internazionale, si ha un quadro molto diverso:
Previsione un po' meno illusoria
Nei prossimi decenni, anche in uno scenario ottimistico, la Grecia dovrà prendere in prestito centinaia di miliardi di euro dagli investitori privati per pagare i suoi creditori ufficiali. Se quegli investitori penseranno che i debiti del governo sono fuori controllo, saranno costretti a ritirarsi - e i leader europei dovranno affrontare un'altra crisi greca.
La soluzione ovvia è che l'UE conceda alla Grecia un'autentica cancellazione del debito. Quanto prima, tanto meglio.
Redazione di Bloomberg, 20 agosto 2018
Solo una vera cancellazione del debito può garantire che non sarà di nuovo crisi.
La Grecia raggiunge oggi un traguardo importante: dopo quasi nove anni di crisi, austerità brutale e caos politico, sta uscendo da quello che dovrebbe essere l'ultimo di tre programmi di salvataggio. Se solo non avesse ancora il debito più pesante di tutta Europa.
I leader europei sono comprensibilmente desiderosi di mettere fine a una storia imbarazzante. La crisi del debito, iniziata nel 2010, ha messo in luce non solo la cattiva gestione finanziaria della Grecia, ma anche come la Germania, la Francia e altri paesi del Centro abbiano permesso alle loro banche di realizzare questi prestiti. Salvare la Grecia è stato un gioco di prestigio politico: ha indirettamente salvato le banche, scaricandone il peso sul popolo greco.
Miracolosamente, la Grecia è sopravvissuta. Il bilancio pubblico è in surplus e l'economia sta crescendo di nuovo dopo una delle recessioni più profonde di sempre. Ma il conto è ancora da pagare: oltre 240 miliardi di euro di debito ufficiale, che insieme al debito privato porta l'indebitamento complessivo del governo a oltre il 180% del prodotto interno lordo.
I creditori dell'Unione europea insistono sul fatto che il debito è sostenibile. Hanno ridotto gli interessi da pagare e dato alla Grecia più tempo per i pagamenti, estendendo alcune scadenze fino al 2060. Questo, stimano, dovrebbe aiutare il governo a riportare il debito a circa il 100% del PIL entro il 2060 - ancora molto alto, ma almeno orientato nella giusta direzione. Ecco approssimativamente come appare la situazione:
Pura illusione
Sfortunatamente, le proiezioni dell'UE implicano un pensiero estremamente ottimistico. Per esempio, assumono un livello di austerità impossibile: la Grecia deve realizzare un avanzo primario di bilancio (al netto degli interessi) del 3,4% del PIL per un decennio, e poi del 2,2% fino all'anno 2060 - qualcosa che nessun paese dell'area dell'euro con una così precaria storia economica ha mai fatto. Ridimensionando queste proiezioni a un soltanto improbabile 2 per cento e poi 1 per cento, e usando le stime di crescita e di tasso d'interesse del Fondo monetario internazionale, si ha un quadro molto diverso:
Previsione un po' meno illusoria
Nei prossimi decenni, anche in uno scenario ottimistico, la Grecia dovrà prendere in prestito centinaia di miliardi di euro dagli investitori privati per pagare i suoi creditori ufficiali. Se quegli investitori penseranno che i debiti del governo sono fuori controllo, saranno costretti a ritirarsi - e i leader europei dovranno affrontare un'altra crisi greca.
La soluzione ovvia è che l'UE conceda alla Grecia un'autentica cancellazione del debito. Quanto prima, tanto meglio.
20/08/18
Vladimiro Giacché - L’Unione bancaria europea e i problemi delle banche italiane
Con piacere pubblichiamo la traduzione dell'articolo di Vladimiro Giacché sulla crisi bancaria italiana uscito sul sito dell'Institute for New Economic Thinking, con delle modifiche non sostanziali da parte dell'Autore, che ha anche aggiunto alcune note sul tema delle Banche di Credito Cooperativo. La tesi, documentata con rigore, è che la crisi bancaria italiana sia il frutto delle normative europee, che hanno generato enormi asimmetrie e condizioni inique sopratutto per il nostro paese. Normative aggirate dalla Germania, che da un lato ha proceduto prima della loro entrata in vigore a salvare con interventi pubblici le proprie banche, e poi ha ottenuto di esentare dalla supervisione bancaria europea le proprie Sparkasse, legate a filo doppio alla politica locale e oggi a rischio sistemico, data l'entità degli impieghi. Insomma, l'Italia ha ben poco da rimproverarsi sulle proprie banche, se non l'arrendevolezza della classe politica che ha accettato regole contrarie all'interesse nazionale.
di Vladimiro Giacché, 19 luglio 2017
L’obiettivo con cui l’Unione bancaria europea è nata era quello di ridurre la balcanizzazione finanziaria dell’Eurozona. La balcanizzazione - la frattura del sistema bancario transfrontaliero che avviene quando creditori nervosi si ritirano verso i sicuri porti nazionali - è stata percepita a ragione come uno dei maggiori pericoli per la stabilità e la sussistenza stessa della moneta unica.
Infatti, all'indomani della crisi finanziaria, gran parte delle ricerche disponibili evidenziavano come il sistema - che sino al 2008/2009 si presentava così interconnesso da essere apparentemente inestricabile - si era andato ridisegnando secondo linee “nazionali”. I prestiti transfrontalieri nell’eurozona erano crollati all'incirca alla metà dei valori pre-crisi, e ingenti capitali erano stati rimpatriati da molte banche e investitori nei paesi core (Germania e Francia). I prestiti nei paesi cosiddetti periferici (Grecia, Irlanda, Spagna, Italia e Portogallo) nel frattempo tornavano ad essere sostanzialmente nazionali. Questo, politicamente, era imbarazzante, ma anche pericoloso, poiché rendeva tecnicamente possibile la fine della moneta unica.
Peggio ancora, questa situazione creava un problema ulteriore non meno grave: un circolo vizioso potenzialmente distruttivo tra rischio di credito e rischio sovrano - cioè il rischio che una nazione potesse essere spinta alla bancarotta.
Un obiettivo, tre pilastri
L'idea originale era che un'unione bancaria avrebbe ristabilito un mercato bancario e finanziario integrato attraverso tre pilastri: 1) un sistema unico di vigilanza bancaria 2) procedure di risoluzione che limitassero il rischio di contagio in caso di crisi, e 3) una garanzia europea sui depositi tale da spezzare il nesso tra rischio Paese e rischio bancario.
Questa la teoria. Nella pratica, l'unione bancaria ha generato enormi asimmetrie e condizioni competitive inique in tutta l'Eurozona. Queste asimmetrie hanno colpito in particolare il sistema bancario italiano, in un modo che contribuisce a spiegare gli avvenimenti degli ultimi anni.
Per quanto riguarda il primo pilastro, la vigilanza bancaria unica ha effetti di copertura molto differenti tra i vari sistemi bancari nazionali. Trascura un rischio sistemico molto serio in alcune importanti nazioni dell’Eurozona e perciò le favorisce, almeno nel breve periodo.
Quanto al secondo pilastro, le procedure di salvataggio o risoluzione delle banche in crisi - caratterizzate dal sostanziale divieto di salvataggio pubblico - hanno avuto anch'esse effetti fortemente asimmetrici che hanno danneggiato pesantemente alcuni sistemi nazionali (in primis l'Italia). In particolare, queste regole sono state stabilite solo dopo che molti paesi europei avevano elargito aiuti pubblici senza precedenti alle proprie banche nazionali. Questi enormi trasferimenti finanziari avevano sostanzialmente sospeso - sull’onda dell’emergenza - la normativa europea sugli aiuti di Stato, ovvero sugli interventi pubblici nazionali. Così alterando in misura sostanziale il panorama concorrenziale del sistema bancario in Europa.
Impedire a questo punto la possibilità di qualsiasi tempestivo salvataggio pubblico risulta oggi fortemente penalizzante per quei Paesi, come l'Italia, che nella fase precedente non avevano proceduto a sostenere in modo massiccio il proprio sistema bancario nazionale. Per questi Stati, l'opzione del salvataggio è adesso soggetta a criteri estremamente stringenti e subordinata al cosiddetto "bail-in" - ovvero uno schema che pone in primo luogo a carico di azionisti, obbligazionisti e correntisti le perdite bancarie - non escludendo affatto la strada della risoluzione/chiusura della banca interessata.
Quanto all’entità del sostegno di cui le banche di altri Paesi europei avevano goduto prima dell’entrata in vigore dell’Unione bancaria, un articolo pubblicato da M. Frühauf sulla Frankfurter Allgemeine del 16 agosto 2013 - pochi mesi prima dell'approvazione del meccanismo unico di vigilanza bancaria da parte del Consiglio Europeo - offre dati a dir poco impressionanti. Solo per fare un esempio dei molti salvataggi tedeschi all'indomani della crisi finanziaria, il governo fornì alla compagnia di assicurazione Hypo-Re una garanzia fino a 145 miliardi di euro. Il costo di questo solo salvataggio per i contribuenti tedeschi finora è stato di 20 miliardi di euro. Altre fonti forniscono numeri complessivi leggermente diversi sui salvataggi pubblici, ma quel che emerge chiaramente è la peculiarità della situazione bancaria italiana, che finora ha comportato aiuti pubblici molto inferiori a quelli degli altri paesi europei.
Gli effetti negativi dei primi due pilastri divenivano poi addirittura dirompenti a causa dell’assenza del terzo pilastro: la garanzia europea sui depositi. Questo meccanismo era assolutamente essenziale al fine dichiarato dell’Unione bancaria: arrestare il processo di "balcanizzazione finanziaria". Infatti l’assenza di una garanzia europea manteneva l’onere della protezione (parziale) dei risparmiatori in capo al sistema Paese interessato. E, ancora una volta, contraddiceva quella solidarietà europea che dovrebbe essere il fondamento dell’architettura istituzionale dell’UE, e in particolare dell’Eurozona.
L’effetto di questo insieme di norme - i due pilastri che ci sono e quello che non c’è - è stato devastante in particolare per il sistema bancario italiano, per il quale le nuove regole hanno mutato in misura sostanziale – e per di più senza alcuna fase transitoria – il panorama normativo vigente da decenni, oltretutto in contraddizione con almeno due articoli della Costituzione italiana (l’art. 43 e l’art. 47).
A dispetto delle intenzioni, il nuovo contesto normativo ha penalizzato pesantemente i risparmiatori, in particolare i detentori delle cosiddette obbligazioni subordinate, diventate improvvisamente più rischiose col nuovo regime.
E, come era facilmente prevedibile, l'assenza sia di una rete di sicurezza pubblica per le situazioni di crisi che di un sistema di garanzia europeo, ha innescato una vera e propria corsa agli sportelli in relazione agli istituti percepiti come più deboli, o che erano alle prese con crisi aziendali che sarebbero state facilmente gestibili nel contesto normativo precedente. In tal modo, secondo il meccanismo ben noto delle previsioni che si auto-avverano, i problemi di liquidità di alcuni istituti hanno dato luogo a una fuga dei depositi che ne ha posto a rischio la solvibilità.
Un'altra pericolosa asimmetria proviene dal trattamento del rischio di mercato nel nuovo regime. Il peso di questo rischio - legato all'attività finanziaria, incluse le transazioni in derivati - risultava assolutamente sottodimensionato rispetto alla sua portata reale già negli Stress Test e Asset Quality Review condotti dalla Banca centrale europea. Il nuovo sistema pone un’attenzione molto maggiore sul rischio di credito - e conseguentemente penalizza i sistemi bancari come quello italiano che sono relativamente meno finanziarizzati, ma nei quali il rischio di credito è un fattore relativamente più importante.
Ma c’è di più: il rischio di mercato, al contrario del rischio di credito, non figura nemmeno nelle 5 priorità della Vigilanza bancaria europea esercitata dalla BCE, come evidenziato nei Rapporti annuali della BCE del 2015, 2016 e 2017 (si veda l'ultimo).
In questo modo risulta insufficientemente vigilata precisamente la tipologia di rischio alla quale è attribuito lo scoppio della crisi culminata nella Grande Recessione. Più concretamente, è insufficientemente vigilato il rischio di mercato espresso da alcune grandi banche tedesche e francesi, e in particolare quello di un colosso quale Deutsche Bank. Conoscere il valore effettivo dei Level 3 assets (derivati) di Deutsche Bank è un esercizio più prossimo alla divinazione che alla stima scientifica: in effetti al team ispettivo della Vigilanza BCE che ha recentemente condotto un’ispezione presso la banca di Francoforte "non è stato richiesto nemmeno di prezzare il valore dei derivati in portafoglio". L'Autorità di vigilanza europea aveva alzato le mani con un curioso ragionamento: giudicando cioè irrealistico valutare l’adeguatezza del pricing dato ai derivati nel portafoglio di Deutsche Bank e di altre grandi banche, vista la discrezionalità concessa al riguardo a banche e revisori (si veda L. Davi, BCE, 68 banche sotto ispezione. Fuori i Level 3 dalle verifiche, "Il Sole 24 Ore", 25 gennaio 2017).
E il vincitore è....
Il grande vincitore dell’Unione bancaria è stato il sistema bancario tedesco. Tutte le banche tedesche, ma in particolare le banche di piccole e medie dimensioni, che hanno infatti beneficiato in primo luogo di una costruzione del primo pilastro che ha fissato a 30 miliardi di asset il livello minimo per essere vigilati dalla Bce. Per ottenere questa soglia minima, il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble minacciò di mettere il veto all’Unione bancaria, e non è un mistero che l’obiettivo era tenere fuori le Sparkassen dalla Vigilanza europea.
Delle 417 Sparkassen soltanto una è oggi vigilata dalla Vigilanza BCE; stiamo parlando di banche cui spetta il 22,3% degli impieghi di quel paese, per un totale di oltre 1.000 miliardi di euro.
Del resto non è questo l’unico modo in cui queste banche pubbliche, tradizionalmente legate alla CDU, sono state protette. Vanno citati almeno altri due modi.
Il primo è rappresentato dal trattamento di favore riservato dalla normativa europea ai cosiddetti Institutional Protection Schemes (IPS). Gli IPS sono sistemi di mutua protezione e garanzia tra le banche associate, regolati contrattualmente a livello di associazione di categoria. Sono diffusi soprattutto in Germania (Sparkassen e Volksbanken), Austria (banche Raiffeisen) e Spagna (Casse di risparmio). Differiscono sia dai gruppi bancari, sia dai network di banche. Pertanto non sono direttamente oggetto della disciplina europea - ad esempio nella Direttiva europea sui requisiti di capitale (CRD IV) gli IPS non sono neppure citati - né degli accordi di Basilea. La cosa è stata giudicata da Thomas Stern, esperto dell'Austrian Financial Markets Authorities, in questi termini: “la decisione del legislatore europeo di non estendere la regolamentazione riguardante capitale e liquidità agli IPS è rimarchevole e difficile da capire da un punto di vista prudenziale”. Stern scrisse queste righe nel 2014, ma da allora la situazione non è cambiata.
Il fatto di essere membri di un IPS in effetti dà alle banche associate una serie significativa di privilegi regolamentari. È appena il caso di dire che le banche italiane in qualche modo confrontabili con le banche che in altri Paesi europei sono associate in IPS, le Banche di Credito Cooperativo, rientrano invece pienamente nella normativa europea anche per quanto riguarda i requisiti di capitale e di liquidità; non solo: con la L. 49/2016 il legislatore italiano ha imposto l’inclusione delle Banche di Credito Cooperativo in Gruppi bancari che, oltre a snaturare la natura mutualistica e cooperativa degli enti associati, avranno in 2 casi su 3 la dimensione di banche “significative” a livello europeo e quindi saranno direttamente vigilate dalla BCE sulla base dei requisiti più stringenti in termini di capitale previsti per le banche di maggiori dimensioni.
Il secondo modo in cui il governo tedesco ha aiutato le proprie Sparkassen è molto interessante, ma purtroppo poco noto: è consistito precisamente nel rimandare sine die il sistema di mutua garanzia e assicurazione dei depositi tra le banche europee.
Il nesso può non apparire immediato. Nel 2013 viene decisa la partenza dell’Unione bancaria con due pilastri su tre. È stato un gravissimo errore dell’Italia non impedire questa asimmetria, che rendeva l’unione bancaria incoerente rispetto alle sue stesse finalità dichiarate.
Nel 2015 comunque procedono in qualche modo i negoziati per attivare anche la mutua garanzia. Ma Sparkassen e Volksbanken non ne vogliono sapere di partecipare al sistema di mutua garanzia europeo, essenzialmente per due motivi: in primo luogo perché ritengono di essere in grado di proteggersi da sole grazie al loro status speciale di IPS; in secondo luogo, perché temono di dover rendere le proprie regole specifiche omogenee a quelle delle altre banche, senza più beneficiare delle eccezioni regolatorie.
Le prime prese di posizione delle Sparkassen contro la mutua garanzia europea risalgono all’estate 2015. Successivamente Schäuble ha minacciato di bloccare la norma nel Consiglio, con la scusa ufficiale che la Germania si rifiutava di pagare per i problemi bancari degli altri paesi. Diversi tentativi di compromesso andarono a vuoto, perché tutti implicavano qualche tipo di vigilanza europea sulle banche tedesche - svelando così la vera natura del problema: il desiderio del governo tedesco di ostacolare qualsiasi forma di vigilanza europea sulle Sparkassen tedesche e le altre banche minori.
A inizio dicembre 2015 Schäuble sembrò arrendersi alle pressioni della Commissione Europea e dei principali altri Stati dell'Eurozona. Il quotidiano economico Deutsche Wirtschafts Nachrichten evidenziò come una decisione del genere potesse aprire la strada a un duro conflitto tra il settore bancario tedesco e il governo.
Poi, l’8 dicembre, il colpo di scena. Il piano di contrattacco di Schäuble da un lato è consistito nel delegittimare la BCE per il suo presunto conflitto di interesse tra il ruolo di guida della politica monetaria e quello di organismo di vigilanza bancaria - una condizione che i leader europei, Schäuble incluso, avevano da poco deliberato. Ha poi annunciato la sua opposizione alla proposta di mutua garanzia in assenza del recepimento da parte di tutti gli Stati della normativa europea sul bail-in, e, punto fondamentale, fino a che non fossero ridotti i rischi del sistema bancario. Successivamente ha precisato come fosse necessario che le banche europee riducessero la quota in portafoglio dei titoli di Stato del proprio paese. Questa mossa tattica non solo ha rimandato sine die la discussione, ma ha anche spostato l'attenzione dal rischio bancario al rischio (sovrano) delle singole nazioni, un campo nel quale la Germania non ha nulla da temere. Fu infatti l'Italia, con il Presidente del Consiglio Renzi, ad essere costretta a porre il veto alla discussione sui bond sovrani nei bilanci bancari, bloccando così la discussione sul terzo pilastro.
Frattanto venivano attivati gli altri due pilastri, saltando completamente il periodo transitorio originariamente proposto per attenuare gli effetti del cambiamento delle regole. Il risultato è presto detto: le Sparkassen tedesche potranno continuare a beneficiare di requisiti di capitale più laschi e di una vigilanza esclusivamente nazionale. Un combinato disposto che rappresenta un mix esplosivo dal punto di vista dei rischi di crisi bancaria.
Oggi una crisi di questo comparto in Germania non avrebbe nulla da invidiare, nei suoi effetti, alla crisi delle casse di risparmio statunitensi (Saving & Loans Banks) degli anni Ottanta. Un ciclo economico tedesco positivo e il fatto che le aree a maggior rischio di crisi sono altre concorrono a far sì che nessuno oggi si avveda del problema. Nel frattempo, le Sparkassen e le altre banche tedesche difendono con le unghie e coi denti la propria autonomia e il diritto di non essere vigilate da nessuna autorità di vigilanza europea (si veda "Deutsche Banken sehen EU-Aufsicht kritisch", Franckfurter Allgemeine Zeitung, 1 giugno 2017).
Le conseguenze
Comprendendo questo contesto, le radici dei problemi del sistema bancario italiano diventano più chiare. Il peso dei crediti deteriorati (NPL) è derivato dalla peggiore crisi economica in tempo di pace dal 1861. Il problema è emerso anche perché dopo il 2008 non è stato intrapreso nessun salvataggio bancario. Se prendiamo le quotazioni di borsa del settore bancario negli ultimi anni, è facile osservare un andamento fortemente negativo. Tuttavia, ad uno sguardo più attento, si nota che la caduta dei prezzi è in genere avvenuta in concomitanza, più che con notizie genericamente "negative", con le novità inerenti alla regolamentazione del settore a livello europeo, o in relazione a interventi del regolatore europeo stesso su questa o quella situazione, su questa o quella banca. Si pensi alle lettere spedite dalla vigilanza europea a questa o quella banca, o anche a diverse banche insieme, per esempio per chiedere di cedere subito i crediti problematici - pertanto ad un prezzo molto basso.
Dalla fine del 2015 - quando la Commissione Europea bloccò l'intervento del fondo interbancario di tutela dei depositi per salvare quattro banche locali nei guai - sino al febbraio 2016, dopo l'entrata in vigore del bail-in senza un periodo di transizione e senza alcuna garanzia europea sui depositi, sono stati bruciati 46 miliardi di capitalizzazione di borsa dei titoli bancari italiani su un totale di 134,6. Un crollo del 35%.
È in ogni caso importante sottolineare che in tutti i casi di crisi bancaria verificatisi da fine 2015 in poi un elemento determinante è stata la fuga dei depositi, che semplicemente non avrebbe avuto luogo in vigenza della normativa nazionale precedente l’entrata in vigore dell’Unione bancaria. In tutti questi casi è stata determinante, e ha giocato un ruolo pesantemente negativo, l’assenza di un backstop pubblico sotto forma di salvataggio (bailout). In tal modo non è azzardato affermare che per il sistema bancario italiano la nuova regolamentazione europea ha rappresentato sin dalla sua introduzione un ulteriore fattore di rischio, anziché – come avrebbe dovuto essere - di stabilizzazione.
Che fare? A inizio 2016 vi fu un dibattito in Italia sull'opportunità o meno di sospendere la regolamentazione sul bail-in. Erano i mesi in cui una buona parte degli Stati dell’Unione Europea sospendeva de facto il Trattato di Schengen - l'accordo di libera circolazione all'interno della UE in vigore dal 1995. Quella sospensione di fatto perdura tuttora, mentre il bail-in non fu mai sospeso. Ciò è stupefacente - specialmente a causa del fatto che le regole del bail-in contraddicono la Costituzione italiana, e date le asimmetrie insite nello strano e traballante tavolo a due gambe che gentilmente chiamiamo "unione bancaria". Ma non è mai troppo tardi per rovesciare politiche sbagliate e errori di negoziazione. Purché li si comprenda.
di Vladimiro Giacché, 19 luglio 2017
L’obiettivo con cui l’Unione bancaria europea è nata era quello di ridurre la balcanizzazione finanziaria dell’Eurozona. La balcanizzazione - la frattura del sistema bancario transfrontaliero che avviene quando creditori nervosi si ritirano verso i sicuri porti nazionali - è stata percepita a ragione come uno dei maggiori pericoli per la stabilità e la sussistenza stessa della moneta unica.
Infatti, all'indomani della crisi finanziaria, gran parte delle ricerche disponibili evidenziavano come il sistema - che sino al 2008/2009 si presentava così interconnesso da essere apparentemente inestricabile - si era andato ridisegnando secondo linee “nazionali”. I prestiti transfrontalieri nell’eurozona erano crollati all'incirca alla metà dei valori pre-crisi, e ingenti capitali erano stati rimpatriati da molte banche e investitori nei paesi core (Germania e Francia). I prestiti nei paesi cosiddetti periferici (Grecia, Irlanda, Spagna, Italia e Portogallo) nel frattempo tornavano ad essere sostanzialmente nazionali. Questo, politicamente, era imbarazzante, ma anche pericoloso, poiché rendeva tecnicamente possibile la fine della moneta unica.
Peggio ancora, questa situazione creava un problema ulteriore non meno grave: un circolo vizioso potenzialmente distruttivo tra rischio di credito e rischio sovrano - cioè il rischio che una nazione potesse essere spinta alla bancarotta.
Un obiettivo, tre pilastri
L'idea originale era che un'unione bancaria avrebbe ristabilito un mercato bancario e finanziario integrato attraverso tre pilastri: 1) un sistema unico di vigilanza bancaria 2) procedure di risoluzione che limitassero il rischio di contagio in caso di crisi, e 3) una garanzia europea sui depositi tale da spezzare il nesso tra rischio Paese e rischio bancario.
Questa la teoria. Nella pratica, l'unione bancaria ha generato enormi asimmetrie e condizioni competitive inique in tutta l'Eurozona. Queste asimmetrie hanno colpito in particolare il sistema bancario italiano, in un modo che contribuisce a spiegare gli avvenimenti degli ultimi anni.
Per quanto riguarda il primo pilastro, la vigilanza bancaria unica ha effetti di copertura molto differenti tra i vari sistemi bancari nazionali. Trascura un rischio sistemico molto serio in alcune importanti nazioni dell’Eurozona e perciò le favorisce, almeno nel breve periodo.
Quanto al secondo pilastro, le procedure di salvataggio o risoluzione delle banche in crisi - caratterizzate dal sostanziale divieto di salvataggio pubblico - hanno avuto anch'esse effetti fortemente asimmetrici che hanno danneggiato pesantemente alcuni sistemi nazionali (in primis l'Italia). In particolare, queste regole sono state stabilite solo dopo che molti paesi europei avevano elargito aiuti pubblici senza precedenti alle proprie banche nazionali. Questi enormi trasferimenti finanziari avevano sostanzialmente sospeso - sull’onda dell’emergenza - la normativa europea sugli aiuti di Stato, ovvero sugli interventi pubblici nazionali. Così alterando in misura sostanziale il panorama concorrenziale del sistema bancario in Europa.
Impedire a questo punto la possibilità di qualsiasi tempestivo salvataggio pubblico risulta oggi fortemente penalizzante per quei Paesi, come l'Italia, che nella fase precedente non avevano proceduto a sostenere in modo massiccio il proprio sistema bancario nazionale. Per questi Stati, l'opzione del salvataggio è adesso soggetta a criteri estremamente stringenti e subordinata al cosiddetto "bail-in" - ovvero uno schema che pone in primo luogo a carico di azionisti, obbligazionisti e correntisti le perdite bancarie - non escludendo affatto la strada della risoluzione/chiusura della banca interessata.
Quanto all’entità del sostegno di cui le banche di altri Paesi europei avevano goduto prima dell’entrata in vigore dell’Unione bancaria, un articolo pubblicato da M. Frühauf sulla Frankfurter Allgemeine del 16 agosto 2013 - pochi mesi prima dell'approvazione del meccanismo unico di vigilanza bancaria da parte del Consiglio Europeo - offre dati a dir poco impressionanti. Solo per fare un esempio dei molti salvataggi tedeschi all'indomani della crisi finanziaria, il governo fornì alla compagnia di assicurazione Hypo-Re una garanzia fino a 145 miliardi di euro. Il costo di questo solo salvataggio per i contribuenti tedeschi finora è stato di 20 miliardi di euro. Altre fonti forniscono numeri complessivi leggermente diversi sui salvataggi pubblici, ma quel che emerge chiaramente è la peculiarità della situazione bancaria italiana, che finora ha comportato aiuti pubblici molto inferiori a quelli degli altri paesi europei.
Gli effetti negativi dei primi due pilastri divenivano poi addirittura dirompenti a causa dell’assenza del terzo pilastro: la garanzia europea sui depositi. Questo meccanismo era assolutamente essenziale al fine dichiarato dell’Unione bancaria: arrestare il processo di "balcanizzazione finanziaria". Infatti l’assenza di una garanzia europea manteneva l’onere della protezione (parziale) dei risparmiatori in capo al sistema Paese interessato. E, ancora una volta, contraddiceva quella solidarietà europea che dovrebbe essere il fondamento dell’architettura istituzionale dell’UE, e in particolare dell’Eurozona.
L’effetto di questo insieme di norme - i due pilastri che ci sono e quello che non c’è - è stato devastante in particolare per il sistema bancario italiano, per il quale le nuove regole hanno mutato in misura sostanziale – e per di più senza alcuna fase transitoria – il panorama normativo vigente da decenni, oltretutto in contraddizione con almeno due articoli della Costituzione italiana (l’art. 43 e l’art. 47).
A dispetto delle intenzioni, il nuovo contesto normativo ha penalizzato pesantemente i risparmiatori, in particolare i detentori delle cosiddette obbligazioni subordinate, diventate improvvisamente più rischiose col nuovo regime.
E, come era facilmente prevedibile, l'assenza sia di una rete di sicurezza pubblica per le situazioni di crisi che di un sistema di garanzia europeo, ha innescato una vera e propria corsa agli sportelli in relazione agli istituti percepiti come più deboli, o che erano alle prese con crisi aziendali che sarebbero state facilmente gestibili nel contesto normativo precedente. In tal modo, secondo il meccanismo ben noto delle previsioni che si auto-avverano, i problemi di liquidità di alcuni istituti hanno dato luogo a una fuga dei depositi che ne ha posto a rischio la solvibilità.
Un'altra pericolosa asimmetria proviene dal trattamento del rischio di mercato nel nuovo regime. Il peso di questo rischio - legato all'attività finanziaria, incluse le transazioni in derivati - risultava assolutamente sottodimensionato rispetto alla sua portata reale già negli Stress Test e Asset Quality Review condotti dalla Banca centrale europea. Il nuovo sistema pone un’attenzione molto maggiore sul rischio di credito - e conseguentemente penalizza i sistemi bancari come quello italiano che sono relativamente meno finanziarizzati, ma nei quali il rischio di credito è un fattore relativamente più importante.
Ma c’è di più: il rischio di mercato, al contrario del rischio di credito, non figura nemmeno nelle 5 priorità della Vigilanza bancaria europea esercitata dalla BCE, come evidenziato nei Rapporti annuali della BCE del 2015, 2016 e 2017 (si veda l'ultimo).
In questo modo risulta insufficientemente vigilata precisamente la tipologia di rischio alla quale è attribuito lo scoppio della crisi culminata nella Grande Recessione. Più concretamente, è insufficientemente vigilato il rischio di mercato espresso da alcune grandi banche tedesche e francesi, e in particolare quello di un colosso quale Deutsche Bank. Conoscere il valore effettivo dei Level 3 assets (derivati) di Deutsche Bank è un esercizio più prossimo alla divinazione che alla stima scientifica: in effetti al team ispettivo della Vigilanza BCE che ha recentemente condotto un’ispezione presso la banca di Francoforte "non è stato richiesto nemmeno di prezzare il valore dei derivati in portafoglio". L'Autorità di vigilanza europea aveva alzato le mani con un curioso ragionamento: giudicando cioè irrealistico valutare l’adeguatezza del pricing dato ai derivati nel portafoglio di Deutsche Bank e di altre grandi banche, vista la discrezionalità concessa al riguardo a banche e revisori (si veda L. Davi, BCE, 68 banche sotto ispezione. Fuori i Level 3 dalle verifiche, "Il Sole 24 Ore", 25 gennaio 2017).
E il vincitore è....
Il grande vincitore dell’Unione bancaria è stato il sistema bancario tedesco. Tutte le banche tedesche, ma in particolare le banche di piccole e medie dimensioni, che hanno infatti beneficiato in primo luogo di una costruzione del primo pilastro che ha fissato a 30 miliardi di asset il livello minimo per essere vigilati dalla Bce. Per ottenere questa soglia minima, il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble minacciò di mettere il veto all’Unione bancaria, e non è un mistero che l’obiettivo era tenere fuori le Sparkassen dalla Vigilanza europea.
Delle 417 Sparkassen soltanto una è oggi vigilata dalla Vigilanza BCE; stiamo parlando di banche cui spetta il 22,3% degli impieghi di quel paese, per un totale di oltre 1.000 miliardi di euro.
Del resto non è questo l’unico modo in cui queste banche pubbliche, tradizionalmente legate alla CDU, sono state protette. Vanno citati almeno altri due modi.
Il primo è rappresentato dal trattamento di favore riservato dalla normativa europea ai cosiddetti Institutional Protection Schemes (IPS). Gli IPS sono sistemi di mutua protezione e garanzia tra le banche associate, regolati contrattualmente a livello di associazione di categoria. Sono diffusi soprattutto in Germania (Sparkassen e Volksbanken), Austria (banche Raiffeisen) e Spagna (Casse di risparmio). Differiscono sia dai gruppi bancari, sia dai network di banche. Pertanto non sono direttamente oggetto della disciplina europea - ad esempio nella Direttiva europea sui requisiti di capitale (CRD IV) gli IPS non sono neppure citati - né degli accordi di Basilea. La cosa è stata giudicata da Thomas Stern, esperto dell'Austrian Financial Markets Authorities, in questi termini: “la decisione del legislatore europeo di non estendere la regolamentazione riguardante capitale e liquidità agli IPS è rimarchevole e difficile da capire da un punto di vista prudenziale”. Stern scrisse queste righe nel 2014, ma da allora la situazione non è cambiata.
Il fatto di essere membri di un IPS in effetti dà alle banche associate una serie significativa di privilegi regolamentari. È appena il caso di dire che le banche italiane in qualche modo confrontabili con le banche che in altri Paesi europei sono associate in IPS, le Banche di Credito Cooperativo, rientrano invece pienamente nella normativa europea anche per quanto riguarda i requisiti di capitale e di liquidità; non solo: con la L. 49/2016 il legislatore italiano ha imposto l’inclusione delle Banche di Credito Cooperativo in Gruppi bancari che, oltre a snaturare la natura mutualistica e cooperativa degli enti associati, avranno in 2 casi su 3 la dimensione di banche “significative” a livello europeo e quindi saranno direttamente vigilate dalla BCE sulla base dei requisiti più stringenti in termini di capitale previsti per le banche di maggiori dimensioni.
Il secondo modo in cui il governo tedesco ha aiutato le proprie Sparkassen è molto interessante, ma purtroppo poco noto: è consistito precisamente nel rimandare sine die il sistema di mutua garanzia e assicurazione dei depositi tra le banche europee.
Il nesso può non apparire immediato. Nel 2013 viene decisa la partenza dell’Unione bancaria con due pilastri su tre. È stato un gravissimo errore dell’Italia non impedire questa asimmetria, che rendeva l’unione bancaria incoerente rispetto alle sue stesse finalità dichiarate.
Nel 2015 comunque procedono in qualche modo i negoziati per attivare anche la mutua garanzia. Ma Sparkassen e Volksbanken non ne vogliono sapere di partecipare al sistema di mutua garanzia europeo, essenzialmente per due motivi: in primo luogo perché ritengono di essere in grado di proteggersi da sole grazie al loro status speciale di IPS; in secondo luogo, perché temono di dover rendere le proprie regole specifiche omogenee a quelle delle altre banche, senza più beneficiare delle eccezioni regolatorie.
Le prime prese di posizione delle Sparkassen contro la mutua garanzia europea risalgono all’estate 2015. Successivamente Schäuble ha minacciato di bloccare la norma nel Consiglio, con la scusa ufficiale che la Germania si rifiutava di pagare per i problemi bancari degli altri paesi. Diversi tentativi di compromesso andarono a vuoto, perché tutti implicavano qualche tipo di vigilanza europea sulle banche tedesche - svelando così la vera natura del problema: il desiderio del governo tedesco di ostacolare qualsiasi forma di vigilanza europea sulle Sparkassen tedesche e le altre banche minori.
A inizio dicembre 2015 Schäuble sembrò arrendersi alle pressioni della Commissione Europea e dei principali altri Stati dell'Eurozona. Il quotidiano economico Deutsche Wirtschafts Nachrichten evidenziò come una decisione del genere potesse aprire la strada a un duro conflitto tra il settore bancario tedesco e il governo.
Poi, l’8 dicembre, il colpo di scena. Il piano di contrattacco di Schäuble da un lato è consistito nel delegittimare la BCE per il suo presunto conflitto di interesse tra il ruolo di guida della politica monetaria e quello di organismo di vigilanza bancaria - una condizione che i leader europei, Schäuble incluso, avevano da poco deliberato. Ha poi annunciato la sua opposizione alla proposta di mutua garanzia in assenza del recepimento da parte di tutti gli Stati della normativa europea sul bail-in, e, punto fondamentale, fino a che non fossero ridotti i rischi del sistema bancario. Successivamente ha precisato come fosse necessario che le banche europee riducessero la quota in portafoglio dei titoli di Stato del proprio paese. Questa mossa tattica non solo ha rimandato sine die la discussione, ma ha anche spostato l'attenzione dal rischio bancario al rischio (sovrano) delle singole nazioni, un campo nel quale la Germania non ha nulla da temere. Fu infatti l'Italia, con il Presidente del Consiglio Renzi, ad essere costretta a porre il veto alla discussione sui bond sovrani nei bilanci bancari, bloccando così la discussione sul terzo pilastro.
Frattanto venivano attivati gli altri due pilastri, saltando completamente il periodo transitorio originariamente proposto per attenuare gli effetti del cambiamento delle regole. Il risultato è presto detto: le Sparkassen tedesche potranno continuare a beneficiare di requisiti di capitale più laschi e di una vigilanza esclusivamente nazionale. Un combinato disposto che rappresenta un mix esplosivo dal punto di vista dei rischi di crisi bancaria.
Oggi una crisi di questo comparto in Germania non avrebbe nulla da invidiare, nei suoi effetti, alla crisi delle casse di risparmio statunitensi (Saving & Loans Banks) degli anni Ottanta. Un ciclo economico tedesco positivo e il fatto che le aree a maggior rischio di crisi sono altre concorrono a far sì che nessuno oggi si avveda del problema. Nel frattempo, le Sparkassen e le altre banche tedesche difendono con le unghie e coi denti la propria autonomia e il diritto di non essere vigilate da nessuna autorità di vigilanza europea (si veda "Deutsche Banken sehen EU-Aufsicht kritisch", Franckfurter Allgemeine Zeitung, 1 giugno 2017).
Le conseguenze
Comprendendo questo contesto, le radici dei problemi del sistema bancario italiano diventano più chiare. Il peso dei crediti deteriorati (NPL) è derivato dalla peggiore crisi economica in tempo di pace dal 1861. Il problema è emerso anche perché dopo il 2008 non è stato intrapreso nessun salvataggio bancario. Se prendiamo le quotazioni di borsa del settore bancario negli ultimi anni, è facile osservare un andamento fortemente negativo. Tuttavia, ad uno sguardo più attento, si nota che la caduta dei prezzi è in genere avvenuta in concomitanza, più che con notizie genericamente "negative", con le novità inerenti alla regolamentazione del settore a livello europeo, o in relazione a interventi del regolatore europeo stesso su questa o quella situazione, su questa o quella banca. Si pensi alle lettere spedite dalla vigilanza europea a questa o quella banca, o anche a diverse banche insieme, per esempio per chiedere di cedere subito i crediti problematici - pertanto ad un prezzo molto basso.
Dalla fine del 2015 - quando la Commissione Europea bloccò l'intervento del fondo interbancario di tutela dei depositi per salvare quattro banche locali nei guai - sino al febbraio 2016, dopo l'entrata in vigore del bail-in senza un periodo di transizione e senza alcuna garanzia europea sui depositi, sono stati bruciati 46 miliardi di capitalizzazione di borsa dei titoli bancari italiani su un totale di 134,6. Un crollo del 35%.
È in ogni caso importante sottolineare che in tutti i casi di crisi bancaria verificatisi da fine 2015 in poi un elemento determinante è stata la fuga dei depositi, che semplicemente non avrebbe avuto luogo in vigenza della normativa nazionale precedente l’entrata in vigore dell’Unione bancaria. In tutti questi casi è stata determinante, e ha giocato un ruolo pesantemente negativo, l’assenza di un backstop pubblico sotto forma di salvataggio (bailout). In tal modo non è azzardato affermare che per il sistema bancario italiano la nuova regolamentazione europea ha rappresentato sin dalla sua introduzione un ulteriore fattore di rischio, anziché – come avrebbe dovuto essere - di stabilizzazione.
Che fare? A inizio 2016 vi fu un dibattito in Italia sull'opportunità o meno di sospendere la regolamentazione sul bail-in. Erano i mesi in cui una buona parte degli Stati dell’Unione Europea sospendeva de facto il Trattato di Schengen - l'accordo di libera circolazione all'interno della UE in vigore dal 1995. Quella sospensione di fatto perdura tuttora, mentre il bail-in non fu mai sospeso. Ciò è stupefacente - specialmente a causa del fatto che le regole del bail-in contraddicono la Costituzione italiana, e date le asimmetrie insite nello strano e traballante tavolo a due gambe che gentilmente chiamiamo "unione bancaria". Ma non è mai troppo tardi per rovesciare politiche sbagliate e errori di negoziazione. Purché li si comprenda.
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