28/11/19

Ue: Draghi ha salvato i banchieri, non i lavoratori

La stampa mainstream e i leader europei hanno esaltato in Mario Draghi il salvatore dell'euro. Ma questo, non sorprendentemente, ha significato imporre ai governi misure di austerità in misura sempre maggiore e in modalità sempre meno democratica. In pratica la Banca centrale europea si è mossa all'opposto delle altre banche centrali: mentre queste sostengono i governi per aiutarli a praticare politiche espansive di sostegno all'economia, la BCE condiziona gli aiuti all'applicazione di misure di austerità sempre più rigide. Con un potere di ricatto che mette in discussione il concetto stesso di democrazia in eurozona. Il caso più eclatante è stato quello della Grecia. Da Jacobin.

 

 

 

Di Thomas Fazi, 17 novembre 2019 

 

Quando il presidente della Banca centrale europea Mario Draghi ha lasciato l'incarico, il mese scorso, è stato ampiamente elogiato per "avere salvato l'euro". Ma lo ha fatto a spese dei lavoratori, sfruttando la crisi per imporre un regime di austerità sempre più ineluttabile.

 

Quando il mandato di otto anni di Mario Draghi si è concluso, il mese scorso, i governanti europei hanno fatto a gara nel riversare sul presidente uscente della Banca centrale europea (BCE) un tributo di lodi ai confini del culto. Questa auto-adulazione d'élite ha sfiorato il ridicolo. Il presidente francese Emmanuel Macron ha elogiato Draghi per "averci passato il testimone dell'umanesimo europeo". Il presidente italiano Sergio Mattarella lo ha ringraziato per avere reso "il sistema economico europeo più efficace". L'ex amministratore delegato del Fondo monetario internazionale (FMI) Christine Lagarde - che ha preso il posto di Draghi come capo della BCE - ha esaltato il suo successo nel "garantire il futuro dell'eurozona e il benessere delle sue popolazioni". Ma, soprattutto, Draghi è stato celebrato per "avere salvato l'euro".

 

In quest'ultima affermazione c'è della verità. Ma è un risultato assai discutibile. Proprio perché Draghi ha “salvato” l'euro, è anche l'uomo che ha ricattato i governi, obbligandoli ad attuare misure di austerità paralizzanti e “riforme strutturali” neoliberali - e che ha schiacciato chiunque osasse resistere. È il principale responsabile della trasformazione dell'Eurozona da un'unione monetaria disfunzionale, ma formalmente democratica, in una struttura di controllo senza precedenti, in cui i governi sono disciplinati e puniti.

 

Attraverso i meccanismi introdotti da Draghi e il suo approccio "attivista" nei confronti delle banche centrali, i processi democratici formali sono stati sistematicamente sovvertiti attraverso il ricatto finanziario e monetario, prima di tutto da parte della BCE. Sotto una simile struttura di governance, ci si potrebbe ragionevolmente domandare se gli Stati membri dell'Eurozona possano ancora essere considerati democrazie, anche in base alla stretta accezione "borghese" del concetto. In definitiva, Draghi simboleggia la pericolosa ascesa al potere dei tecnocrati non eletti - "esperti" che affermano di non essere contaminati dalla politica, ma che in realtà incarnano la volontà di dominio senza limiti del capitale.

 

La nascita di un drago


 

Draghi non è spuntato dal nulla. Ha assunto la carica di nuovo presidente della BCE alla fine del 2011, dopo una brillante carriera come amministratore delegato di Goldman Sachs (2002-2005) e governatore della Banca d'Italia (2005–2011). Già a questa data la Banca centrale europea si era attirata molte critiche, anche da parte degli ambienti allineati, per la sua gestione della crisi finanziaria e poi della recessione seguente. Nel 2010 e nel 2011, la BCE si era opposta a qualsiasi proposta di ristrutturazione del debito della Grecia, assoggettando invece il suo governo a un uleriore debito che è andato a ripagare i suoi creditori bancari francesi e tedeschi.

 

Nel 2011, quando tutte le altre banche centrali stavano abbassando i tassi di interesse, la BCE li ha invece alzati due volte, aggravando ulteriormente la recessione. Ancora più preoccupante, nei primi anni della crisi il predecessore di Draghi Jean-Claude Trichet ha rifiutato nettamente di intervenire per sostenere sui mercati i titoli di Stato dell'area dell'euro, lasciando gli Stati membri in balia della speculazione finanziaria e costringendoli a perseguire drastiche misure di austerità per far fronte all'aumento del pagamento degli interessi. In alcuni casi questo ha costretto gli Stati, per ottenere assistenza finanziaria, a rivolgersi a una stretta collaborazione con la cosiddetta troika - un comitato tripartito formato da rappresentanti della Commissione europea, della BCE e del Fondo monetario internazionale (FMI). Questa era essa stessa uno strumento politico, con i suoi "aiuti" accordati solo in cambio di misure di austerità ancora più severe.

 

Come in seguito avrebbe ammesso Trichet , il rifiuto della banca centrale di sostenere sui mercati i titoli pubblici nella prima fase della crisi finanziaria aveva lo scopo di spingere i governi della zona euro a consolidare i loro bilanci e attuare (neoliberali) "riforme strutturali".

 

Con l'arrivo di Draghi, molti speravano che le cose potessero cambiare. La speranza era che la BCE avrebbe finalmente adottato un approccio più interventista ed energico alla cosiddetta crisi del debito sovrano europeo, che era ormai in pieno svolgimento. E l'intervento è esattamente quello che hanno ottenuto, sebbene non del tipo che la maggior parte di loro aveva in mente. È stato un classico caso di "attento a quello che desideri". Draghi ha radicalizzato il tipo di interferenza negli affari degli Stati membri che era già emerso sotto Trichet.

 

In effetti, questo è stato visibile già nell'agosto del 2011, pochi mesi prima che Draghi entrasse ufficialmente in carica nel suo ruolo alla BCE. Mentre i tassi di interesse sui titoli italiani si alzavano, Draghi e Trichet inviarono al governo italiano una lettera straordinaria, che avrebbe dovuto rimanere segreta. Ma la missiva successivamente trapelò - e mostrò esattamente come la BCE intendesse sfruttare la crisi per ricattare l'Italia obbligandola a mettere in atto le "riforme strutturali".

 

La lettera affermava che il piano di riduzione del deficit post-crisi in Italia non era "sufficiente" e chiedeva "una profonda revisione della pubblica amministrazione", compresa "la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali", “privatizzazioni su larga scala”, “riduzione del costo dei dipendenti pubblici... se necessario, riducendo i salari ”, "riforma [del] sistema di contrattazione salariale collettivo", “più rigorosi... criteri per le pensioni di anzianità” e persino "riforme costituzionali che inaspriscano le regole fiscali". Tutto ciò, si sosteneva, era necessario per "ripristinare la fiducia degli investitori".

 

Simili richieste rappresentavano un enorme superamento dei limiti delle competenze monetarie della BCE. Giulio Tremonti, allora ministro dell'Economia e delle Finanze italiano, dichiarò in seguito che il suo governo quell'estate aveva ricevuto due lettere minatorie: una da un gruppo terroristico, l'altra dalla BCE. "E quella della BCE era peggio", scherzò. Il governo italiano rispose impegnandosi in riforme di vasta portata e tagli di bilancio più profondi, in seguito ai quali la BCE accettò di intervenire con l'acquisto di obbligazioni italiane per mantenere bassi i costi di finanziamento.

 

A settembre, tuttavia, i tassi dei titoli decennali italiani avevano ripreso a salire, e a novembre avevano raggiunto la soglia critica del 7%, costringendo il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi a dimettersi in seguito alla perdita della sua maggioranza parlamentare. A quel punto il presidente italiano Giorgio Napolitano nominò Mario Monti, ex commissario europeo e consigliere internazionale di Goldman Sachs, dandogli l'incarico di formare un cosiddetto governo tecnico - presumibilmente al di sopra delle divisioni politiche.

 

La maggior parte dei resoconti descrivono questa crisi politica come la risposta "naturale" dei mercati finanziari alla cattiva gestione della crisi economica da parte di Berlusconi, in linea con la narrativa dominante della "crisi del debito" europea. La realtà, tuttavia, è molto più preoccupante. Come anche il  Financial Times ha  recentemente riconosciuto, è ormai sempre più chiaro che la BCE sotto Draghi "ha costretto Silvio Berlusconi a lasciare l'incarico a favore di Mario Monti, non eletto" interrompendo i suoi acquisti di obbligazioni italiane - e così facendo deliberatamente aumentare i tassi di interesse al di sopra del livello di sicurezza - e rendendo l'espulsione di Berlusconi la condizione necessaria per ottenere un ulteriore sostegno da parte della BCE alle obbligazioni e alle banche italiane. Ciò è stato tardivamente ammesso anche dallo stesso Mario Monti, che ha affermato in un'intervista del 2017 che alla fine del 2011 Draghi "decise anche di cessare gli acquisti di titoli di Stato italiani da parte della Bce, che avevano dato ossigeno al governo Berlusconi nell’estate e autunno 2011".

 

È difficile immaginare uno scenario più inquietante di quello di una banca centrale apparentemente "indipendente" e "apolitica" che ricorre al ricatto monetario per estromettere dalla carica un governo eletto e imporre la propria agenda politica. Tuttavia, questo è quanto è accaduto in Italia nel 2011. Come Jacob Kirkegaard del Peterson Institute for International Economics ha notato lo stesso anno, sotto la guida di Draghi la BCE si stava rapidamente evolvendo in un "attore politico a tutto tondo impegnato in una strategia volta a costringere i leader politici dell'UE ad abbracciare la rettitudine fiscale".

 

Questo divenne ancora più evidente quando, appena un mese dopo il suo silenzioso colpo di stato in Italia, Draghi lanciò l'idea di un "patto fiscale", quello che egli definì "una riaffermazione fondamentale delle regole a cui le politiche di bilancio nazionali dovrebbero essere soggette in modo da ottenere credibilità oltre ogni dubbio”. Ciò comportò, nel marzo del 2012, la firma da parte di tutti gli Stati membri dell'UE (con le notevoli eccezioni del Regno Unito e della Repubblica Ceca) di una versione ancora più rigorosa del Patto di stabilità e crescita (SPG) istituito dal trattato di Maastricht: il cosiddetto Trattato di stabilità, coordinamento e governance nell'Unione economica e monetaria, comunemente noto come Fiscal Compact.

 

Il nuovo trattato aveva effetti politici diretti, e progettati per durare. In particolare, richiedeva agli Stati membri di trasporre una "norma sul pareggio di bilancio" nei sistemi giuridici nazionali "attraverso disposizioni vincolanti e permanenti, [e] preferibilmente [costituzionali]". Questo equivaleva a niente di meno che un tentativo di istituzionalizzare e cristallizzare su scala europea i presunti programmi di austerità di "emergenza" perseguiti dall'élite dell'UE e imposti agli Stati membri dall'inizio della crisi dell'euro. Una dichiarazione congiunta rilasciata all'epoca dal Corporate Europe Observatory e dal Transnational Institute rilevava che il Fiscal Compact avrebbe istituito "un regime permanente di austerità, che avrebbe inevitabilmente portato a tagli così profondi da relegare ai libri di storia il welfare state europeo".

 

Confermando indirettamente questi timori, in un'intervista rilasciata poco dopo al Wall Street Journal, Draghi chiarì che non vi era stato alcun dibattito: "Non c'è alternativa al consolidamento fiscale", disse. "Il modello sociale europeo appartiene già al passato". Il trattato ha inoltre introdotto, per la prima volta, "meccanismi di correzione automatica" e sanzioni quasi automatiche in caso di inosservanza delle regole, per rimuovere qualsiasi elemento di discussione e decisione democratica, e quindi realizzare un sogno neoliberista permanente: la completa separazione tra processo democratico e politiche economiche e la morte della gestione macroeconomica attiva.

 

In poche parole, il Fiscal Compact mirava a impostare l'economia sul pilota automatico, isolandola efficacemente dalla volontà popolare. Il concetto è stato ulteriormente chiarito da Draghi nel 2013. Dopo incerte elezioni italiane in cui il movimento Cinque stelle "populista" emerse come il partito numero uno del Paese, Draghi attenuò i timori che ciò potesse indurre l'Italia a deviare dal percorso dell'austerità e quindi a riaccendere la crisi del debito in Europa. E insistette sul fatto che “gran parte dell'adeguamento fiscale che l'Italia ha intrapreso continuerà con il pilota automatico". Il messaggio era chiaro: grazie al nuovo regime di governance post-crisi che aveva aperto la strada, i risultati delle elezioni non avrebbero più avuto importanza. La reingegnerizzazione delle società e delle economie europee, soggette a un quadro neoliberale ancora più radicale, sarebbe andata avanti a prescindere dalla volontà democratica dei popoli europei. Come il ministro delle Finanze tedesco mise in chiaro ancora più esplicitamente: “Le elezioni non cambiano nulla. Ci sono delle regole."

 

Salvare l'euro


 

Ma questa depoliticizzazione e de-democratizzazione della politica economica è stata anche ciò che ha permesso a Draghi il suo più grande trionfo - il famoso discorso che ha "salvato l'euro" nell'estate del 2012. Qui, Draghi ha annunciato il programma OMT (Outright Monetary Transactions) della BCE, con il quale si è impegnato, se necessario, ad effettuare acquisti illimitati di titoli di Stato sui mercati obbligazionari secondari al fine di preservare "un'adeguata trasmissione della politica monetaria e la sua unicità" - o più semplicemente, come si espresse Draghi, "fare qualsiasi cosa fosse necessaria per preservare l'euro."

 

L'implicazione era che se i mercati avessero richiesto tassi di interesse eccessivamente alti, la BCE sarebbe entrata nel gioco, acquistando le obbligazioni stesse, ponendo così teoricamente fine al gioco degli speculatori. L'annuncio di Draghi bastò a ridurre immediatamente i tassi di rendimento nei paesi interessati (senza nemmeno che dovesse effettivamente attivare un singolo programma OMT), con conferma indiretta che i rendimenti obbligazionari sono in definitiva determinati dalla politica monetaria della banca centrale, non dalla "fiducia dei mercati" nelle politiche di un paese né dai livelli di deficit e debito rispetto al PIL, contrariamente a quanto Draghi aveva ripetutamente affermato fino a quel momento (e avrebbe continuato a ripetere negli anni successivi).

 

Tuttavia, mentre questo ha aiutato i Paesi a evitare l'insolvenza, ha fatto ben poco per sostenerli in termini di rilancio delle loro economie: questo avrebbe richiesto politiche fiscali di stimolo (cioè deficit più elevati) - esattamente ciò che il nuovo quadro fiscale sostenuto da Draghi ha proibito. In questo senso, l'OMT non è riuscita a trasformare la BCE in una "normale" banca centrale: infatti, l'accesso al sostegno dell'OMT comporta "una condizionalità rigorosa ed efficace", ovvero austerità e "riforme strutturali" neoliberali da parte dello Stato che lo richiede. Non c'è da stupirsi quindi se nessun paese abbia ancora presentato domanda di essere incluso in un programma OMT.

 

In altre parole, mentre le altre banche centrali (come la Federal Reserve negli Stati Uniti) si sono impegnate in politiche monetarie espansive (di acquisto di obbligazioni) proprio per sostenere i governi nell'effettuare politiche di espansione fiscale, la BCE ha fatto esattamente il contrario: ha accettato di intervenire sui mercati obbligazionari solo a condizione che i governi non aumentino i loro deficit e si impegnino invece ad applicare misure di austerità. Come osserva Marshall Auerback , "in effetti, con una mano si è dato e con l'altra si è tolto, poiché le misure di austerità hanno semplicemente esacerbato il problema della bassa domanda dei consumatori e delle imprese e costretto i governi interessati a emettere ancora più debito". Questo è anche il motivo per cui il programma di allentamento quantitativo (QE) della BCE, tardivamente avviato nel 2015, ha clamorosamente fallito nell'aumentare l'inflazione nell'area dell'euro, lasciando così molte economie intrappolate nella "spirale della bassa inflazione", che causa la stagnazione della produzione, dell'occupazione e dei salari.

 

Schiacciare la Grecia


 

In breve, le varie innovazioni istituzionali introdotte da Mario Draghi nel corso degli anni, quelle che gli sono valse molti elogi, non hanno trasformato la BCE in un prestatore di ultima istanza, su cui i governi nazionali possano fare affidamento, ma l'hanno resa invece uno "spacciatore di ultima istanza", con il potere di sfruttare le difficoltà economiche dei paesi per ricattarli, costringendoli ad attuare riforme neoliberali basate sull'austerità.

 

Ciò è diventato chiaro nell'estate del 2015, quando Draghi ha dimostrato fino a che punto era disposto ad arrivare per sostenere lo status quo fiscale -economico della zona euro, anche se questo significava mettere in ginocchio un intero paese. Dopo che il partito di sinistra Syriza, guidato da Alexis Tsipras, che aveva fatto la campagna elettorale su una piattaforma radicale anti-austerità, andò al potere in Grecia nel gennaio 2015, ne seguì un drammatico scontro politico tra il governo greco e le autorità dell'UE. Tsipras tentò di rinegoziare il debito pubblico del paese, la politica fiscale e il programma di riforme e di invertire le politiche di austerità che avevano tanto danneggiato il paese. Ma il periodo di stallo era già finito entro l'estate, quando il governo greco capitolò e accettò i termini onerosi di un altro accordo di prestito subordinato a ulteriori misure di austerità e di deregolamentazione, ponendo così fine alla "ribellione" greca.

 

La responsabilità della capitolazione di Syriza è generalmente attribuita ai principali stati europei (prima fra tutti la Germania). Tuttavia, il ruolo più pernicioso è stato svolto dalla stessa BCE. In effetti, nella guerra europea contro il nuovo governo greco, i primi colpi furono sparati dalla banca centrale. Il 4 febbraio, appena nove giorni dopo la prima vittoria elettorale di Syriza, la BCE tolse al governo greco una delle sue principali linee di credito, dichiarando che non avrebbe più consentito alle banche greche di accedere alla "normale" liquidità della BCE offrendo come garanzia collaterale obbligazioni nazionali greche ufficialmente classificate come "spazzatura" - un'eccezione concessa ai paesi sottoposti a un programma di aiuti finanziari della troika. Da quel momento in poi, le banche avrebbero dovuto fare affidamento sul più costoso Emergency Liquidity Assistance (ELA). La BCE addusse la scusa che "al momento non è possibile ipotizzare una conclusione positiva della revisione del programma [di aiuti finanziari]".

 

Questa fu una decisione straordinaria, per una serie di motivi: il nuovo governo greco aveva solo una settimana di vita e aveva tre settimane per estendere l'accordo di prestito con i creditori e con la troika. Peggio ancora, la mossa della BCE diede il via a una corsa agli sportelli, che accelerò la fuga di capitali che era già iniziata. Seguirono mesi di negoziati molto tesi, durante i quali le proposte del governo greco furono tutte respinte dalla troika, il che esacerbò ulteriormente il deflusso di capitali e fece precipitare il valore patrimoniale e la capitalizzazione di mercato delle banche greche. La vertenza si chiuse nel giugno 2015. Il 25 giugno il governo di Tsipras respinse l'"offerta finale" presentata dalla troika di un nuovo prestito per consentire al governo di rinnovare un pagamento di 1,55 miliardi di euro dovuto al FMI e due giorni dopo, in una mossa strategica per rafforzare la propria mano nei negoziati futuri, annunciò che avrebbe lanciato un referendum sulle condizioni dell'offerta, che si sarebbe tenuto il 5 luglio. Il giorno seguente, il 28 giugno, la BCE rifiutò alla banca centrale greca il diritto di aumentare la propria disponibilità nel contesto dell'ELA, non lasciando al governo greco altra scelta che chiudere le banche, imporre un controllo sui capitali e limitare i prelievi individuali a 60 euro al giorno, a un costo enorme per le imprese e i cittadini greci.

 

Il resto della storia è noto: sebbene il popolo greco avesse respinto in massa il pacchetto di austerità richiesto dalla troika, il governo greco fece un voltafaccia e accettò la condizioni dell'Unione europea, che erano persino più punitive di quelle che aveva in precedenza respinto. Non c'è dubbio che la BCE abbia svolto un ruolo cruciale nel portare alla fine il governo greco alla resa, in quella che chiaramente equivaleva a una mossa strettamente politica, senza giustificazioni solo tecniche. Come scrive l' economista Mario Seccareccia, la BCE ha tagliato la liquidità alle banche greche “anche se sapeva perfettamente che il problema non era la liquidità delle banche, ma che c'era soprattutto un problema di liquidità sistemica, derivante dalla crescente incertezza e paura da parte della popolazione, riflessa nel crescente accumulo di liquidità"- paura che è stata "indubbiamente aggravata dalle azioni della stessa BCE ":

 

"Quindi, invece di cercare di sostenere e promuovere il regolare funzionamento del sistema dei pagamenti di uno dei suoi stati membri, che in nessun momento, aveva proposto ufficialmente l'uscita dall'Eurozona (in effetti, erano i leader tedeschi ad avere proposto di mettere in atto una "temporanea" Grexit), la BCE ha effettivamente interrotto deliberatamente la propria assistenza in materia di liquidità, al fine di destabilizzare ulteriormente il sistema di pagamenti greco e costringere il governo di Syriza ad accettare le dure misure di austerità proposte."


 

Questo episodio dimostra che nell'eurozona i presunti benefici dell'indipendenza della banca centrale sono stati invece sostituiti dalla dipendenza dei governi dalla banca centrale, non più soggetta ad alcun tipo di controllo democratico.

È difficile trovare un altro esempio nella storia in cui una banca centrale ha deliberatamente fatto crollare il sistema bancario del proprio paese, al fine di forzare la sua agenda politica imponendola al governo eletto. Eppure questo è esattamente quello che è successo sotto Draghi.

 

Questa esperienza mostra anche che i problemi dell'area dell'euro si estendono ben oltre le differenze tra i Paesi o il fatto che manchino meccanismi di stabilizzazione a livello federale e istituzioni veramente rappresentative (sebbene tutte queste cose siano vere). La realtà è molto più inquietante: nel corso dell'ultimo decennio, l'eurozona si è evoluta dal managerialismo post-democratico a una gabbia di ferro autoritaria. E, in larga misura, di questo dobbiamo ringraziare Mario Draghi.

 

 

Thomas Fazi è scrittore, giornalista, traduttore e ricercatore. È coautore di "Reclaiming the State: A Progressive Vision of Sovereignty for a Post-Neoliberal World" (Pluto Press; 2017).

 

 

26/11/19

La vaccinazione obbligatoria non è la soluzione per il morbillo in Europa

L’ondata di obbligo vaccinale che registriamo in Europa non serve a prevenire i focolai di morbillo e crea un vulnus democratico alla libertà delle persone. La maggior parte dei dubbiosi non sono estremisti, bensì genitori prudenti che hanno bisogno di un confronto professionale e trasparente e di servizi vaccinali facilmente accessibili.

 

 

Di Vageesh Jain, 15 novembre 2019

 

 

I casi di morbillo globalmente nei primi sei mesi del 2019 hanno raggiunto i livelli più alti dal 2006. Mentre i paesi di tutto il mondo lottano per contenere i focolai, le politiche governative in materia di vaccinazioni sono state messe sotto accusa. La Germania è stata l'ultima  a cedere alla pressione.

 

Data la libera circolazione dei cittadini tra i paesi dell'UE, una politica coerente in materia di sanità pubblica è particolarmente importante. Ad esempio, nel primo trimestre del 2019 nel Regno Unito si sono verificati oltre 230 casi di morbillo, la maggior parte dei quali collegati a viaggi in Europa.

 

Anche se i casi di morbillo sono ai massimi storici, nella regione europea dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) i bambini che vengono vaccinati non sono mai stati così tanti. Gli incrementi dei tassi di vaccinazione vengono messi in ombra da piccoli gruppi di persone vulnerabili, che continuano ad agire da serbatoio per la malattia. Nessun paese dell'UE può sperare di controllare adeguatamente il morbillo senza un successo diffuso all’intera regione. Quindi la domanda è: la vaccinazione obbligatoria è la chiave del successo?

 

Nove paesi europei su 30 hanno la vaccinazione obbligatoria per il morbillo, che prevede due dosi, una nei primi due anni di vita (MCV 1) e una più tardi nell'infanzia (MCV 2). Non vi è alcuna differenza evidente nella copertura vaccinale tra i paesi con vaccinazione obbligatoria rispetto a quelli senza vaccinazione obbligatoria.

 


Diffusione del vaccino contro il morbillo nei paesi UE/UEA (2018) ECDC, OMS


 

 

Anche guardando al numero di casi di morbillo nei bambini per paese, non vi è alcuna differenza consistente: alcuni paesi che hanno la vaccinazione obbligatoria, come Bulgaria e Slovacchia, hanno tassi di morbillo molto elevati.

 


Numero di casi di morbillo ogni 100.000 bambini nei paesi dell'UE/SEE. ECDC, Banca Mondiale


 

 

La vaccinazione obbligatoria è antidemocratica

 

Il problema più evidente con la vaccinazione obbligatoria è che incide sui diritti delle persone, un aspetto fondamentale nella democrazia liberale. Fu proprio la percezione diffusa che i ricchi avessero imposto la loro volontà a scapito dell'autonomia individuale a portare alla fine della vaccinazione obbligatoria contro il vaiolo in Inghilterra nel 1946.

 

Tuttavia, c'è chi potrebbe sostenere che è compito del governo adottare misure rigide nell'interesse della salute pubblica. Le differenze negli approcci dei paesi dell'UE riflettono quindi i diversi sistemi politici e la loro volontà di prevalere sull'autonomia individuale per un maggiore beneficio comune percepito.

 

Un indice democratico dell'Economist Intelligence Unit, basato su 60 indicatori, tra cui le libertà civili e i diritti umani, mostra che i paesi dell'UE in cui la vaccinazione contro il morbillo è obbligatoria sono tutti classificati come "democrazie imperfette". Tra i paesi in cui la vaccinazione non è obbligatoria, il 62% è stato classificato come "democrazia completa".

 


Paesi UE classificati per Indice di democrazia EIU. Economist Intelligence Unit (EIU)


 

 

Considerando tutti gli elementi, è chiaro che i sistemi democratici deboli di alcuni paesi dell'UE consentono l'attuazione dell'obbligo vaccinale, con benefici scarsi o inesistenti per la salute pubblica.

 

Le alternative

 

Sulle ragioni dell'esitazione vaccinale sappiamo molto. I genitori che rifiutano il vaccino contro morbillo, parotite e rosolia (MMR) spesso credono che i vaccini siano insicuri e inefficaci e che le malattie che prevengono siano lievi e non comuni. Alcuni non hanno fiducia nei professionisti della salute né nella scienza. Esistono soluzioni a questo riguardo: diversi studi con controllo randomizzati (lo standard aureo della ricerca medica) hanno dimostrato che l'atteggiamento dei genitori può essere cambiato con i giusti programmi di formazione.

 

È anche importante avere abbastanza centri che effettuino le vaccinazioni. La sanità pubblica sembra essere stata un facile obiettivo per i tagli di bilancio in molti paesi europei. In molti paesi, la maggior parte delle persone scettiche sui vaccini non sono veementi "no-vax", ma persone che hanno una  posizione prudente sulla vaccinazione. Per persone come queste, avere servizi di vaccinazione accessibili e convenienti e una guida professionale di supporto sono fondamentali per una strategia efficace.

 

Uno studio francese del 2019 ha mostrato che un anno dopo che era stata resa obbligatoria la vaccinazione, la copertura vaccinale per il morbillo è aumentata. Questo dato è però fuorviante. È probabile che rifletta il successo delle diverse azioni derivate da un significativo impegno politico, tra cui il finanziamento dei servizi sanitari pubblici, campagne di sensibilizzazione pubblica e in generale attività di sensibilizzazione, piuttosto che l'effetto della legge sull'obbligo in sé.

 

Per affrontare il morbillo, la politica dell'UE deve essere coerente, equa ed efficace. Esistono ragioni ben comprese e documentate alla base dei bassi tassi di vaccinazione. È importante che siano affrontate, in particolare nei gruppi sociali difficili da raggiungere, prima di passare a misure drastiche supportate da prove deboli, sotto l'apparenza dell'azione.

 

 

Vageesh Jain è medico, attualmente è in formazione per la specializzazione in Salute pubblica a Londra. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni su riviste sottoposte a “peer review” in materia di epidemiologia e politica sanitaria. Nel suo ruolo attuale, lavora sulla prevenzione delle malattie cardiovascolari nel borgo londinese di Hackney e part-time presso l'International Rescue Committee (IRC) sulla gestione delle malattie non trasmissibili in contesti umanitari. Ha una posizione clinica accademica NIHR all’Istituto per la Salute Globale presso l'UCL.

 

20/11/19

E se #Lascienza fosse sbagliata?

Davvero la scienza "parla da sé" e deve sostituirsi alla politica? Questo articolo del 2016 affronta la questione a partire dall’evidenza della scarsa replicabilità di molte delle ricerche pubblicate. Le conclusioni di un lavoro scientifico devono essere valutate alla luce degli interessi di chi lo ha prodotto e sostenuto, sottoposte a un’analisi concettuale che ne verifichi la coerenza e chiarezza e messe a confronto con i dati. Occorre ricordare che la scienza non è nemmeno l’unica possibile fonte di verità. Insomma: la scienza non parla da sé e, se anche potesse parlare, non vorrebbe in nessun caso formulare conclusioni immutabili né sostituirsi agli organi di indirizzo politico.

 

 

Di Callie Joubert, 22 luglio 2016

 

 

Noi tendiamo a pensare alla scienza come a una ricerca spassionata (imparziale, neutra) di verità e certezza. Ma è possibile che ci troviamo di fronte a una situazione in cui si verifica una produzione massiccia di informazioni sbagliate o una distorsione delle informazioni? È possibile che alcune discipline scientifiche si trovino ad affrontare una crisi di credibilità? Ci sono sempre più ragioni per ritenere che sia proprio così, il che solleva due domande: quanto è grave il problema? E quale potrebbe esserne la causa?

 

Quanto è grave il problema? 

Recenti articoli apparsi su First Things,1  The week,2  e  New Scientist 3 presentano prove che portano alla conclusione che sono largamente diffusi risultati di ricerche scientifiche fallaci.

Il titolo di un editoriale della prestigiosa rivista medica The Lancet, datato 6 aprile 2002, pone la domanda: "Quanto è ormai inquinata la medicina?" 4  L'articolo afferma che "la risposta è: in modo pesante e che causa danni". Tra le altre cose, nel 2001 alcuni ricercatori hanno eseguito sperimentazioni con prodotti biotecnologici rispetto ai quali avevano un interesse finanziario diretto: i medici tacquero ai loro pazienti che altri malati erano morti utilizzando questi prodotti, mentre erano disponibili alternative più sicure. Sulla stessa rivista, l'11 aprile 2015, il dottor Richard Horton ha dichiarato tutta la gravità del problema in questo modo: "L’accusa rivolta alla scienza è semplice: grande parte della letteratura scientifica, forse la metà, può essere semplicemente basata su falsi... la scienza ha svoltato verso l'oscurità”. 5

 

Nel 2004, con il titolo di "Ricerca deprimente", il direttore di The Lancet ha pubblicato questo commento sugli antidepressivi per i bambini: "La storia della ricerca sull'uso dell’inibitore selettivo della serotonina (SSRI) nella depressione infantile è fatta di confusione, manipolazioni e fallimento delle istituzioni... In una cultura medica globale in cui la medicina fondata sulle prove scientifiche è considerata come il golden standard per l'assistenza medica, questi fallimenti [ossia quelli della Food and Drug Administration negli Stati Uniti nel trarre le conseguenze attive dalle informazioni sugli effetti nocivi di questi farmaci sui bambini] rappresentano un disastro." 6 Dopo essere stata direttore del New England Journal of Medicine per vent'anni, la dottoressa Marcia Angell ha dichiarato che "i medici non possono più fare affidamento sulla letteratura medica per ottenere informazioni valide e affidabili". 7 La Angell ha citato un'analisi di 74 studi clinici su farmaci antidepressivi che mostra che sono stati pubblicati 37 su 38 articoli che riportavano risultati positivi. In contrasto, 33 dei 36 studi con risultati negativi non sono stati pubblicati o sono stati pubblicati in una forma che dava l’impressione di un risultato positivo. Cita anche il fatto che le aziende farmaceutiche stanno finanziando "la maggior parte della ricerca clinica sui farmaci da prescrizione, e ci sono prove crescenti che spesso influenzano la ricerca che sostengono, per far sembrare i loro farmaci migliori e più sicuri."

Nel 2011 alcuni ricercatori della Bayer decisero di testare 67 farmaci recentemente messi a punto sulla ricerca preclinica della biologia del cancro. In più del 75% dei casi i dati pubblicati non risultarono replicabili. 8  Nel 2012 uno studio pubblicato su Nature rivelò che solo l'11% di un campione di studi preclinici sul cancro esaminati che uscivano dalle università erano risultati replicabili. 9

 

Sulla prestigiosa rivista Science, nel 2015, l'Open Science Collaboration10  ha presentato un lavoro su 100 studi di ricerca psicologica che 270 autori hanno cercato di replicare. Un incredibile 65 per cento di questi non ha mostrato alcun nesso statisticamente significativo con la sua replica, e molti dei rimanenti hanno avuto una dimensione dei risultati notevolmente ridotta. In parole povere, le prove alla base dei risultati originali erano deboli.

 

Una scoperta nel campo della fisica, la più “dura” di tutte le scienze dure, è di solito considerata la più affidabile nel mondo della scienza. Tuttavia, due dei risultati fisici più decantati degli ultimi anni, "l'inflazione cosmica e le onde gravitazionali nell'esperimento BICEP2 in Antartide, e la presunta scoperta di neutrini più veloci della luce al confine svizzero-italiano - sono stati in seguito ritrattati, con molta meno fanfara rispetto a quando erano stati pubblicati per la prima volta." 11

 

Questi esempi sono solo la punta dell'iceberg,12  e indicano, secondo le parole del dottor Horton (citato in precedenza), "che qualcosa è andato veramente storto con una delle più grandi creazioni umane." 13  Passiamo quindi alla domanda successiva.

 

Quale potrebbe essere la causa?


In primo luogo, anche se la ripetibilità è essenziale per mantenere la credibilità scientifica, ci sono molte ragioni per cui alcuni studi non si riescono a replicare (ad esempio, nel caso in cui ci siano delle differenze nelle condizioni iniziali [nella configurazione sperimentale] e nella comprensione teorica tra gli studi originali e la replica fallita, o quando la scoperta e l'interpretazione originali erano sbagliate). Il problema si aggrava quando, "nella maggior parte dei campi scientifici, la stragrande maggioranza dei dati raccolti, dei protocolli e delle analisi non sono disponibili e/o scompaiono subito dopo o anche prima della pubblicazione". 14  Spesso si dimentica che piccoli errori possono avere grandi conseguenze. Nel 2013, tre anni dopo che due economisti dell'Università di Harvard (la nota e grave vicenda di Reinhart e Rogoff, NdVdE) avevano pubblicato una ricerca che mostrava che quando il debito di un paese oltrepassa il 90 per cento del PIL c'è un crollo collegato nella crescita economica, uno studente dell'Università del Massachusetts ebbe problemi quando cercò di replicare le loro deduzioni. Scoprì così che "avevano fatto diversi errori tra cui un errore di codifica nel loro foglio di calcolo." 15  Tuttavia, quelle affermazioni dei due economisti avevano nel frattempo avuto un forte impatto sul dibattito politico pubblico.

 

In secondo luogo, non si può negare che le aspirazioni di carriera e il desiderio di prestigio, la concorrenza tra ricercatori per ottenere risorse scarse, il guadagno commerciale (l’obiettivo del profitto) portino alla selezione guidata dei risultati, all’aggiustamento di "piccoli errori" in modo che quanto ottenuto sembri più rilevante e a frodi deliberate. 16  Un problema ben noto con l'analisi statistica, la pratica comunemente nota come "p-hacking" - raccogliere o selezionare dati fino a quando risultati non significativi diventano significativi - è particolarmente grave nelle scienze biologiche. 17  Un altro problema è l’"aggiustamento" dei modelli che gli scienziati usano per spiegare i fenomeni che osservano. Ad esempio, "secondo alcune stime, tre quarti degli articoli scientifici pubblicati nel campo del machine learning sono fasulli a causa di questo "ultra-aggiustamento". 19  Nel loro insieme, questi problemi rendono difficile decidere cosa accettare e cosa non accettare come dato accertato.

Una terza spiegazione riguarda il processo di revisione tra pari (“peer review”, ovvero revisione degli articoli da parte di ricercatori esperti dello stesso campo, per ammetterne o negarne la pubblicazione su una rivista, talvolta senza che il revisore sappia chi è l'autore del lavoro, NdVdE). Questo processo è "mortalmente efficace nel sopprimere le critiche al paradigma di ricerca dominante". 19  Questo significa, tra le altre cose, che i risultati che contraddicono i risultati precedenti possono essere soppressi e la diffusione di dogmi infondati perpetuata. Ma la scienza può ampliare la nostra comprensione dei fenomeni, quando la trasparenza, il pensiero critico e la messa in discussione dei principi fondamentali sono rigorosamente arginati?

Un quarto modo per spiegare i risultati scientifici errati si riferisce a quanto presupposto dai ricercatori, che influenza la loro interpretazione dei risultati della ricerca. Questo non è quasi mai discusso nella letteratura di ricerca ufficiale, e quando viene riconosciuto come un problema, il lettore è lasciato all'oscuro di cosa significhi esattamente. Il dottor Horton è illuminante quando afferma che "gli scienziati troppo spesso rimodellano i dati perché si adattino alla loro teoria preferita del mondo [cioè, alla loro visione del mondo]." Ciò significa che pensiamo al mondo e a noi stessi in un contesto o sulla base di qualche schema concettuale o quadro di credenze. Questo ha almeno un'implicazione: I dati non "parlano da soli"; i risultati delle ricerche non sono interpretati da un punto di vista neutrale.

C'è un altro "presupposto di base su cui quasi tutti coloro che lavorano nel campo delle scienze biomediche sono d'accordo e che è il naturalismo." 20  Il naturalismo è problematico perché i problemi umani sono spesso riconcettualizzati e successivamente descritti in termini che sono coerenti con la teoria dell’evoluzione, ma d’altra parte in conflitto con prospettive alternative. Quello che segue è solo un esempio.

 

Secondo Laurence Tancredi,21 psichiatra/avvocato e professore di psichiatria alla New York University, "la moralità inizia nel cervello." Egli sostiene che i "nuovi sviluppi nelle neuroscienze" hanno alterato il nostro concetto di inganno, abuso, manipolazione, desiderio sessuale incontrollabile, avidità, omicidio, furto, infedeltà - di ogni possibile peccato e atto immorale legato ai Dieci Comandamenti - trasformandolo in un problema di biologia cerebrale". Quello che noi consideriamo peccato o trasgressione morale in realtà "ha creato un vantaggio evolutivo durante alcune fasi iniziali dello sviluppo dell'uomo". Per esempio, "La compulsione a mangiare... ha avuto il vantaggio di tenere insieme le persone durante i periodi di carestia. Le donne con relazioni "extraconiugali" hanno avuto come conseguenza dei figli, il che ha aumentato la diversità genetica. Anche l'omicidio, durante i periodi di risorse limitate, ha garantito la sopravvivenza di alcuni rispetto ad altri." In sintesi, dice, "la moralità negli esseri umani si è evoluta dagli altri primati e dipende dal cervello."

 

In primo luogo, gli scimpanzé spesso si ingannano, si manipolano e si uccidono a vicenda, ma nessun neuroscienziato ha mai ipotizzato che essi soffrano di "problemi di biologia cerebrale". Pertanto, ciò che ci viene presentato è una bizzarra forma di logica: gli scimpanzé che ingannano, manipolano e uccidono non hanno problemi cerebrali, ma gli esseri umani che fanno queste cose hanno questi problemi. Ma con la stessa logica, il cannibalismo, l'infedeltà e l'omicidio, che non erano peccati per i nostri presunti antenati, non sono ora peccati neanche per noi, perché queste cose sono problemi cerebrali.

 

La spiegazione evolutiva e neuroscientifica di Tancredi della condotta immorale ha un’altra bizzarra implicazione: coloro che un giorno dovranno "comparire davanti al tribunale di Cristo, ciascuno per ricevere la ricompensa delle opere compiute finché era nel corpo, sia in bene che in male" (Corinzi 2, 5:10), saranno persone con problemi cerebrali.

 

La teoria della moralità di Tancredi può avere due conseguenze indesiderate. Da un lato, può portare i cristiani a ripensare di nuovo all'insegnamento della Bibbia, alle cause del male, al luogo della lode, della colpa, della responsabilità nelle loro pratiche morali e a come trattare chi si comporta male. D'altra parte, se la moralità "inizia nel cervello", questo può portare i ricercatori, che falsificano e sopprimono i risultati negativi per ingannare gli altri, a pensare di avere problemi cerebrali. E se questa è scienza, la cosa è ridicola, per non dire altro.

 

Considerazioni conclusive


Per concludere questa breve panoramica su come spiegare i risultati scientifici fallaci, vorrei fare quattro osservazioni.

In primo luogo, è sempre bene chiedersi di quale interesse la ricerca sia al servizio, quando, per esempio, uno scienziato sostiene che "l'anima è morta" e che "questo è ciò che le neuroscienze moderne promettono di ottenere". 22

 

In secondo luogo, lo scopo di un'analisi concettuale è dimostrare che l'articolazione di una spiegazione scientifica è in qualche modo incoerente, che è logicamente e concettualmente incomprensibile, che la spiegazione di alcune proprietà è inappropriata, o che una domanda formulata riguardo all'oggetto da indagare è incomprensibile. Pertanto, quando i problemi empirici sono affrontati senza un'adeguata chiarezza concettuale, è prevedibile che vengano sollevati domande e obiettivi errati, ed è probabile che ne consegua una ricerca mal indirizzata.

 

In terzo luogo, molti scienziati sono in grado di riconoscere che l'obiettivo della scienza è la ricerca e la presentazione della verità, e che qualsiasi deviazione da questo obiettivo influisce negativamente sulla nostra vita; ma si rifiutano di accettare che il metodo scientifico è solo una fonte di verità tra le altre. Ciò che necessita una seria rivalutazione è la visione del mondo naturalista materialista e biologico-riduzionista che domina il mondo accademico; è un quadro concettuale del tutto fuorviante per l'articolazione e la spiegazione delle origini umane, dei problemi personali e interpersonali, e di come possono essere rettificati.

 

Infine, se la prova scientifica è alla base dell'autorità scientifica, allora la critica di tale autorità è inevitabile per coloro che sono in grado di vedere attraverso le interpretazioni e le spiegazioni dei risultati della ricerca. Un attento controllo delle interpretazioni e delle spiegazioni è quindi imperativo quando la fiducia nell'autorità scientifica conduce a una guida ontologica, epistemologica e morale nella nostra vita.

 

Note

1 William A. Wilson, “Scientific Regress,” First Things, http://www.firstthings.com/article/2016/05/scientific-regress.

2 Pascal-Emmanuel Gobry, “Big Science is Broken,” The Week, April 18, 2016, http://theweek.com/articles/618141/big-science-broken.

3 Sonia van Guilder Cooke, “Why So Much Science Research Is Flawed—and What to Do About It,” New Scientist, April 13, 2016, http://www.newscientist.com/article/mg23030690-500-why-so-much-science-research-is-flawed-and-what-to-do-about-it/.

4 “Just How Tainted Has Medicine Become?,” The Lancet 359, no. 9313 (2002): 1167.

5 Richard Horton, “Offline: What Is Medicine’s 5 Sigma?,” The Lancet 385, no. 9976 (2015): 1380.

6 “Depressing Research,” The Lancet 363, no. 9418 (2004): 1335.

7 Marcia Angell, “Industry-Sponsored Clinical Research: A Broken System,” JAMA 300, no. 9 (2008): 1069–1070.

8 William A. Wilson, “Scientific Regress.”

9 C. Glenn Begley and Lee M. Ellis, “Drug Development: Raise Standards for Preclinical Cancer Research,” Nature 483 (2012): 531–533.

10 Open Science Collaboration, “Estimating the Reproducibility of Psychological Science,” Science 349, no. 6251 (2015): 1–8.

11 William A. Wilson, “Scientific Regress.”

12 John P. A. Ioannidis, “Why Most Published Research Findings Are False,” PLoS Medicine 2, no. 8 (2005): 696–701.

13 Presumibilmente il dottor Horton si riferisce alla ricerca scientifica in generale. Richard Horton, “Offline: What Is Medicine’s 5 Sigma?”

14 John P. A. Ioannidis, “Why Science Is Not Necessarily Self-Correcting,” Perspectives on Psychological Science 7, no. 6 (2012): 646.

15 Sonia van Guilder Cooke, “Why So Much Science Research Is Flawed—and What to Do About It.”

16 William A. Wilson, “Scientific Regress.”

17 Sonia van Guilder Cooke, “Why So Much Science Research Is Flawed—and What to Do About It.”

18 “Trouble at the Lab,” The Economist, October 19, 2013, http://www.economist.com/news/briefing/21588057-scientists-think-science-self-correcting-alarming-degree-it-not-trouble.

19 William A. Wilson, “Scientific Regress.”

20 James A. Marcum, Humanizing Modern Medicine: An Introductory Philosophy of Medicine (London, United Kingdom: Springer, 2008), 23.

21 Laurence Tancredi, Hardwired Behaviour: What Neuroscience Reveals about Morality, (Cambridge, England: Cambridge University Press, 2005), ix, x, xi, 2, 4, 6, 8.

22 Joshua D. Greene, “Social Neuroscience and the Soul’s Last Stand,” in Social Neuroscience: Towards Understanding the Underpinnings of the Social Mind, eds. Alexander Todorov, Susan Fiske, and Deborah Prentice (New York, New York: Oxford University Press, 2011), 264.

19/11/19

Intervento di Visco sulla riforma del MES: grandi rischi e piccoli vantaggi

Riportiamo integralmente l'intervento del 15 novembre del governatore della Banca d'Italia, Ignazio Visco, sulla riforma del Mes, per dare la possibilità ai lettori di valutare esattamente le sue parole, in considerazione dei commenti molto ammorbiditi apparsi sul principale quotidiano ¹1economico italiano (vedi anche qui). In realtà insieme all'audizione alla Camera dei deputati di Giampaolo Galli, docente alla Luiss ed ex direttore generale di Confindustria, anche le parole di Visco hanno suscitato scalpore, perché i  due economisti, di provata fede europeista, hanno entrambi manifestato in maniera chiara le dovute preoccupazioni sui "rischi enormi" per il nostro paese derivanti dall'approvazione di questa riforma, peraltro già concordata a livello europeo anche dal governo italiano al di fuori di qualsiasi dibattito parlamentare, e ora in attesa solo di  ratifica. In proposito suggeriamo anche la lettura dell' approfondita e completa analisi sul Mes e i suoi effetti del giurista ed ex sottosegretario agli Affari europei col Ministro Savona, Luciano Barra Caracciolo.

 

 

Roma, 15 novembre 2019

 

Questo seminario si tiene in una congiuntura difficile per l'Europa. La marea della crisi finanziaria globale e della crisi dei debiti sovrani è passata da tempo, ma la sua eredità velenosa e le tensioni geopolitiche stanno alimentando la sfiducia, la paura e anche pregiudizi che si pensavano ormai sepolti. La costruzione europea è a un punto morto, benché ce ne sia una forte necessità nelle aree chiave, dove l'Unione è più brava a proibire che a costruire.

 

Benché la moneta unica sia stata un passo fondamentale nel cammino verso l'integrazione europea, l'Unione economica e monetaria rimane una costruzione incompiuta. Gli architetti europei lo sapevano e desideravano e prevedevano progressi maggiori per il futuro. Anche prima dell'introduzione dell'euro, lo stato anomalo di una moneta senza Stato era stato sottolineato, così come la solitudine istituzionale della Banca centrale europea (BCE) e i problemi posti dall'imperfetta mobilità del capitale e del lavoro.

 

I rischi insiti in questa situazione si sono materializzati con violenza imprevista (veramente non del tutto imprevista, ndt) durante la crisi dei debiti sovrani. In questa occasione è venuta a galla tutta l'inadeguatezza della governance economica dell'area dell'euro. Le esitazioni nel definire le procedure per sostenere i Paesi in difficoltà hanno alimentato i timori di una rottura dell'euro. Gli spread sui rendimenti dei titoli di Stato si sono notevolmente allargati, in alcuni casi andando ben oltre ciò che sarebbe stato giustificato dalle condizioni economiche e finanziarie dei Paesi interessati, rendendo così ancora più difficile uscire da tali condizioni.

 

Le proposte di riforma elaborate dopo il picco della crisi prevedevano il graduale rafforzamento dell'integrazione, prima nell'area finanziaria e poi per le finanze pubbliche. Eppure, sette anni dopo, sono stati compiuti progressi solo parziali. L'unione bancaria è incompleta e non priva di difetti, le regole di base per l'unione di capitali sono ancora in fase di determinazione e l'unione fiscale è stato rinviata a una data futura non meglio specificata.

 

Le preoccupazioni per le vulnerabilità finanziarie pubbliche e private accumulate durante la crisi e la sfiducia reciproca ostacolano i progressi. Mentre la riduzione e condivisione del rischio dovrebbe andare di pari passo e rafforzarsi reciprocamente, l'incertezza sul come procedere, il disaccordo sulla successione e sugli effetti degli interventi e le paure di ricadute negative producono un arresto nel processo di riforma. Di conseguenza, l''integrazione economica dell'area dell'euro viene frenata e l'area stessa continua a essere esposta a rischi finanziari.

 

Questo stallo deve essere sbloccato e devono essere create le condizioni per consentire in futuro passi avanti che oggi sembrano impossibili. In questo contesto, vorrei condividere con voi alcune riflessioni, in primo luogo, su come sono affrontati i rischi sovrani e bancari in Europa, e in secondo luogo, sullo stato dell'unione fiscale e dei mercati dei capitali.

 

Il rischio sovrano e bancario

 

La diffusa preoccupazione per i debiti pubblici elevati è giustificata. Sono una fonte di rischio sistemico. Anche se fondamentalmente in grado di sostenere il debito, i Paesi fortemente indebitati sono più vulnerabili agli shock di liquidità e ricevere una valutazione negativa da parte dei mercati sull'impegno delle autorità nazionali nel garantire la stabilità finanziaria. Inoltre, in un'area valutaria, una crisi del debito sovrano può avere forti ripercussioni per i paesi vicini, visti gli stretti legami economici e finanziari.

 

Al momento sta giungendo in porto la riforma del Trattato sul Meccanismo europeo di stabilità (MES), per rafforzare il suo ruolo nella prevenzione e gestione delle crisi sovrane negli Stati membri dell'area dell'euro. Fa parte di uno sforzo volto a ridurre l'incertezza su come e quando un debito sovrano può essere ristrutturato. Chiarire le condizioni e le procedure per la ristrutturazione del debito ridurrebbe certamente la parte del costo di un default del debito sovrano che può essere attribuita all'incertezza sulle modalità e sui tempi della sua soluzione.

 

Ma questa è solo una piccola parte del costo dell'insolvenza di uno Stato. Si tratta di una questione da gestire con molta prudenza. I piccoli e incerti benefici di un meccanismo per la ristrutturazione dei debiti sovrani devono essere soppesati considerando l'enorme rischio che il semplice annuncio della sua introduzione inneschi una reazione a catena di aspettative di default, che può diventare una profezia che si autoavvera. Dovremmo tutti tenere a mente le terribili conseguenze dell'annuncio del coinvolgimento del settore privato (ovvero della ristrutturazione del debito sovrano della Grecia, ndT) nella risoluzione della crisi greca dopo l'incontro di Deauville alla fine del 2010.

 

Non si sottolineerà mai abbastanza l'importanza di politiche di bilancio rigorose a livello nazionale. Ma ridurre il rapporto debito/PIL richiede tempo e c'è il rischio che una crisi possa interrompere il processo, anche se non come diretta conseguenza di decisioni politiche. L'Europa dovrebbe cercare i modi per sostenere e incoraggiare gli sforzi che devono essere intrapresi dagli Stati membri per ridurre il loro debito. Ecco perché è necessaria una qualche forma di assicurazione sovranazionale, ad esempio attraverso la creazione di un Fondo per il rimborso del debito europeo (ERF), finanziato dalle risorse dedicate dei paesi partecipanti.

 

Il meccanismo può essere progettato in modo da impedire trasferimenti sistematici tra Paesi e riducendo al contempo il rischio di instabilità finanziaria per l'intera area. L'introduzione di un ERF rafforzerebbe l'impegno nazionale per la riduzione del debito (perché la quota del debito nazionale trasferita al fondo sarebbe sostenuta da un flusso di entrate specifiche) e ridurrebbe la rilevanza sistemica del debito nazionale (residuo).

 

Questo sarebbe utile per migliorare la credibilità della clausola che vieta il bailout e l'esecutività delle regole fiscali europee.

 

Nel dibattito accademico e politico, l'introduzione di un meccanismo di ristrutturazione del debito sovrano è spesso collegato a proposte sulla introduzione di requisiti prudenziali che limitano le esposizioni verso il debito sovrano delle banche. Qui, è importante tenere a mente che il nesso tra banche e debito sovrano non agisce esclusivamente attraverso l'esposizione diretta delle banche: una crisi di debito sovrano colpirebbe anche le banche attraverso l'aumento dei loro costi di finanziamento (in particolare in caso di downgrade del rating) e, soprattutto, attraverso i suoi effetti sull'economia complessiva. Un forte aumento del rischio percepito sul debito di uno Stato può innescare rapidamente una spirale recessiva, infiammando le tensioni sociali, con risultati imprevedibili. Il colpo per il sistema sistema bancario sarebbe pesante, indipendentemente dalla sua capitalizzazione ed esposizione diretta. Pertanto, se si vuole veramente spezzare il legame tra banche e debito sovrano, bisogna ridurre il rischio incorporato nelle obbligazioni sovrane, non solo gli importi detenuti dalle banche.

 

Inoltre, il semplice spostare le obbligazioni rischiose dal bilancio delle banche a quello di altri settori non ridurrebbe il rischio complessivo. Infine, dal momento che i requisiti prudenziali sulle esposizioni sovrane non sono imposte in nessun'altra giurisdizione, se dovessimo introdurle in Unione europea o nell'area dell'euro, dovremmo fornire ai mercati finanziari investimenti "risk-free" alternativi, come un qualche tipo di Eurobond  - e il fondo di rimborso del debito che ho citato prima sarebbe di valido aiuto.

 

Ridurre le esposizioni delle banche al debito sovrano così come il rapporto tra le sofferenze (crediti deteriorati) e il totale dei prestiti in essere sono spesso considerati due presupposti per il completamento dell'unione bancaria. Altre importanti fonti di rischio, tuttavia, non sono state sufficientemente considerate. Recenti iniziative del Meccanismo di vigilanza unico per determinare la gestione migliore delle attività illiquide e opache nei bilanci delle banche intendono rispondere a queste preoccupazioni.

 

Ancora peggio, è stata, ed è tuttora, trascurata la vulnerabilità prodotta da una struttura incompleta per una gestione efficace e ordinata delle crisi bancarie. Da una parte, è cresciuto il consenso attorno all'idea di rimandare l'implementazione del sostegno del MES al Fondo di risoluzione unico fino al 2024, a meno che non siano fatti ulteriori progressi nella riduzione del rischio, misurata esclusivamente in relazione ai volumi di crediti deteriorati (e nella creazione di riserve di disponibilità da utilizzare in caso di crisi). D'altra parte, si accetta una situazione per cui una liquidazione disordinata è l'unico risultato possibile per le crisi di intermediari di piccole e medie dimensioni che, come la maggior parte delle banche europee, non sono soggetti alla risoluzione (anche se - va notato - sono tenuti a contribuire al Fondo di risoluzione unico).

 

I recenti inviti della Germania al completamento dell'unione bancaria sono uno sviluppo da accogliere con favore,  in quanto dimostrano la volontà di mantenere aperto il dialogo. Però non affrontano alcuni dei problemi che ho appena menzionato. I rischi bancari sono di nuovo identificati esclusivamente con i crediti deteriorati e l'esposizione al debito sovrano. Inoltre, quando si considera una revisione del trattamento prudenziale di quest'ultimo, non si fa menzione della necessità introdurre uno strumento di investimento sicuro a livello europeo, il che è particolarmente in contrasto con i riferimenti frequenti al modello americano, in cui il ruolo del debito federale come strumento sicuro è fondamentale.

 

 

Una capacità fiscale adeguata e implementare l'unione del mercato dei capitali

 

Se la gestione dei rischi sovrani e bancari è fonte di preoccupazione, passare allo stato della discussione sull'unione fiscale e sull'implementazione dell'unione del mercato dei capitali non ci sarà di consolazione. La politica monetaria è stata l'unica linea di difesa contro il rischio di frammentazione finanziaria dell'area dell'euro durante la crisi del debito sovrano e contro i rischi di deflazione emersi negli anni successivi. Il Consiglio direttivo della BCE ha dimostrato la sua disponibilità a utilizzare tutti gli strumenti disponibili e, se necessario, a introdurne di nuovi per perseguire l'obiettivo della stabilità dei prezzi. Ha avuto un notevole successo, ma le sue azioni avrebbero potuto essere ancora più efficaci se fossero state accompagnate da altre politiche economiche.

 

L'inflazione nell'area dell'euro rimane a livelli ancora troppo bassi e questi bassi livelli stanno ancora una volta deprimendo  le aspettative di inflazione a breve termine. È riemerso il rischio di un disancoraggio delle aspettative a medio-lungo termine. La risposta del Consiglio direttivo è stata tempestiva, adeguata e proporzionata. Ma ancora una volta stiamo vedendo che per sfruttare al massimo il potenziale espansivo delle misure di politica monetaria, altre politiche dovrebbero muoversi nella stessa direzione.

 

Le politiche fiscali a sostegno dell'attività economica nell'area dell'euro possono consentire un ritorno più rapido alla stabilità dei prezzi. Per garantire una crescita sostenuta e più elevata, sono necessarie riforme che rimuovano gli ostacoli allo sviluppo, favoriscano l'innovazione e aiutino a modernizzare il sistema produttivo. Agendo in modo isolato, la politica monetaria non può fare altro che proseguire lungo il percorso di misure "non convenzionali". Ciò aumenta il rischio di effetti collaterali negativi, che a loro volta devono essere tenuti sotto controllo utilizzando strumenti di natura sempre più amministrativa.

 

Come ha recentemente ricordato l'ex presidente della BCE, "abbiamo bisogno di una capacità fiscale nell'area dell'euro di dimensioni e progettazione adeguate: sufficientemente ampie da stabilizzare l'unione monetaria". Questa non è un'affermazione sovversiva. La teoria economica e l'esperienza concreta di altre unioni monetarie di successo, in particolare gli Stati Uniti, suggeriscono che l'area dell'euro trarrebbe grandi benefici dalla creazione di una capacità fiscale sovranazionale. In effetti, un rapporto sull'appello per un'unione fiscale - il rapporto MacDougall - fu pubblicato già nel 1977 per conto della Commissione europea, e persino il rapporto Werner del 1970 vi fa riferimento. Successivamente, i documenti tecnici allegati al Rapporto Delors del 1989 hanno discusso l'argomento in maniera approfondita.

 

Il 3 maggio 1998, quando l'Europa stava completando gli ultimi passi prima dell'adozione della moneta unica, Tommaso Padoa Schioppa scrisse in un articolo del Corriere della Sera: “l'Unione ha piena competenza per la politica microeconomica […], ma la sua capacità di intervento in politica macroeconomica è, ad eccezione del campo monetario, embrionale e sbilanciata: può evitare danni (disavanzi eccessivi), ma non può fare cose buone (una politica fiscale adeguata). [...] È quindi giusto non solo applaudire il passo compiuto ieri, ma anche sottolinearne la natura incompiuta, i rischi che comporta e la sua imprevidenza".

 

Ciononostante, sono stati compiuti ben pochi progressi nella direzione di porre rimedio all'asimmetria di una politica monetaria unica in presenza di più bilanci nazionali, forse per la paura di una condivisione dei debiti che potrebbe derivare dall'unione fiscale. Tuttavia, come ho già osservato, una capacità fiscale comune può essere strutturata in modo tale da evitare trasferimenti sistematici tra paesi, conciliando così il pieno esercizio della stabilizzazione macroeconomica con l’equilibrio dei conti pubblici in ciascun paese. L'unione fiscale consentirebbe di attuare politiche coerenti con le condizioni del ciclo economico nei vari Stati membri e nell'area dell'euro nel suo insieme, prontamente e senza dubbi in merito alla loro legittimità. La moneta unica ha la necessità di interagire con una politica fiscale unica.

 

È stato sostenuto che le politiche fiscali nazionali potrebbero assorbire gli effetti delle fluttuazioni cicliche negli Stati membri e che i mercati finanziari potrebbero fornire un'assicurazione analoga a quella che sarebbe fornita da un'unione fiscale. Tuttavia,  effetti di ricaduta tra paesi potrebbero ridurre l'efficacia delle iniziative nazionali e, nella situazione attuale, diversi bilanci nazionali hanno poco spazio di manovra a causa degli elevati debiti pubblici. Inoltre, i mercati finanziari europei sono lungi dall'essere perfettamente integrati, il che limita chiaramente la loro efficacia come ammortizzatori.

 

Negli Stati Uniti, in Canada e in altri stati federali, una parte significativa delle fluttuazioni del reddito dei singoli Stati è compensata dal sistema fiscale federale (le stime basate su metodi diversi sono in media del 10-15% sia per gli Stati Uniti che per il Canada). La differenza tra l'area dell'euro e le federazioni vere e proprie  in termini di capacità di assorbimento degli shock è ancora maggiore quando guardiamo ai mercati dei capitali.

 

Il buon funzionamento di un'area valutaria richiede un mercato unico dei capitali che faciliti l'accesso ai finanziamenti per le imprese. Inoltre, un mercato integrato aiuta ad assorbire gli shock macroeconomici locali, aumenta la solidità del sistema economico e rafforza la stabilità finanziaria. Ciò contribuirebbe ovviamente anche alla trasmissione efficace e rapida delle misure di politica fiscale e monetaria.

 

Ma è uno sforzo complesso. Implica un'azione decisiva in direzione dell'armonizzazione delle normative in materia di società, valori mobiliari, procedure fallimentari e fisco, nonché di procedure di vigilanza. Mentre tale armonizzazione può partire con delle modifiche alle legislazioni nazionali che si concentrino su quelle aree che possono produrre effetti più ampi, l'obiettivo finale deve essere quello di raggiungere una regolamentazione unica. Soprattutto, un mercato unico dei capitali richiede un asset sicuro comune. Affrontare questo divario sosterrebbe il mercato bancario e dei capitali, creando un prodotto omogeneo di alta qualità e dimensioni significative che potrebbe diventare un punto di riferimento per gli investitori e migliorare l'integrazione finanziaria.

 

* * *

 

Non credo di incontrare difficoltà a convincervi della mancanza di progressi significativi nella costruzione europea. C'è stato un sostanziale trasferimento di sovranità in materia economica e finanziaria, specialmente negli ultimi anni. È davvero illusorio credere che possiamo dirigere il corso dell'economia e della finanza, fenomeni palesemente globali, all'interno degli stretti confini dei singoli paesi europei. La costruzione, tuttavia, è sbilenco e incompleta; la sua stessa sostenibilità richiede che gli elementi mancanti siano incorporati al più presto.

 

Oggi, procedere con dei compromessi sta diventando sempre più difficile. La sfiducia porta al disaccordo, e nella ricerca esasperata di una rassicurazione reciproca e di  guadagni a breve termine, i passi necessari sono difficili da prendere. Il raggiungimento concreto dell'unione monetaria, dell'unione bancaria, dell'unione dei mercati dei capitali e anche la prospettiva di una politica fiscale comune richiedono tutti un salto di qualità. L'Europa deve rimanere un'ancora di stabilità in un mondo che appare sempre più instabile e politicamente imprevedibile.

 

L'introduzione di un asset sicuro nell'area dell'euro è un obiettivo chiaro e immediato. È un’impresa di tipo tecnico, ma è anche il denominatore comune delle tre unioni (bancaria, del mercato dei capitali, fiscale) che devono affiancare l'unione monetaria. Sostituendo parzialmente i titoli di stato nazionali, uno strumento di debito europeo potrebbe contribuire a diversificare le esposizioni sovrane degli istituti finanziari. Potrebbe ridurre il rischio di fuga verso le attività più sicure da parte degli investitori nei periodi di tensione del mercato e consentire al mercato finanziario di svolgere un ruolo efficace come ammortizzatore, migliorando così anche l'efficacia della politica monetaria. Potrebbe essere uno strumento per finanziare stabilizzatori automatici condivisi nell'ambito di una capacità fiscale comune.

 

Come ho già detto, è possibile progettare meccanismi che consentano l'introduzione di un asset sicuro dotato delle garanzie necessarie contro il rischio di comportamenti opportunistici. Ma a parte le regole, il requisito essenziale per la fattibilità di questa soluzione risiede in un rinnovato e convinto impegno da parte di tutti per il progetto europeo e nella volontà di perseguire soluzioni comuni per problemi comuni.

18/11/19

Riforma del MES: enormi rischi per l'Italia

Nell'assordante silenzio tenuto dai media, con pochissime eccezioni, sull'argomento, stanno sfuggendo quasi del tutto all'opinione pubblica gli enormi rischi per il nostro Paese (sottolineati recentemente anche dal governatore della Banca d'Italia Ignazio Visco) che comportano le proposte di riforma del MES, Meccanismo Europeo di Stabilità, l’istituzione che svolge la funzione di prestatore di ultima istanza nell’Unione Monetaria. Per contribuire a riportare l'attenzione su questo tema cruciale e svolgere la nostra funzione di coprire gli argomenti trascurati dai mezzi di informazione mainstream, riprendiamo alcune parti dell'audizione di Giampaolo Galli, docente di Economia politica e membro dell'Osservatorio dei conti pubblici italiani dell'Università cattolica di Roma, tenuta alle Commissioni riunite V e XIV della Camera dei Deputati il 6 novembre 2019. Nonostante la sua impostazione decisamente europeista, il professore non passa sotto silenzio i considerevoli rischi per l'Italia derivanti da questo meccanismo, che sembra sia stato già approvato al vertice europeo anche dal governo Conte I senza, come si sarebbe dovuto, riferirne prima in Parlamento.
Il testo completo dell'intervento è stato - con grande sensibilità civica - pubblicato sul sito del professore (Giampaologalli.it), mentre il video dell'audizione può essere visionato sul sito della Camera dei Deputati. Dato che si tratta di un intervento lungo e che in alcune parti entra in dettagli tecnici, ne abbiamo tralasciato alcuni brani, invitando tutti gli interessati a leggere o ascoltare la versione completa.

 

 

 

di Giampaolo Galli, Audizione alla V e XIV commissione della Camera dei Deputati, 6 novembre 2019

 

In sintesi, la nostra opinione è che la riforma del Meccanismo Europeo di Stabilità (MES) di cui si sta discutendo in Europa contenga alcuni elementi di criticità per il nostro paese.  Il MES in sé è però una istituzione preziosa perché ha dato un contributo decisivo per risolvere le crisi di paesi che avevano perso l’accesso al mercato.

 

Di fatto, il MES è l’istituzione che svolge la funzione di “lending of last resort” nell’Unione Monetaria. Il solo fatto che esista questa istituzione è un fattore che tranquillizza i mercati e rende meno probabile il ripetersi di situazioni di crisi. In sostanza, il MES è un’assicurazione che noi paghiamo, come tutti gli altri, e che non solo ci protegge in caso di crisi, ma anche riduce la probabilità che la crisi si verifichino. Il fatto che finora l’Italia non ne abbia fatto uso non significa che l’assicurazione sia inutile; significa solo che, per fortuna o per merito, non abbiamo avuto sinistri. Quando la macchina stava sbandando, nel 2011, abbiamo sterzato in tempo per evitare il burrone; negli anni successivi abbiamo guidato con una certa prudenza. Una prudenza che tuttavia non è stata sufficiente a mettere in sicurezza i nostri conti pubblici ed è per questo motivo che il funzionamento del MES e le sue prospettive di riforma ci interessano tanto.

 

Aggiungiamo che il MES rappresenta una notevole manifestazione di solidarietà dei paesi più solidi dell’Eurozona, a cominciare dalla Germania che è il suo principale contribuente, nei confronti dei paesi più fragili, tra cui il nostro. La solidarietà si manifesta in particolare nel fatto che, a differenza di ciò che succede con una normale assicurazione, i contributi al capitale del MES (80 miliardi di euro versati, su 704 autorizzati e attivabili con breve preavviso in caso di necessità) non sono commisurati alla rischiosità di ogni assicurato, ma dipendono esclusivamente dalle dimensioni del paese in termini di Pil e popolazione. Per questo motivo, la Germania contribuisce con la quota più elevata (pari al 26,9%), anche se la sua rischiosità, misurata dagli spread o dai CDS, è la più bassa dell’eurozona. L’Italia contribuisce con una quota del 17,8% che corrisponde a 14 miliardi di capitale versato e 125 miliardi di capitale autorizzato.

 

(...)

 

Va inoltre considerato, che i prestiti del MES sono la porta di accesso alle OMT (Outright Monetary Transactions) della Banca Centrale Europea, quelle operazioni che furono lanciate nell’agosto del 2012 e che, assieme alle frasi di Mario Draghi circa la determinazione di difendere l’euro ad ogni costo (“whatever it takes”), ebbero un forte effetto calmieratore sui mercati. In linea di principio, le operazioni OMT sono di ammontare illimitato.

 

Il MES è stato creato nell’ottobre del 2012 per mettere ordine negli interventi, in gran parte bilaterali, a favore della Grecia, e dare continuità ad un’istituzione (l’ EFSF) che la crisi dei debiti sovrani dimostrò essere necessaria. Il MES, che ha oggi circa 160 dipendenti, è regolato da un Trattato ad hoc, richiamato nel Trattato del Fiscal Compact, ed è quindi esterno al perimetro dell’Unione Europea. Questo è un limite rilevante perché accentua il carattere intergovernativo di alcune delle decisioni più importanti dell’eurozona e perché il MES non risponde delle sue azioni al Parlamento Europeo. Ciò non significa che non abbia legittimità democratica, dal momento che i suoi azionisti sono i governi degli stati membri, la cui legittimità è garantita dalle leggi nazionali. L’intenzione – espressa tra l’altro nella fondamentale dichiarazione franco- tedesca di Mesemberg[1] del giugno 2018 – è quella di procedere in due passi: prima la riforma del MES, poi il suo inserimento nel quadro delle istituzioni comunitarie. Però è un fatto che per ora c’è la fase 1 e della fase 2 non si sente più parlare.

 

1. Prospettive di riforma: le criticità dal punto di vista dell’Italia


 

Il processo di riforma del MES venne avviato nelle riunioni dell’Eurogruppo e dell’Eurosummit di dicembre 2018; concrete proposte di riforma hanno ottenuta un via libera di massima nelle riunioni di questi stessi organismi nel giugno del 2019. L’approvazione definitiva dovrebbe avvenire a dicembre.

 

Di seguito, ci si concentra sulle questioni più strettamente economiche, ma è opportuno fare una considerazione essenziale di carattere istituzionale.

 

La riforma in itinere sposta decisamente l’asse del potere economico nell’Eurozona dalla Commissione Europea al MES. Non a caso, nei suoi interventi al Parlamento Europeo, la nuova Presidente della Commissione ha sostanzialmente evitato di parlare della governance dell’Eurozona. In particolare, non ha detto nulla sulla proposta della Commissione di creare un Fondo Monetario Europeo e un ministro delle finanze dell’eurozona dotato di un bilancio capace di svolgere funzioni di stabilizzazione macroeconomica: il silenzio di Ursula von der Leyen si spiega con la considerazione che questo insieme di questioni era già stato affrontato e risolto dall’Eurogruppo e dall’Eurosummit del giugno scorso nel senso di dare un ruolo secondario alla Commissione; in particolare, il MES sta di fatto diventando quello che nelle intenzioni iniziali della Commissione avrebbe dovuto essere il Fondo Monetario Europeo.

 

Nella riforma che viene proposta vi sono aspetti positivi e aspetti che invece, a nostro avviso, dovrebbero essere cambiati. Di seguito, ci concentriamo sui secondi, menzionando solo un fatto certamente positivo che consiste nell’approvazione del backstop – ossia della rete di sicurezza finanziaria –  per il Fondo di Risoluzione delle Banche da utilizzare per far fonte a crisi bancarie nel caso in cui non fossero sufficienti le risorse disponibili nel Fondo stesso.

 

Quanto agli aspetti critici, il punto fondamentale è che nella riforma che viene proposta emerge, in modo implicito ma abbastanza chiaro, l’idea che un paese che chiede aiuto al MES debba ristrutturare preventivamente il proprio debito, se questo non è giudicato sostenibile dallo stesso MES.  Si noti che la novità non sta tanto nella possibilità che un debito sovrano venga ristrutturato – cosa che è già avvenuta nel caso della Grecia – ma nell’idea che la ristrutturazione diventi una precondizione, pressoché automatica, per ottenere i finanziamenti. L’idea che si debba stabilire una regola che obblighi alla ristrutturazione un paese che chiede l’accesso ai fondi del MES e abbia un debito giudicato non sostenibile è stata espressa ripetutamente da esponenti di primo piano dell’establishment tedesco e di altri paesi del Nord Europa, quale ad esempio il governatore della Bundesbank Jens Weidemann[2].

 

Questa proposta nasce fondamentalmente dalla considerazione che le regole formali (Patto di Stabilità e Crescita, Fiscal Compact) non hanno funzionato, talché alcuni paesi hanno continuato a accumulare debiti la cui sostenibilità nel tempo è sempre più dubbia. Di qui, l’idea di far funzionare meglio la disciplina di mercato dando un senso alla clausola di no bail-out contenuta nel Trattati di Maastricht. Si danno gli aiuti, ma, condizionandoli a una ristrutturazione del debito, si evita quell’effetto di moral hazard che, secondo alcuni, sarebbe il motivo di fondo per il quale i politici di alcuni paesi non hanno fatto l’aggiustamento di bilancio. L’idea dunque è che prima di fare operazioni che comportino condivisione di rischi – ad esempio, l’assicurazione comune sui depositi o un bilancio dell’Eurozona con finalità di stabilizzazione – occorre indurre i paesi devianti a ridurre i rischi. Un passaggio essenziale di questa strategia consiste nello spostare l’asse del potere in materia economica dalla Commissione Europea, considerata troppo politicizzata, ad un organismo intergovernativo e teoricamente più tecnico quale il MES.

 

2. I principi ispiratori della riforma nella dichiarazione franco-tedesca di Mesemberg


 

A fronte di questa idea dei paesi del Nord, vi è l’idea dei francesi, sostenuta anche dall’Italia, che le due cose – riduzione dei rischi e loro condivisione –  debbano procedere insieme. Nella già citata dichiarazione di Mesemberg, francesi e tedeschi trovarono una mediazione fra queste posizioni ed esposero dei principi generali che hanno poi trovato puntuale riscontro nelle modifiche che sono state proposte al Trattato istitutivo del MES[3].

Elenchiamo di seguito i punti principali della dichiarazione franco-tedesca, con brevi commenti:

 

1. la condizionalità rimane il principio fondante del MES e di tutti i suoi strumenti di intervento;


2. qualunque decisione di fornire assistenza a un paese membro deve essere assoggettata ad una DSA (analisi di sostenibilità del debito). Il sottinteso è che in caso di esito negativo il debito deve essere ristrutturato;


3. in tutti i titoli di nuova emissione dovranno essere introdotte delle CAC (Clausole di Azione Collettiva) “single limb”[4], ossia clausole contrattuali che consentono di aggregare tutti i titoli del debito pubblico e ristrutturali con unico voto dei creditori, il che ha lo scopo di facilitare grandemente la ristrutturazione dei debiti pubblici[5];


4. fra i compiti del MES vi deve essere quello di facilitare il dialogo fra gli stati membri e gli investitori (sottinteso nei casi i debiti vengano ristrutturati);


5. il MES deve avere un ruolo più importante nel disegno e monitoraggio dei programmi di aggiustamento dei paesi a cui vengono erogati i prestiti;


6. il MES deve avere la capacità di valutare la situazione complessiva dei paesi membri, contribuendo così alla prevenzione delle crisi. Si aggiunge – ma francamente sembra più una clausola di stile – che tutto ciò deve essere fatto nel pieno rispetto del ruolo della Commissione.


7. devono essere rafforzati i prestiti precauzionali del MES a favore di paesi che hanno bilanci in ordine, ma rischiano di perdere l’accesso al mercato per problemi di liquidità. Questa è un’innovazione positiva, ma nelle attuali circostanze potrebbe configurarsi come una rete di sicurezza per evitare il contagio rispetto al paese costretto a ristrutturare.


 

3. Le proposte di revisione del Trattato del MES.

 

I concetti espressi nella dichiarazione di Mesemberg trovano corrispondenza nella bozza di revisione del Trattato. Procedendo nell’ordine degli articoli, si possono formulare le seguenti osservazioni:

 

1.Punto 5B del preambolo e art. 3 comma 1. Qui si attribuiscono al MES tutti i poteri che ha oggi la Commissione riguardo alla prevenzione e gestione delle crisi, sia per paesi che fruiscono di assistenza finanziaria sia per gli altri. La differenza nei compiti delle due istituzioni viene definito da una frase cruciale del preambolo che recita “il MES svolge le proprie analisi e valutazione dal punto di vista di chi eroga prestiti”. Ovviamente, questo è il punto di vista di chi ha il coltello dalla parte del manico.


2. Punto 10 del preambolo. Il Trattato in vigore attribuisce alla Commissione e alla BCE il compito di svolgere i compiti previsti dal Trattato stesso. La novità consiste nel fatto che queste istituzioni non possono agire senza una decisione dell’MES.


3. Punto 11 del preambolo e art. 12 comma 4. Vengono introdotte le CAC single limb su tutte le emissioni di titoli sovrani emesse a partire dal 2022.


4. Punto 12 del preambolo. Si affida al MES il compito di facilitare il dialogo fra gli investitori e lo stato membro che ristruttura il proprio debito.


5. Punto 12 del Preambolo e art. 13 comma 1. Si afferma che il MES fornisce assistenza finanziaria solo ai paesi il cui debito è considerato sostenibile e la cui capacità di restituire i prestiti allo stesso MES è confermata. Le analisi sono svolte congiuntamente dal MES e dalla Commissione, ma nel caso non si raggiunga una posizione comune, la Commissione ha l’ultima parola in tema di sostenibilità del debito, ma è il MES che ha il compito di valutare la capacità del paese in questione di ripagare il prestito. Anche qui, è evidente che il coltello è in mano al MES.


6. Punto 12B del preambolo. Qui si riprende un concetto che c’era già nella precedente formulazione, ma che in questo contesto assume un significato assai più pregnante: si tratta del concetto di PSI, ossia “Private Sector Involvement”, una perifrasi per ristrutturazione del debito. Questa espressione fu utilizzata da Angela Merkel e Nicholas Sarkozy nella famosa passeggiata di Deauville il 18 ottobre del 2010 ed ebbe un effetto deflagrante sui mercati finanziari dell’eurozona. Il senso che oggi si vuole dare a questa espressione è chiaro alla luce di quanto viene affermato prima e cioè che il MES fa credito solo a paesi il cui debito è giudicato sostenibile.


 

7. Punto 18 del preambolo e art. 13 comma c. Si affida al MES il compito di stabilire appropriati sistemi di preallerta (“warning systems”) allo scopo di assicurarsi di ricevere i pagamenti dovuti alle scadenze definite.


8.7 comma 4. Viene rafforzato il potere del Managing Director del MES il quale agisce in totale indipendenza nello svolgimento dei suoi compiti e risponde solo al Board del MES. Si noti che il Managing Director è l’interfaccia unico del MES con l’intera Commissione Europea.


9.14. Qui si rafforzano gli strumenti dei prestiti precauzionali, specificando però che detti prestiti vengono erogati a paesi il cui debito è sostenibile, ma che sono colpiti da shock esogeni al di fuori del loro controllo. La linea di credito precauzionale sotto condizione (PCCL) viene concessa a paesi con fondamentali solidi a fronte di una semplice lettera di intenti; una linea di credito precauzionale rafforzata (ECCL) viene concessa a paesi che non soddisfano tutti i requisiti, a fronte della sottoscrizione di una vero e proprio dettagliato Memorandum of Understanding. Una innovazione importante è che entrambe le linee di credito vengono concesse solo a paesi che non sono sottoposti a procedura di deficit eccessivo e che da almeno due anni rispettano i criteri del Patto di Stabilità e Crescita. Queste innovazioni rafforzano indubbiamente i paesi che non hanno particolari problemi di instabilità finanziaria, ma potrebbero anche configurarsi come una linea di difesa rispetto al rischio di contagio proveniente da un paese costretto a ristrutturare il proprio debito.


 

4. Una valutazione dal punto di vista dell'Italia


 

Dal punto di vista degli interessi del nostro paese, il punto chiave è che viene ribadito il concetto del “Private Sector Involvement” e che, sia pure nei casi eccezionali in cui il debito è considerato non sostenibile, l’aiuto del MES può essere erogato solo a condizione che vi sia una ristrutturazione ex- ante del debito. L’altro punto chiave è l’introduzione delle clausole “single limb”: in astratto, si può ritenere che queste siano più efficienti delle clausole attualmente in vigore, ma non c’è dubbio che le loro introduzione, ancorché a partire dal 2022, è un segnale negativo sull’Italia che viene dato oggi ai mercati[6]. Sulla base di queste considerazioni, è facile individuare i punti del testo che sarebbe utile cambiare: occorre rafforzare il ruolo della Commissione rispetto al MES, evitare che le CAC “single limb” – i cui dettagli tecnici non sono ancora stati resi noti – facilitino eccessivamente la ristrutturazione del debito, sottolineare con forza che la ristrutturazione del debito pubblico non può essere decisa sulla base di valutazioni meccaniche e  va valutata con grande attenzione, con il pieno coinvolgimento delle autorità nazionali, perché rischia di aggravare la condizione economica e sociale di una nazione, nonché di avere effetti di contagio molto negativi sull’intera eurozona[7].

 

È evidente che la riforma riguarda in particolare l’Italia che è il paese con lo spread più alto e che non ha creato le condizioni, né dal lato della finanza pubblica né dal lato delle riforme per la crescita, per mettere il debito su un trend discendente in rapporto al Pil. Le organizzazioni internazionali e i mercati hanno smesso di credere alle promesse delle autorità di intervenire, in futuro, per risolvere il problema. Nella previsione base della Commissione Europea il debito aumenterebbe di altri 10 punti di Pil in meno di un decennio; secondo il Fondo Monetario, il debito salirebbe oltre il 160% del Pil nell’arco di un quindicennio. Entrambe queste previsioni sono del luglio scorso.

 

Per chi ci osserva dall’estero, queste proiezioni hanno un certo grado di realismo, anche alla luce del fatto che nessun partito politico è disposto ad ammettere che per mettere in sicurezza il paese occorrerebbe – come sostengono le organizzazioni internazionali e la Banca d’Italia-  un avanzo primario del 3,5-4% mantenuto per molti anni a venire (oggi siamo a 1,3%, ma alla fine degli anni novanta eravamo al 5%). Nessun partito accetta di essere etichettato come il partito delle tasse e nessuno ha nemmeno ipotizzato tagli di spesa nell’ordine di quelli che sarebbero necessari. Peraltro, chi propone tagli di spesa lo fa, tipicamente, per far spazio ad altre spese (istruzione, sanità, ricerca ecc.) e chi propone misure per il recupero dell’evasione fiscale si preoccupa sempre di aggiungere che ad ogni euro di recupero deve corrispondere un euro di riduzione delle tasse a favore dei contribuenti in regola. Il debito sembra essere dunque sparito dal discorso pubblico. Le organizzazioni internazionali e i nostri vicini europei vedono questi sviluppi interni, si preoccupano e cercano di trovare modi per uscirne facendo due cose: accentuando i meccanismi di mercato per cercare di responsabilizzare i paesi non virtuosi e creando una rete di sicurezza – i prestiti precauzionali – per proteggere gli altri paesi.

 

Nel complesso, si può forse dire che la prospettata riforma del MES aiuta la stabilità dei paesi virtuosi dell’eurozona, ma è probabile che renda meno stabili paesi come l’Italia.

 

5. Le ristrutturazioni devono essere “early and deep”? il caso della Grecia.


 

Per poter fare una critica costruttiva occorre essere consapevoli che l’idea di un’architettura che preveda una ristrutturazione ex ante dei debiti sovrani in situazioni di crisi non proviene solo dall’establishment “ordo-liberale” del Nord Europa, ma è un’idea molto diffusa anche fra economisti che non hanno alcuna fiducia nelle virtù del mercato. Il riferimento più autorevole è probabilmente a Joseph Stiglitz[8].

 

1.Vi è innanzitutto un argomento di equità. Nel momento in cui un paese chiede aiuto ai contribuenti di altri paesi, anche i suoi cittadini debbono partecipare allo sforzo di risanamento: ciò avviene attraverso i tagli di bilancio che vengono tipicamente imposti dai creditori, ma non è accettabile che a questo sforzo non partecipino anche i detentori dei titoli di stato che tipicamente sono concentrati nelle fasce medio alte di ricchezza della popolazione.


2.Soprattutto, vi è la constatazione che le autorità nazionali tendono a ritardare il più possibile la ristrutturazione del debito perché il costo politico di questa operazione è molto alto. Ma a un certo punto la ristrutturazione diventa inevitabile e a quel punto essa ha costi economici sociali più pesanti.


 

Riguardo al secondo punto, Stiglitz ritiene che le ristrutturazioni debbano essere “early and deep”, devono cioè avvenire appena si manifesta il problema e devono essere profonde in modo tale da essere risolutive. Il caso che viene spesso citato per sostenere questa tesi è quello della ristrutturazione del debito greco che, secondo costoro, avrebbe dovuto essere fatta nel 2010, appena emerse il problema del grande imbroglio contabile su deficit e debito. A parte il fatto che le autorità greche erano contrarie e che non è possibile fare una ristrutturazione contro la volontà di un governo sovrano, la tesi è che gli interventi dei vari fondi salva stati (Efsf poi Mes, Bce e FMI) hanno salvato i creditori dello stato greco – in particolare le banche tedesche e francesi – e che una quota relativamente piccola degli aiuti è in effetti andata al popolo greco. Ovviamente se si dà un aiuto a uno Stato prima di definire i termini della ristrutturazione, questo Stato non potrà che pagare i propri creditori, ossia onorare i propri debiti quando giungono a scadenza. Se si vuole che l’aiuto non vada ai creditori, bisogna definire preventivamente di quanto viene tagliato il debito (ad es. un rimborso di 50 su ogni 100 euro, come effettivamente fu fatto in Grecia, ma solo nel 2012). Anche da qui, oltre che dai rigoristi del nord Europa, viene dunque l’idea di stabilire una regola che definisca come si ristruttura un debito quando un paese si rivolge alla comunità internazionale per avere un aiuto.

 

Il punto che vale la pena sottolineare è che non vi è molta coerenza in chi sostiene che gli aiuti alla Grecia sono in realtà serviti per salvare le banche estere e al tempo stesso rifiuta di considerare uno schema di ristrutturazione preventiva dei debiti sovrani.

 

La nostra opinione su questo punto è che l’idea di una ristrutturazione “early and deep” non avesse senso nella Grecia del 2010 e, a maggior ragione, non abbia senso nell’Italia di oggi. In particolare, occorre considerare che l’Italia ha risparmio di massa e che il 70% del debito è detenuto da operatori residenti, tramite le banche e i fondi di investimento. In queste condizioni, una ristrutturazione sarebbe una calamità immensa, genererebbe distruzione di risparmio, fallimenti di banche e imprese, disoccupazione di massa e impoverimento della popolazione senza precedenti nel dopoguerra.  Nessun governo può prendere una decisione del genere se non nel momento in cui perdesse l’accesso al mercato e non fosse più in grado di pagare stipendi, pensioni, fornitori ecc. Una ristrutturazione preventiva sarebbe un colpo di pistola a sangue freddo alla tempia dei risparmiatori, una sorta di bail-in applicato a milioni di persone che hanno dato fiducia allo Stato comprando titoli del debito pubblico. Sarebbe un evento di gran lunga peggiore di ciò l’Italia ha vissuto negli ultimi anni a causa dei fallimenti di alcune banche[9].

 

Anche per questo motivo, azioni o parole che possano ingenerare il timore di una ristrutturazione o, peggio, di un default, vanno considerati come un pericolo per l’Italia e per gli italiani. Per questo motivo ci preoccupano le proposte di revisione del Trattato istitutivo del MES.

 


  1. 6. Perché non la BCE?




 

 

Un cenno merita la questione di perché il compito di salvare gli stati non sia attribuito, come alcuni hanno proposto, alla BCE che, in quanto potenziale prestatore di ultima istanza, potrebbe anche intervenire sui mercati per calmierare gli spread. La risposta semplice è che da nessuna parte al mondo viene attribuito ad un organo tecnico, quale è la Banca Centrale, il compito di aiutare o addirittura salvare questa o quella entità sub-statuale, quale una regione o un comune[10]. Queste sono decisioni strettamente politiche che non possono che essere assunte dall’ autorità politica che, in democrazia, ne risponde al Parlamento.  Peraltro, molti di coloro che ora invocano l’intervento della BCE sono anche dei critici severi dell’intervento che la BCE fece nel 2011 mandando una lettera al governo italiano con precise richieste di intervento in diversi campi della politica economica. Chi ritiene che quell’intervento della BCE fosse improprio perché privo di legittimità democratica dovrebbe, a maggior ragione, ritenere improprie eventuali azioni della BCE per salvare questo o quel paese o per ridurne il costo del finanziamento. Decisioni di questa natura sono squisitamente politiche e non possono essere appaltate a delle tecnocrazie, per quanto capaci e competenti.

 

Vale peraltro ricordare che nell’attuale assetto istituzionale la BCE può intervenire a sostegno di un singolo stato membro, anche in misura illimitata, ma solo nell’ambito delle operazioni OMT che sono soggette a diverse condizioni[11]. La più importante è che il paese che riceve il sostegno deve aver concordato un programma di aggiustamento con l’Unione Europea (in pratica con il MES).  Lo strumento delle OMT non è mai stato usato, ma probabilmente è stato un deterrente importante contro la speculazione nel 2012.

 

L’OMT, al pari degli altri strumenti di politica monetaria non convenzionale come il Quantitative Easing, è stato oggetto di forti contestazioni da parte dei paesi del Nord- Europa, ma ha superato il vaglio della Corte di Giustizia Europea[12]. La Corte argomentò che l’OMT non sostituisce l’azione dei governi cui spettano le decisioni in materia di politiche di bilancio e non è quindi un modo per consentire a uno stato membro di finanziare con moneta comune i propri disavanzi. Venne così respinta la tesi dei ricorrenti, secondo cui con l’OMT la BCE sarebbe andata oltre il suo mandato e avrebbe agito come “prestatore di ultima istanza” nei confronti degli Stati Membri.

 

Aggiungiamo infine che in alcuni paesi vi sono più o meno frequentemente operazioni di ripianamento ex post dei debiti di regioni o comuni da parte dello Stato, ma esse sono quasi sempre soggette a condizionalità, e vengono comunque decise dall’autorità politica e a posteriori per sanare una situazione ereditata dal passato. In nessun caso viene data una garanzia generalizzata ex ante, che è ciò che accadrebbe se alla Bce si chiedesse di mantenere gli spread a zero o entro limiti definiti. Ciò sarebbe come consentire a un comune di finanziarsi emettendo titoli di stato che impegnano non solo i contribuenti di quel comune, ma quelli dell’intera nazione. Si tratterebbe ovviamente di un assetto non sostenibile.

 

A queste considerazioni, talvolta si obietta che una banca centrale crea moneta dal nulla e che può farlo in misura illimitata senza che ciò generi disagio alcuno ai cittadini degli altri Stati dell’Unione.  Questo non è corretto perché delle due l’una. O la banca centrale non sterilizza le operazioni di sostegno ad un paese e allora cresce la base monetaria complessiva e si generano rischi di instabilità finanziaria  (inflazione dei prezzi o degli asset finanziari e immobiliari) in tutta l’unione; oppure la banca centrale sterilizza queste operazioni, in modo tale da lasciare invariata la quantità di base monetaria, ma questo comporta che venda sul mercato titoli di altri stati o comunque riduca la sua esposizione nei confronti delle banche degli altri stati. Nel primo caso, le politiche di bilancio di un singolo stato membro metterebbero a rischio la stabilità finanziaria per tutti i cittadini dell’Unione; nel secondo caso, la banca centrale dell’Unione finirebbe per finanziare uno Stato a danno di tutti gli altri.

 

In effetti, una delle condizioni per l’attivazione dell’OMT è che l’operazione sia sterilizzata, ossia non corra il rischio di generare instabilità nell’intera unione[13]. È difficile argomentare che questa condizione non sia ragionevole: perché mai un paese con disavanzi pubblici eccessivi dovrebbe mettere a rischio la stabilità finanziaria dell’intera unione?

 

  1. Conclusioni


 

 

Il MES è un’istituzione molto utile che deve continuare ad avere il pieno sostegno dell’Italia. Le proposte di riforma che sono state formulate dall’Eurogruppo dello scorso giugno presentano aspetti positivi, ma anche alcune delle criticità per un paese come l’Italia. In particolare, preoccupa l’idea che, in certe circostanze, la ristrutturazione del debito pubblico possa diventare una precondizione per avere accesso alle risorse del MES. Occorre rafforzare il ruolo della Commissione rispetto al MES, evitare che le CAC “single limb” – i cui dettagli tecnici non sono ancora stati resi noti – facilitino eccessivamente la ristrutturazione del debito, sottolineare con forza che la ristrutturazione del debito pubblico non può essere decisa sulla base di valutazioni meccaniche e  va valutata con grande attenzione, con il pieno coinvolgimento delle autorità nazionali,  perché rischia di aggravare la condizione economica e sociale di una nazione, nonché di avere effetti di contagio molto negativi sull’intera eurozona.

 

 

[1] “Renewing Europe’s promises of security and prosperity”, a joint Franco-German declaration adopted during the Franco-German Council of Ministers, 19 June 2018 in Meseberg, Germany.

[2] Jens Weidmann, Prospects for Europe and the euro area, speech held at the Centre for European Policy, Freiburg im Breisgau, 20 September 2018. *

[3] Molte di queste idee si inspirano ad un lavoro di 14 economisti francesi e tedeschi:  Bénassy-Quéré, A., M. Brunnermeier, H. Enderlein, E. Farhi, M. Fratzscher, C. Fuest, P.O. Gourinchas, P. Martin, J. Pisani-Ferry, H. Rey, I. Schnabel, N. Véron, B. Weder di Mauro e J. Zettelmeyer, Reconciling risk sharing with market discipline: A constructive approach to euro area reform, CEPR Policy Insight, No. 91, Centre for Economic Policy Research, London, 2018, pp. 1-23. Per una critica di questa posizione si veda: Messori, M. e S. Micossi, Counterproductive proposals on euro area reform by French and German economists, CEPS Policy Insights, n. 4, Brussels, 2018, pp. 1-10; anche in SEP Policy Brief, February 13th, Rome, 2018.

[4] Di norma, il contratto di debito si riferisce a una specifica obbligazione definita dal luogo di emissione, dalla durata e dagli altri termini e clausole negoziali. Pertanto, lo stock dei titoli di debito è formato da una molteplicità di contratti. Con le clausole attualmente vigenti, in vigore in tutta l’eurozona dal 2013, la ristrutturazione necessita della maggioranza qualificata dei creditori per ogni contratto. L’introduzione del single-limb semplifica drasticamente la procedura: la ristrutturazione dello intero stock di debito può avvenire con un’unica votazione che aggrega l’insieme dei detentori di titoli pubblici, a prescindere dallo specifico contratto siglato.

[5] In questi termini si è espresso il Manging Director del MES, Klaus Regling, in un discorso tenuto il 30 settembre 209 a Helsinki.

 

[6] Si veda: Maria Cannata, Nuove clausole per le crisi del debito: rischio circolo vizioso, Lavoce.info, 8 luglio 2018.

 

[7] Una soluzione possibile è di tonare alla versione iniziale del Trattatto, firmato l’11 luglio 2011, e mai entrato in vigore, che a quello che era allora l’Art. 12 (2) proponeva una procedura molto più cauta e articolata per il  PSI.  Tale procedura richiedeva, tra l’altro, il pieno coinvolgimento delle autorità nazionali: “An adequate and proportionate form of private-sector involvement shall be sought on a case-by-case basis where financial assistance is received by an ESM Member, in line with IMF practice. The nature and the extent of this involvement shall depend on the outcome of a debt sustainability analysis and shall take due account of the risk of contagion and potential spill-over effects on other Member States of the European Union and third countries. If, on the basis of this analysis, it is concluded that a macro-economic adjustment programme can realistically restore public debt to a sustainable path, the beneficiary ESM Member shall take initiatives aimed at encouraging the main private investors to maintain their exposure. Where it is concluded that a macro economic adjustment programme cannot realistically restore the public debt to a sustainable path, the beneficiary ESM Member shall be required to engage in active negotiations in good faith with its non-official creditors to secure their direct involvement in restoring debt sustainability. In the latter case, the granting of financial assistance will be contingent on the ESM Member having a credible plan for restoring debt sustainability and demonstrating sufficient commitment to ensure adequate and proportionate private-sector involvement. Progress in the implementation of the plan will be monitored under the programme and will be taken into account in the decisions on disbursements.” (corsivi nostri).

[8] Guzman, Martin & Stiglitz, Joseph. (2016). Creating a Framework for Sovereign Debt Restructuring That Works: The Quest to Resolve Sovereign Debt Crises. 10.7312/columbia/9780231179263.003.0002.

[9] Si veda: Giampaolo Galli, Collective Action Clauses and Sovereign Debt Restructuring Framework: Why and When is Restructuring Appropriate, in A. Franklin, E. Carletti, M. Gulati, J. Zettelmeyer (eds.), European Financial Infrastructure in the Face of New Challenges, published by the European University Institute, 2019.

[10] Si veda Giampaolo Galli, Perché non è ragionevole chiedere alla BCE di risolvere il problema dello spread, Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani, 16 novembre 2018.
[11] Si veda il comunicato della BCE del 6 settembre 2012.

[12] Si veda la sentenza del 16. 6. 2015 della Corte di Giustizia Europea – Causa C-62/14 Gauweiler and Others v Deutscher Bundestag.

[13] Si veda il comunicato della BCE del 6 settembre 2012: “The liquidity created through Outright Monetary Transactions will be fully sterilized”