31/03/17

Il mito della crescita attraverso il libero scambio

Il sito di analisi politica ed economica Makroskop, curato da Heiner Flassbeck e Paul Steinhardt, passa al vaglio in questo documentato articolo il mito neoliberista secondo cui il libero mercato sarebbe sinonimo di crescita e benessere per tutti, mentre il protezionismo foriero di povertà e disastri. Giungendo alla conclusione che un'analisi senza pregiudizi della storia economica degli ultimi due secoli permette di affermare l'opposto: il libero mercato non porta affatto vantaggi a tutti e un certo protezionismo può giovare allo sviluppo economico di un paese, come risulta in particolare se si esamina il periodo precedente alla Prima guerra mondiale, proprio quello solitamente usato come prova a sostegno delle tesi neoliberiste.
Ringraziamo per la segnalazione Beppe Vandai.

di Patrick Kaczmarczyk, 24 febbraio 2017

Traduzione di Michele Paratico

 

Il protezionismo conduce alla guerra e alla stagnazione, il libero scambio inevitabilmente alla crescita. Questa storiella è un paradosso neoliberista da prima del 1913. Vale la pena dare un’occhiata più attenta alla storia.

 

Da quando Donald Trump è diventato presidente, ha cominciato a circolare la paura del protezionismo. Eminenti economisti attraverso i mass media ci mettono in guardia all’unisono contro le sventure che il protezionismo avrebbe già apportato all’umanità.
A questo proposito sempre più spesso si traccia un confronto con il periodo precedente alla prima guerra mondiale, che in letteratura notoriamente segna la fine della prima era della globalizzazione. Gabriel Felbermayr, dirigente dell’IFO - Institut für Wirtschaftsforschung (Istituto per la ricerca economica) di Monaco -  sezione commercio estero, vede la fine della globalizzazione in arrivo già prima delle elezioni americane in novembre e fa risalire al crescente protezionismo la catastrofe della prima guerra mondiale (1914 – 1918) (vedi qui). Il messaggio è chiaro: appena limitiamo in qualche modo il libero scambio, questo ci porta al disastro economico.

Quando vengono effettuati confronti tanto arditi, vale la pena dare un’occhiata più approfondita alla storia, nel nostro caso allo sviluppo dell’economia mondiale nel 19° secolo. In questo modo due aspetti diventano particolarmente chiari: da una parte, alla tesi che il libero scambio porti a una maggiore crescita e il protezionismo alla catastrofe manca qualsiasi fondamento storico; dall’altra, la politica economica che fece emergere le nazioni industrializzate mostra con quale doppiezza si predica, nel mondo occidentale, la storia dei liberi mercati.



Commercio europeo nel periodo 1870 – 1913 (incluso il commercio intra-europeo)

  • Wachstum = crescita

  • Gewichteter Durchschnitt = media ponderata

  • Rest der Welt = resto del mondo


 

 

Sebbene al commercio sia stato attribuito un sempre maggiore impatto sulla attesa crescente prosperità, è interessante però vedere che i flussi commerciali nel 1913 non si differenziano in maniera così marcata da quelli del 18° secolo. I paesi industrializzati occidentali (specialmente l’Europa occidentale e, alla fine del secolo, anche gli USA e il Giappone) esportavano soprattutto beni industriali, mentre il resto del mondo forniva prodotti agricoli per i lavoratori e materie prime per la produzione nei paesi industrializzati.

Le conseguenze di questi flussi commerciali furono pesanti. In primo luogo la dipendenza dalla esportazione di materie prime e la crescente importazione di prodotti industriali (specialmente tessili e abbigliamento) impedì nel Sud una propria industrializzazione. Per questo la distruzione dell’industria tessile indiana viene vista negli studi come il primo esempio di deindustrializzazione, ma anche in altre regioni, tra cui la Cina, l’America Latina e il Medio Oriente, si verificò un declino di importanti settori industriali. Complessivamente la quota di produzione mondiale di prodotti industriali dovuta ai paesi in via di sviluppo tra il 1860 e il 1913 scese da un terzo a un decimo.



Distribuzione percentuale nel mondo della produzione industriale

 

Una ulteriore conseguenza di questo sviluppo fu che la differenza di reddito tra il Nord industrializzato e il Sud esportatore di materie prime aumentò significativamente in questo periodo ( vedi figura in basso) – un processo che lo storico Kenneth Pommeranz ha definito “Great Divergence” (La grande divergenza) e che contribuì decisamente a porre le basi della situazione attuale di molti paesi poveri del Sud del mondo. Se il periodo precedente alla prima guerra mondiale viene visto come una prova che il libero scambio porta vantaggi a tutti i partecipanti, ci si può porre la domanda, allora come adesso, di chi si intenda con questi “tutti”.



PIL pro capite in alcuni paesi nel periodo 1820-1938

 

Fonte: Maddison (2001), WTO World Trade Report 2013 (p. 49)

 

Protezionismo nel bel mezzo del periodo d’oro del liberismo

La spinta liberalizzazione del commercio subì una importante battuta d’arresto dopo due decenni di accordi bilaterali, tanto che in Europa si delineò un crescente protezionismo. La problematica del libero commercio, dal quale in teoria alla fine tutti dovrebbero trarre vantaggi, si delineò già nel 19° secolo, quando la società si divise tra vincitori e sconfitti della globalizzazione. I primi furono principalmente i lavoratori delle città, in quanto i prezzi dei prodotti alimentari, grazie alla riduzione dei costi di trasporto, diminuirono significativamente. Così, in un periodo in cui la maggior parte del reddito doveva essere speso per i bisogni alimentari necessari per vivere, i redditi reali poterono salire del 43% (in Gran Bretagna) tra il 1870 e il 1913.

I perdenti invece furono principalmente i contadini che vivevano nelle campagne, poiché i prezzi dei prodotti agricoli calarono, a causa delle importazioni a prezzi bassi, e i loro redditi si ridussero significativamente. Sovvenzioni statali insufficienti e la politica deflazionistica dovuta al Gold Standard peggiorarono la situazione dei contadini. Come risposta alla crescente guerra dei prezzi e alla incombente depressione del 1870, i proprietari terrieri insieme a nuovi imprenditori emergenti dell’industria riuscirono a far accettare in vaste aree dell’Europa un più forte protezionismo, che è rimasto in vigore fino all’inizio della Prima guerra mondiale. L’impero austro-ungarico innalzò le tariffe doganali nel 1876, l’Italia seguì nel 1878 e la Germania si unì al trend nel 1879.

Anche dall’altra parte dell’Atlantico il forte sviluppo economico degli USA ebbe poco a che fare con il libero commercio. Dopo la vittoria degli stati del Nord nella guerra civile americana nel 1865, il governo cominciò a promuovere la propria economia attraverso interventi statali, con il suo programma di industrializzazione volto alla sostituzione delle importazioni (ISI, Import Substitution Industrialization). Negli anni dal 1866 al 1883 gli USA si trincerarono dietro a dazi doganali mediamente del 45% per l’importazione di prodotti industriali (i dazi inferiori furono del 25%, i superiori del 60%) e ottennero nonostante – o grazie a? – questa politica economica una crescita notevole e progressi tecnologici.

In questo contesto è ancora più incredibile che si associ il capitalismo anglosassone di oggi esattamente al contrario di ciò che ha posato la pietra angolare della prosperità degli USA.

Mentre tutti gli stati ricchi dal 1870 cominciarono a mettere così validamente in campo misure protezionistiche, fu imposta ai paesi in via di sviluppo, principalmente attraverso l’influsso coloniale, una radicale liberalizzazione dei mercati. Lo storico Paul Bairoch descrive in modo particolarmente efficace la situazione nell’anno 1913 con queste parole:

“Quando la politica commerciale fino al 1913 nel mondo industrializzato viene descritta come un’isola di liberismo, circondata da un mare di protezionismo, allora si dovrebbe caratterizzare al meglio il mondo industrializzato come oceano del liberismo con isole di protezionismo” (traduzione libera)

Questa situazione non risulta di certo sconosciuta oggi ad alcuni paesi in via di sviluppo, dove negli ultimi decenni al posto delle potenze coloniali sono stati i fondamentalisti del libero mercato del Fondo Monetario Internazionale o della Banca Mondiale ad imporre ai governi una politica economica neoliberista.

Tra gli studiosi c’è una dibattuta discussione su fino a che punto l’imperialismo del 19° e 20° secolo possa essere visto come inevitabile conseguenza dell’ordine mondiale capitalista. Alcuni, tra cui in particolare l’economista britannico John Atkinson Hobson, hanno sostenuto la tesi che l’espansione coloniale fosse l’inevitabile conseguenza della ricerca di nuovi mercati e luoghi di produzione più economici. Si contrappone a questa tesi l’opinione che motivi economici da soli non possano costituire una spiegazione sufficiente, visto che spesso solo una minima parte degli investimenti andò nelle colonie.
Nel caso dell’impero britannico le colonie britanniche nel loro insieme (escluse Australia, Canada e Nuova Zelanda) ottennero il 16,9% di tutti i crediti e investimenti, mentre gli USA da soli ottennero una quota del 20,5%. Alle colonie tedesche (2,6%) e francesi (8,9%) similmente fu destinata solo una insignificante quota degli investimenti e crediti esteri dalle loro rispettive potenze di occupazione e amministrazione.
Oltre a questo, il prestigio politico di uno stato che si fosse affermato come potenza coloniale ebbe senza dubbio una certa rilevanza.

 

 

Contraddizioni neoliberiste dai tempi della prima era della globalizzazione

 In considerazione dei contesti visti finora, la tesi che la liberalizzazione del commercio obbligatoriamente porti a un commercio maggiore e maggiori crescita e prosperità pone due domande decisive.

In primo luogo, come è possibile che eminenti economisti si riferiscano al periodo antecedente alla Prima guerra mondiale per mostrare che il “libero scambio” è un elemento essenziale per la crescita economica?

In secondo luogo, su quale fondamento si poggia l’opinione che il protezionismo emergente negli anni settanta del 19° secolo sfociò nella catastrofe del 1914?

In particolar modo i neoliberisti dovrebbero essere di fronte a un mistero per quanto riguarda la crescita nella fase finale del 19° secolo. Da una parte abbiamo visto che “l’Epoca d’oro del liberismo” ebbe una componente protezionistica molto forte e che una grossa parte del commercio mondiale ebbe luogo solamente tra i paesi ricchi. Dall’altra abbiamo visto la forte divergenza di reddito tra il Nord e il Sud, benché il libero scambio avrebbe dovuto condurre invece a una convergenza.

In aggiunta, dovrebbe essere posta un'altra domanda, su come gli USA – dove invece furono imposti alti dazi doganali a protezione dell’industria nazionale – poterono svilupparsi così positivamente. Questo sviluppo non sarebbe per niente sorprendente, se lo si comparasse con la politica economica che ha portato la Cina e le “Tigri asiatiche” ad ottenere una forte crescita verso la fine del 20° secolo, sebbene la loro politica economica fosse diametralmente opposta al dogma neoliberista del libero scambio.

Ancora più chiara diventa la problematicità di una relazione di causalità nel fatto che il libero scambio porterebbe a più commercio e con ciò a maggiore crescita, osservando i dati di crescita in relazione alle rispettive politiche economiche predominanti (vedi figura in basso). Sorprendentemente, con un crescente protezionismo aumentarono sia la crescita economica sia l’export.

Troviamo lo stesso modello se confrontiamo il periodo durante il sistema di Bretton Woods (1950 – 1970 nella tabella) con la fase immediatamente seguente della liberalizzazione (1970 – 1990), fase in cui la crescita sia nei paesi industrializzati sia nei paesi in via di sviluppo raggiunge solo la metà rispetto al periodo precedente. Spesso come motivazione viene riportato il bisogno di recuperare che i paesi industrializzati ebbero dopo la Seconda guerra mondiale. Tuttavia di fronte alla condizione in cui si trovano oggi molti paesi in via di sviluppo e di fronte al bisogno enorme di recupero che la maggior parte dei paesi industrializzati ha nella formazione, nell’ecologia e nelle infrastrutture, a mio avviso l’argomento è insufficiente.

 

In ogni caso è chiaro che l’idea, che la liberalizzazione del commercio porti con sé necessariamente una crescita maggiore, non si lascia generalizzare. Questo concetto, specialmente in relazione al periodo precedente alla Prima guerra mondiale, rimane un’idea assurda della scuola neoliberista.



Tendenze della crescita economica 1830 – 1990

 

  • Industriestaaten = paesi industrializzati

  • Entwicklungsländer = paesi in via di sviluppo

  • Welt insgesamt = totale mondiale


 

 

Molto più convincente sembra essere la tesi che il rapporto di causa-effetto vada nella direzione opposta: una maggiore crescita economica conduce a maggior commercio internazionale. Bairoch e Kozul-Wright corroborano questa linea di pensiero con gli sviluppi della seconda metà del 19° secolo. Nel periodo dal 1860 al 1879, quando il commercio era fortemente liberalizzato, sia la crescita della produzione sia l’export furono molto deboli. Invece durante la fase protezionistica immediatamente successiva il tasso di crescita della produzione aumentò di più del 100% e l’export aumentò del 35%.

Un’osservazione più ravvicinata dei singoli paesi chiarisce meglio questo concetto (vedi figura in basso). Con l’eccezione dell’Italia, ogni paese in seguito alla propria politica protezionistica vide una rapida crescita del reddito nazionale lordo. Anche il commercio, nella maggior parte dei casi, crebbe nel lungo periodo (20 anni), dopo un calo iniziale delle esportazioni nei primi dieci anni.



Quadro delle riforme della politica commerciale, export e crescita in alcuni paesi europei (*)

(*) tassi di crescita annuale basati sui valori medi di tre anni, media dei tre anni precedenti, incluso l’anno in cui è entrata in vigore la nuova politica commerciale.

 

  • Datum des Politikwechsels = data del cambio di politica (commerciale, ndt).

  • 10-Jahres-Zeitraum vor Einführung der protektionistischen Maßnahme = periodo decennale antecedente l’introduzione delle misure protezionistiche.

  • Zeiträume nach Einführung der protektionistischen Maßnahme = periodi dopo l’introduzione delle misure protezionistiche.

  • Erste 10 Jahre = primi dieci anni

  • Folgende 10 Jahre = dieci anni successivi

  • BSP (Bruttosozialprodukt) = prodotto nazionale lordo


 

 

Una distorsione dei fatti  

L’argomento che il protezionismo prima del 1914 contribuì allo scoppio della Prima guerra mondiale non ha nessuna prova fondata. Da una parte le nazioni industrializzate già nel 1870 iniziarono ad adottare misure protezionistiche, dall’altra aumentarono, nel periodo seguente, sia la crescita economica che le esportazioni.
Al contrario, questa epoca chiarisce ciò che le ideologie neoliberiste non vogliono ammettere: che il “libero scambio” nel suo insieme ha arricchito solo pochi e che la crescita economica è possibile anche senza un radicale fondamentalismo del libero mercato. In effetti, considerando la storia, la difesa del libero scambio si mostra come un atto ipocrita. Coloro che oggi sostengono a gran voce il capitalismo anglosassone, gli USA e la Gran Bretagna, hanno essi stessi difeso all’inizio della loro industrializzazione le loro imprese e industrie attraverso alte tariffe doganali. Un simile attacco di amnesia storica lo ha avuto ultimamente anche il capo dello stato e del partito cinese Xi Jinping, che a Davos si è pronunciato fortemente contro il protezionismo (vedi: qui).

L’economista di Cambridge Ha-Joon Chang bolla giustamente questi modi di argomentare come “astorici”, poiché l’analisi del passato è stata rimossa grazie all’uso della matematica e a ipotesi assurde. Il fatto che “la maggior parte dei paesi benestanti, che attraverso una combinazione di protezionismo, sovvenzioni e altre misure di politica economica [sono diventati ricchi], […] sconsiglino ai paesi in via di sviluppo [esattamente queste misure]” viene descritto da Ha-Joon Chang come lo scalciare via la scala dopo essere saliti sull'albero.
Non si dimentichi che sono le attuali tariffe doganali e le sovvenzioni nel ricco Nord che rendono ancora più difficile per i paesi in via di sviluppo la commercializzazione dei loro prodotti.

Nell’insieme ci rimane da evidenziare che un certo protezionismo può essere molto utile per lo sviluppo economico di un paese, se applicato nel quadro di una intelligente strategia di politica commerciale, che corrisponda ogni volta al proprio stadio di sviluppo. E in effetti non solo per i paesi in via di sviluppo, ma anche per i principali paesi industrializzati possono esserci vantaggi derivanti da misure protezionistiche. Soprattutto quando si tratta di difendersi da vantaggi commerciali sleali di altri paesi.

Così, lentamente, si fa largo l’idea che il nocciolo del problema sia qui. In Germania non si vuole ancora ammettere che l’enorme avanzo della bilancia commerciale è stato ottenuto con metodi sleali e a carico dei paesi in disavanzo di bilancia commerciale. Perciò in Germania è ancora più facile che altrove condannare il protezionismo. Tuttavia, come abbiamo visto, il periodo antecedente il 1914 supporta con molta difficoltà le tesi di alcuni economisti e mass media tedeschi.

Non sarebbe più sensato che i noti opinion makers studiassero più attentamente le conseguenze del mercantilismo? È così difficile riconoscere quale logica seguono la politica economica e la politica commerciale tedesche?

"The ordinary means […] to encrease our wealth and treasure is by Forraign Trade, wherein wee must ever observe this rule; to sell more to strangers yearly than wee consume of theirs in value."

“I mezzi normali […] per la crescita della nostra prosperità e del nostro patrimonio sono il commercio con l’estero, dove dobbiamo sempre osservare queste regole: ogni anno dobbiamo vendere agli stranieri più della merce estera che consumiamo.”

 

Questa frase non è della Merkel o di Schäuble, come si può cogliere immediatamente dal modo di esprimersi.antiquato. Tanto meno è un estratto del programma della Troika, che ha propugnato questa politica nelle sue “riforme” per aumentare la “competitività” dell’Europa. Questa “strategia” di politica economica venne fissata da Thomas Mun, uno degli ex-direttori della Compagnia delle Indie Orientali, nella sua opera “Il patrimonio dell’Inghilterra attraverso il commercio estero”, nel 1664.

Da questo si può riconoscere quanto poco progredito sia l’atteggiamento mentale di alcuni politici, mass media e studiosi di oggi.

 

 

Bibliografia

 

 

Bairoch, P. (1982) ‘International industrialisation levels from 1750 to 1980’, The Journal of European History, 2, pp. 269-333

Bairoch, P. (1993) Economics and World History – Myths and Paradoxes. Harvester. London

Bairoch, P. and Kozul-Wright, R. (1996) Globalization Myths: Some Historical Reflections on Integration, Industrialization and Growth in The World Economy, UNCTAD Discussion Paper No. 113.

Broadberry and O’Rourke (2010) – The Cambridge Economic History of Modern Europe: Volume 2, 1870 to the Present. Cambridge University Press.

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Chang, H.-J. (2012) 23 Lügen, die sie uns über den Kapitalismus erzählen. Goldman Verlag.

Edwards, S. (1993) ’Openness, Trade Liberalization, and Growth in Developing Countries’, Journal of Economic Literature, 31(3), pp. 1358-1393

Frieden, J. (2006) Will Global Capitalism Fall Again? Bruegel Essay and Lecture Series.

Gallagher, J. and Robinson, R. (1952) ‘The Imperialism of Free Trade’, The Economic History Review, 6 (1), pp. 1-15

Hobson, J. A. (1902) Imperialism: A Study. James Pott& Co. New York

Maddison, A. (2001) The World Economy – A Millennial Perspective. Development Centre Studies. OECD

O’Rourke, K. and J. Williamson (1994) Late 19th Century Anglo-American Factor Price Convergence: Were Heckscher and Ohlin Right? Journal of Economic History, 54(4), pp. 892-916

Pomeranz, K. (2000) The Great Divergence: China, Europe, and the Making of the Modern World Economy. Princeton University Press.

Ravenhill, J. (2016) The Global Political Economy. Oxford University Press.

Ricardo, D. (1981/1817) Principles of Political Economy and Taxation. R. M. Hartwell (ed.), Penguin Books Ltd., Middlesex, England.

Sachs, J. and Warner, A. (1995) ‘Economic Reform and the Process of Global Integration‘, Brookings Papers on Economic Activity, 1, pp. 1-118

Smith, A. (1776 / 1981) An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations. Oxford University Press.

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WTO (2013) World Trade Report – Factors Shaping the Future of World Trade.

 

 

30/03/17

Perché la Brexit è la scelta migliore per il Regno Unito: una prospettiva di sinistra

Alan Johnson spiega sul New York Times perché la sinistra dovrebbe rallegrarsi della Brexit. L’abbandono dell’Unione Europea non è un’occasione per isolarsi dal mondo, bensì la decisione necessaria per rifiutare l’ideologia liberista di cui l’UE è impregnata. Gli inglesi hanno rifiutato il modello UE, fondato sulla subordinazione delle istituzioni democratiche e del benessere delle persone al capriccio delle élite e allo sfruttamento delle classi subalterne da parte di chi ne ha i mezzi. L’unico ambiente adatto per ripristinare la socialdemocrazia sono gli stati-nazione, in cui dovrà essere ridefinito il popolo – demos – non tanto in contrapposizione alle altre nazionalità, ma in contrapposizione alle élite neoliberiste predatrici.

 

Di Alan Johnson, 28 marzo 2017

 

Londra — Mercoledì  il Primo Ministro del Regno Unito, Theresa May, manderà una lettera al Presidente del Consiglio Europeo, Donald Tusk, per informarlo che, dopo 44 anni di appartenenza, il Regno Unito lascerà l’Unione Europea. Tra circa due anni, al termine delle negoziazioni sui termini dell’uscita, l’Unione perderà in un solo colpo “un ottavo della sua popolazione, un sesto del PIL, metà dell’arsenale militare e un seggio al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite”, come ha fatto notare recentemente Susan Watkins, editrice della New Left Review.

La Watkins è una “Lexiteer”, ossia una sostenitrice di sinistra della “Brexit”, come me. Non siamo stati una forza significativa tra il 52% dei britannici che hanno votato a favore dell’uscita nel referendum del 23 giugno. Ma abbiamo avuto una certa influenza. I Lexiteers - un contrappeso a coloro che cavalcavano le paure anti-immigrazione come l’ex leader di destra dell’UKIP, Nigel Farage – sostengono la Brexit da un punto di vista democratico, internazionalista e di sinistra. Questa posizione è stata espressa perfettamente da Perry Anderson, l’ex redattore di vecchia data della New Left Review:  “L’UE è ormai largamente vista per quello che è diventata: una struttura oligarchica, piena di corruzione, costruita sulla negazione di ogni tipo di sovranità popolare, sull’applicazione di un duro regime economico di privilegi per pochi e sacrifici per molti”.

Nonostante i Lexiteer non abbiano alcuna simpatia per il nichilismo nazionale degli “uomini di Davos”, ossia l’élite globalista, non siamo degli xenofobi. Abbiamo votato “Leave” perché crediamo che si essenziale preservare le due cose a cui crediamo di più: un sistema politico democratico e una società social-democratica. Temiamo che il progetto autoritario dell’Unione Europea di integrazione neoliberista sia il terreno di cultura dell’estrema destra. Sottraendo al processo democratico così tante decisioni politiche, inclusa l’imposizione di misure di austerità a lungo termine e di immigrazione di massa, l’unione ha rotto il patto tra i politici nazionali mainstream e i loro elettori. Questa situazione ha aperto le porte ai populisti di destra che ritengono di rappresentare “il popolo”, già arrabbiato a causa dell’austerità, contro gli immigrati.

È stato l’economista liberista Friedrich Hayek, l’architetto intellettuale del neoliberalismo, che nel 1939 invocava un “federalismo interstatale” in Europa per evitare che gli elettori potessero utilizzare la democrazia per interferire con le operazioni del libero mercato. In altre parole, come ha detto il Presidente della Commissione Europea (l’organo esecutivo dell’unione), Jean-Claude Juncker:  “Non ci possono essere decisioni democratiche che si oppongono ai Trattati Europei”.

Le istituzioni e i trattati dell’unione sono stati progettati di conseguenza. La Commissione Europea viene nominata, non eletta, ed è orgogliosamente libera da ogni responsabilità nei confronti degli elettori. “Non cambiamo le nostre decisioni a seconda di come vanno le elezioni " così il vice presidente della Commissione Jyrki Katainen ha commentato la vittoria del partito anti-austerità Syriza, in Grecia, nel 2015.

Il Parlamento Europeo non è un vero Parlamento. Non ha vero potere legislativo; i suoi delegati non elaborano programmi politici  né portano avanti idee che propongono agli elettori. Le elezioni, tenute in collegi elettorali assurdamente estesi, con affluenze pietosamente basse, non cambiano nulla. Come ha detto un membro dello staff parlamentare a un Seminario per la Ricerca Europea alla London School of Economics: “Le uniche persone che ascoltano i Parlamentari Europei sono gli interpreti”.

Il Consiglio Europeo, un organo intergovernativo dove risiede il vero potere legislativo, specialmente se pensiamo alla tedesca Angela Merkel, è formato dai Capi di Stato dei vari Stati membri, che normalmente si incontrano quattro volte all’anno. Non sono eletti direttamente dagli abitanti delle Nazioni che governano. Se poi parliamo del principio di “sussidiarietà” dell’Unione, una presunta preferenza per il governo decentrato, esso viene ignorato in tutte le questioni pratiche.

I desideri dell’elettorato vengono regolarmente ignorati. Quando, nel 2005, la proposta di una Costituzione Europea è stata rigettata dagli elettori di Francia e Olanda (la maggior parte dei Governi non ha nemmeno permesso che avvenisse un voto popolare), questo fatto non ha cambiato niente per i sostenitori del Progetto Europeo. Con qualche cambiamento cosmetico, la Costituzione è stata comunque imposta; solo che è stata ridenominata Trattato di Lisbona (l’Irlanda, unico stato a consentire un referendum sul Trattato, votò contro. Di conseguenza fu chiesto agli irlandesi di rivotare, finché non avessero votato nella maniera giusta. Questa è la democrazia secondo l’Unione Europea).

A prescindere da cosa avrebbe potuto essere l’Unione, sin dagli anni '80 essa ha integrato nel suo progetto l’economia neoliberista Nel farlo, si è trasformata in quello che il sociologo tedesco Wolfgang Streeck ha definitoun potente motore di liberalizzazione a servizio di una profonda ristrutturazione della vita sociale in senso prettamente economicista”. La combinazione di mercato unico, Trattato di Maastricht, moneta unica e Patto di Stabilità e Crescita ha imposto politiche di deregolamentazione, privatizzazione, regole contro il lavoro, regimi di tassazione regressivi, tagli al welfare e finanziarizzazione, e le hanno poste al di sopra della volontà dei popoli.

Occorre notare che gli strumenti economici Keynesiani, su cui poggia la socialdemocrazia, sono ora illegali in Europa, e perfino The Economist ne è nauseato, e ha scritto che queste regole “sembrano molto poco raccomandabili politicamente”. Per quanto riguarda l’accordo di scambio tra Unione Europea e USA, il TTIP, sembra di vedere le fantasie di Hayek prendere vita, dato che potenzialmente esso consente alle multinazionali di far causa ai governi democraticamente eletti se questi osano ascoltare quanto gli chiedono di fare gli elettori.

Un’altra istituzione chiave dell’unione neoliberale è la Banca Centrale Europea. I governatori della banca, persone non elette e che non devono rispondere a nessuno del proprio operato, sono vincolate per trattato a preferire la deflazione alla crescita, a proibire gli aiuti di stato alle industrie in difficoltà e a imporre le misure di austerità. Analogamente, la moneta unica agisce da cappio per intere regioni europee, che non possono né svalutare la propria moneta (come possono fare le nazioni sovrane) per recuperare competitività, né uscire dalla stagnazione attraverso la crescita, perché sono costrette tramite austerità a far crollare la propria economia.

Il costo umano è stato spaventoso. La tortura economica a cui l’Unione Europea ha sottoposto la Grecia ha causato il taglio del 25% degli stanziamenti per gli ospedali e del 50% della spesa in medicine, mentre il tasso di infezioni da HIV si è impennato, i casi di depressione grave sono raddoppiati, i tentativi di suicidio sono aumentati di un terzo e il numero dei bambini nati morti è aumentato del 21%. Quattro bambini greci su dieci sono stati spinti nella povertà e un sondaggio ha stimato che il 54% dei Greci oggi è sottoalimentato. Philippe Lagrain, un ex consulente di Manuel Barroso, allora Presidente della Commissione Europea, ha osservato che in quanto “creditore europeo per eccellenza” la Germania ha “calpestato valori come democrazia e sovranità nazionale e creato uno stato vassallo”.

In casi estremi, i governi nazionali vengono di fatto allontanati a forza e rimpiazzati con tecnocrati compiacenti, come George Papandreou in Grecia e Silvio Berlusconi in Italia hanno potuto constatare. In cima a tutto poi c’è la Corte Europea di Giustizia, che ha emesso sentenze che subordinano il diritto di sciopero dei lavoratori al diritto dei datori di lavoro di fare affari con le mani libere. Hayek sorriderebbe nel vedere cose come questa.

Anche se lo slogan del “Leave” è stato oggetto di scherno, la Brexit ha davvero significato la possibilità di “riprendere il controllo”. La Democrazia ha bisogno di un demos, un popolo, che sia l’origine, il tramite e l’obiettivo del suo Governo. Senza un demos, quello che rimane è una gestione elitaria, il diritto dei trattati e la redistribuzione verso l’alto della ricchezza. Ma come sarà costruito “il popolo”? La politica lo deciderà. Un populismo di sinistra non cercherà di definire il popolo come fa la destra, in contrapposizione con gli immigrati o altre categorie, ma in contrapposizione alle potenti élite neoliberiste, che non sono più in grado, usando le parole del Professor Streeck, “di formare una struttura sociale intorno al nucleo centrale della corsa al profitto capitalista.”

È stato un errore colossale da parte della gente di Davos di sinistra, pensare che gli Stati-nazione siano un anacronismo ostile alla democrazia. Anziché essere una minaccia alla democrazia, gli Stati-nazione sono l’unico fondamento stabile che abbiamo individuato per sostenere gli impegni, i sacrifici e la fiducia sociale di cui una democrazia e uno stato sociale hanno bisogno.

In questo momento, la sinistra europea sta giocando le sue carte seguendo il manuale di un’altra parte politica, in una competizione truccata. Una parte della Nazione, i vincitori, hanno “usato il mondo globalizzato come fosse il loro grande campo da gioco” come dice il professor Streeck. Uno, o forse l’unico, significato della Brexit è che, avendo perso la fiducia nelle sciocche promesse di una globalizzazione “che vada bene per tutti”, la rimanente parte della nazione – i perdenti, le vittime e gli esclusi – hanno deciso, per disperazione, di fare un gesto sovrano: cambiare le regole per ritornare alla politica degli Stati-nazione, per poter ritornare a una situazione equilibrata. “Cercano rifugio”, per usare le parole di Streeck, nella “protezione democratica, nelle leggi del popolo, nell’autonomia locale , nei beni collettivi e nelle tradizioni egualitarie”.

Anziché lasciare il campo alle destre "nativiste", alcuni di noi della sinistra democratica si uniscono a loro.

 

29/03/17

Come impedire che si trasformino i sani in malati

Il fatto che quello della salute sia diventato un mercato che genera profitti astronomici (tra gli ultimi casi eclatanti quello dei farmaci contro l'epatite C, arrivati a costare oltre 40.000 euro a ciclo di cura) significa, tragicamente, che c'è convenienza ad aumentare il numero delle persone bisognose di trattamenti, a costo di inventare letteralmente le malattie (il termine usato è "disease mongering") e trasformare quante più possibile persone sane in malati. Sul sito della rivista dell'Associazione dei medici canadesi Iona Heath, medico e ricercatrice, autrice tra l'altro del bellissimo saggio Contro il mercato della salute (Bollati Boringhieri), presenta la conferenza annuale su questi temi che si terrà ad agosto in Canada.

 

di Iona Heath, 20 Dicembre 2016

Nel corso degli ultimi decenni, gli interessi economici delle industrie farmaceutiche e mediche hanno esercitato nei confronti della medicina una serie di pressioni - ma potremmo parlare anche di tentazioni - che l'hanno spinta a cercare di oltrepassare i propri limiti.
L'impegno etico tradizionale della professione medica - alleviare le sofferenze e prendersi cura di chi è sul punto di morire - è stato gradualmente sostituito dal vano e fuorviante tentativo di risolvere i profondi problemi esistenziali dell'umanità attraverso gli strumenti delle biotecnologie. I medici oggi nel momento del fine vita ricorrono a trattamenti sempre più potenti e si sforzano di prevenire le malattie attraverso la ricerca e la modifica di un numero sempre maggiore di fattori di rischio. Tutto questo ha portato a una vera e propria epidemia di diagnosi e cure in eccesso, che riguarda tutta la popolazione, ma danneggia forse soprattutto gli anziani.
Questi sforzi distolgono la nostra attenzione dalla necessità fondamentale di trovare un senso all'esperienza umana universale della sofferenza, della perdita e della morte. La morte stessa finisce con l'essere considerata come un fallimento della medicina e dei medici, piuttosto che l'inevitabile punto di arrivo di ogni vita.

EvaluatePharma si descrive come un'organizzazione in grado di fornire ai decisori di alto livello che operano all'interno del settore farmaceutico modelli che tengono conto dei mercati finanziari mondiali. Il suo slogan di presentazione promette di indicare “quando si può facilmente stabilire che una nuova categoria terapeutica è un'opportunità di mercato”, mentre il logo mostra una quantità crescente di persone avviate a essere inghiottite da un imbuto. Secondo la loro anteprima mondiale 2014, per la prima volta nella storia del settore farmaceutico le previsioni generali sulle vendite di farmaci con ricetta medica in tutto il mondo vedono lo sfondamento del tetto del bilione (1.000 miliardi ndT) di dollari, con vendite per 1.017 miliardi entro il 2020, il che equivale a una crescita media del 5,1% all'anno tra il 2013 e il 2020. A livello mondiale, le vendite di farmaci con ricetta saranno quindi quasi raddoppiate in soli 14 anni. Questi profitti giganteschi dipendono interamente dal fatto che tutti noi veniamo persuasi ad assumere un numero di farmaci enorme e in rapido aumento - per poi riversarli attraverso l'urina nel nostro già provato ecosistema.

Nel frattempo, l'industria tecnologica medica produce macchinari capaci di investigare il corpo umano penetrando sempre in maggiore dettaglio, rivelando cambiamenti che mettono a dura prova le nostre convinzioni su ciò che è normale. In realtà questo sta portando alla diagnosi e alla cura di molte condizioni solo apparentemente anomale, che non avrebbero mai causato alcun problema al paziente nel corso della sua intera vita se anche non fossero state trattate. E infatti l'incidenza di molte malattie aumenta, ma i tassi di mortalità rimangono invariati: un fenomeno che è un indicatore della presenza di sovradiagnosi (diagnosi di disturbi che non sono realmente tali, ndT).

Tutti, in misura maggiore o minore, abbiamo paura di morire e di incorrere in una malattia che ci cambia la vita. Tragicamente, questa paura diffusa gioca a vantaggio del complesso medico-industriale e, di conseguenza, viene alimentata nell'interesse dei profitti aziendali. La medicalizzazione sistematica della normale sofferenza umana si è trasformata in un'epidemia di malattie inventate, che gonfia attivamente la paura e gioca deliberatamente a scopo di lucro sulla insicurezza che ne risulta.
La paura fa anche vendere giornali, e così molti giornalisti, e praticamente tutti gli editori, fanno volenterosamente la loro parte.
Sintomi benigni sono presentati come malattie gravi, è il caso per esempio della "sindrome del colon irritabile"; problemi personali o sociali vengono trasformati in questioni mediche, come succede per la diagnosi di molte depressioni lievi; e semplici fattori di rischio sono inquadrati come malattie, come avviene per la riduzione della densità ossea, per la pressione sanguigna leggermente troppo alta e per il diabete di tipo 2.

I medici e gli altri operatori sanitari stanno gradualmente cominciando a capire che possono ormai trovarsi nella spiacevole situazione - cercando di fare del bene - di fare danni; nelle università si fanno ricerche sulla portata e sugli effetti della sovradiagnosi, e su come potrebbero essere ridotti; e giornalisti e politici sembrano finalmente iniziare a prendere sul serio il problema promuovendo una maggiore dibattito pubblico.

Il Primo congresso internazionale Prevenire la sovradiagnosi  ha raccolto tutti questi diversi gruppi di interesse a Dartmouth, Usa, nel 2013 e da allora ogni anno si è tenuto un convegno di grande successo.

La Conferenza 2017 sarà ospitata dalla Québec Medical Association e si terrà a Québec, dal 17 al 19 agosto 2017. I temi principali saranno l'uso eccessivo di farmaci e la medicalizzazione eccessiva,  nell'intento di passare dalle evidenze che emergono all'azione, di mettere in comune informazioni sulla sovradiagnosi e di coinvolgere i cittadini, i pazienti e l'opinione pubblica.

La call for abstracts è aperta.

27/03/17

FT: Gli Investitori Cominciano a Scrollarsi l'Italia di Dosso

Il Financial Times si occupa delle condizioni dei titoli di stato italiani. La sfiducia dei mercati è stata mascherata per anni dall'intervento massiccio della BCE, ma nell'ultimo periodo i timori su una possibile riduzione del programma di quantitative easing e la fondamentale incertezza degli investitori sul destino politico del paese sta spingendo in alto i rendimenti, verso una probabile nuova crisi del debito. Il Financial Times suggerisce che una moneta più leggera sarebbe d'aiuto, e che la situazione economica è obiettivamente peggiorata con l'ingresso nell'euro.

 

di Dan McCrum, 27 marzo 2017

I movimenti dei credit default swaps [derivati che assicurano contro l'eventualità di default, NdT] suggeriscono preoccupazioni sulle derive politiche anti-euro in Italia.

Nel luglio 2011 uno speciale incantesimo si impossessò di alcuni membri della comunità finanziaria di New York. Se foste entrati in un ufficio di Manhattan aspettandovi di discutere del mercato azionario americano con un investitore che detiene solo fondi di investimento, vi sareste accorti che egli in realtà aveva la mente fissa sul debito pubblico italiano.

Le vendite allo scoperto dei titoli di stato della terza maggiore economia dell'eurozona erano diventate così diffuse che anche i non-specialisti del debito avevano iniziato a notarle, e i costi crescenti per il governo italiano erano il segno di una crisi che si stava diffondendo e che avrebbe intrappolato molti paesi europei e le loro banche, minacciando infine lo stesso futuro dell'euro.

Le turbolenze politiche — una coalizione di governo che si dibatteva tra piani di austerità e accuse di corruzione — erano in rotta di collisione con la dura realtà economica del più grande stock di debito in Europa.

Quasi sei anni dopo, un governo provvisorio è incaricato di gestire la situazione, dopo che in dicembre Matteo Renzi ha rassegnato le dimissioni da Primo Ministro, con i populisti del Movimento 5 Stelle in testa ai sondaggi d'opinione. I rendimenti dei titoli a 10 anni sono di nuovo in salita, sebbene a un livello molto più basso di allora: dall'1,74 percento di inizio anno al 2,36 percento di lunedì.

La questione, per chi investe in titoli e ha la memoria lunga, è il perché di questa tendenza, e il quanto ancora i rendimenti possano aumentare, dato che i maggiori rendimenti spingono verso il basso il valore dei bond già esistenti, i quali offrono pagamenti di cedole che erano stati fissati al momento dell'emissione.



Una spiegazione rassicurante sarebbe l'aumento globale dei tassi di interesse dopo l'elezione di Donald Trump negli USA a novembre. Le condizioni economiche stanno migliorando in tutta Europa, Italia inclusa, e i segni della ripresa dell'inflazione potrebbero portare a dei cambiamenti nelle politiche monetarie determinanti per gli oneri finanziari del debito.

La Banca Centrale Europea ad aprile ridurrà la quantità di titoli acquistati da 80 miliardi di euro al mese a 60 miliardi, e molti investitori hanno iniziato a discutere sul quando verranno applicate ulteriori riduzioni a questo programma, che era stato ideato per abbattere i tassi di interesse pagati dai governi e dalle imprese dell'eurozona.

John Wraith, esperto di tassi di interesse per UBS, dice di aspettarsi l'annuncio di ulteriori riduzioni nell'acquisto di titoli già da settembre, e i mercati hanno già iniziato ad anticiparne gli effetti.

Secondo Tradeweb la differenza, o spread, tra rendimenti dei titoli italiani e tedeschi questa settimana ha raggiunto il massimo degli ultimi tre anni, collocandosi a 2,02 punti percentuali. Il debito tedesco è considerato il più sicuro d'Europa, mentre restano delle preoccupazioni sulla sostenibilità dello stock di debito italiano. "La BCE è riuscita a far dileguare queste preoccupazioni schiacciando gli spread" dice Wraith.

Eppure alcuni sostengono che i rendimenti più alti non siano causati dalle prospettive di minore stimolo, suggerendo che i cambiamenti avvengano indipendentemente dalla politica della BCE.



Erjon Satko, esperto della Bank of America Merril Lynch, si concentra sul mercato dei credit default swap (CDS), che sono una forma di assicurazione finanziaria. In teoria la differenza di prezzo tra CDS e buoni del tesoro dovrebbe essere minima, dato che entrambi riflettono una valutazione su quanto il paese sia in grado di adempiere alle proprie obbligazioni finanziarie, e in effetti nel 2013 e 2014 era più o meno così.

L'acquisto di titoli da parte della BCE ha però fatto divergere i prezzi di CDS e titoli del debito. Se fosse vero che l'influenza delle autorità monetarie sul prezzo dei titoli sta diminuendo, allora la divergenza dovrebbe ridursi, ma finora questo non è successo.

Al contrario, le variazioni dei rendimenti dei titoli italiani, dice Satko, "dipendono dalle condizioni politiche interne. Se guardate il sistema politico italiano, vedrete che nelle prossime elezioni avrete un governo molto diviso, nel quale sarà molto difficile prendere delle decisioni.

"Potrebbe anche trattarsi delle imminenti elezioni presidenziali in Francia, dove la promessa fatta dal candidato di destra, Marine Le Pen, di portare il paese fuori dall'euro, ha attirato molto l'attenzione degli investitori. Ma l'Italia potrebbe tornare di nuovo al centro dell'attenzione in maggio, non appena il Presidente francese sarà stato eletto.

"Sono più preoccupato per l'Italia che per la Francia", dice Andrew Bosomworth, responsabile della gestione del portafoglio di Pimco, azienda di investimenti obbligazionari.

I partiti euroscettici non includono solo il Movimento 5 Stelle, ma anche la Lega Nord, Fratelli d'Italia e perfino il partito dell'ex Primo Ministro Silvio Berlusconi.

Il crescente scetticismo è una ragione di preoccupazione per gli investitori, dice Bosomworth, a causa delle "condizioni economiche del paese che ne stanno alla base, la bassa crescita che rende meno sostenibile la posizione dell'Italia all'interno dell'eurozona".

Se si aggiusta la crescita per l'inflazione e la variazione demografica, l'economia italiana non cresce più da quando è entrata nell'euro, nel 1999. Il tasso di disoccupazione è all'11,9 percento, ai livelli del 1998, mentre la disoccupazione giovanile e i crediti in sofferenza detenuti dalle banche sono aumentati.

Una moneta più leggera potrebbe essere di aiuto, ma si tratta di un rimedio non disponibile per i paesi membri dell'euro. I maggiori costi del debito, intanto, complicano i problemi per un paese dove il debito conta per più del 130% del prodotto interno lordo.

Per ora le banche riportano che ci sono relativamente pochi investitori che vendono allo scoperto il debito italiano. Non è strettamente necessario che gli investitori scommettano contro i titoli italiani per spingerne in alto i rendimenti; è sufficiente che essi preferiscano fare altri investimenti.

Jim Leavis, responsabile dei redditi fissi per gli investimenti M&G, dice che "l'Italia è stato il maggiore beneficiario del quantitative easing", e che gli unici titoli pubblici italiani che ha scelto di acquistare, per il momento, giungono a maturazione quest'anno. "Non penso di riuscire a capire nulla delle prospettive della politica italiana", dice.

 

Eurointelligence: Come "Non" Uscire dall'Euro - Versione Cinque Stelle

Il noto editorialista del Financial Times  Wolfgang Munchau,  sul  think tank da lui diretto Eurointelligence,  fa a pezzi l'ipotesi che l'Italia possa uscire dall'euro attraverso un referendum e descrive Luigi Di Maio come un giovane politico del tutto impreparato agli scenari di un'Italexit, la scelta più importante per il paese dalla firma dei Trattati di Roma sessant'anni fa. "Si può facilmente pensare a tutta una serie di scenari, inclusi quello dell'uscita, per l'Italia. Ma c'è uno scenario che possiamo escludere con assoluta certezza: l'uscita dall'euro attraverso un referendum". Di Maio farebbe bene a prepararsi, e prepararsi bene, o farà la fine di Tsipras.

 

di Wolfgang Munchau, 24 marzo 2017

L'unica lezione veramente importante che possiamo trarre dall'episodio di Varoufakis nel 2015 è che, se si vuole lasciare l'euro, si deve essere preparati - sia politicamente che dal punto di vista logistico. Lasciare l'euro non è un semplice punto di programma in una piattaforma politica, un qualcosa di cui parlare con nonchalance in una tavola rotonda o su cui tenere un referendum. È una questione più grossa della stessa Brexit. L'uscita da una moneta unica non può mai essere un processo ordinato, ovunque e in qualsiasi circostanza.

Nel leggere questo resoconto di Gavin Jones su Reuters a proposito della conferenza stampa di Luigi Di Maio, ci ha colpito il fatto che il Vice Presidente della Camera dei deputati, l'uomo che ha le maggiori probabilità di diventare Primo Ministro italiano nel caso le tendenze attuali dovessero persistere,  si sta preparando a un fallimento monumentale. Di Maio, 30 anni, è un  giovane uomo senza nessuna esperienza di crisi valutarie.  Il modo in cui prefigura l'uscita dall'euro è incredibilmente ingenuo - attraverso un  ordinato iter legislativo. In una conferenza stampa ha dichiarato che l'uscita dall'euro non è una priorità assoluta per il suo partito. E' un po' come dire che si sta progettando di lanciare una guerra nucleare, è vero, solo che non è in cima all'agenda. Ha detto:
“Non è vero che il Movimento Cinque Stelle vuole portare l'Italia fuori dall'euro... vogliamo che siano gli italiani a decidere.”

Ha detto che il referendum dovrebbe essere preceduto da un iter legislativo che prepari il terreno. E potrebbero anche non tenerlo, se le istituzioni europee si dimostrano assennate. L'ha messa così, senza entrare nei dettagli di cosa intende. Lo interpretiamo come voler tenere una porta aperta alla decisione di rimanere nella zona euro. Ma, purtroppo, in pratica non è così che funzionerà.

Il futuro di lungo periodo dell'Italia nell'euro è davvero incerto, e si può facilmente pensare a tutta una serie di scenari, inclusi gli scenari di uscita. Ma c'è uno scenario che possiamo escludere con assoluta certezza: l'uscita dall'euro attraverso un referendum.

Se i Cinque Stelle vincono, il che è possibile, ci vorranno dai 2 ai 5 secondi dal primo exit poll perché i tassi di interesse italiani si impennino fino a livelli di crisi, o anche oltre, perché gli investitori dovranno scontare nel prezzo la probabilità non trascurabile di un default, dato che i referendum sono intrinsecamente imprevedibili. Nel momento in cui diventa Primo Ministro, Di Maio si troverà a gestire una crisi finanziaria.

Non possiamo escludere un'uscita dell'Italia dall'euro a seguito di una situazione di panico nei mercati. Né si può escludere lo scenario di un governo italiano che tira fuori un piano, a lungo preparato, per introdurre una moneta parallela, con chiusura delle banche durante un lungo week-end. Ma possiamo escludere un processo ordinato grazie al quale l'Italia cambia la sua Costituzione, e quindi consente di procedere a un referendum sull'euro. Non ci si arriverà mai. Gli eventi precipiteranno ben prima.

Una ragione per cui siamo così certi di questo è che la Banca centrale europea, che ha la capacità definitiva di mettere a tappeto qualsiasi attacco dei mercati alla zona euro, non sarà disposta o non potrà aiutare un governo che non si considera vincolato all'euro. Non potrebbe dare avvio al programma OMT per sostenere un governo non conforme.

Una più probabile sequenza politica di eventi  è quella che chiamiamo lo scenario Huey Long, dal nome del governatore della Louisiana che, a quanto si dice, la notte delle elezioni dichiarò ad un suo assistente la sua intenzione di non mantenere la promessa di tagliare le tasse: "Dite loro che ho mentito". Di Maio o dovrà fare come Huey Long, o dovrà preparare una legislazione di emergenza per uscire dall'euro.

In ogni caso, ciò che risulta molto chiaro dall'intervista è che questo giovane uomo è del tutto impreparato. Lasciare l'euro sarebbe la più importante decisione per l'Italia dalla firma del Trattato di Roma, sessant'anni fa. Sarebbe meglio essere pronti. Non è certo un punto secondario nella lista della cose da fare.

25/03/17

Boom di immigrazione di africani in Italia, con l’aiuto delle ONG e della politica delle “frontiere aperte”

Dopo la messa a nudo del colossale business dei rifugiati,   dal sito Gefira un altro articolo di denuncia dell’attività delle ONG e dell’operato del Governo italiano sulla questione immigrati. Al di là della facciata, le ONG sono semplicemente diventate dei moderni trafficanti di schiavi, mentre il governo pianifica immigrazioni di massa nel maldestro tentativo di risolvere i problemi demografici europei. Intanto la moderna tratta degli schiavi,  ammantata di falsi buoni propositi, sta ponendo le premesse di una guerra tra poveri.

 

22 marzo 2017

Lo scorso gennaio, abbiamo visto (1) come le ONG (Organizzazioni Non Governative, NdVdE), in collaborazione con il Governo italiano, hanno continuato a trasportare immigrati dalle coste della Libia all’Italia,  e come questo abbia condotto a uno sfruttamento degli immigrati nelle aziende agricole italiane e nel business della prostituzione, in collusione col crimine organizzato.

I primi dati disponibili, relativi all’inizio del 2017, mostrano che l’affare è in pieno boom: si registra un aumento del 57% rispetto ai primi mesi del 2016, aumento che diventa dell’81% se consideriamo l’intero periodo invernale (2), mentre la percentuale degli immigrati trasportati dalle navi delle ONG è passata dal 5% al 40% nel 2016, passando a più della metà del totale negli ultimi mesi (3). In pratica, nel Mediterraneo le ONG si stanno sostituendo ai trafficanti di persone.

Il quotidiano italiano "Il Giornale" è riuscito ad infiltrarsi nel business dei trafficanti, e ha confermato il ruolo attivo delle ONG: i trafficanti ricevono tra i 2.600 e i 3.200 dollari per organizzare le spedizioni umane da Libia, Tunisia, Egitto e Siria; imbarcano circa 45 persone per ogni nave e percorrono solo poche miglia, dopo di che i migranti vengono presi in carico dalle “missioni umanitarie” (4). Per i trafficanti questo significa poco lavoro e molto profitto, mentre le ONG ottengono la gratificazione personale di aver aiutato i migranti a realizzare il loro sogno di sbarcare in Europa. Le autorità italiane stanno attualmente condicendo indagini sul ruolo delle ONG, dato che trasportare persone attraverso i confini nazionali senza autorizzazione, anche se non a scopo di lucro, potrebbe costituire un atto illegale (5). I dati definitivi del 2016 rivelano che 180.000 immigrati hanno messo piede sul suolo italiano, con un tasso di respingimento di 60 (6), la qual cosa, comunque, non significa che son stati rimpatriati. In febbraio il Primo Ministro ad interim Paolo Gentiloni ha firmato un accordo con le autorità libiche per gestire gli afflussi (7), tuttavia le attività delle ONG non cadono sotto questi accordi. Frontex e il Commissario Europeo Dimitris Avramopoulos dicono che il rimpatrio degli immigrati illegali dovrebbe essere accelerato (8), il che non significa che l’obiettivo della Commissione europea sia di fermare l’afflusso: vogliono solo trasformare l’immigrazione caotica in un trasferimento organizzato di massa della popolazione: a marzo, in una conferenza a Ginevra (Svizzera), Avramopoulos stesso ha ammesso che l’obiettivo è di creare centri di smistamento sulle coste africane, da cui i migranti possano cercare lavoro e un futuro in Europa, così da accogliere fino a 6 milioni di persone nei prossimi anni per compensare il declino demografico europeo (9).

Un recente rapporto, apparso sul quotidiano tedesco Die Welt, ha dato ulteriori indicazioni sulla reale posizione dei leader europei: l’accordo stretto dalla Cancelliera Merkel, dal Primo Ministro Olandese Rutte e dal Presidente turco Erdogan riguardo i rifugiati siriani include una clausola precedentemente secretata circa il trasferimento annuale in Europa di 150.000 – 300.000 persone cosiddette rifugiate dalla Turchia all’Europa (10).

La logica economica dietro la politica delle “frontiere aperte”, come l’ha definita il Commissario al Commercio Cecilia Malmstrom (11), è di fornire lavoratori a basso costo alle aziende europee e rispondere alla scarsità di forza lavoro causata dalla popolazione che invecchia. Tuttavia, recenti ricerche hanno rivelato che questa logica è errata: il livello sempre più alto di automazione ha provocato la sparizione dei lavori che richiedono basse competenze (12). Per esempio, un tipico lavoro fatto da immigrati con basso livello di competenze, ossia il tassista, si trova ormai sull’orlo dell’estinzione, dovendo affrontare la concorrenza del trasporto privato di Uber e nel prossimo futuro delle macchine con auto pilota. I piani di migrazione di massa della Commissione europea sembrano quindi mal progettati e probabilmente finiranno per mettere milioni di persone del terzo mondo sotto la permanente dipendenza dallo stato sociale europeo, già oggi pesantemente a corto di risorse. I dati OCSE confermano che nella maggior parte dei paesi OCSE, in particolare in quelli che affrontano grossi afflussi di stranieri, come la Francia, la Germania, il Belgio, l’Olanda o l’Italia, la disoccupazione tra gli stranieri è più alta (quasi il doppio in alcuni casi, e anche di più) che tra gli autoctoni (13).

Peter Sutherland, Rappresentante Speciale delle Nazioni Unite per la Migrazione e i Rifugiati, autore di un articolo sull’immigrazione (14) con il già citato Commissario Malmstrom (al tempo responsabile degli Affari Interni, inclusa l’immigrazione), aggiunge un’altra logica economica alle frontiere aperte: L’Unione europea dovrebbe fare del suo meglio per indebolire l’identità nazionale in Europa (15), al fine di promuovere la crescita economica. Questa argomentazione è anti-storica, dato che le nazioni europee hanno raggiunto il picco del loro sviluppo tecnologico, politico ed economico, prima lasciandosi dietro il resto del mondo e poi conquistandolo, proprio nell’era degli Stati-Nazione, mentre da quando hanno adottato la politica delle frontiere aperte sono in costante declino. Un’ultima argomentazione che viene spesso avanzata, anche dal probabile futuro Presidente francese Emmanuel Macron, è che la migrazione di massa non può essere arrestata (16). Tuttavia, la semplice applicazione della legge messa in atto dall’amministrazione Trump negli Stati Uniti, inclusa la deportazione degli immigrati illegali, nei primi mesi del 2017 ha portato alla riduzione del 40% degli sconfinamenti illegali  (17). Sembra quindi che i flussi migratori dipendono dalla volontà dei governi occidentali. Quando i governi, incluso quello italiano, scelgono la politica delle frontiere aperte e della migrazione di massa, i canali di migrazione proliferano e le persone arrivano, legalmente o illegalmente. Quando i governi scelgono l’applicazione della legge, come negli Stati Uniti, gli afflussi vengono ridotti drasticamente.


Nel frattempo, in Italia si prepara la guerra tra poveri: dopo aver sentito che il Governo italiano aveva assegnato 10 abitazioni alle cooperative che gestiscono il business degli immigrati a Taranto, nel mezzogiorno, i cittadini si sono rivoltati, hanno occupato gli edifici e ci hanno installato famiglie italiane in stato di bisogno (18). Altrove, a Caserta, un reporter televisivo che cercava di filmare un documentario sull’enorme mercato illegale di merci contraffatte gestito da immigrati, è stato inseguito e picchiato dagli immigrati stessi (19).

 

Riferimenti


































































































1.Perchè il governo italiano non riesce a risolvere il problema dei trafficanti di immigrati? Perché non vuole farlo.
2.Secondo i dati, il numero di migranti salvati nel mediterraneo registra il massimo da tre anni.
3.Ong che salvano i migranti: due procure sospettano complicità con gli scafisti.
4.Il trafficante: Vai in Italia, ti vengono a prendere loro.
5.Ong che salvano i migranti: due procure sospettano complicità con gli scafisti.
6.Applications and granting of protection status at first instance: 2016.
7.Migranti, Gentiloni: “Accordo Italia-Libia è svolta”.
8.Migranti. Monito Ue: paesi ricollochino o rischio sanzioni; servono più rimpatri, impedire la fuga.
9.L’Europe va avoir besoin de 6 millions d’immigrés.
10.Report: Merkel and Rutte made concrete promises with Turkey over refugee quota.
11.EU may fill ‘void’ in global trade left by U.S. under Trump: Malmstrom.
12.Secular Stagnation? The Effect of Aging on Economic Growth in the Age of Automation.
13.Foreign-born unemployment.
14.Europe’s immigration challenge.
15.EU should ‘undermine national homogeneity’ says UN migration chief.
16.Emmanuel Macron: Europe faces ‘unstoppable mass migration’ says French PM hopeful.
17.Illegal Border Crossings Appear to Drop Under Trump.
18.Taranto: «No case agli immigrati» E 10 famiglie italiane le occupano.
19.Caserta, aggredito l’inviato di Striscia La Notizia.

 

24/03/17

Sapir: Lex Monetae e Diritto Europeo

Un Jacques Sapir insolitamente sintetico e tagliente accusa i sedicenti difensori dell'Europa, i quali negando che l'uscita dall'euro sarebbe regolata dalla Lex Monetae mostrano di non conoscere le leggi della stessa Unione europea e di basarsi piuttosto sulle affermazioni della discutibile agenzia di rating Standard & Poor's.  La Lex Monetae è chiaramente inscritta nei trattati europei: è stata invocata al momento dell'entrata nell'eurozona, e sarà ovviamente invocata di nuovo al momento dell'uscita...

 

di Jacques Sapir, 19 marzo 2017

Tutti conosciamo l'argomento che coloro che si oppongono alla dissoluzione dell'euro o all'uscita dall'euro contestano a chi è invece convinto che tale uscita sia oggi l'unica soluzione possibile per l'economia francese: l'argomento del debito. Secondo questi critici i debiti della Francia si moltiplicherebbero semplicemente per il deprezzamento del nuovo franco francese. Essi mostrano di non credere a quel principio della legge internazionale definito Lex Monetae, o legge monetaria, che indica precisamente che tutto il debito emesso secondo la legge di un paese può essere ridenominato in una nuova valuta, se quel paese decide di cambiare valuta. Un ex Presidente della Repubblica, Nicolas Sarkozy tanto per fare il nome, ha pronunciato un discorso apocalittico su questa questione. Anche l'Institut Montaigne ha ripreso questo tema e ha dimostrato di non credere all'esistenza della Lex Monetae.

Lex Monetae e diritto europeo

Eppure questa "legge", alla quale si faceva riferimento in  diritto internazionale negli anni '20-'30 del Novecento per regolare il problema dei debiti degli stati che si sarebbero formati sui resti del decaduto Impero Austro-Ungarico, è esplicitamente menzionata dal diritto dell'Unione europea. Del resto è proprio in virtù di questo principio del diritto internazionale che il debito pubblico francese emesso in franchi fu convertito in euro nel 1999.

Il riferimento si trova nel regolamento (CE) n° 1103/97 del Consiglio del 17 giugno 1997, relativo ad alcune disposizioni per l'introduzione dell'euro. Questo regolamento è pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale [1] e può essere consultato in internet [2]. Il riferimento in particolare appare al paragrafo 8 ed è riportato qui di seguito:
"(8) considerando che l'introduzione dell'euro costituisce una modifica della legge monetaria di ciascuno Stato membro partecipante; che il riconoscimento della legge monetaria di uno Stato è un principio universalmente accettato; che la conferma esplicita del principio di continuità deve portare al riconoscimento della continuità dei contratti e degli altri strumenti giuridici nell'ordinamento giuridico dei paesi terzi;"

Be', diciamo che è abbastanza stupido pretendere di difendere un'istituzione senza conoscerne le leggi. Perché, e questo è un punto importante, è detto proprio che "la conferma esplicita del principio di continuità deve portare al riconoscimento della continuità dei contratti e degli altri strumenti giuridici nell'ordinamento giuridico dei paesi terzi". In altre parole, se il governo francese decide di ritornare al franco ad un tasso di conversione di 1 a 1 con l'euro, ha il diritto di farlo per quanto riguarda tutti gli strumenti giuridici e i contratti emessi all'interno dell'ordinamento giuridico francese. Ma è quantomeno strano che gli "esperti" europei ignorino le loro stesse leggi. È un po' come se il Presidente della Repubblica [francese] dicesse che, secondo la Costituzione, il Presidente è eletto dal Parlamento...

Lex Monetae e agenzie di rating

Si può verificare inoltre come la citazione di una certa agenzia di rating, che fa da fondamento alle affermazioni catastrofiste dell'Institut Montaigne [3], venga direttamente invalidata dal sopra menzionato regolamento europeo: "Non c'è alcuna ambiguità (...) Se un emittente non adempie ai termini del contratto con i suoi creditori, ivi compresa la valuta in cui sono effettuati i pagamenti, dichiareremmo la situazione di default", così ha detto recentemente Moritz Kraemer, direttore dei rating sovrani di Standard & Poor's. Potremmo anche ignorare le agenzie di rating, ma resta il fatto che le loro opinioni sul rischio di credito (cioè di default) sono indispensabili per una buona gestione del rischio da parte degli investitori istituzionali (compagnie di assicurazione, fondi pensione e banche).

Se l'agenzia Standard & Poor's decidesse di dichiarare il "default" della Francia, non sarebbe ovviamente seguita dalle altre agenzie e, soprattutto, non riuscirebbe a trovare nessun tribunale di livello internazionale disposto a convalidare la sua decisione. Perché i giuristi sanno bene che quanto accaduto nel 1999 si ripeterebbe, in virtù del principio giuridico del precedente. Il governo francese potrebbe anche citare in giudizio Standard & Poor's per manipolazione del mercato del debito.

Combattere il "Progetto Paura"

La bellezza della Lex Monetae sta nel fatto che il debito pubblico emesso sotto diritto francese (che corrisponde al 97 percento del totale di questo debito) deve essere rimborsato nella moneta avente corso legale in Francia. Se la Francia decide che questa moneta è l'euro, il debito viene rimborsato in euro al tasso di conversione deciso dalla Francia. Se la Francia decide invece che la moneta avente corso legale sul suo territorio è (nuovamente) il franco, vale la stessa cosa. Detto altrimenti, i circa 1649 miliardi di euro di debito francese negoziabile [4] si trasformerebbero in 1649 miliardi di franchi.

Per quanto riguarda il debito privato delle famiglie e delle imprese francesi, se questo è stato emesso secondo il diritto francese, non cambia nulla. Il lavoro di Cédric Durand e Sébastien Villemont, pubblicato dall'OFCE (Osservatorio Francese per le Congiunture Economiche) e che uscirà tra qualche mese su una rivista internazionale, stabilisce con precisione le conseguenze dell'uscita dall'euro [5] e mostra che le imprese e le famiglie uscirebbero vincenti da questa situazione.

È quindi necessario capire che molti di coloro che parlano su questo tema, lo fanno esclusivamente per alimentare i timori e le paure dei francesi. Come nei mesi precedenti al referendum sulla Brexit, ci troviamo di fronte a un "Progetto Paura". Progetto sconfitto col voto del giugno 2016. Bisogna sperare che anche gli elettori francesi sappiano opporvisi, con la ferma sicurezza di chi conosce i propri diritti.

 

[1] Journal Officiel n° L 162, 19/06/1997 p. 0001 – 0003

[2] http://eur-lex.europa.eu/legal-content/FR/TXT/?uri=celex:31997R1103

[3] Chaney E., «A propos du monde imaginaire de ceux qui prônent une sortie de l’euro», Institut Montaigne, 02 marzo 2017

[4] http://www.aft.gouv.fr/rubriques/encours-detaille-de-la-dette-negociable_159.html

[5] http://www.ofce.sciences-po.fr/blog/balance-sheets-effects-of-a-euro-break-up/

22/03/17

Il Parlamento Europeo censura la sua stessa libertà di parola

Un articolo da non perdere del Gatestone Institute fa luce su una norma recentemente approvata dal Parlamento Europeo, che limita la libertà di parola dei suoi stessi membri – tanto più degni di tutela in quanto unici eletti all’interno delle opache istituzioni UE – quando i loro discorsi dovessero essere arbitrariamente considerati diffamatori, razzisti o xenofobi. Si tratta di una pericolosa svolta autoritaria delle istituzioni europee, che vogliono silenziare qualsiasi voce “fuori dal coro”, pensando forse che, se non espresso, il malcontento dei cittadini europei sparirà automaticamente. Al contrario, il livello di insoddisfazione e ribellione è destinato come conseguenza ad alzarsi, alimentando il clima “populista” di scontro con le istituzioni ormai così diffuso in Europa.

 

Di Judith Bergman, 11 marzo 2017

 

Il parlamento europeo ha introdotto una nuova norma procedurale che consente al moderatore di un dibattito di interrompere la trasmissione dal vivo di un parlamentare europeo “in caso di linguaggio o comportamento diffamatorio, razzista o xenofobo di un suo membro”. Inoltre, il presidente del parlamento può anche “decidere di eliminare dalla registrazione audiovisiva del procedimento le parti del discorso di un membro del parlamento che contengono linguaggio diffamatorio, razzista o xenofobo”.

Nessuno però si è preoccupato di definire in che cosa consista un “linguaggio o comportamento diffamatorio, razzista o xenofobo”. Questa omissione significa che il moderatore di ogni dibattito al parlamento europeo è libero di decidere, senza alcuna linea guida né criterio oggettivo, se le affermazioni del parlamentari sono “diffamatorie, razziste o xenofobe”. La pena per i colpevoli a quanto sembra può raggiungere i 9.000 euro.

"C’è stato un numero crescente di casi di politici che dicono cose inaccettabili all’interno della normale discussione e del dibattito parlamentare", ha affermato il parlamentare UE inglese Richard Corbett, che ha difeso la nuova regola, senza peraltro specificare che cosa ritiene "inaccettabile".

Nel giugno 2016 il presidente dell’autorità Palestinese, Mahmoud Abbas, ha tenuto un discorso al parlamento europeo, nel quale ha rispolverato vecchie calunnie anti-semite, come la falsa accusa a carico dei rabbini di Israele di avere chiesto al governo israeliano di avvelenare l’acqua usata dagli arabi palestinesi. Un discorso così chiaramente provocatorio e anti-semita non solo è stato consentito dai sensibili e “anti-razzisti” parlamentari all’interno del parlamento; ha ricevuto addirittura una standing ovation. Evidentemente le spericolate calunnie anti-semite pronunciate dagli arabi non costituiscono “cose inaccettabili all’interno della normale discussione e dibattito parlamentare”.



Il Presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas riceve una standing ovation al Parlamento Europeo a Bruxelles il 23 giugno 2016, dopo aver falsamente sostenuto nel suo discorso che i rabbini di Israele chiedevano di avvelenare l’acqua dei Palestinesi. Più tardi, Abbas ha ritrattato e ammesso che le sue affermazioni erano false (fonte dell’immagine: Parlamento Europeo)

Sembra che il parlamento europeo non si sia nemmeno degnato di pubblicizzare la sua nuova regola procedurale; è stata resa pubblica dal giornale spagnolo La Vanguardia. Sembra che gli elettori non dovessero sapere quello che può essere loro impedito di ascoltare nelle trasmissioni in diretta dei parlamentari che hanno eletto per rappresentarli nella UE, se il moderatore del dibattito ritiene che - a suo giudizio - quello che viene detto è “razzista, diffamatorio o xenofobo”.

Il parlamento europeo è l’unica istituzione democraticamente eletta della UE. Helmut Sholz, del partito tedesco di sinistra Die Linke, ha dichiarato che i legislatori UE hanno il diritto di esprimere le proprie opinioni su come dovrebbe funzionare l’Europa: “Non si può limitare o negare questo diritto”. Be’, certo, possono esprimerle (ma fino a quando?), peccato solo che nessuno fuori dal parlamento possa sentirli.

La regola colpisce nel profondo il diritto di parola, in particolare quello di politici eletti, che la Corte europea dei Diritti umani ha ritenuto, nella sua pratica, di dover proteggere in maniera particolare. I membri del parlamento europeo sono persone che sono state elette per dar voce agli elettori all’interno delle istituzioni dell’Unione europea. Limitare la loro libertà di parola è antidemocratico, preoccupante e pericolosamente Orwelliano.

Questa regola non può che avere un effetto limitante sulla libertà di parola del parlamento europeo e si rivelerà uno strumento efficace per mettere a tacere i parlamentari che non seguono la narrazione politicamente corretta dell’UE.

Negli ultimi tempi il parlamento europeo sembra avere ingaggiato una guerra contro la libertà di parola. All’inizio di marzo, ha tolto l’immunità parlamentare alla candidata alla presidenza francese Marine Le Pen. Il suo crimine? Avere pubblicato su Twitter nel 2015 tre immagini di esecuzioni dell’ISIS. In Francia la “pubblicazione di immagini violente” costituisce un comportamento criminale, cosa che può comportare fino a tre anni di prigione e a una multa di 75.000 euro. Togliendole l’immunità mentre è in corsa per diventare presidente francese, il parlamento europeo ha inviato un segnale chiaro: pubblicare le immagini e l’orribile verità dei crimini dell’ISIS, anziché essere visto come un avvertimento di quello che potrebbe presto avvenire in Europa, deve invece essere punito.

Si tratta di un ben strano segnale da dare, specialmente alle vittime cristiane e Yazide dell’ISIS, che sono per lo più ignorate dall’Unione Europea. I parlamentari europei, evidentemente, sono troppo sensibili per sopportare le immagini degli assassinii di persone indifese in Medio Oriente, e sono più preoccupati di perseguire coloro che le diffondono, come Marine Le Pen.

Quindi il politicamente corretto, ormai diventato la “polizia religiosa” del dibattito politico, non solo si è impadronito dei media e dei discorsi accademici; anche i parlamentari eletti ormai devono mantenersi sulla sua linea, altrimenti vengono letteralmente oscurati. Nessuno ha fermato il parlamento europeo mentre approvava questa regola antidemocratica contro la libertà di parola. Perché nessuno dei 751 europarlamentari ha puntato il dito contro la norma, prima che venisse approvata definitivamente? E ancora più importante: a che punto si fermerà questo impulso chiaramente totalitarista, e chi lo fermerà?

 

21/03/17

FT: l'insoddisfazione economica spinge i giovani elettori francesi verso la Le Pen

La difficile situazione economica accresce tra i giovani francesi, specie nelle zone rurali e tra i meno istruiti, la consapevolezza che passeranno buona parte delle loro vite in condizioni materiali peggiori di quelle dei loro genitori. Il Front National della Le Pen, col suo messaggio anti-globalizzazione focalizzato sull'economia, ha intercettato questa frustrazione ed è abile nel ritagliare su misura la propria comunicazione rivolta ai giovani. Il risultato è che, diversamente da quel che sembra accadere in altri paesi, quasi il 40% degli elettori tra i 18 e i 24 anni sostiene il Front National. "Dicono che dovremmo soffrire in silenzio, ma abbiamo intenzione di far sentire la nostra voce", afferma un giovane sostenitore. Sarà questo il jolly della Le Pen alle prossime elezioni presidenziali? Dal Financial Times.

di Michael Stothard, 18 marzo 2017

Il ventoso cavalcavia di un'autostrada non corrisponde all'idea più tipica di divertimento del venerdì sera, per un adolescente. Ma Justine Dieulafait e i suoi amici sono in missione - vogliono aiutare la candidata di estrema destra Marine Le Pen a vincere le elezioni presidenziali francesi.

Mentre il traffico scorre verso l'esterno dal porto bretone di Saint Malo, la diciottenne e altri 15 giovani "patrioti" sventolano uno striscione gigante: "Giovani con Marine". Per aumentare l'effetto accendono razzi rossi, bianchi e blu, sollecitando le auto a suonare il clacson in segno di supporto.

"I giovani sono in rivolta", dice Justine Dieulafait. "Abbiamo avuto 50 anni di destra e di sinistra, e guardi ai milioni tra noi che sono disoccupati, vivono in povertà, senza lavoro né un'abitazione stabile... è ora che il sistema cambi, è il momento di Marine".

In queste elezioni francesi piuttosto sorprendenti, con i candidati favoriti che crollano durante il percorso e quelli ribelli, tra cui Marine Le Pen, in testa ai sondaggi, Justine Dieulafait e le sue amiche incarnano un altro fenomeno: la forza del voto dei giovani, che sta spingendo il Fronte Nazionale verso il suo miglior risultato di sempre.

Secondo un recente sondaggio Ifop, il partito è il più popolare in Francia nella fascia di età tra i 18 e i 24 anni, in cui conquista il 39 per cento dei voti. Da confrontare con il 21 per cento del candidato centrista Emmanuel Macron e con il 9 per cento del rivale di centro-destra Francois Fillon.

Un simile livello di sostegno a un partito populista di estrema destra da parte dei giovani sembra andare contro le recenti tendenze registrate altrove. Nel Regno Unito, l'anno scorso, i giovani si sono mobilitati contro la Brexit per difendere una visione cosmopolita della nazione. Negli Stati Uniti Donald Trump, con la sua posizione anti-immigrazione e anti-globalizzazione, se l'è cavata male con il voto dei giovani.

In Francia, al contrario, i giovani si stanno radunando attorno a un partito che ha paragonato i mussulmani in preghiera lungo le strade con l'occupazione nazista della Francia e ha promesso di lottare contro il libero scambio e l'immigrazione. L'aumento del sostegno negli ultimi anni è marcato: nel 2012 il supporto per il FN tra i giovani era solo al 18 per cento.

[caption id="attachment_10481" align="aligncenter" width="680"] La Le Pen è la favorita tra i giovani francesi - intenzioni di voto in percentuale divise per fasce d'età[/caption]

Questo sostegno è diventato un altro jolly in una gara dai risultati imprevedibili, dove uno scandalo legato a una questione di finanziamenti ha gravemente danneggiato l'ex favorito di centro-destra François Fillon, mentre il politico indipendente trentanovenne Emmanuel Macron, che non si è mai candidato alla presidenza, guida i sondaggi.

La frustrazione tra i giovani per la mancanza di lavoro e le cattive prospettive economiche costituiscono gran parte del fascino del FN. "Siamo una generazione che rischia di vivere peggio dei nostri genitori", afferma Dominique, uno dei ragazzi sul cavalcavia, che ha 21 anni e sta lottando per trovare un lavoro.

Sotto il governo socialista di François Hollande la disoccupazione è rimasta ostinatamente alta, il doppio del livello di Regno Unito e Germania. La disoccupazione giovanile è al 25 per cento - dal 18 per cento del 2008.

Joël Gombin, politologo e analista di dati francese, dice che la situazione economica è peggiorata in particolare per i giovani che vivono nelle zone rurali e per quelli che abbandonano più precocemente la scuola a tempo pieno - due caratteristiche spesso in correlazione con il sostegno al FN. "In Francia per un numero crescente di giovani meno istruiti il fatto che passeranno buona parte delle loro vite in una situazione economica precaria è quasi una certezza," dice.

[caption id="attachment_10482" align="aligncenter" width="655"] La disoccupazione giovanile in Francia cresce con la crisi finanziaria - tasso di disoccupazione in percentuale, sotto i 25 anni[/caption]

Un secondo motivo del supporto al FN è che i giovani non ricordano il partito ferocemente xenofobo degli anni '70. Oltre i 65 anni, tra quelli che invece lo ricordano, il sostegno al FN è solo al 17 per cento.

Negli ultimi dieci anni, e in particolare a partire dal 2011 sotto la guida di Marine Le Pen, il partito ha cercato di rimodellare la propria immagine. I funzionari, per esempio, ora parlano di "immigrazione", piuttosto che di "immigrati", e si oppongono all'"Islam radicale", piuttosto che all' "Islam", mentre i temi sui quali il partito organizza le sue campagne si sono ampliati oltre la sicurezza e l'immigrazione, per includere un messaggio anti-globalizzazione focalizzato sull'economia.

Justine Dieulafait aveva solo 12 anni quando la Le Pen ha preso la guida del partito; il "nuovo FN" è tutto quello che ha conosciuto. "Era un periodo diverso, allora negli anni '70... il partito di oggi è concentrato sui temi di oggi - posti di lavoro, case e il ripristino della sovranità e della cultura francese ".

Christèle Marchand Lagier, uno studioso del FN che lavora all'Università di Avignone, afferma che la maggior parte dei giovani elettori del FN non ha familiarità con i dettagli del suo programma, ma vuole semplicemente votare contro il sistema. "Si tratta di un voto negativo", dice.

Ma è chiaro che il FN è anche abile nel ritagliare il suo messaggio su misura per il voto giovanile. Per esempio è il partito che in Francia ha la più forte presenza sui social media. E due delle figure di più alto livello nel partito, David Rachline e Marion Maréchal-Le Pen, sono ventenni.

Tuttavia non è chiaro quanto di questo sostegno il partito sarà in grado di convertire in voti effettivi, dati i tassi di affluenza alle urne tradizionalmente bassi tra i giovani. Nelle ultime elezioni presidenziali francesi, il 28 per cento di quelli di età compresa tra i 18 e i 24 anni si è astenuto nel secondo turno, più della media nazionale del 20 per cento.

Ma questa volta il gruppo sul cavalcavia autostradale almeno sembra determinato a far valere la propria voce. Lo dichiara Dominique: "Dicono che dovremmo soffrire in silenzio - e invece abbiamo intenzione di alzarci e farci sentire."

 

20/03/17

La UE Favorisce la Monsanto: Rapporto Vergognoso sul Glifosato

 Sustainable Pulse commenta la recente decisione dell'Agenzia Europea per le Sostanze Chimiche di non considerare il controverso diserbante glifosato come un probabile cancerogeno, nonostante diversi studi indipendenti - esaminati anche dall'Organizzazione Mondiale della Sanità - abbiano suggerito che si dovrebbe considerarlo tale, quantomeno in via precauzionale. La UE ha chiaramente calpestato la propria prassi per la sicurezza alimentare, e c'è il sospetto di conflitto di interessi nella commissione incaricata della valutazione; la cosa ovviamente non ci sorprende.

 

di Sustainable Pulse, 15 marzo 2017

Seguendo quanto già fatto dall'Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (EFSA), anche l'Agenzia Europea per le Sostanze Chimiche (ECHA) ha respinto l'evidenza scientifica che mostrava che il controverso diserbante chiamato glifosato potrebbe essere cancerogeno.

Le valutazioni dell'Agenzia, pubblicate mercoledì, potrebbero spianare la strada a un rinnovo di 15 anni dell'autorizzazione concessa dalla UE all'uso di uno dei diserbanti più diffusi al mondo, che l'Agenzia per la Ricerca sul Cancro (IARC) dell'Organizzazione Mondiale della Sanità aveva classificato come "probabile" causa di cancro.

Per arrivare alla sua conclusione, l'Agenzia Europea per le Sostanze Chimiche ha rifiutato lampanti prove scientifiche raccolte in laboratorio sugli animali, ha ignorato gli avvertimenti lanciati da oltre 90 ricercatori indipendenti, e si è basata su studi non pubblicati commissionati dagli stessi produttori di glifosato — così ammonisce Greenpeace.

Il direttore dell'unità europea di Greenpeace per la politica alimentare, Franziska Achterberg, ha detto: "L'Agenzia si è spinta molto in là nel momento in cui ha rifiutato tutte le prove che il glifosato potrebbe causare il cancro: le ha nascoste come la polvere sotto il tappeto. I dati a disposizione superano di gran lunga il limite legale necessario perché la UE sia tenuta a bandire l'uso del glifosato, eppure l'Agenzia ha preferito guardare dall'altra parte. Se la UE vuole prendere delle decisioni basate su criteri scientifici, non può distorcere l'evidenza dei fatti.  Se la UE non opera come sarebbe tenuta a fare, le persone e l'ambiente continueranno a essere le cavie da laboratorio dell'industria chimica".

Come per la valutazione dell'Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare, anche il parere dell'Agenzia per le Sostanze Chimiche si è basata su un dossier iniziale preparato dall'Istituto Federale Tedesco per la Valutazione dei Rischi (BfR). La valutazione del BfR è stata però criticata pesantemente sia da organizzazioni non-governative che da scienziati indipendenti, i quali hanno sostenuto che contraddice l'evidenza scientifica.

L'Agenzia Europea per le Sostanze Chimiche è responsabile della classificazione stilata dalla UE sulla pericolosità delle sostanze chimiche. Secondo i criteri UE,  una sostanza deve essere classificata come "presumibilmente" cancerogena quando almeno due studi indipendenti dimostrano che essa causa un aumento dell'incidenza del cancro in una stessa specie. La IARC (dell'Organizzazione Mondiale della Sanità) ha trovato le prove di un aumento dell'incidenza del cancro in due studi sui topi, e questo è stato sostenuto successivamente da altri dati. Tuttavia, l'Agenzia ha ignorato quanto riportato in questi studi, come anche in altri tre studi sui topi non a disposizione della IARC.  L'Agenzia ha inoltre respinto delle prove non ancora sufficientemente dimostrate di una possibile cancerogenicità del glifosato negli esseri umani, nonché le prove sulla presenza nel glifosato di due caratteristiche associate alle sostanze cancerogene, tutte cose documentate dalla IARC.

Secondo le leggi UE sui pesticidi, le sostanze classificate come "presumibilmente" cancerogene non possono essere utilizzate, a meno che il rischio per l'uomo non sia "trascurabile".

Le organizzazioni ambientaliste e per la salute hanno sollevato preoccupazioni per possibili conflitti di interessi all'interno della commissione dell'Agenzia Europea per le Sostanze Chimiche responsabile della valutazione del glifosato, e hanno criticato la scelta dell'Agenzia stessa di basarsi su studi non pubblicati condotti dalle stesse industrie chimiche.

Nel febbraio 2017 una coalizione di organizzazioni della società civile ha lanciato un'iniziativa dei "cittadini europei" per un appello alla Commissione europea affinché proibisca l'uso del glifosato, riformi il processo UE di approvazione dei pesticidi e stabilisca degli obiettivi vincolanti per la riduzione dei pesticidi in uso nella UE. Quasi 500.000 persone hanno già firmato la petizione.